Archivio del Tag ‘potere’
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Soldi facili, senza debito: arriva la Mmt, lo dice Ray Dalio
Sono passati anni! Non mesi, ma anni, da quando ai lettori di questo sito ho presentato Ray Dalio: le sue tesi per ottimizzare il lavoro, i suoi video (all’epoca ancora rigorosamente disponibili solo in lingua inglese), la sua conoscenza profonda dei meccanismi che regolano la maccchina economica oggi. Sono stati i miei articoli meno cliccati. Fino a che… Fino a che non è arrivato il giornalista di controinformazione più quotato d’Italia, Paolo Barnard, che ha cominciato a parlarne. Male. Io, nel mio piccolo, ed il grande trader modenese Giovanni Zibordi a proporre qualche articolo, ci sforzavamo di difenderne la profondità di pensiero. Poi, ultimo ma non ultimo, è arrivato Marco Montemagno, l’influencer senza dubbio più importante d’Italia, che ha cominciato a fare delle recensioni sul suo libro, “Principles”. Ora tutti si comportano come se lo conoscessero da sempre, tutti avrebbero letto il suo libro (ahahahaha), e avanti così. Nessuno, però, si è accorto che Dalio sta analizzando la Mmt di Mosler, la teoria economica neokeynesiana portata in Italia proprio da Barnard.Nessuno, tranne il vostro blogger preferito (cioè io) e “Bloomberg”, un giornaletto che pare essere apprezzato oltreoceano da qualche attento lettore di cose economiche. Ecco cosa scrivono: il sistema bancario centrale, come sappiamo, è in via di estinzione, ed è “inevitabile” che qualcosa come la teoria monetaria moderna lo sostituirà, ha detto l’investitore miliardario Ray Dalio. La dottrina, nota come Mmt, afferma che i governi dovrebbero gestire le loro economie attraverso la spesa e le tasse – invece di affidarsi a banche centrali indipendenti per farlo attraverso i tassi di interesse. La Mmt cerca anche di placare i timori sui deficit di bilancio e sui debiti nazionali, sostenendo che paesi come gli Stati Uniti, che hanno una propria valuta, non possono andare in rovina e avere più spazio da spendere di quanto si supponga normalmente – purché l’inflazione sia contenuta, poiché è questo il momento. Il dibattito sulla Mmt, che languiva nell’oscurità da decenni, è esploso negli ultimi mesi. L’idea è stata criticata da una serie di pesi massimi finanziari, da Warren Buffett al presidente della Federal Reserve Jerome Powell. Ma Dalio, il fondatore di Bridgewater Associates, il più grande hedge fund del mondo, ha detto che i politici non avranno altra scelta che abbracciarlo.La loro sfida sarà «produrre un benessere economico per la maggior parte delle persone quando la politica monetaria non funziona», ha scritto Dalio nel suo ultimo articolo su LinkedIn. Negli ultimi quarant’anni, l’era della dominanza della banca centrale, della disuguaglianza di reddito e di ricchezza è cresciuta nella maggior parte delle nazioni sviluppate. Tagliando i tassi di interesse, o acquistando titoli nel processo noto come allentamento quantitativo (Qe), le banche centrali hanno quasi esaurito la loro capacità di stimolare le economie. Probabilmente saranno rimpiazzati da una politica monetaria di terza generazione, etichettata da Dalio come “Mp3”. Comporterà «il coordinamento della politica fiscale e monetaria» secondo le linee generali suggerite dagli economisti Mmt, ha detto Dalio, anche se non necessariamente seguendo le loro prescrizioni alla lettera. Il cambio verso la Mmt è a buon punto, ha detto Dalio. Con tassi di interesse bloccati vicino allo zero in Europa e in Giappone, e con la probabillità che tornino negli Stati Uniti quando l’economia vacilla, l’acquisizione della politica fiscale è «in linea di massima ciò che sta già accadendo».Gli Stati Uniti hanno aumentato i deficit di bilancio dopo la crisi del 2008, e lo hanno fatto di nuovo sotto il presidente Donald Trump. La risposta al mercato obbligazionario ha sostenuto gli argomenti della Mmt: i rendimenti sul debito pubblico non sono aumentati molto, anche se ce n’è molto di più in giro. Il Giappone lo sta facendo da molto più tempo – eppure dopo due decenni di grandi deficit, può ancora prendere in prestito denaro virtualmente gratis. Dalio ha fornito esempi di come tali politiche potrebbero evolversi. Le banche centrali potrebbero stampare denaro direttamente per finanziare programmi governativi, evitando la necessità di vendere obbligazioni. Potrebbero comprare immobili «che sarebbero idealmente utilizzati per fini socialmente vantaggiosi». Potrebbero anche cancellare i debiti incombenti sull’economia, in una sorta di “giubileo”. Nelle fasi discendenti, potrebbero consegnare denaro direttamente al pubblico, un’idea ampiamente conosciuta come “il denaro dall’elicottero”. Ci sono dei rischi, ha riconosciuto Dalio. Tali politiche metterebbero «il potere di creare e stanziare denaro, credito e spesa» nelle mani dei politici. «È difficile immaginare come verrà costruito il sistema per raggiungere questo obiettivo», ha affermato. «Allo stesso tempo è inevitabile che siamo diretti in questa direzione» (fonte: “Bloomberg”).(Massimo Bordin, “Ray Dalio dice che la Mmt sta arrivando, che ci piaccia o no”, dal blog “Micidial” del 2 maggio 2018).Sono passati anni! Non mesi, ma anni, da quando ai lettori di questo sito ho presentato Ray Dalio: le sue tesi per ottimizzare il lavoro, i suoi video (all’epoca ancora rigorosamente disponibili solo in lingua inglese), la sua conoscenza profonda dei meccanismi che regolano la maccchina economica oggi. Sono stati i miei articoli meno cliccati. Fino a che… Fino a che non è arrivato il giornalista di controinformazione più quotato d’Italia, Paolo Barnard, che ha cominciato a parlarne. Male. Io, nel mio piccolo, ed il grande trader modenese Giovanni Zibordi a proporre qualche articolo, ci sforzavamo di difenderne la profondità di pensiero. Poi, ultimo ma non ultimo, è arrivato Marco Montemagno, l’influencer senza dubbio più importante d’Italia, che ha cominciato a fare delle recensioni sul suo libro, “Principles”. Ora tutti si comportano come se lo conoscessero da sempre, tutti avrebbero letto il suo libro (ahahahaha), e avanti così. Nessuno, però, si è accorto che Dalio sta analizzando la Mmt di Mosler, la teoria economica neokeynesiana portata in Italia proprio da Barnard.
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Carpeoro: Palme fu ucciso perché voleva abolire la povertà
Il 28 febbraio del 1986 io ero in piazza Duomo 19 a Milano, nell’ufficio di Bettino Craxi, quando arrivò la notizia dell’uccisione di Palme. Non ero da solo. C’era la deliziosa Alma Cappiello, avvocato e parlamentare socialista. C’era Luciano Belipaci, che era il presidente del Circolo Rosselli (da cui quel giorno nacque il Circolo Olof Palme). C’era Enzo Saponara, che era il segretario dei giovani socialisti. C’erano tante persone. Noi lo sapevamo bene, chi era Olof Palme, ma in Italia non è che lo sapessero benissimo. Era il leader dei socialisti europei, e non perché qualcuno l’avesse eletto. Ci sono due modi di essere leader: per autorità e per autorevolezza. Tanti preferiscono il primo, pochi arrivano al secondo. Tutti i socialisti d’Europa pendevano dalle labbra di Olof Palme, perché aveva realizzato la rivoluzione copernicana del socialismo. Aveva scritto, detto e insegnato – in tutte le salse – che il socialismo doveva superare Marx e il classismo. Il socialismo si era sclerotizzato nella cosiddetta lotta di classe. Anzi: aveva figliato il comunismo, sulla base della lotta di classe. Immaginava le classi come le placche dell’arteriosclerosi nel sangue di una persona invecchiata precocemente. Una situazione sclerotica, schematica, intoccabile, con classi sociali ciascuna con le sue colpe e le sue caratteristiche, mentre una sola aveva dei meriti.Si immaginava una nobiltà anti-rivoluzionaria e una borghesia rivoluzionaria solo nel Settecento, mentre l’unico vero corpo rivoluzionario era il proletariato. Questa è una teoria esoterica: si sfiorava la religione. Olof Palme non accettò questa teoria. Rifiutò il concetto di classe. Disse: se proprio vogliamo enfatizzare la parola classe, possiamo dire che una classe (che cambia, di tempo in tempo) è la categoria di persone che ha gli stessi bisogni, le stesse necessità – non gli stessi interessi. Perché, secondo lui, un socialista non doveva occuparsi degli interessi, ma delle necessità. Questa era la sua visione, condivisibile o meno. Ma è una visione veramente rivoluzionaria, perché scardinava la base del marxismo – una base esoterica, ideologica, mistica. La scardinava: la toglieva dai cardini e lasciava la porta aperta. Quando Claudio Martelli iniziò a utilizzare il termine “area laica e socialista”, lo fece perché quel termine l’aveva inventato Olof Palme. E lo aveva anticipato in un pranzo, in occasione di un convegno in Germania, nel quale aveva detto: noi dobbiamo creare l’area laica e socialista. Significava allargare il concetto di socialismo: non nei confronti di tutte le speculazioni classiste e pseudo-rivoluzionarie che lo avevano quasi completamente ammorbato, nonostante il distacco dal comunismo. Significava che la vera mediazione doveva avvenire nei confronti della cultura illuministica. Cioè: il socialismo si doveva riconciliare con l’umanesimo illuminista.In Italia, umanesimo illuminista voleva dire per esempio repubblicani, liberali, radicali, reduci del Partito d’Azione: tutti eredi, come i socialisti, della Rivoluzione Francese. Pochi anni dopo la Rivoluzione, infatti, a Parigi c’erano i socialisti: c’era Saint-Simon, c’era Proudhon, c’era Blanqui, c’era Blanc (il cosiddetto socialismo utopistico). Sapete, quando uno ti vuole delegittimare – senza offrire argomentazioni – ti dice che sei un utopista. Ma è una cosa bellissima, l’utopia: è un non-luogo (“ou-topos”). Significa che tutto quello che avviene in un non-luogo è utopistico; ma non significa che non esista, e non significa neanche che non possa essere degno di attenzione. Il problema è che Palme l’aveva fatta, questa rivoluzione – era colpevole di farla fatta – e in un contesto che non era molto favorevole (quello di adesso lo è ancora meno, perlatro), dove comunque gli altri leader socialisti europei erano in difficoltà. Craxi cominciava a perdere la salute, e il diabete galoppante gli provocava anche scatti caratteriali imprevedibili; Mitterrand era in pieno bonapartismo, per cui non è che fosse proprio affidabile; e Schmidt è la persona più piatta che si sia conosciuta nella storia del socialismo europeo. Capirete che non erano proprio passeggiate di salute. Eppure, Palme era stato capace di gettare le basi del socialismo europeo.Tanto era stato fondamentale, Palme, per il socialismo europeo, che poco prima di venir ucciso era candidato – dato per vincente – a diventare segretario generale dell’Onu. Poteva essere un modo comodo per toglierlo dalla guida del governo svedese, e per allontanarlo dalla gestazione di questa Europa che abbiamo visto nascere? Per come uno conosce Olof Palme, in realtà, l’elezione alle Nazioni Unite poteva essere un’arma a doppio taglio. Rimane il fatto che questo personaggio, che nel 1968 era a Praga a manifestare contro i carri armati sovietici, che nei primi anni ‘70 promosse una mozione dell’Onu contro la guerra in Vietnam, e che nel 1974 andò in Sudafrica a manifestare per la scarcerazione di Nelson Mandela, non si era fatto molti amici: era stato capace di contestare chiunque. Ma aveva un solo riferimento: la vera guida di Olof Palme era la libertà, intesa nell’accezione iniziatica del termine. Libertà non è fare ciò che che vuoi, è sapere quello che si vuole. La libertà è, prima di tutto, una consapevolezza della nostra mente: è uno stato mentale, la libertà, prima di essere uno stato fisico. Io ho fatto l’avvocato: in galera ho conosciuto persone libere, e ho conosciuto persone che erano “in galera” da libere. Perché prima di essere una condizione sociale, politica, giudiziaria – la libertà è uno stato mentale. Io ho conosciuto menti sempre libere, dovunque fossero, qualunque cosa facessero, così come ho conosciuto menti prigioniere (dovunque fossero, e qualunque cosa facessero).Olof Palme era una mente libera, e questa sua mente libera gli ha fatto superare il socialismo adottando un economista – Rudolf Meidner – che è l’uomo che ha inventato il cosiddetto “progetto economico svedese”. Un progetto rivoluzionario: realizzato con la creazione di fondi di comproprietà delle aziende a favore dei sindacati (in quota, certo: non si mise a nazionalizzare); con la previsione di un tipo di contribuzione assistenziale, previdenziale e sanitaria rivoluzionaria. E’ vero, all’epoca usò una leva fiscale piuttosto consistente, ma non so se oggi farebbe la stessa cosa, perché già nel suo secondo mandato attenuò il prelievo fiscale. Evidentemente, si regolò sul contesto economico contingente. Ma la sua regola ispirativa era questa: la politica e lo Stato devono rispondere alle necessità dei cittadini, e il compito di una forza politica è quello di stabilire quali sono le priorità, rispetto a queste necessità. Due elementi fondamentali, dei quali nessun altro politico, all’epoca sua, tenne conto. Dopo Palme ci ritrovammo Blair, Hollande. Pensate che, attualmente, nel direttivo del Partito Socialista Europeo il nostro rappresentante è la Mogherini. Lei fa l’anestesista: nel senso che tu non senti nulla (né dolore, ma neanche piacere).La chiamo “eutanasia del socialismo”: il socialismo si è ucciso da solo, dopo la morte di Palme, perché è mancato un tipo di guida a dei personaggi che non erano in grado di fare, da soli, la “nuova era” socialista. Nemmeno Craxi lo era: grande politico e grande statista, ma non era Palme. Così il socialismo si è suicidato. In che modo? Ha svenduto il suo marchio, senza chiedere garanzie sui contenuti – così come si svende tutto, nel sistema di potere contemporaneo. Il potere oggi si impossessa di marchi, cancella quello che c’è sotto (e quello che c’è stato prima) e poi lo utilizza. E’ successo parzialmente anche con la massoneria, con le religioni. Sapete, una cosa illuminante su cui farsi domande è questa: perché non c’è nessuna religione che dichiari che la povertà è illegittima? Tutte le religioni chiedono di aiutare i poveri. La povertà la danno come inevitabile, inesorabile. Era anche uno degli argomenti di Palme, impegnato in quel suo assistenzialismo così avanzato. Queste cosiddette dottrine spirituali ci vengono a dire: aiutate i poveri. Non ci dicono: facciamo in modo che non esistano più, i poveri. Vi siete mai chiesti perché?(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate al convegno “Nel segno di Carlo Rosselli, Olof Palme e Thomas Sankara, contro la crisi della democrazia”, promosso il 3 maggio 2019 a Milano dal Movimento Roosevelt. A margine dei lavori, Carpeoro – avvocato e saggista, a lungo collaboratore di Craxi – ha aggiunto che Palme fu ucciso da agenti di un servizio segreto, probabilmente bulgaro, su ordine della P2 di Gelli, per conto della massoneria reazionaria internazionale. Nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016 per Revoluzione, Carporo ricorda che – alla vigilia del premier socialdemocratico scandinavo – Licio Gelli telegrafò al senatore statunitense Philip Guarino il seguente messaggio: “La palma svedese sta per cadere”. Carpeoro spiega che Guarino era il braccio destro di Michael Ledeen, influente storico e politologo statunitense di origine ebraica, membro del B’nai B’rith – esclusiva massoneria del Mossad – nonché del Jewish Institute. Sempre secondo Carpeoro, dopo aver danneggiato lo stesso Craxi (provocando la crisi di Sigonella, traducendo in modo fuorviante le parole di Reagan durante una conversazione telefonica tra il presidente Usa e il premier italiano), Ledeen avrebbe “sovragestito” Antonio Di Pietro, quindi Matteo Renzi e contemporanamente Luigi Di Maio).Il 28 febbraio del 1986 io ero in piazza Duomo 19 a Milano, nell’ufficio di Bettino Craxi, quando arrivò la notizia dell’uccisione di Palme. Non ero da solo. C’era la deliziosa Alma Cappiello, avvocato e parlamentare socialista. C’era Luciano Belipaci, che era il presidente del Circolo Rosselli (da cui quel giorno nacque il Circolo Olof Palme). C’era Enzo Saponara, che era il segretario dei giovani socialisti. C’erano tante persone. Noi lo sapevamo bene, chi era Olof Palme, ma in Italia non è che lo sapessero benissimo. Era il leader dei socialisti europei, e non perché qualcuno l’avesse eletto. Ci sono due modi di essere leader: per autorità e per autorevolezza. Tanti preferiscono il primo, pochi arrivano al secondo. Tutti i socialisti d’Europa pendevano dalle labbra di Olof Palme, perché aveva realizzato la rivoluzione copernicana del socialismo. Aveva scritto, detto e insegnato – in tutte le salse – che il socialismo doveva superare Marx e il classismo. Il socialismo si era sclerotizzato nella cosiddetta lotta di classe. Anzi: aveva figliato il comunismo, sulla base della lotta di classe. Immaginava le classi come le placche dell’arteriosclerosi nel sangue di una persona invecchiata precocemente. Una situazione sclerotica, schematica, intoccabile, con classi sociali ciascuna con le sue colpe e le sue caratteristiche, mentre una sola aveva dei meriti.
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In manette la libertà: chi ha brindato all’arresto di Assange
È stato interessante nei giorni scorsi osservare la composita compagnia che ha esultato per l’arresto a Londra di Julian Assange: alcuni dei suoi corifei erano prevedibili ma altri onestamente meno. Tra i primi, diversi capi di Stato e di governo, qualche potente delle varie forze armate e dei servizi di intelligence, taluni rauchi esponenti di destra che non hanno mai nutrito una smisurata idea di libertà. Tra i secondi – quelli che hanno fatto la ola più a sorpresa – si sono distinti diversi esponenti della sinistra “progressista”, che fino a pochi anni fa simpatizzavano per WikiLeaks, ma adesso l’hanno in uggia, vedremo poi il perché. Accanto a questi, fra gli esultatori imprevisti, si sono esibiti anche non pochi giornalisti di discreta fama, per i quali invece la ragione dell’astio è più psicoanalitica: invidia del collega che ha realizzato scoop storici e mondiali, gioia per la restaurazione di antiche gerarchie professionali che il boom di WikiLeaks aveva ribaltato (Assange a marcire in galera è un bel Congresso di Vienna), soddisfazione intestinale nel vedere al gabbio chi ha fatto del giornalismo uno strumento di rivelazione di segreti dei potenti – mettendo in gioco la propria vita – anziché di accomodamento delle proprie chiappe accanto ai potenti medesimi.Di questi ultimi – le grandi firme che oggi si fregano le mani – si dovrebbero occupare appunto i rispettivi strizzacervelli: se arrivati oltre i sessant’anni non riescono a far pace con il loro ego e i loro compromessi di vita, è solo un problema loro. Più interessante invece la svolta della sinistra “progressista” (o presunta tale). Che aveva coccolato Assange per anni (in particolare quando WikiLeaks aveva rivelato le stragi di civili in Afghanistan compiute al tempo di George W. Bush) ma lo ha drasticamente mollato dopo il Russiagate. E, per quanto riguarda l’Italia, dopo che lo sventurato ha ricevuto nella sua tana-prigione dentro l’ambasciata ecuadoregna una delegazione di parlamentari grillini (Di Battista compreso, stiamo parlando di qualche anno fa) manifestando la sua simpatia e il suo appoggio per il Movimento 5 Stelle. A seguito di questi due eventi, adesso Assange è diventato “l’amico di Trump”, il “complice dei sovranisti” o (ad andar bene) “il controverso hacker”.Ora, a questa ipocrita svolta anti Assange di buona parte dei “progressisti” italiani va risposto con la forza dei fatti e dell’onestà intellettuale: 1. L’appoggio al Movimento 5 Stelle non è un’argomentazione contro Assange e ancor meno contro WikiLeaks. Probabilmente Assange (peraltro poco interessato alla politica italiana) al tempo ha visto nel M5S un partito vicino alla sua idea di trasparenza e di uso della Rete a questo scopo. In ogni caso, non è in base a uno statement su un partito italiano che possiamo giudicare quanto sta avvenendo attorno a lui. Sarebbe ridicolo, oltre che sommamente provinciale. 2. Julian Assange non è in alcun modo indagato nell’inchiesta Russiagate. Non c’è alcun capo di imputazione nei suoi confronti. E la stessa inchiesta sul Russiagate nel suo complesso ha dimostrato che i “progressisti” su questa vicenda si devono mettere un po’ l’anima in pace: se Donald Trump è diventato presidente degli Stati Uniti è per un complesso di macrocause economiche, politiche, sociali e culturali (tra cui gli stessi errori storici della sinistra fattasi establishment), non per un complotto degli hacker russi spalleggiati da Assange.3. Solo un cieco felice di esserlo – quindi molto affezionato ai suoi pregiudizi – oggi non vede il motivo sostanziale per cui da anni è perseguitato Assange, con le accuse formali più diverse: per aver dato fastidio (e che fastidio!) ai potentati dell’economia (non dimentichiamo che centinaia dei primi leaks erano su banche e industriali), della diplomazia, dei servizi, dei militari e della politica. Su tutti costoro Assange e il suo sito avevano rivelato solo e sempre verità. Ma verità che non dovevano essere dette. Assange aveva realizzato nei fatti il famoso motto di Horacio Verbitsky, spesso citato ma raramente implementato: «Giornalismo è pubblicare qualcosa che qualcuno non vorrebbe venisse pubblicato; tutto il resto è propaganda». Questo non è stato perdonato ad Assange, per questo ora Assange è in carcere, dopo aver passato sette anni chiuso in venti metri quadri dentro un’ambasciata.Ma, detto tutto questo, non c’è alcun bisogno di apprezzare Assange per difenderlo. Non c’è alcun bisogno di considerarlo un “eroe” (categoria a cui è sempre meglio non appartenere), né un “paladino della libertà” e neppure un “giornalista senza paura”. Anzi, oggi si può e si deve difendere Assange anche se ci sta antipatico, anche se ne siamo distanti politicamente, perfino se lo consideriamo (pur senza prove) un “hacker al servizio di Putin”. Lo dobbiamo difendere perché non è in gioco lui, ma il principio del giornalismo che ha il diritto (se non il dovere) di pubblicare notizie vere e verificate proteggendo la propria fonte e indipendentemente dalla propria fonte. È, questo, un principio base della libertà di stampa, della sua forza storica, della sua funzione di controllo in una società aperta. È questo principio ad essere stato messo in manette l’altro giorno in una strada del centro di Londra, non l’uomo stanco con la barba bianca che in quel momento lo impersonava. Voi state con questo principio o con quelle manette?(Alessandro Gilioli, Assange e le manette alla libertà di stampa”, da “Micromega” del 15 aprile 2019).È stato interessante nei giorni scorsi osservare la composita compagnia che ha esultato per l’arresto a Londra di Julian Assange: alcuni dei suoi corifei erano prevedibili ma altri onestamente meno. Tra i primi, diversi capi di Stato e di governo, qualche potente delle varie forze armate e dei servizi di intelligence, taluni rauchi esponenti di destra che non hanno mai nutrito una smisurata idea di libertà. Tra i secondi – quelli che hanno fatto la ola più a sorpresa – si sono distinti diversi esponenti della sinistra “progressista”, che fino a pochi anni fa simpatizzavano per WikiLeaks, ma adesso l’hanno in uggia, vedremo poi il perché. Accanto a questi, fra gli esultatori imprevisti, si sono esibiti anche non pochi giornalisti di discreta fama, per i quali invece la ragione dell’astio è più psicoanalitica: invidia del collega che ha realizzato scoop storici e mondiali, gioia per la restaurazione di antiche gerarchie professionali che il boom di WikiLeaks aveva ribaltato (Assange a marcire in galera è un bel Congresso di Vienna), soddisfazione intestinale nel vedere al gabbio chi ha fatto del giornalismo uno strumento di rivelazione di segreti dei potenti – mettendo in gioco la propria vita – anziché di accomodamento delle proprie chiappe accanto ai potenti medesimi.
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Magaldi: Lunga Marcia, per la rivoluzione che serve all’Italia
«C’è ormai una sorta di teatro stucchevole: si celebrano elezioni che non decidono nulla. Le prossime europee? Doppiamente inutili: in un Europarlamento notoriamente senza potere, saranno i soliti noti a spartirsi le stesse poltrone». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, non crede alla “carica” dei sovranisti: a Strasburgo, dice, non cambierà proprio niente. Fine dell’equivoco gialloverde: il governo Conte doveva opporsi all’austerity infinita, e invece si limita a tirare a campare. Che fare? «Una rivoluzione», sostiene Magaldi. Meglio: «Una lunga marcia, come quella di Mao». Non comunista, certo: una rivoluzione democratica. «Ma ci vuole una lunga marcia, in mezzo a questo grande caos di gente vecchia. Vecchi partiti, che cantano canzoni stonate senza aver più nulla da dire. E nuovi partiti, che riescono solo a litigare tra di loro e si rassegnano a usare pannicelli caldi, anziché aggredire la grave malattia socio-politica ed economica dell’Italia». Per Magaldi, il convegno del 3 maggio a Milano su Carlo Rosselli, Olof Palme e Thomas Sankara è «la seconda tappa della rivoluzione rooseveltiana avviata a Londra il 30 marzo». Tema: un New Deal per l’Italia e l’Europa, contro la crisi della democrazia. Relatori: economisti come Nino Galloni, Danilo Broggi, Ilaria Bifarini, Guido Grossi. La tesi: dalla post-democrazia Ue, che impone la folle disciplina ideologica del rigore, si esce solo rispolverando Keynes e rilanciando l’economia con poderosi investimenti pubblici.Esponente del network massonico progressista internazionale, Magaldi ha dato alle stampe nel 2014 il saggio “Massoni”, in cui si svela il ruolo decisivo di 36 superlogge occulte, sovranazionali, nel back-office del potere mondiale. Nel 2015 ha creato il Movimento Roosevelt, entità meta-partitica con una missione precisa: indurre la politica a recuperare la sovranità democratica, costringendo l’oligarchia massonica che domina l’Ue a rivedere le regole dell’austerity. Ora, l’agenda del gruppo si infittisce di impegni pubblici. Dopo Londra, Milano: ci sarà anche Paolo Becchi tra i relatori dell’assise che – omaggiando la memoria civile e politica del socialismo liberale attraverso le figure di Rosselli, Palme e Sankara – sfiorerà anche un altro grande, l’economista italiano Federico Caffè, misteriosamente scomparso a Roma nel 1987. «La sua sparizione – spiega Magaldi – è direttamente connessa con gli omicidi di Palme e di Sankara». Caffè era il cervello dell’economia keynesiana europea, poi travolta dal neoliberismo: un uomo scomodo, da togliere di mezzo. Per Magaldi, il tempo dell’attesa è finito: il 14 luglio, a Roma, verrà costituito il “Partito che serve all’Italia”, cantiere di lavoro ormai in dirittura d’arrivo. Obiettivo: creare finalmente un’alternativa, che metta gli italiani in condizione di scegliere il proprio futuro, senza più soggiacere ai diktat devastanti dei poteri forti europei.«La politica è deludente anche perché i cittadini non si sono impegnati abbastanza, e hanno votato per i personaggi sbagliati, compiendo atti di fede etnico-tribali verso i gruppi dirigenti sbagliati», dice Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Se non sai fotografare bene il mondo, e analizzare in modo onesto e coraggioso le forze in campo, difficilmente potrai offrire una cura». Magaldi scommette sull’analisi proposta dal Movimento Roosevelt, e anche dal nascente “Partito che serve all’Italia”: «Credo che le persone coinvolte in questi progetti siano difficili da assimilare al deludentissimo ceto politico attuale». E insiste: «Ci prepariamo a fare – democraticamente, però – quello che ha fatto Mao Tse-Tung». Lunga marcia, per scuotere gli elettori. Il paesaggio da attraversare ovviamente non è la Cina, ma la palude italiana: da una parte i rottami dell’establishment della Seconda Repubblica, veri e propri “terminali” del vero potere europeo, e dall’altra il velleitarismo parolaio e inconcludente dei gialloverdi. «Il “governo del cambiamento” non sta cambiando granché, c’è troppa timidezza: è sterile nei risultati, al di là dei proclami».Cambiare il sistema dall’interno, come dice Salvini? E’ l’unica strada, conferma Magaldi: a gridare “no all’euro” e “no all’Ue” sono «gruppi marginalissimi, quindi ininfluenti». Contro Bruxelles e l’Eurozona, ieri, tuonavano anche la Lega e i 5 Stelle. «Una volta al governo, però, questi partiti non si sono preoccupati di radicalizzaere lo scontro, hanno invece attutito le proprie posizioni». Un programma serio? «Spiegare agli elettori che qualunque riforma o rivoluzione si fa “step by step”», attraverso passi concreti e progressivi. «I gialloverdi avrebbero dovuto cambiare il sistema dall’interno, iniziando – come sistema Italia – a proporsi come i riformatori della Disunione Europea attuale, contrastando i vincoli dell’Eurozona. Ma non l’hanno fatto». Trasformare l’Ue dall’interno, continua Magaldi, «lo si può fare se si è forti, se si è decisi ad affrontare quella che è una guerra politica». Gli avversari li conosciamo: «Si allineano ai tecnocrati e alle cancellerie più arcigne, nel difendere l’austerità infinita, e magari finanziano in modo occulto le posizioni più estremiste anti-euro, perché questo consente di non introdurre un dibattito serio».Lega e 5 Stelle dovrebbero passare dalle chiacchiere ai fatti, insiste Magaldi. «Non c’è partito oggi in Italia che non dica che Ue ed Eurozona andrebbero cambiate. Ma la domanda è: cosa state facendo, per cambiare le regole? Nulla». Osserva il presidente del Movimento Roosevelt: «Quello della Disunione Europea è un sistema post-democratico, ma l’Italia è ancora formalmente una democrazia, come gli altri partner Ue. Ed è proprio assumendo in pieno la sovranità democratica che si può mettere in crisi la post-democrazia Ue». Benissimo se la Lega vuol ripristinare l’elezione diretta degli amministratori delle Province, riavvicinando i cittadini alla partecipazione democratica. «Ma siamo sempre nell’ambito dei pannicelli caldi, che non curano la grande malattia del sistema-Italia». Scandaloso, poi, il polverone sulla vicenda Siri: il sacrificio del sottosegretario (solo indagato, per ora) servirebbe a riavvicinare Lega e 5 Stelle? Tutti si agitano: da Mattarella a Di Pietro, che insorge «salutando il risveglio dei 5 Stelle, che avrebbero ritrovato un rigurigito di moralità». Protesta Magaldi: «Di Pietro dovrebbe vergognarsi e andarsi a nascondere, perché è stato insieme ad altri lo strumento inconsapevole di un vero e proprio golpe, che ha spazzato via un’intera classe politica».«Se siamo nell’attuale situazione di disfacimento totale della politica – ribadisce Magaldi – è grazie a quella perversa operazione che ha inaugurato la Seconda Repubblica». Ora ci stanno di fronte verità ineludibili: l’Ue ha impedito all’Italia di aumentare il deficit oltre il 2%, e il governo Conte è tornato a Roma con le pive nel sacco. Palazzo Chigi sa benissimo che quei soldi non basteranno a finanziare le misure di cui il paese ha bisogno. «Ma la risposta alla post-democrazia delle istituzioni europee, per quanto riguarda sia la Disunione Europea che la tragicomica Eurozona – dice Magaldi – non è il sovranismo, non è il nazionalismo e non è la risposta dei finti europeisti, che hanno sempre detto di sognare gli Stati Uniti d’Europa, e poi in realtà si sono appecoronati alla peggiore conservazione». Ppe e Pse, popolari e socialisti europei, sono «conservatori mediocri, senza idee e senza vera vocazione democratica». Di fatto, «hanno traghettato stancamente il vecchio continente a essere quello che è, cioè un soggetto che non ha un’unità politica, dove gli Stati si fanno concorrenza tra loro. Non c’è una politica estera comune, non c’è una politica fiscale comune, non c’è nessuna salvaguardia dell’interesse comune. Non c’è un’unione, appunto».Ma la risposta a tutto questo – aggiunge Magaldi – non sta in quello che viene raccontato. La Lega? Crescerà, ma inutilmente: «Nel governo non ha inciso, se non nella speranza ancora viva dei suoi elettori: la votano perché sperano, non perché abbiano visto dei risultati». Secondo Magaldi «la Lega ha sbagliato tragicamente, sul piano europeo, a inseguire un’alleanza coi paesi cosidetti sovranisti». Anzi, «è un errore madornale parlare di sovranismo come ricetta contro la post-democrazia, che invece si combatte solo con la rigenerazione della democrazia». Sta qui il sale della “rivoluzione rooseveltiana”: «Serve, questa rivoluzione, perché tutti gli altri stanno facendo cose che non servono – se non a conservare poltrone e narcisismi, in mezzo al chiacchiericcio italiano».«C’è ormai una sorta di teatro stucchevole: si celebrano elezioni che non decidono nulla. Le prossime europee? Doppiamente inutili: in un Europarlamento notoriamente senza potere, saranno i soliti noti a spartirsi le stesse poltrone». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, non crede alla “carica” dei sovranisti: a Strasburgo, dice, non cambierà proprio niente. Fine dell’equivoco gialloverde: il governo Conte doveva opporsi all’austerity infinita, e invece si limita a tirare a campare. Che fare? «Una rivoluzione», sostiene Magaldi. Meglio: «Una lunga marcia, come quella di Mao». Non comunista, certo: una rivoluzione democratica. «Ma ci vuole una lunga marcia, in mezzo a questo grande caos di gente vecchia. Vecchi partiti, che cantano canzoni stonate senza aver più nulla da dire. E nuovi partiti, che riescono solo a litigare tra di loro e si rassegnano a usare pannicelli caldi, anziché aggredire la grave malattia socio-politica ed economica dell’Italia». Per Magaldi, il convegno del 3 maggio a Milano su Carlo Rosselli, Olof Palme e Thomas Sankara è «la seconda tappa della rivoluzione rooseveltiana avviata a Londra il 30 marzo». Tema: un New Deal per l’Italia e l’Europa, contro la crisi della democrazia. Relatori: economisti come Nino Galloni, Danilo Broggi, Ilaria Bifarini, Guido Grossi. La tesi: dalla post-democrazia Ue, che impone la folle disciplina ideologica del rigore, si esce solo rispolverando Keynes e rilanciando l’economia con poderosi investimenti pubblici.
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Prove di guerra: sventato dalla Russia il golpe in Venezuela
La spallata finale di Juan Guaidó non c’è stata, la rivolta non è andata oltre qualche immagine sui social. Nicólas Maduro è ancora al potere, appoggiato dalla gran parte delle forze armate. A poche ore dall’annuncio della sua liberazione dai domiciliari, scrive Rocco Cotroneo sul “Corriere della Sera”, il leader oppositore Leopoldo López è dovuto correre a rinchiudersi nuovamente, stavolta nell’ambasciata spagnola con moglie e figlia, per evitare la quasi certa vendetta del chavismo. Intanto a Caracas si sono verificati nuovi scontri tra manifestanti e la Guardia Nazionale Bolivariana, mentre sono in corso le marce contrarie di sostenitori di Maduro e oppositori. Anche per Guaidó non sono ore tranquille, aggiunge il “Corriere”: l’autoproclamato presidente ad interim potrebbe essere arrestato in qualsiasi momento, e vive in una sorta di semiclandestinità. Ma perché la giornata della rivolta finale (o del golpe, secondo il regime) si è afflosciata nel giro di poche ore? Chi ha sbagliato? O meglio: come ha fatto Maduro a liquidare la questione senza nemmeno aver bisogno di una forte repressione? Se fossero vere le parole di John Bolton, il consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa, ci troveremmo di fronte ad una vera e propria stangata ai danni di Guaidó. «C’era un accordo dietro le quinte», ha detto Bolton: «Alcuni uomini chiave del regime avrebbero dovuto disertare, spianando la strada alla caduta di Maduro».Parole rafforzate dalla ricostruzione dei fatti (anch’essa da prendere con le pinze) del segretario di Stato Mike Pompeo: «Maduro era pronto a salire su un aereo, per scappare a Cuba. Poi è stato fermato dai russi». Secondo Cotroneo siamo di fronte «a uno scenario da post guerra fredda, in grado di far impallidire quella vera, con tutto il contorno dei film di spionaggio». Se così fosse, prosegue il giornalista del “Corriere”, gli Usa avrebbero erroneamente dato il via libera all’operazione finale di Guaidó e López, fornendo loro però informazioni fasulle: non esisteva uno scenario di deposizione di Maduro all’interno del regime stesso. E alla “fregatura” avrebbero partecipato attivamente uomini di Mosca. I militari venezuelani infatti non si sono spaccati, tranne poche diserzioni di soldati semplici. «Il quadro del fallimento era già chiaro nel primo pomeriggio ora di Caracas, a otto ore dall’inizio dell’operazione. A quel punto – e Maduro non era nemmeno apparso in pubblico – López aveva già deciso di chiedere aiuto diplomatico (prima al Cile, infine alla Spagna) e una ventina di militari ribelli avevano fatto lo stesso con il Brasile».Non secondaria, infine, la mancata risposta della piazza, osserva il “Corriere”: «C’erano poche migliaia di manifestanti nelle strade, i venezuelani sono esausti. Fine della sfida». Non per questo, però, gli Usa molleranno la presa sul Venezuela: la decisione dell’amministrazione Trump di non desistere dalla partita venezuelana resta chiara. «Pur preferendo una transizione democratica, l’opzione militare resta in piedi», ha insistito Pompeo. È stato un fallimento o una prova generale? Se lo domanda, sul suo blog, un analista geopolitico come Gennaro Carotenuto: «Intorno all’autoproclamato Juan Guaidó – scrive – è come se si svolgessero da mesi dei ripetuti “stress test”, dove quello che non si vede è ben maggiore di quello che è visibile in superficie. Se così non fosse, a cento giorni di distanza dalla giocata, vorrebbe dire che davvero l’opposizione non abbia la forza né politica né militare per rovesciare il governo di Nicolás Maduro». Quello di martedì 30 aprile «è stato uno stress test sull’esercito per vedere, come già a Cúcuta a fine febbraio, se c’è un punto d’inflessione oltre il quale un numero decisivo di esponenti degli stati maggiori possano rivoltarsi, giocando con una guerra civile dietro l’angolo».Secondo Carotenuto, è stato uno stress test anche per la società civile, che è servito – come per i blackout di marzo – a misurare chi scende in piazza, e chi tra i leader dell’opposizione è coerente e accetta l’attuale leadership, che ora sembra «tornata ufficialmente a Leopoldo López, al quale Guaidó scaldava il posto». Aggiunge Carotenuto: il “golpetto” di fine aprile è piaciuto «alla parte destra dell’opposizione», pronta alla violenza. Ma gli scontri sono spenti velocemente, come già nel 2014 e nel 2017: «Ancora una volta – per fortuna – la società civile, chavista e anti-chavista, polarizzata quanto si vuole, si è tenuta lontana dalla violenza». Ogni attore ha la sua agenda, scrive Carotenuto. Ma di agende, in Venezuela, sembrano essercene troppe, in queste ore: da una parte gli Usa, la Colombia e il Brasile, dall’altra Cuba, la Russia e la Cina. L’Europa? Pressoché assente. «L’unica soluzione non drammatica e non violenta, in Venezuela, l’aveva sfiorata Zapatero col tavolo fatto inopinatamente saltare ad accordo fatto, prima delle presidenziali di maggio 2018. Tanto c’è Maduro, al quale si possono dare tutte le colpe».Il mondo, riassume Carotenuto, ha guardato per 24 ore al Venezuela per la diserzione di una trentina di soldati di grado medio, con alla testa un solo generale di peso, Manuel Ricardo Figueroa, subito rimosso. E tutto soltanto per liberare Leopoldo López dai domiciliari? Troppo poco per essere vero: «Il senatore Marco Rubio, già protagonista del disastro di febbraio a Cúcuta, per giorni ha chiamato le Forze Armate Nazionali Bolivariane, Fanb, al golpe. Lo ha fatto con un discorso a metà strada tra l’invito, la minaccia e la promessa. Invito a restaurare la democrazia, minaccia di far passare l’esercito a essere parte del problema in caso di intervento esterno, promessa di prebende infinite e amnistia tombale in caso di golpe». Il problema, aggiunge Carotenuto, è che minacce e promesse non possono ripetersi all’infinito: «A Cúcuta, le poche decine di militari che disertarono, lamentarono che Marco Rubio in persona avesse promesso loro 20.000 dollari a testa. Ovviamente mai visti». La realtà è che gli Usa non sono affatto onnipotenti, come spesso vengono rappresentati (da amici e nemici). Cose simili a quelle di Rubio le ha dette il “miles gloriosus” Mike Pompeo, «sempre con la mano alla pistola», e così John Bolton e lo stesso Elliott Abrams, «il più sinistro dei personaggi coinvolti, conclamato terrorista di Stato, massacratore delle guerre in Centroamerica, che ha sostenuto che i presunti militari golpisti avrebbero a un certo punto spento i cellulari».Certamente a Pompeo, Bolton e Abrams «di certo la soluzione militare piace», ma – di fronte alla fallito golpe – non sanno più cosa tentare, sostiene Carotenuto, secondo cui si sta ripetendo la stessa situazione di Cúcuta, «altro stress test», quando si scomodò il vice del presidente brasiliano Jair Bolsonaro, il generale Hamilton Mourão, per chiarire oltre ogni ragionevole dubbio che il Brasile non accetta interventi esterni. Non saranno né statunitensi né colombiani a intervenire in quello che Brasilia considera il proprio spazio strategico amazzonico. «Diverso è solo il caso dei 5.000 mercenari che Blackwater avrebbe reclutato, pagati da prominenti multimilionari venezuelani, sui quali molto ha scritto la “Reuters”». I mercenari «potrebbero infiltrarsi in mille modi e commettere le più odiose delle azioni terroristiche, sabotaggi, assassinii». Aggiunge Carotenuto: «Se c’è qualche liberaldemocratico che, pur di liberarsi di Chávez, fa il tifo perfino per i tagliagole che già agirono in Iraq, alzo le mani». E’ grave che ora i disertori avessero alla loro testa Manuel Ricardo Figueroa, il capo del Sebin (i servizi venezuelani). Doveva essere un’azione suicida, oppure la partita è davvero sul terreno militare come in Cile nel 1973? Altra domanda: la liberazione di Leopoldo López è servita più che altro a tamponare il declino dell’insignificante leadership di Guaidó?Carotenuto ricorda che, durante il fallito colpo di Stato del 2002, proprio López condusse l’assalto all’ambasciata di Cuba. «Da allora dosa il ruolo di oppositore tra violenza e politica, contando sulla connivenza dei media che continuano a rappresentarlo come una specie di John Kennedy caraibico e di perseguitato politico. Pensa di essere più utile dall’estero che ai domiciliari?». E Guaidó? Adesso chiama a uno sciopero generale, ma scaglionato: «Tutt’altro che la spallata finale a un regime descritto nuovamente sul predellino dell’aereo che deve portarlo in esilio». Può Maduro fare ancora finta di niente o si caricherà del costo politico di arrestarlo, con la grande stampa internazionale pronta a considerare Guaidó un martire? «In vent’anni di rivoluzione bolivariana, con una buona dozzina di crisi maggiori, abbiamo visto che sul breve termine l’opposizione ha grande capacità di convocazione, ma col passare delle settimane sono i chavisti quelli che restano in piazza a difendere quello che continuano a considerare il governo popolare e il mandato di quello che è stato il più popolare e amato leader latinoamericano degli ultimi decenni». Anche stvolta i chavisti stanno dimostrando compattezza, scendendo in piazza in numeri almeno comparabili a quelli dell’opposizione. «Il golpetto di Caracas lascia più domande che risposte – conclude Carotenuto – ma che i chavisti esistano e continuino e continueranno a resistere è una delle poche certezze che questi tre mesi ci hanno donato».La spallata finale di Juan Guaidó non c’è stata, la rivolta non è andata oltre qualche immagine sui social. Nicólas Maduro è ancora al potere, appoggiato dalla gran parte delle forze armate. A poche ore dall’annuncio della sua liberazione dai domiciliari, scrive Rocco Cotroneo sul “Corriere della Sera”, il leader oppositore Leopoldo López è dovuto correre a rinchiudersi nuovamente, stavolta nell’ambasciata spagnola con moglie e figlia, per evitare la quasi certa vendetta del chavismo. Intanto a Caracas si sono verificati nuovi scontri tra manifestanti e la Guardia Nazionale Bolivariana, mentre sono in corso le marce contrarie di sostenitori di Maduro e oppositori. Anche per Guaidó non sono ore tranquille, aggiunge il “Corriere”: l’autoproclamato presidente ad interim potrebbe essere arrestato in qualsiasi momento, e vive in una sorta di semiclandestinità. Ma perché la giornata della rivolta finale (o del golpe, secondo il regime) si è afflosciata nel giro di poche ore? Chi ha sbagliato? O meglio: come ha fatto Maduro a liquidare la questione senza nemmeno aver bisogno di una forte repressione? Se fossero vere le parole di John Bolton, il consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa, ci troveremmo di fronte ad una vera e propria stangata ai danni di Guaidó. «C’era un accordo dietro le quinte», ha detto Bolton: «Alcuni uomini chiave del regime avrebbero dovuto disertare, spianando la strada alla caduta di Maduro».
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Rosselli, Palme e Sankara: rivoluzione, se oggi fossero qui
Puoi avere tutte le ragioni del mondo; ma a che serve, se nessuno ti ascolta? Quanti sapevano chi fosse, Carlo Rosselli, quando fu assassinato? Mezzo secolo dopo, al grande pubblico italiano del 1986, diceva qualcosa di particolare il nome del leader svedese Olof Palme? Ma certo: un elegante signore del Nord Europa, barbaramente ucciso da qualche folle terrorista, più o meno come quelli che avevano appena finito di mettere a ferro e fuoco l’Italia. E alzi la mano chi ricorda come la nostra stampa nazionale diede la notizia dell’omicidio dell’allora più che oscuro Thomas Sankara. Era il giovane leader di un paese africano che, per moltissimi europei, poteva ancora chiamarsi Alto Volta: all’epoca, Nelson Mandela stava ancora a spaccare pietre a Robben Island, e l’espressione “Burkina Faso” non era ancora entrata nell’ordinario lessico geografico dell’uomo bianco. Ci vollero anni – Internet, YouTube – per trasformare Sankara in una specie di star della politica: è l’ex ragazzo in camicia verde che, al vertice panafricano di Addis Abeba, svela la schiavitù del debito e propone all’Occidente di smettere di “aiutare” l’Africa.Per far uscire Thomas Sankara dalle catacombe della memoria collettiva c’è stato bisogno dell’11 Settembre, lo choc che ha costretto gradualmente milioni di persone a interrogarsi sulla natura del cosiddetto Deep State. Strana nebulosa, a geometria variabile: domina il pianeta manipolando i governi o scavalcandoli, al limite azzerandone i leader più scomodi – già rarissimi ieri, e oggi pressoché introvabili. Tuttora, comunque, vastissimi strati dell’opinione pubblica continuano a restare scettici di fronte alla denuncia della manipolazione della storia e dell’attualità: tendono ad allinearsi al mainstream che reputa fantasiosa la teoria del complotto, boccia le verità alternative sull’11 Settembre, si rassegna alle campagne sanitarie di massa come il Tso infantile dei vaccini imposti senza spiegazioni. E ovviamente deride chi “crede alle scie chimiche”, preferendo non domandarsi per quale ragione il cielo non sia più blu, ma vistosamente rigato, ogni giorno, dalle tracce persistenti rilasciate dagli aerei. Ci si rifugia dietro comodi neologismi (complottismo, cospirazionismo) per liquidare domande fastidiose, anche col provvidenziale contributo degli stessi “complottisti”, spesso prontissimi a sfornare risposte grottesche, surreali e sensazionalistiche.A monte, però, le domande restano sempre inevase: e questo spiega il fiorire delle narrazioni recenti, anche le più improbabili. Cosa sta succedendo, davvero? Nessuno può garantire di saperlo con precisione. Molti si rendono conto, onestamente, di esserne all’oscuro. Per questo smettono di seguire i telegiornali – tempestivi nel dar conto degli eventi, ma senza mai spiegarli. Se oggi riapparisse in televisione Thomas Sankara, quale anchorman sarebbe in grado di intervistarlo? Vespa e Floris, Formigli e Gruber: da che parte comincerebbero, dovendo fare domande all’avatar di Olof Palme? La nostra attuale comunicazione – smart, ultra-semplificata, a risposta immediata – non prevede più il modulo dell’analisi: ce ne manca il tempo. Nel mainstream risulterebbe semplicemente favolistico il racconto sul Memorandum di Lewis Powell, a cui l’élite occidentale chiese – nel remoto 1971 – un vademecum per “riprendersi tutto”, sbaraccando la democrazia dei diritti sociali. Facile: dall’altra parte del mondo c’era ancora il gigantesco freezer dell’Unione Sovietica, e di lì a poco i neoliberisti avrebbero potuto agevolmente indossare la maschera reaganiana dei liberatori, dei vincitori definitivi, ritagliandosi persino il ruolo di tronfi celebranti della “fine dalla storia”.Da dove ricomincia, la storia? Dall’alfabetizzazione politica di massa, probabilmente. In parte sta avvenendo, nella macro-nicchia del web (che infatti l’Unione Europea si è affrettata ad arginare, con la legge-bavaglio sul copyright a cui nessun governo si è finora opposto). La buona notizia, forse, è che l’invisibile Deep State in fondo ha paura dei sudditi, visto che si affanna a mantenerli nella quiete apparente della false certezze, nonostante i colpi mortali di una crisi che sta letteralmente cancellando la classe media in Europa, al punto da riempire le strade francesi di gilet gialli. Economia, moneta, guerre, energia, clima, crisi regionali. Scampoli di verità? Su qualche libro, nei risvolti del web, in mezzo alle smancerie dei social. Per gli ottimisti, l’umanità si starebbe risvegliando da una sorta di letargo. Non che manchino segnali di consapevolezza, ma sono sovrastati dal fragore del mainstream. Oggi finalmente si ascoltano relazioni acutissime da economisti onesti, che però non saranno mai ospitati in prima serata, con piena facoltà di parola. Si saranno divertiti, gli arconti impalpabili, nel vedere che l’Italia della gloriosa rivoluzione gialloverde non si è nemmeno ribellata al diktat medievale di Bruxelles sul piccolo deficit invocato per il 2019. Il potere imperiale, neo-feudale, ha incassato una vittoria piena. E si è persino goduto le passeggiate di Macron e Juncker sui teleschermi della Rai, tra gli inchini dello sconcertante anti-italiano Fabio Fazio.Ha davvero paura della maggioranza, il famoso 1% contro cui naufragò la pletorica protesta di Occupy Wall Street? Di certo, scrive Franco Fracassi nel saggio “G8 Gate”, aveva una paura matta dei NoGlobal, il cui sanguinoso funerale fu organizzato a Genova nel 2001, due mesi prima della mattanza di Manhattan (3.000 morti nelle Torri Gemelle e altri 12.000 americani uccisi dal cancro, poco dopo, a causa dell’immensa nube d’amianto). A dire che le maggiori multinazionali planetarie temessero così tanto i NoGlobal è Wayne Madsen, all’epoca dirigente dell’intelligence Usa: racconta di 1500 agenti della Nsa, più 700 dell’Fbi, al lavoro per essere certi che nel capoluogo ligure tutto andasse secondo i piani, cioè malissimo. Deep State, appunto. All’occorrenza, la legge del terrore: Al-Qaeda e poi l’Isis, dalla Siria all’Europa. Di fronte a questo cos’hanno da dire, i novelli sovranisti? Come se la caverebbero, Salvini e Di Maio, al cospetto di personaggi come Rosselli, Palme e Sankara? Cosa inventerebbero, il leader della Lega e quello dei 5 Stelle, per tentare di spiegare come riesumare il socialismo liberale nell’Europa di oggi? Che figura farebbe, Di Maio, nel presentare il suo reddito di cittadinanza al gigante Olof Palme, inventore del miglior welfare europeo? E cosa racconterebbe, il mini-sceriffo Salvini, al sorriso luminoso dello stratega che sapeva di giocarsi la pelle nell’eroico tentativo di metter fine alla razzia bianca a spese del continente nero, da cui l’esodo tanto spettacolarizzato dalle opposte tifoserie odierne?Davvero è inquieto, il mitico 1%, nel dubbio che i popoli si sveglino? Ammesso che sia vero, sembra che gli ultimi a saperlo siano proprio gli abitanti dell’umanità sottostante, il 99%. Al massimo, votiamo per l’ultima protesta offerta dal supermarket della politica, una specie di discount ingombro di sottomarche low cost. Per ora ha stravinto l’impeccabile Lewis Powell: il suo Memorandum è stato applicato alla lettera. I pochi dominano sui molti, che infatti non sanno nemmeno chi fosse, quell’avvocato di Wall Street. Il pericolo, semmai, siamo abituati a riconoscerlo nel sorriso sornione di personaggi come l’anziano Kissinger, l’architetto del golpe cileno, l’uomo che minacciò di morte Aldo Moro. Che sospiro di sollievo, quando il fenomenale Obama prese il posto di Bush. Ennesima illusione, durata lo spazio di un mattino: quasi solo teatro, ancora e sempre Deep State. Da dove ricominciare? Da ciascuno di noi, verrebbe da dire, nel dubbio che l’ipotetico “mostro” tema, sul serio, il risveglio dei dormienti. Primo passo, scovare idee che possano camminare. E poi raccontarle, in modo semplice: il Memorandum Powell, che ha cambiato la faccia della Terra, era lungo appena 11 paginette. Parlava chiaro anche Rosselli, così come Palme e Sankara: nessuno deve restare indietro, mai. L’italiano, lo svedese, il burkinabè: veri e propri monumenti, postumi, all’umanità che non si volle far nascere. Li si potrà riascoltare a Milano il 3 maggio, a patto però di non dimenticarli più. Morirono, tutti e tre, perché il 99% non era al loro fianco. E non è un testamento, quello che ci hanno lasciato: è un programma politico, e sembra scritto oggi.(Giorgio Cattaneo, “Una rivoluzione della verità: nel nome di Carlo Rosselli, Olof Palme e Thomas Sankara”, dal blog del Movimento Roosevelt del 29 aprile 2019. Il convegno “Nel segno di Olof Palme, Carlo Rosselli e Thomas Sankara, contro la crisi globale della democrazia”, in programma il 3 maggio 2019 a Milano, Palazzo Moriggia, via Borgonuovo 23, dalle ore 10 alle 17.30, sarà trasmesso in diretta da Radio Radicale).Puoi avere tutte le ragioni del mondo; ma a che serve, se nessuno ti ascolta? Quanti sapevano chi fosse, Carlo Rosselli, quando fu assassinato? Mezzo secolo dopo, al grande pubblico italiano del 1986, diceva qualcosa di particolare il nome del leader svedese Olof Palme? Ma certo: un elegante signore del Nord Europa, barbaramente ucciso da qualche folle terrorista, più o meno come quelli che avevano appena finito di mettere a ferro e fuoco l’Italia. E alzi la mano chi ricorda come la nostra stampa nazionale diede la notizia dell’omicidio dell’allora più che oscuro Thomas Sankara. Era il giovane leader di un paese africano che, per moltissimi europei, poteva ancora chiamarsi Alto Volta: all’epoca, Nelson Mandela stava ancora a spaccare pietre a Robben Island, e l’espressione “Burkina Faso” non era ancora entrata nell’ordinario lessico geografico dell’uomo bianco. Ci vollero anni – Internet, YouTube – per trasformare Sankara in una specie di star della politica: è l’ex ragazzo in camicia verde che, al vertice panafricano di Addis Abeba, svela la schiavitù del debito e propone all’Occidente di smettere di “aiutare” l’Africa.
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Finti nemici, già finti amici: la recita di Salvini e Di Maio
«Io e Matteo Salvini abbiamo fatto grandi cose insieme» (Luigi Di Maio). Leghisti e grillini, il governo Grilloverde ha due facce. Entrambe come il culo. Infatti i Gemelli Diversi che adesso fingono di litigare, per gli stessi squallidi motivi opportunistici per i quali prima fingevano d’andare d’accordo, sono entrambi prodotti della stessa linea commerciale. Secondo la propaganda, Salvini è un leader naturale, sorto dal popolo per mano del popolo. È una stronzata. Salvini è al 100% un prodotto della propaganda. Fin da quando ha ereditato la Lega dal clan Bossi, è stato sistematicamente ospitato tutte le sere da tutti i talk show esistenti, e lasciato padrone di sparare qualsiasi cazzata per ore senza contraddittorio, fra gli applausi scroscianti della claque. Intanto, politologi ed editorialisti già elogiavano in coro il suo “acume politico” e il suo “irresistibile carisma”, definendolo l’unica alternativa possibile a Renzi. Salvini è stato costruito come “fail safe” di Renzi. È un Renzi riuscito. Finora. È la faccia (semi)nuova del solito vecchio sistema di potere politico-affaristico.Mentre lui secerne le sue stronzate quotidiane sui social, malcelati dietro il suo faccione ghignante tutti gli affari continuano esattamente come prima. Il Movimento 5 Stelle finora ha fatto finta di niente solo per restare al governo. Se adesso Pupazzetto Di Maio, prodotto dalla Casaleggio come Ken dalla Mattel, improvvisamente sembra essersene accorto, è nel tentativo di recuperare qualche punto nei sondaggi. Mentre l’Ilva, che il M5S aveva promesso di riconvertire, continua a intossicare e uccidere peggio di prima. Ignorata finora dai media mainstream e dall’opposizione, perché quello firmato da Di Maio per l’llva è il piano Calenda. Del Pd, che sta recuperando qualche punto nei sondaggi.Il consenso si controlla coi media. I media si controllano col denaro. In un regime capitalista, la democrazia non può funzionare. Può soltanto sfornare prodotti, pupazzi acchiappavoti, diversi solo nella maschera, nel rivestimento, nell’etichetta, identici nella sostanza. Senza principi, senza ideali, senza neanche idee proprie che non siano decise da un algoritmo Facebookinaro, o da un generatore automatico di motti del Duce. “Noi molleremo dritto”. “Molti nemici, molti boia”. Contractor di governo, complici e/o nemici a seconda delle convenienze del momento. Droni, smontabili e rimontabili fra loro come pezzi d’un ingranaggio. Un ingranaggio che uccide. Prodotti d’un sistema di potere e di pensiero che tutto considera, e tutto punta a trasformare in un prodotto di consumo. Per consumarlo.(Alessandra Daniele, “Caino e Caino”, da “Carmilla” del 28 aprile 2019).«Io e Matteo Salvini abbiamo fatto grandi cose insieme» (Luigi Di Maio). Leghisti e grillini, il governo Grilloverde ha due facce. Entrambe come il culo. Infatti i Gemelli Diversi che adesso fingono di litigare, per gli stessi squallidi motivi opportunistici per i quali prima fingevano d’andare d’accordo, sono entrambi prodotti della stessa linea commerciale. Secondo la propaganda, Salvini è un leader naturale, sorto dal popolo per mano del popolo. È una stronzata. Salvini è al 100% un prodotto della propaganda. Fin da quando ha ereditato la Lega dal clan Bossi, è stato sistematicamente ospitato tutte le sere da tutti i talk show esistenti, e lasciato padrone di sparare qualsiasi cazzata per ore senza contraddittorio, fra gli applausi scroscianti della claque. Intanto, politologi ed editorialisti già elogiavano in coro il suo “acume politico” e il suo “irresistibile carisma”, definendolo l’unica alternativa possibile a Renzi. Salvini è stato costruito come “fail safe” di Renzi. È un Renzi riuscito. Finora. È la faccia (semi)nuova del solito vecchio sistema di potere politico-affaristico.
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A Milano tutta la verità sulla scomparsa di Federico Caffè
Nella notte fra il 14 e il 15 aprile del 1987 lasciò la sua casa di Roma, dove viveva con il fratello. Non fu mai ritrovato: la scomparsa di Federico Caffè rimane tuttora un mistero irrisolto. Non per tutti, però: «La sua sparizione è strettamente connessa con due omicidi eccellenti, quello di Olof Palme e quello di Thomas Sankara». Lo afferma Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” che illumina insospettabili retroscena sulla massoneria di potere che ha imposto l’attuale globalizzazione. Clamorose rivelazioni in vista, a quanto pare, nell’ambito del convegno promosso a Milano il 3 maggio dal Movimento Roosevelt. Del professor Caffè – vero e proprio cervello dell’economia keynesiana nel dopoguerra – parlerà anche un suo illustre allievo, l’economista Nino Galloni, svelando ulteriori dettagli inediti sul giallo della sua scomparsa. Tema dell’assise: presentare pubblicamente il Movimento Roosevelt come laboratorio politico nato per uscire dal tunnel del neoliberismo e riconquistare la perduta sovranità democratica. La ricetta? Il socialismo liberale di Carlo Rosselli, marginalizzato già durante il fascismo dagli stessi socialisti. Due eredi di questa dottrina – lo svedese Palme e l’africano Sankara – furono assassinati nel giro di pochi mesi, a cavallo della sparizione di Caffè.Cosa c’era in ballo? Il nuovo assetto del mondo: l’imminente crollo dell’Urss e l’avvento della “dittatura” tecnocratica di Bruxelles, fondata sull’austerity. Fino al dilagare del neoliberismo globalizzato, dominato dalla finanza predatoria. Nel saggio “Il più grande crimine”, Paolo Barnard indica una data precisa per l’inizio della grande restaurazione, da parte dell’élite antidemocratica: il 1971, anno in cui a Wall Street l’avvocato d’affari Lewis Powell fu incaricato dalla Camera di Commercio Usa di redigere il famigerato Memorandum per la riconquista del potere da parte dell’oligarchia, costretta sulla difensiva per decenni in tutto l’Occidente grazie alla storica avanzata del progressismo liberale, socialista e sindacale. Era il segnale della “fine della ricreazione”: da allora, sempre meno diritti – per tutti. Ci vollero anni, naturalmente, per passare ai fatti. E’ del 1975 il manifesto “La crisi della democrazia”, commissionato dalla Trilaterale a Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki. La tesi: troppa democrazia fa male. Parola d’ordine: togliere agli Stati il potere di spesa, necessario per alimentare il welfare e quindi il benessere diffuso.Cinque anni dopo esplosero Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margaret Thatcher nel Regno Unito. Cattivi maestri: l’austriaco Friedrich von Hayek e l’americano Milton Friedman, economista della Scuola di Chicago. Stesso dogma: tagliare il debito pubblico, rinunciare al deficit. Pareggio di bilancio: meno soldi al popolo, all’economia reale. Un incubo, culminato con i recentissimi orrori del rigore europeo, capace di martirizzare la Grecia lasciando gli ospedali senza medicine per i bambini. Come si è potuti arrivare a tanto? In molti modi, e attraverso infiniti passaggi. Il primo dei quali è tristemente noto: la demolizione di John Maynard Keynes, il più eminente economista del ‘900. Se il lascito di Marx aveva forgiato la coscienza sociale degli operai, sfruttati dal capitalismo selvaggio, l’inglese Keynes escogitò un sistema perfetto per rimettere in equilibrio capitale e lavoro, attraverso la leva finanziaria strategica dello Stato. Ereditando un’America messa in ginocchio dalla Grande Depressione del 1929, Roosevelt con il New Deal fece esattamente il contrario di quanto gli aveva consigliato la destra economica: anziché tagliare la spesa per “risanare” i conti pubblici, mise mano a un deficit illimitato per creare lavoro.L’altra mossa, decisiva, fu il Glass-Steagall Act: netta separazione tra banche d’affari e credito ordinario, per evitare che i risparmi di famiglie e imprese finissero ancora una volta nella roulette della Borsa. Un atto eroico, la guerra contro la finanza speculativa, rinnegato – a distanza di mezzo secolo – dal “progressista” Bill Clinton, subito dopo il famoso sexgate che l’aveva travolto, l’affare Monica Lewinsky. Nel frattempo, in Europa, era stato Tony Blair a rottamare il socialismo liberaldemocratico dei laburisti, inaugurando – con Clinton – la sciagurata “terza via” che avrebbe condotto l’ex sinistra a smarrire se stessa. Desolante il caso italiano: passando per Romano Prodi, lo smantellatore dell’Iri, si va dal Massimo D’Alema che nel 1999 si vantava di aver trasformato Palazzo Chigi in una merchant bank, realizzando il record europeo delle privatizzazioni, per arrivare all’infimo Bersani, capace nel 2011 si sottomettere il Pd al governo Monti, sottoscrivendo i tagli senza anestesia, il Fiscal Compact, la legge Fornero sulle pensioni e il pareggio di bilancio in Costituzione.Una pesca miracolosa, quella condotta dall’élite tra le fila dell’ex sinistra: a partire dallo storico divorzio fra Tesoro e Bankitalia con la regia di Ciampi, la vera “notte della Repubblica” (attacco ai diritti del lavoro, flessibilità e precarizzazione) è stata condotta con la complicità di personaggi come Visco, Bassanini, Padoa Schioppa, Amato, lo stesso Ciampi e altri baroni della nuova tecnocrazia “incoronata” da Mani Pulite, al servizio delle potenze straniere intenzionate a saccheggiare il Belpaese grazie alla “cura” finto-europeista. Lo spiegò lo stesso Galloni in una memorabile intervista a “ByoBlu”: la deindustrializzazione dell’Italia fu pretesa della Germania come compensazione, in cambio della rinuncia al marco. Era stata la Francia di Mitterrand a imporre l’euro ai tedeschi, pena il veto francese alla riunificazione delle due Germanie. Cominciava una festa, per molta parte d’Europa, caduta la Cortina di Ferro grazie a Gorbaciov. Per l’Italia, invece, il sogno si sarebbe trasformato in un incubo. Supremo regista della grande illusione, Mario Draghi: a bordo del Britannia di mise a disposizione dei poteri che progettavano la svendita del paese, venendo poi premiato prima come governatore di Bankitalia e poi come presidente della Bce.Oggi, grazie a tutto questo, è diventato “normale” che un governo italiano non riesca a ottenere un deficit del 2,4% (irrisorio), ed è “fisiologico” che il fantasma dell’ex sinistra – il Pd – trovi giusto che siano i commissari Ue, non eletti da nessuno, a poter calpestare un esecutivo regolarmente eletto. Peggio: è stato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a spiegare – bocciando la nomina di Paolo Savona come ministro dell’economia – che sono i mercati, e non gli elettori, ad avere l’ultima parola. Contro questa palude si muove il laboratorio politico rappresentato dal Movimento Roosevelt. Obiettivo: ribaltare il tavolo delle convenzioni dogmatiche degli ultimi trent’anni, risvegliando la politica dormiente fino a portarla a riscrivere le regole. La prima: Europa o meno, il popolo deve tornare sovrano. Tradotto: le elezioni devono poter decidere chi governerà davvero, e come. E a dire di no a un governo eletto potrà essere solo, domani, un governo federale europeo a sua volta emanato democraticamente dall’Europarlamento, sulla base di una Costituzione democratica che oggi l’Ue non sa neppure cosa sia. Chi l’ha detto che il deficit non può superare il 3% del Pil? Il Trattato di Maastricht va gettato nella spazzatura, ecco il punto. Bel problema: da dove cominciare?La prima cosa da fare è dire finalmente la verità: lo sostiene Magaldi, che il Movimento Roosevelt l’ha creato. Rivelazioni e denunce continue, da parte sua. Mattarella? Un paramassone che obbedisce al massone Visco di Bankitalia, a sua volta un burattino del massone Draghi. Di Maio che omaggia la Merkel, dopo aver ceduto sul deficit gialloverde? Brutto segno: tenta di accreditarsi presso le superlogge come la Golden Eurasia, quella della Cancelliera, sperando così di sopravvivere al prevedibile declino dei 5 Stelle. Grande occasione perduta, il governo del non-cambiamento, di fatto prono ai diktat della Disunione Europea che sta mandando in malora l’economia del continente. Fenomeno vistoso: si sta impoverendo la classe media alla velocità della luce, come dimostrano i Gilet Gialli in Francia, dove qualcuno – dice sempre Magaldi – ha pensato bene di dare alle fiamme persino un simbolo nazionale come Notre-Dame. Sono sempre loro, i registi occulti della strategia della tensione europea: hanno seminato il terrore nelle piazze per spianare la strada all’austerity dei governi.Rosselli, Palme e Sankara: ecco, da dove ripartire. Socialismo liberale: il grande premier svedese voleva “tagliare le unghie al capitalismo”. Stava per essere eletto segretario generale dell’Onu: poltrona da cui avrebbe vegliato anche sull’Europa, impedendo che si arrivasse a questo aborto di Unione Europea. Certo, c’è dell’altro: qualcuno nel frattempo avrebbe fatto entrare la Cina nel Wto senza pretendere nessuna garanzia, da Pechino, sui diritti dei lavoratori. Risultato: concorrenza sleale sui prezzi delle merci e grande crisi della manifattura occidentale. E qualcun altro, l’11 settembre del 2001, avrebbe fatto saltare in aria le Torri Gemelle a New York. Obiettivo: poter invadere l’Iraq e l’Afghanistan, fabbricando il fantasma del terrorismo jihadista (Al-Qaeda, Isis) con cui ricattare il mondo. Bagni di sangue (Libia, Siria) o rivoluzioni colorate (Georgia, Ucraina), o magari primavere arabe (Tunisia, Egitto): il risultato non cambia, si punta sempre sul caos. Così l’Italia si scanna sui migranti e il Pd attacca Salvini anziché Macron. E nessuno guarda al di là del mare.Lo fa Ilaria Bifarini, anche lei attesa al convegno di Milano con il suo saggio “I coloni dell’austerity”, ovvero “Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. Negli anni ‘80, quando Olof Palme faceva della Svezia il paradiso europeo del welfare, l’africano Thomas Sankara trasformava l’Alto Volta coloniale nel coraggiosissimo Burkina Faso, il “paese degli uomini liberi”, con una promessa: nessuno, qui, morirà più di fame. Lo disse ad alta voce, nel 1987, davanti ai leader africani: chiediamo all’Occidente di cancellare il debito dell’Africa. Tre mesi dopo fu ucciso, su mandato francese. In Africa, il giovane Sankara godeva di un prestigio immenso, pari a quello di Palme in Europa. Con loro ancora al potere, non avremmo visto né questa Ue né i barconi dei migranti. Il premier svedese era stato freddato un anno prima, da un killer rimasto sconosciuto. Non così i mandanti: “La palma svedese sta per cadere”, telegrafò alla vigilia dell’omicidio Licio Gelli, il capo della P2, avvertendo il parlamentare statunitense Philip Guarino. Lo scrive, nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, lo stesso Gianfranco Carpeoro, altro esponente “rooseveltiano” impegnato nell’assise milanese, da cui ora si attendono precise rivelazioni sulle connessioni tra i delitti Palme e Sankara e la scomparsa di Caffè. Erano uomini da eliminare: troppo ingombranti, per chi voleva instaurare – in Europa e nel mondo – il regno del caos e dei profitti stellari, al prezzo dell’impoverimento generale.Tutto questo, purtroppo, è molto massonico. Lo sostiene Gioele Magaldi, che nel suo saggio spiega che nel 1980 tutte le superlogge – anche quelle progressiste – aderirono al patto “United Freemasons for Globalization”. Una tregua armata, dopo che negli anni Sessanta erano stati uccisi Bob Kennedy e Martin Luther King: un ticket fantastico, che le Ur-Lodges democratiche avrebbero voluto alla Casa Bianca, come presidente e vice. E’ come se la stessa mano provvedesse a uccidere gli avversari che non si possono corrompere né intimidire. Per inciso, aggiunge Magaldi, erano massoni anche Palme e Sankara, così come Gandhi, Mandela e lo stesso Yitzhak Rabin, assassinato da manovalanza estremista. Quanto al convegno di Milano, chiosa Magaldi, non si tratta di limitarsi a celebrare la memoria di giganti come Rosselli e Palme, Sankara e Caffè: l’intenzione è quella di creare una nuova agenda politica, in base alla quale nessuno possa più fingere di essere progressista mentre soggiace alla post-democrazia Ue. Una sfida a viso aperto: c’è da fare una rivoluzione culturale. Il pareggio di bilancio? E’ un crimine politico contro il popolo. Sarebbe ben lieto di spiegarlo autorevolmente lo stesso Caffè, se fosse ancora qui, in questa Italia le cui televisioni spacciano per verità le frottole quotidiane di personaggi come Elsa Fornero e Carlo Cottarelli, mestieranti nostrani del peggior neoliberismo.(Il convegno “Nel segno di Olof Palme, Carlo Rosselli, Thomas Sankara e contro la crisi globale della democrazia” è promosso dal Movimento Roosevelt venerdì 3 maggio 2019 a Milano, col patrocinio del Comune, presso la sala conferenze del Museo del Risorgimento a Palazzo Moriggia, via Borgonuovo 23 (zona Brera), dalle ore 10 alle 17.30. Interverranno Angelo Turco, Gioele Magaldi e l’ambasciatore italiano in Svezia Marco Cospito, insieme a Felice Besostri, Nino Galloni, Paolo Becchi, Gianfranco Carpeoro, Otto Bitjoka, Marco Moiso, Sergio Magaldi, Egidio Rangone, Danilo Broggi, Pierluigi Winkler, Giovanni Smaldone, Michele Petrocelli, Aldo Storti, Marco Perduca e Lorenzo Pernetti. Nel corso dell’evento, introdotto da brevi rappresentazioni teatrali su Sankara e Rosselli offerte da Ricky Dujany e Diego Coscia, verrà presentato il bestseller di Ilaria Bifarini “I coloni dell’austerity”, mentre Carlo Toto e Paolo Mosca anticiperanno il trailer del docu-film “M: il Back-Office del Potere”. Tra i dirigenti del Movimento Roosevelt interverranno anche Daniele Cavaleiro, Roberto Alice, Fiorella Rustici, Zvetan Lilov, Alberto Allas, Roberto Luongo, Roberto Hechich, Massimo Della Siega e Roberto Peron. Per informazioni: segreteria generale e presidenza del MR. Coordinamento ufficio stampa e relazioni esterne: Monica Soldano, 348.2879901).Nella notte fra il 14 e il 15 aprile del 1987 lasciò la sua casa di Roma, dove viveva con il fratello. Non fu mai ritrovato: la scomparsa di Federico Caffè rimane tuttora un mistero irrisolto. Non per tutti, però: «La sua sparizione è strettamente connessa con due omicidi eccellenti, quello di Olof Palme e quello di Thomas Sankara». Lo afferma Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” che illumina insospettabili retroscena sulla massoneria di potere che ha imposto l’attuale globalizzazione. Clamorose rivelazioni in vista, a quanto pare, nell’ambito del convegno promosso a Milano il 3 maggio dal Movimento Roosevelt. Del professor Caffè – vero e proprio cervello dell’economia keynesiana nel dopoguerra – parlerà anche un suo illustre allievo, l’economista Nino Galloni, svelando ulteriori dettagli inediti sul giallo della sua scomparsa. Tema dell’assise: presentare pubblicamente il Movimento Roosevelt come laboratorio politico nato per uscire dal tunnel del neoliberismo e riconquistare la perduta sovranità democratica. La ricetta? Il socialismo liberale di Carlo Rosselli, marginalizzato già durante il fascismo dagli stessi socialisti. Due eredi di questa dottrina – lo svedese Palme e l’africano Sankara – furono assassinati nel giro di pochi mesi, a cavallo della sparizione di Caffè.
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La droga gestita della Cia, uno strumento di politica globale
Sulla scia della Seconda Guerra mondiale, le élite politiche statunitensi e britanniche si ritrovarono ad affrontare la minaccia del socialismo su scala globale. Nonostante le incombenti perplessità circa il futuro, decisero di reagire mobilitando risorse – pubbliche e nascoste – al fine di implementare un programma di “Roll Back” atto a invertire l’avanzata comunista mondiale. Un vero e proprio blocco sulla strada della mobilitazione anti-comunista era rappresentato dal fatto che la maggior parte della popolazione statunitense era diffidente verso un progetto di politica estera di così ampia portata. Per lo statunitense medio il mondo era rappresentato unicamente dall’America del Nord e l’interesse per la politica estera era minimo. A causa di questo radicato isolazionismo, negli Stati Uniti, agli esordi della Guerra Fredda, spese governative ingenti nella politica estera erano fuori questione. Inoltre la Cia, principale fonte economica nel reame della politica estera americana, rappresentava, per la maggioranza degli americani nell’epoca post-bellica, un’agenzia come un’altra, mentre in realtà questa stava diventando un protagonista chiave. Pur perseguendo l’impegno di portare a termine massicce operazioni mondiali, la Cia chiese alla Casa Bianca una licenza per inserirsi in fonti di finanziamento alternativi.La droga figurava come il business più remunerativo tra quelli più noti. La natura criminale del business dettava quindi le regole del gioco. Mentre alcuni dei guadagni erano effettivamente utilizzati a supporto di operazioni sotto copertura, altri erano deviati verso l’arricchimento personale di agenti e dirigenti dell’agenzia, oppure rimanevano nelle mani di gruppi finanziari con potere di lobby nell’amministrazione statunitense. Di conseguenza, la complicità nel business della droga iniziò a diffondersi verso il livello più alto dell’establishment nordamericano… Il primo caso rappresentante le connessioni tra la Cia e il business della droga risalgono al 1947, anno in cui Washington, preoccupata dell’ascesa del movimento comunista nella Francia post-bellica, si associò con la nota e spietata mafia corsa nella lotta contro la sinistra. Dal momento che il denaro non poteva essere riversato nella sgradevole alleanza attraverso canali ufficiali, una grossa fabbrica di eroina venne istituita a Marsiglia con l’assistenza della Cia, che alimentava l’affare. L’iniziativa imprenditoriale impiegava abitanti del posto, mentre la Cia organizzava il ciclo degli approvvigionamenti, ed il terrore fisico e psicologico contro i comunisti in Francia alfine impedì loro di raggiungere il potere.Successivamente lo schema adottato è stato replicato nel mondo. All’inizio degli anni ’50 la Cia dirigeva un network di fabbriche di eroina nel Sud Est Asiatico e con parte dei guadagni sosteneva Chiang Kai-shek, che combatteva contro la Cina comunista. La Cia iniziò quindi a patrocinare il regime militare in Laos, rafforzando i propri legami nella regione del Triangolo d’Oro comprendente Laos, Thailandia e Birmania, paesi che hanno contribuito per il 70% della fornitura globale di oppio. La maggior parte della merce era diretta a Marsiglia e in Sicilia per il trattamento effettuato dalle fabbriche gestite dalla mafia corsa e siciliana. In Sicilia, l’associazione criminale che gestiva diverse fabbriche di droga era stata fondata da Lucky Luciano, un gangster americano nato in Italia e rideportatovi dopo la Seconda Guerra Mondiale. Le informazioni non classificate non lasciano alcun dubbio circa il lavoro che Luciano svolgeva per l’intelligence americana. L’uomo è stato, senza grosse motivazioni, rilasciato dalla prigione americana nel 1946 prima di aver scontato la sua condanna; l’associazione criminale italiana che operava sotto il controllo statunitense condivideva i guadagni con i patroni americani, i quali utilizzavano il denaro per portare avanti una guerra segreta contro il partito comunista italiano.La Cia continuò a prelevare denaro dal Triangolo d’Oro durante la Guerra del Vietnam. La droga proveniente da questa regione veniva trafficata illegalmente negli Stati Uniti e distribuita a basi militari americane all’estero. Ne deriva che molti dei veterani della Guerra del Vietnam sono rimasti segnati non solo dalla guerra, ma anche dall’uso di narcotici. Le attività legate al traffico della droga portate avanti dalla Cia dovevano rimanere segrete, ma evitare di venire a conoscenza di azioni così gravi era difficile. Uno scandalo enorme scoppiò infatti negli anni ’80 coinvolgendo la banca Nugan Hand di Sydney, con filiali registrate alle isole Cayman, e il precedente direttore della Cia William Colby avente funzione di consigliere legale. La Cia ha utilizzato la suddetta banca per operazioni di riciclaggio di denaro sporco nella gestione dei proventi derivanti dal traffico di droga e armi in Indocina. La geografia dei traffici di droga appoggiati dalla Cia si ampliò costantemente. Negli anni ’80, lo scambio “armi per droga” è stato replicato per finanziare i Contras del Nicaragua; ma dopo essere stato scoperto, il Comitato delle relazioni estere del Senato americano ha dovuto aprire un’inchiesta. Una frase del rapporto del Senato sul famoso accadimento affermava: «I decisori statunitensi non erano immuni all’idea che i soldi della droga fossero una soluzione ideale al problema del finanziamento del Contras».Questa dichiarazione, in linea generale, potrebbe dimostrare che le attività della Cia erano strettamente collegate alla politica estera americana. Il business della Cia nel narcotraffico si è diffuso senza precedenti quando gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica entrarono indirettamente in conflitto in Afghanistan. La comunità dell’intelligence americana finanziò generosamente i Mujahiddin, in parte con i soldi derivanti dal narcotraffico. Gli aerei statunitensi che consegnavano armi alla nazione rientravano carichi di eroina. Secondo giudizi indipendenti, all’epoca, circa il 50% del consumo di eroina negli Stati Uniti proveniva dall’Afghanistan. “La mafia, la Cia e George Bush” di Pete Brewton (New York: S.P.I. Books, 1992) offre una serie di dati concreti che provano i legami esistenti tra il direttore della Cia e il presidente americano Bush e la mafia. Lo stesso presidente, in certe fasi della sua carriera, combinò la propria funzione pubblica con la politica e il business della droga. L’establishment americano ha concluso che la droga, oltre ad essere stata impiegata per circostanze politiche, potrebbe tornare utile nel raggiungimento di obiettivi geopolitici di lungo termine.Quando Paul Brenner divenne capo di Baghdad con un’autorità che nemmeno Saddam Hussein si sognava, non fece alcun tentativo per innalzare una barriera contro l’ondata del narcotraffico che travolse l’Iraq. Inoltre è importate notare che il business della droga, durante il governo di Saddam, era un problema inesistente nel paese. «Questa è la panacea di ogni rivolta. Drogateli, rendeteli dipendenti come pesci affamati. In seguito, dopo aver preso il controllo della loro radio e televisione, storditeli con la propaganda». Baghdad, la città che non aveva mai visto l’eroina fino a marzo del 2003, ora è sommersa di stupefacenti, inclusa l’eroina. Secondo un rapporto pubblicato dal giornale “The Indipendent” di Londra, i cittadini di Baghdad si lamentavano che la droga, come l’eroina e la cocaina, erano smerciate per le strade delle metropoli irachene. «Alcune relazioni suggeriscono che il traffico di droga e armi era sostenuto dalla Cia, al fine di finanziare le sue operazioni segrete internazionali», scrive Brenda Stardom. Nel suo rapporto, un abitante di Baghdad spiegava: «Saresti stato impiccato, per il traffico di droga. Ma ora si può ottenere eroina, cocaina, qualsiasi cosa». I civili tossicodipendenti non hanno nessuna volontà di resistere, mentre la trionfante Washington, che ottenne le risorse del paese, è incurante del fatto che questa gente è condannata all’estinzione.L’operazione anti-terroristica lanciata immediatamente dopo il dramma dell’11 Settembre è giunta a conclusione in Afghanistan 11 anni dopo. Washington tratta la questione come un successo, ma evitare l’opinione pubblica genera gravi effetti collaterali. L’Afghanistan è stato abbandonato in uno stato di distruzione, con interi villaggi annientati, migliaia di persone decedute, prigionieri, campi di concentramento e rifugiati in tutto il paese. Sconfiggere il business della droga era l’obiettivo più pubblicizzato dell’intera “guerra al terrore” americana, ma il risultato e gli obiettivi della campagna erano completamente diversi. Nelle mani della coalizione occidentale, l’Afghanistan si è trasformato nel principale produttore mondiale di droga. Gli Usa e il business della droga si sono intrecciati sin dalla fine del secondo conflitto mondiale. Per Washington, la droga è stata a lungo un elemento strutturale della politica estera, oltre all’enorme mercato nero mondiale che alimenta l’economia “legittima” dell’Occidente… Un dollaro destinato al commercio della droga rende fino a 12.000 dollari, nella migliore delle ipotesi. Il costo dell’eroina afghana aumenta nettamente man mano che ci si sposta a nord del paese – in Pakistan ammonta a circa 650 dollari al chilo, 1.200 in Kyrgyzstan, raggiungendo i 70 dollari al grammo nella città di Mosca. Un chilo di eroina equivale a 200.000 dosi, e una dipendenza disperata inizia dopo 3 o 4 dosi.Il capitale “legittimo” sarebbe temporaneamente insostenibile senza il trascinante mercato nero globale. Entrambi i componenti dell’economia mondiale sono incentrati sugli Stati Uniti. Washington è consapevole che la produzione di droga può essere messa in atto solo dopo aver soddisfatto il requisito principale, cioè che gli utili finali non creino un effetto a cascata sul produttore. Diversamente, il mercato nero si sgretolerebbe all’istante. La mafia che gestisce il traffico di droga “in linea” riesce ad ottenere il 90% dei ricavi dall’eroina. Accanto ad altri soggetti coinvolti nel traffico, coloro che lavorano la materia prima ricevono il 2% del guadagno, gli agricoltori di papavero il 6% e i commercianti di oppio il 2%. La produttività del mercato nero utilizza anche aree coltivate a prezzi marginali. Promuovere un conflitto armato nella zona agricola è il modo più semplice per attenuare i costi richiesti dagli agricoltori, considerando che le armi sono la merce con più alto valore equivalente. La formula è che più sanguinoso è il conflitto e più alti sono i ricavi dalle vendite di armi e droga. L’instabilità, associata al controllo del disordine, rappresenta il motore del mercato nero. I due fattori armonizzano la domanda e l’offerta, tuttavia per assottigliare i costi e non avere difficoltà occorre diffondere aspirazioni separatiste. Il comandante della situazione dovrebbe impegnarsi con gruppi etnici, clan o fazioni religiose piuttosto che con enti statali.L’Afghanistan ha distribuito un totale di circa 50 tonnellate di oppio durante la metà degli anni ’80, ma la cifra è balzata a 600 tonnellate entro il 1990, un anno dopo il ritiro dei sovietici. Dopo aver sequestrato il 90% del territorio afgano e preso controllo della coltivazione di papavero locale, i Talebani si sono scrollati di dosso la presa della Cia e del Dipartimento di Stato americano, causando la perdita della quota statunitense dei circa 130 miliardi di dollari di profitto che la mafia poteva ottenere se le forniture venivano incanalate con successo in Asia centrale. Riprendere il controllo della produzione di eroina dal potere dei Talebani era l’obiettivo fondamentale dietro la campagna statunitense in Afghanistan. Al momento la missione è compiuta, gran parte dell’eroina viene acquistata e trasmessa dalla Cia e dal Pentagono ad altri paesi. Dopo aver costruito le basi militari in Kyrgyzstan, Uzbekistan e Tagikistan e insediato il governo di Hamid Karzai, Washington ha aperto nuove rotte di approvvigionamento, eliminando i concorrenti e facendo sì che la capacità degli stabilimenti di trasformazione dell’oppio in eroina non siano mai privi di lavoro. Al momento, l’Afghanistan rappresenta il 75% del mercato globale di eroina, l’80% del mercato europeo e il 35% del mercato statunitense. Circa il 65% del rifornimento di droga dell’Afghanistan attraversa l’Asia centrale post-sovietica, e anche se questa disposizione sarà leggermente modificata, il traffico persisterà anche dopo il ritiro della coalizione occidentale dall’Afghanistan.L’alleanza criminale tra la Cia e i Talebani è un fatto noto e non svanirà. Attualmente, i gruppi criminali albanesi del Kosovo possiedono un ruolo di primo piano nel commercio internazionale della droga. L’indipendenza del Kosovo dalla Serbia ha permesso agli Stati Uniti di pianificare un nuovo punto di appoggio per il business della droga, con particolare riguardo all’Europa. Oltre un milione di albanesi risiedono in Europa occidentale e la maggior parte di loro sopravvive grazie a diversi affari illegali, soprattutto quello della droga. Senza dubbio, gli Stati Uniti hanno deliberatamente presentato all’Europa un problema che d’ora in poi aumenterà. Secondo l’agenzia anti-narcotici russa, circa 100.000 persone in tutto il mondo – più di quante uccise dall’esplosione nucleare che distrusse Hiroshima – muoiono ogni anno a causa degli stupefacenti provenienti dall’Afghanistan. In questo contesto, in Russia, il bilancio è di circa 30.000 vittime. L’agenzia russa sul controllo della droga afferma che la produttività è raddoppiata negli ultimi dieci anni e ad oggi il 90% delle dosi di droga consumate globalmente – un totale di 7 miliardi – rappresentano eroina. La tossicodipendenza sta invadendo l’odierna Russia e nel mix con l’abuso di alcool sta mettendo in pericolo l’esistenza stessa della nazione.La Russia è molto attiva nell’incoraggiare la lotta internazionale contro la droga – il ministro degli esteri Sergej Lavrov, per esempio, ha ricordato al forum anti-droga 2010 che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite osserva il problema della droga come una minaccia alla pace e alla sicurezza globale. Il suo punto di vista era che il mandato della coalizione in Afghanistan dovrebbe essere aggiornato per includere delle misure ben più robuste, incluso lo sradicamento dei campi di oppio e lo smantellamento delle fabbriche di droga. I passi per contrastare la produzione di stupefacenti in Afghanistan dovrebbero essere altrettanto decisi di quelli scattati in America Latina contro il traffico di cocaina, afferma Lavrov, sottolineando anche che un coordinamento in tempo reale tra la Russia e la Nato, lungo il confine con l’Afghanistan, potrebbe essere di grande aiuto. Mosca ha mandato per anni segnali in merito, ma l’atteggiamento della Nato sembra essere impassibile. Il capo dell’agenzia russa del controllo della droga Viktor Ivanov ha affermato nel 2010 che la Russia ha fornito delle informazioni riservate agli Stati Uniti e all’amministrazione afghana riguardo 175 stabilimenti di droga in Afghanistan, eppure nessuno di questi è stato smantellato. I fondi continuano quindi ad accumularsi sui conti bancari di coloro che gestiscono questi traffici ed è chiaro che questa condizione richiede un fronte anti-narcotico molto più ampio. Mosca perderà solo tempo e vedrà sempre più russi morire se attende una mossa dell’Occidente per sottoscrivere tali iniziative. È giunto il momento di adottare misure drastiche contro coloro che diffondono la morte confezionata in dosi.(“La droga, uno strumento di politica globale”, da “La Crepa nel Muro” del 9 aprile 2019).Sulla scia della Seconda Guerra mondiale, le élite politiche statunitensi e britanniche si ritrovarono ad affrontare la minaccia del socialismo su scala globale. Nonostante le incombenti perplessità circa il futuro, decisero di reagire mobilitando risorse – pubbliche e nascoste – al fine di implementare un programma di “Roll Back” atto a invertire l’avanzata comunista mondiale. Un vero e proprio blocco sulla strada della mobilitazione anti-comunista era rappresentato dal fatto che la maggior parte della popolazione statunitense era diffidente verso un progetto di politica estera di così ampia portata. Per lo statunitense medio il mondo era rappresentato unicamente dall’America del Nord e l’interesse per la politica estera era minimo. A causa di questo radicato isolazionismo, negli Stati Uniti, agli esordi della Guerra Fredda, spese governative ingenti nella politica estera erano fuori questione. Inoltre la Cia, principale fonte economica nel reame della politica estera americana, rappresentava, per la maggioranza degli americani nell’epoca post-bellica, un’agenzia come un’altra, mentre in realtà questa stava diventando un protagonista chiave. Pur perseguendo l’impegno di portare a termine massicce operazioni mondiali, la Cia chiese alla Casa Bianca una licenza per inserirsi in fonti di finanziamento alternativi.
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Magaldi: giù le mani da Armando Siri (e dai suoi giudici)
Giù le mani da Armando Siri, e anche dalla magistratura: la si smetta di strumentalizzare l’operato dei Pm per silurare gli avversari politici. In un paese civile non ci si dimette neppure per un rinvio a giudizio o magari una condanna in primo grado, figurarsi per un avviso di garanzia. «I magistrati devono poter operare liberamente, senza il sospetto che svolgano indagini a orologeria». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, attacca il giustizialismo dei 5 Stelle, che pretendono le dimissioni del sottosegretario leghista ai trasporti solo perché indagato (per presunte agevolazioni verso imprese del settore dell’energia eolica). «Vorrei stigmatizzare l’analfabetismo costituzionale e politico di Luigi Di Maio, che non perde occasione per mostrare la sua inadeguatezza ad essere il capo politico di un soggetto importante come il Movimento 5 Stelle», afferma Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Intonando la cantilena che negli ultimi decenni hanno cantato tanti politici, Di Maio ha detto che Siri, in attesa che la magistratura appuri se è innocente o colpevole, dovrebbe intanto dimettersi “per opportunità politica e morale”. E se Siri è innocente – protesta Magaldi – quale moralità gli dovrebbe imporre di essere eliminato dallo scenario politico solo perché sottoposto a un’inchiesta che magari alla fine si riconoscerà sbagliata?».Cattiva politica, made in Italy, inaugurata da Tangentopoli: quello fu un golpe bianco, in cui finiva sul rogo qualsiasi politico colpito da un semplice avviso di garanzia. La vittima veniva isolata «dai colleghi di partito, pusillanimi, che si illudevano di farla franca», senza capire che quel sistema «sarebbe crollato per la sua stessa fragilità». Mani Pulite ha spazzato via la Prima Repubblica fondata sul patto atlantico: fare da argine rispetto all’Urss. Ma nella Seconda Repubblica – a lungo dominata da Berlusconi – quel male oscuro è rimasto: l’ombra dell’uso politico della giustizia. «Io non voglio nemmeno essere sfiorato dal sospetto che un’indagine, anziché essere mirata ad accertare la verità, persegua invece finalità improprie», dice Magaldi: «Questi dubbi sono perniciosi per lo stesso prestigio della magistratura, che resta uno dei cardini della democrazia». In altre parole: si deve poter indagare tranquillamente Armando Siri, per appurare se è innocente o colpevole, lasciando però che nel frattempo svolga il suo ruolo di sottosegretario. Se così fosse, nessuno a quel punto penserebbe più che ti mandano un avviso di garanzia perché c’è qualcosa di losco nel tuo operato: la magistratura farebbe semplicemente il suo dovere, senza che questo possa turbare l’agenda politica.Con un simile approccio, nessuno avrebbe più il minimo interesse a tentare di usare la carta giudiziaria per far fuori i rivali. E invece «si è creato un clima improprio, corrotto moralmente e politicamente, da quando l’opportunità politica e morale si è opposta allo Stato di diritto». Era la famosa “questione morale”, agitata innanzitutto da Berlinguer: «Come si fa ad anteporre una presunta morale allo Stato di diritto? La moralità pubblica è proprio quella che promana dallo Stato di diritto», sottolinea Magaldi, che denuncia lo «stile inappropriato», usato da Di Maio e anche dal ministro Toninelli, che ha tolto le deleghe a Siri: «Un atto improprio, becero e inopportuno, in un momento così delicato nei rapporti tra 5 Stelle e Lega». Pur critico sull’operato del governo Conte, troppo timido con Bruxelles, il presidente del Movimento Roosevelt apprezza l’impegno di Siri: ha dato più spessore e più maturità all’ex Carroccio, ispirando la scuola politica del partito e lanciando l’idea della Flat Tax. Una misura – il taglio della pressione fiscale – che va nella direzione giusta: «Non sarà risolutiva, ma contribuisce comunque ad aggredire la malattia socio-economica dell’Italia, che è il rigore imposto dal neoliberismo».Coincidenze: si attacca Siri proprio ora che si riparla di Flat Tax. Un modo per colpire Salvini e affondare il governo, in un momento così delicato per il precario “matrimonio” gialloverde? «Dobbiamo liberare i magistrati da qualunque ombra», insiste Magaldi. «E quindi bisogna che il ceto politico la smetta di pensare che si possa sovrapporre una seconda morale alla morale pubblica, già garantita per principio dalla presunzione di innocenza». Per Magaldi, si tratta di «metodologia costituzionale in ambito democratico, in uno Stato di diritto». Come tutelarsi dal sospetto che vi possa essere una giustizia eterodiretta o deviata verso finalità politiche improprie? «Basta mantenere il presupposto – tipico dell’ordinamento democratico e liberale – che ciascuno di noi è innocente fino a prova contraria». Purtroppo, aggiunge Magaldi, da Tangentopoli in poi «abbiamo vissuto un rigurgito di cultura inquisitoriale – di tempi bui, antichi e pre-moderni», in un’Italia «vessata per secoli da una cultura clericale, da una brutta versione del cristianesimo: quella che considera tutti peccatori, in attesa di redenzione».Meglio partire invece dall’idea di dignità umana come riflesso divino, «rilanciata da un grande cristiano come Giovanni Pico della Mirandola». Le democrazie hanno raccolto proprio questa idea: siamo dotati di dignità e di innocenza presunta, e il potere «appartiene agli uomini, non a un dio interpretato da caste sacerdotali o da aristocrazie laiche». Se è così, «si resta innocenti anche di fronte a una condanna non definitiva». Applicare questa regola, sottolinea Magaldi, sarebbe la migliore salvaguardia, sul piano politico, da qualunque sospetto di interferenza impropria della magistratura. Tutti innocenti fino a prova contraria, dunque, incluso Armando Siri: «Qualunque giurista democratico non potrebbe che sottoscrivere questo principio, che invece è stato pervertito dagli anni di Tangentopoli». Aggiunge Magaldi: «Dobbiamo liberarci di questa immoralità istituzionale. La cultura del sospetto appartiene ai regimi liberticidi. In democrazia invece i magistrati fanno il loro dovere, svolgono inchieste in modo libero e senza essere sospettati di lavorare a orologeria, sapendo che il ceto politico non metterà in discussione un soggetto solo perché è sottoposto a indagine».In questa vicenda emergono «ostilità e doppiopesismo», continua Magaldi: «Giustamente Salvini ha fatto notare che anche Virginia Raggi è stata ed è nuovamente indagata, e nessuno – nella Lega – si è sognato di chiedere le sue dimissioni. Semmai la Raggi dovrebbe dimettersi per la sua conclamata incapacità di governare Roma». Per Magaldi ci sono molti motivi per criticare lo scarso coraggio politico del governo, che anziché puntare al cambiamento «tira a campare, con pannicelli caldi per curare una malattia – quella economico-sociale dell’Italia – che ha bisogno di ben altre cure». Quello che non è accettabile, però, è che si strumentalizzi il lavoro della magistratura per colpire Salvini e seminare zizzania tra 5 Stelle e Lega». In questo, svetta il cinismo di Di Maio: «Un ipocrita, che tuona pubblicamente contro la massoneria ma poi fa il giro delle sette chiese per chiedere in segreto di essere accolto nei peggiori circuiti massonici sovranazionali, di segno neo-aristocratico, fingendo anche di non sapere che il governo Conte è affollato di massoni, sia tra i ministri che fra i sottosegretari». E ora si mette a far la morale ad Armando Siri, “colpevole” di aver trasmesso al governo le istanze di alcuni imprenditori?Decisamente sconcertante, l’harakiri gialloverde imposto da Di Maio: anziché serrare i ranghi per fronteggiare l’avversario comune, l’oligarchia di Bruxelles che impedisce all’Italia di crescere, il leader dei 5 Stelle preferisce “speronare” l’alleato leghista in vista delle europee, traguardo temutissimo dai grillini. Anche in questo, Di Maio ha brillato per doppiezza: prima ha omaggiato in modo clamoroso e irrituale i Gilet Gialli facendo infuriare Macron, poi s’è genuflesso davanti ad Angela Merkel, che di Macron è l’interfaccia in salsa prussiana. Una manfrina indecorosa, secondo Magaldi, per sperare di essere accolto nella Golden Eurasia, la superloggia massonica della Cancelliera. A che gioco sta giocando, Di Maio? Il presidente del Movimento Roosevelt, massone progressista, ha le idee chiare: il capo dei pentastellati ha ormai capito che il governo Conte ha fallito l’obiettivo del cambiamento, e spera – con l’aiuto delle superlogge – di sopravvivere politicamente al declino del Movimento 5 Stelle. Comunque la si veda, il risultato non cambia: la guerra intestina indebolisce l’Italia, cioè il paese che avrebbe dovuto sfidare la “dittatura” tecnocratica di Bruxelles. I guai per il Belpaese – aggredito dai poteri forti europei, con la complicità del Deep State italico – cominciarono con Tangentopoli: uso politico della giustizia. Non è un caso, forse, che dopo un quarto di secolo sia lo stesso Di Maio a ricorrere, ancora e sempre, al giustizialismo sommario che ha “suicidato” l’economia italiana, trasformando il paese in terra di conquista per le potenze straniere.Giù le mani da Armando Siri, e anche dalla magistratura: la si smetta di strumentalizzare l’operato dei Pm per silurare gli avversari politici. In un paese civile non ci si dimette neppure per un rinvio a giudizio o magari una condanna in primo grado, figurarsi per un avviso di garanzia. «I magistrati devono poter operare liberamente, senza il sospetto che svolgano indagini a orologeria». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, attacca il giustizialismo dei 5 Stelle, che pretendono le dimissioni del sottosegretario leghista ai trasporti solo perché indagato (per presunte agevolazioni verso imprese del settore dell’energia eolica). «Vorrei stigmatizzare l’analfabetismo costituzionale e politico di Luigi Di Maio, che non perde occasione per mostrare la sua inadeguatezza ad essere il capo politico di un soggetto importante come il Movimento 5 Stelle», afferma Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Intonando la cantilena che negli ultimi decenni hanno cantato tanti politici, Di Maio ha detto che Siri, in attesa che la magistratura appuri se è innocente o colpevole, dovrebbe intanto dimettersi “per opportunità politica e morale”. E se Siri è innocente – protesta Magaldi – quale moralità gli dovrebbe imporre di essere eliminato dallo scenario politico solo perché sottoposto a un’inchiesta che magari alla fine si riconoscerà sbagliata?».
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Salvini è al top ma rischia: non ha una visione per il futuro
Avanti il prossimo. Giù nella scarpata ci sono le icone semoventi di Silvio Berlusconi, Beppe Grillo, Matteo Renzi, per dire solo dei più noti e dei più recenti. Ora il primo in alto, davanti al precipizio, nel cono di luce, è Matteo Salvini e tutti gli occhi sono puntati su di lui e sull’orologio che segna il suo tempo, per vedere quanto dura, se ci sono segni e scricchiolii sinistri, se comincia a scivolare pure lui nel burrone. È inesorabile la macchina dell’oblio e del rigetto che macina leader, li brucia, li consuma e poi li vomita, li spara in cielo e poi ricadono in terra, per una misteriosa forza di gravità che coincide con la precarietà, tramite overdose. La parabola dei leader è veloce, la loro esposizione mediatica è la causa del loro folgorante successo e pure del loro precipitoso declino. È una legge inesorabile della politica senza fondamenti, della leadership emozionale. La cosa più terribile è che non lasciano traccia, le scie dei rimpianti durano poco e poi restano a una minoranza scarsa, sempre più scarsa. È irripetibile il loro momento d’oro, le stesse cose che una volta conquistavano consensi e perfino entusiasmi, diventano a un certo punto insopportabili cliché; basta, non ne possiamo più di quel repertorio, quella faccia, quella voce. A volte fiducie immeritate si risolvono in sfiducie esagerate. Ma quando entri nel ciclo dei consumi mediatici di leader e di parole, tutto è liquido meno la legge che governa il ciclo, che invece è ferrea, inesorabile.Salvini rischia grosso a questo punto, e gli va detto anche – e vorrei dire soprattutto – da chi pensa che, al momento, sia il leader preferibile, migliore, o “meno peggio”. Ha raggiunto il tetto dei consensi virtuali e della condivisione, per la sua capacità di intrecciare messaggi a forte valenza simbolica, linee largamente condivise di una ideologia emozionale, capitalizzando l’odio che converge contro di lui. L’odio polarizza, genera spartiacque tra chi detesta e chi ama o finisce con l’amare il leader detestato, offeso, massacrato. Salvini usa bene l’effetto di ritorno dell’odio che raccoglie, in un’operazione martirio che in un paese di derivazione cattolica funziona sempre. Salvini parla chiaro e dice quel che la gente vuol sentirsi dire, offre obbiettivi simbolici, non potendo offrire grandi risultati pratici. E riesce a far giungere alla gente un messaggio: io vorrei realizzare quella rivoluzione che voi aspettate e che vi ho promesso, ma non ho i numeri per farlo, ho un alleato che non è d’accordo, anzi mi ostacola. Ergo, datemi più forza ed io sarò in grado di farlo. Dunque riesce a coltivare il malessere presente, l’onda d’indignazione verso la sua demonizzazione, ma anche l’orizzonte d’attesa della gente.Ma poi avviene un passaggio misterioso, repentino, dapprima implicito e poi clamoroso, e il sostegno inverte direzione. Accadde a Matteo Renzi e tutti lo citano come il Precedente da Manuale. Qui le interpretazioni divergono: ci sono quelli che catalogano gli errori compiuti da Renzi per spiegarne il cambiamento di fortuna, così radicale e così repentino; e ci sono quelli che invece sostengono l’ineluttabilità della legge che governa i media, il potere e le opinioni della gente; quella fatale, inarrestabile parabola da cui è impossibile sottrarsi. Tra le due versioni propendo per una soluzione-matrioska: la prima spiegazione, specifica e personale, è dentro l’altra, generale se non epocale. Nell’epoca dell’effimero tutto è effimero, nell’epoca dei consumi tutto è oggetto di consumo, nell’epoca del presente assoluto e tirannico, tutto passa in fretta e diventa passato. Ma questa considerazione di ordine generale non può consegnarci al puro fatalismo dell’abbandono. Allora provo a dire: ma non è che il problema è la stoffa di cui sono fatti questi leader, ovvero il materiale di cui sono composti i loro successi? Non si presentano, sin dall’inizio, con la loro forza-limite di cavalcare l’onda emotiva del momento come yogurt con la scadenza scritta sulla fronte?E allora implicito viene il suggerimento: e se qualcuno provasse la via diversa, se uno provasse a far seguire agli appelli estemporanei i disegni duraturi, se qualcuno provasse a lasciar traccia ad agire non solo sulla cresta dell’onda ma in profondità? So quanto sia difficile, in un’epoca del genere, e so quanto sia veramente ardito riuscire a usare l’appeal dell’istantaneo emotivo come una buccia che però protegge un midollo di sostanza. Ma è l’unica possibilità di non finire rapidamente e inopinatamente di proiettarsi nel futuro e di restare in piedi. Legarsi a idee, temi, prospettive che non passano. Temi grandi, decisivi, epocali e culturali, che riguardano le civiltà, i popoli, la storia, la forza delle idee e le cose che durano. Scommessa difficile ma è l’unica che si può opporre alla rapida obsolescenza della merce-leader. Pensaci Salvini, anche se sei stretto tra le elezioni europee, l’Iva, il marasma e l’assedio generale. Pensaci, anche se ti trovi tra un alleato presente che è il concorrente futuro e un alleato passato che vuol farsi futuro. Sei lì, in alto, il primo sulla vetta, e ricevi spinte da dietro e incitazioni dal basso. Difficile restare lì a lungo, bisogna cambiar gioco, cambiare posizione, muoversi a lato, guardare in alto. Pensaci, Matteo, se ne sei capace.(Marcello Veneziani, “Salvini è all’apice ma davanti al burrone”, da “La Verità” del 19 aprile 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Avanti il prossimo. Giù nella scarpata ci sono le icone semoventi di Silvio Berlusconi, Beppe Grillo, Matteo Renzi, per dire solo dei più noti e dei più recenti. Ora il primo in alto, davanti al precipizio, nel cono di luce, è Matteo Salvini e tutti gli occhi sono puntati su di lui e sull’orologio che segna il suo tempo, per vedere quanto dura, se ci sono segni e scricchiolii sinistri, se comincia a scivolare pure lui nel burrone. È inesorabile la macchina dell’oblio e del rigetto che macina leader, li brucia, li consuma e poi li vomita, li spara in cielo e poi ricadono in terra, per una misteriosa forza di gravità che coincide con la precarietà, tramite overdose. La parabola dei leader è veloce, la loro esposizione mediatica è la causa del loro folgorante successo e pure del loro precipitoso declino. È una legge inesorabile della politica senza fondamenti, della leadership emozionale. La cosa più terribile è che non lasciano traccia, le scie dei rimpianti durano poco e poi restano a una minoranza scarsa, sempre più scarsa. È irripetibile il loro momento d’oro, le stesse cose che una volta conquistavano consensi e perfino entusiasmi, diventano a un certo punto insopportabili cliché; basta, non ne possiamo più di quel repertorio, quella faccia, quella voce. A volte fiducie immeritate si risolvono in sfiducie esagerate. Ma quando entri nel ciclo dei consumi mediatici di leader e di parole, tutto è liquido meno la legge che governa il ciclo, che invece è ferrea, inesorabile.
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Notre-Dame è l’11 Settembre europeo. Magaldi: farò i nomi
«Ringrazio il “fratello” Ken Follett per aver alzato un’eccellente palla, che non mancherò di schiacciare». Così Gioele Magaldi commenta le clamorose dichiarazioni dell’autore de “I pilastri della Terra”, che alla televisione inglese – ospite del programma “Good Morning Britain” – ha lanciato il pesante sospetto che il rogo di Notre-Dame sia stato di origine dolosa. «Qui sta succedendo qualcosa d’altro», ha detto Follett, mentre l’incendio era ancora in corso. «Sono inorridito», ha aggiunto, di fronte allo spettacolo della guglia gotica avvolta dalle fiamme: «È come se qualcuno fosse morto». Chiaro il riferimento simbolico al rogo del 18 marzo 1314, a Parigi, in cui fu arso vivo Jacques de Molay, ultimo gran maestro dei Templari. «Forse il grosso pubblico non sa che Notre-Dame è un simbolo per la massoneria, per il cristianesimo e anche per il neo-templarismo cristiano», afferma Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt ed esponente del circuito massonico progressista internazionale, di cui – spiega – fa parte lo stesso Ken Follett. «Tanti neo-templari sono indignati, per quello che si ritiene un clamoroso atto, spregevole e cinico, rispetto a questo luogo così importante per la sensibilità spirituale di molti».Magaldi annuncia rivelazioni esplosive: si prepara a fare nomi e cognomi di quelli che, a suo parere, sono gli ispiratori della distruzione della cattedrale parigina: «Una vicenda davvero vergognosa, che potremmo definire l’11 Settembre franco-europeo». Naturalmente – aggiunge Magaldi, in web-streaming su YouTube il 22 aprile con Fabio Frabetti di “Border Nights” – «oggi, un 11 Settembre non poteva più presentarsi con le caratteristiche dell’11 Settembre newyorchese del 2001, né con le caratteristiche degli attentati (che obbediscono alla stessa logica) avvenuti sempre a Parigi, uno dei quali a pochi passi dall’allora presidente François Hollande». Oggi, sempre secondo Magaldi, «mostrare ulteriormente la vulnerabilità degli apparati di sicurezza e di intelligence francesi sarebbe stato un boomerang». Ma non è detto che questa storia di Notre-Dame «non si trasformi in un autogoal per i suoi ideatori». Per Magaldi, il rogo della cattedrale parigina «è una strana vicenda, che avviene con una stranissima coincidenza: era in corso in Libia l’attacco di forze notoriamente supportate da ambienti che fanno capo al governo francese, e c’è senz’altro anche un collegamento di senso tra quello che è accaduto nello Sri Lanka: non per caso vengono colpiti alcuni tipi di strutture».In Italia, il primo a mettere in relazione il rogo di Notre-Dame con i Templari è stato l’avvocato Paolo Franceschetti, autore di indagini importanti sui misteri italiani e sui delitti rituali contornati da simbologie massoniche. «Notre-Dame – ha spiegato, sempre a “Border Nights” – è il più importante santuario del templarismo, dedicato al divino femminile». Nella sua ricostruzione, Franceschetti sottolinea la vocazione anche inevitabilmente politica del templarismo: i cavalieri del Tempio erano il cuore di un network internazionale che voleva unire i popoli europei, abbattendo le frontiere. Dare fuoco oggi a Notre-Dame, richiamando il tragico rogo di Jacques de Molay, equivale a una dichiarazione di guerra contro chi sognò gli Stati Uniti d’Europa? Spiegazioni che probabilmente non tarderanno ad arrivare da Gioele Magaldi, che è l’autore del bestseller “Massoni”, pubblicato da Chiarelettere nel 2014: il saggio svela il ruolo occulto, nella gestione del potere mondiale, di 36 superlogge sovranazionali, alcune delle quali – di segno neoaristocratico e reazionario – avrebbero orchestrato la strategia della tensione condotta a livello mondiale a partire proprio dall’attentato alle Torri Gemelle.Dopo New York, Parigi? In Europa, sostiene Magaldi, «i governi sono subordinati a gruppi di potere privati, oligarchici, che utilizzano i loro frontman, nelle cancellerie e nelle presidenze, per seguire delle politiche che non rappresentano nemmeno i rispettivi interessi nazionali». In altre parole «c’è una regia sovranazionale che sfrutta i governi nazionali per perseguire fini inconfessabili e opachi». Una logica alla quale non sfugge l’Eliseo: Magaldi definisce “massone reazionario” lo stesso Emmanuel Macron, già dirigente finanziario dei Rothschild. Un finto progressista, in realtà “cavallo di Troia” della peggiore oligarchia post-democratica: ormai la pensano così anche i francesi, come dimostra la rivolta dei Gilet Gialli contro le misure di austerity. Ma perché bruciare la cattedrale “templare”? «All’amministrazione Macron e ai suoi danti causa (apolidi e sovranazionali, oltre che francesi) serviva come il pane un evento come quello accaduto a Notre-Dame», afferma Magaldi. Che annuncia: «Nelle prossime ore chiarirò per bene – con nomi, cognomi e circostanze – quello che so o credo di sapere, sulla base di fonti precise e autorevoli».«Ringrazio il “fratello” Ken Follett per aver alzato un’eccellente palla, che non mancherò di schiacciare». Così Gioele Magaldi commenta le clamorose dichiarazioni dell’autore de “I pilastri della Terra”, che alla televisione inglese – ospite del programma “Good Morning Britain” – ha lanciato il pesante sospetto che il rogo di Notre-Dame sia stato di origine dolosa. «Qui sta succedendo qualcosa d’altro», ha detto Follett, mentre l’incendio era ancora in corso. «Sono inorridito», ha aggiunto, di fronte allo spettacolo della guglia gotica avvolta dalle fiamme: «È come se qualcuno fosse morto». Chiaro il riferimento simbolico al rogo del 18 marzo 1314, a Parigi, in cui fu arso vivo Jacques de Molay, ultimo gran maestro dei Templari. «Forse il grosso pubblico non sa che Notre-Dame è un simbolo per la massoneria, per il cristianesimo e anche per il neo-templarismo cristiano», afferma Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt ed esponente del circuito massonico progressista internazionale, di cui – spiega – fa parte lo stesso Ken Follett. «Tanti neo-templari sono indignati, per quello che si ritiene un clamoroso atto, spregevole e cinico, rispetto a questo luogo così importante per la sensibilità spirituale di molti».