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Ttip, fuorilegge Stati e diritti: vogliono ucciderci così
«Negoziato in segreto, questo progetto fortemente sostenuto dalle multinazionali permetterebbe loro di citare in giudizio gli Stati che non si piegano alle leggi del liberismo». Si chiama Trattato Transatlantico ed è l’uragano devastante che minaccia il futuro degli europei, o quel che ne resta. All’allarme – da più parti lanciato nei mesi scorsi – si associa ora anche Lori Wallach, direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch, prestigioso osservatorio indipendente di Washington. «Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per quanto inverosimile possa apparire, questo scenario non risale a ieri».Le fondamenta di questo trattato clamorosamente eversivo – il grande business che emana i propri diktat non più di nascosto, attraverso le lobby e i politici compiacenti, ma ormai alla luce del sole, e addirittura per legge – comparivano già a chiare lettere nel progetto di accordo multilaterale sugli investimenti (Mai) negoziato segretamente tra il 1995 e il 1997 dai 29 stati membri dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, come ricorda la Wallach in un intervento su “Le Monde Diplomatique”, il giornale che divulgò la notizia in extremis, sollevando un’ondata di proteste senza precedenti, fino a costringere i suoi promotori ad accantonare il progetto. Quindici anni più tardi, scrive oggi Lori Wallach sempre sul giornale francese, in un intervento ripreso da “Micromega”, la grande “trappola” fa il suo ritorno in pompa magna, sotto nuove sembianze.L’accordo di partenariato transatlantico (Ttip), negoziato a partire dal luglio 2013 tra Usa e Ue – accordo che dovrebbe concludersi entro due anni – non è che una versione aggiornata del Mai. Prevede infatti che «le legislazioni in vigore sulle due coste dell’Atlantico si pieghino alle regole del libero scambio» stabilite dalle corporations, «sotto pena di sanzioni commerciali per il paese trasgressore, o di una riparazione di diversi milioni di euro a favore dei querelanti». Se dovesse entrare in vigore, aggiunge Lori Wallach, «i privilegi delle multinazionali avrebbero forza di legge e legherebbero completamente le mani dei governanti». Impermeabile alle alternanze politiche e alle mobilitazioni popolari, il trattato «si applicherebbe per amore o per forza, poiché le sue disposizioni potrebbero essere emendate solo con il consenso unanime di tutti i paesi firmatari». Ciò riprodurrebbe in Europa «lo spirito e le modalità del suo modello asiatico», ovvero l’Accordo di Partenariato Transpacifico (Trans-pacific partnership, Tpp), attualmente in corso di adozione in 12 paesi dopo essere stato fortemente promosso dagli ambienti d’affari.«In virtù di numerosi accordi commerciali firmati da Washington, 400 milioni di dollari sono passati dalle tasche del contribuente a quelle delle multinazionali a causa del divieto di prodotti tossici, delle normative sull’utilizzo dell’acqua, del suolo o del legname». Sotto l’egida di questi stessi trattati, le procedure attualmente in corso – nelle questioni di interesse generale come i brevetti medici, la lotta all’inquinamento e le leggi sul clima e sulle energie fossili – fanno schizzare le richieste di danni e interessi a 14 miliardi di dollari. Il Ttip «aggraverebbe ulteriormente il peso di questa estorsione legalizzata». Basta osservare gli attori sul terreno: negli Usa sono presenti 3.300 aziende europee con 24.000 filiali, ciascuna delle quali può ritenere di avere buone ragioni per chiedere, un giorno o l’altro, riparazione per un “pregiudizio commerciale”. Dal canto loro, i paesi dell’Unione Europea si vedrebbero esposti a un rischio finanziario ancora più grande, sapendo che 14.400 compagnie statunitensi dispongono in Europa di una rete di 50.800 filiali. In totale, sono 75.000 le società che potrebbero gettarsi nella caccia ai tesori pubblici.Gli accordi-capestro per Atlantico e Pacifico «formerebbero un impero economico capace di dettare le proprie condizioni al di fuori delle sue frontiere: qualunque paese cercasse di tessere relazioni commerciali con gli Stati uniti e l’Unione Europea si troverebbe costretto ad adottare tali e quali le regole vigenti all’interno del loro mercato comune». E dato che i proponenti «mirano a liquidare interi compartimenti del settore non mercantile», i negoziati si svolgono a porte chiuse. Le delegazioni statunitensi contano più di 600 consulenti delegati dalle multinazionali, che dispongono di un accesso illimitato ai documenti preparatori. «Nulla deve sfuggire. Sono state date istruzioni di lasciare giornalisti e cittadini ai margini delle discussioni: essi saranno informati in tempo utile, alla firma del trattato, quando sarà troppo tardi per reagire». Vana la protesta della senatrice Elizabeth Warren, secondo cui «un accordo negoziato senza alcun esame democratico non dovrebbe mai essere firmato».L’imperiosa volontà di sottrarre il cantiere del trattato all’attenzione del pubblico si comprende facilmente, aggiunge la Lori Wallach: «Meglio prendere tempo prima di annunciare al paese gli effetti che esso produrrà a tutti i livelli: dal vertice dello Stato federale fino ai consigli municipali passando per i governatorati e le assemblee locali, gli eletti dovranno ridefinire da cima a fondo le loro politiche pubbliche per soddisfare gli appetiti del privato nei settori che in parte gli sfuggono ancora». Nulla sfugge alle fauci dei super-privatizzatori: sicurezza degli alimenti, norme sulla tossicità, assicurazione sanitaria, prezzo dei medicinali, libertà della rete, protezione della privacy, energia, cultura, diritti d’autore, risorse naturali, formazione professionale, strutture pubbliche, immigrazione. «Non c’è una sfera di interesse generale che non passerà sotto le forche caudine del libero scambio istituzionalizzato». Fine della democrazia: «L’azione politica degli eletti si limiterà a negoziare presso le aziende o i loro mandatari locali le briciole di sovranità che questi vorranno concedere loro».È già stipulato che i paesi firmatari assicureranno la «messa in conformità delle loro leggi, dei loro regolamenti e delle loro procedure» con le disposizioni del trattato. Non vi è dubbio che essi vigileranno scrupolosamente per onorare tale impegno. In caso contrario, potranno essere l’oggetto di denunce davanti a uno dei tribunali appositamente creati per arbitrare i litigi tra investitori e Stati, e dotati del potere di emettere sanzioni commerciali contro questi ultimi. «L’idea può sembrare inverosimile: si inscrive tuttavia nella filosofia dei trattati commerciali già in vigore». Lo scorso anno, l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), ha condannato gli Stati Uniti per le loro scatole di tonno etichettate “senza pericolo per i delfini”, per l’indicazione del paese d’origine sulle carni importate, e ancora per il divieto del tabacco aromatizzato alla caramella, dal momento che tali misure di tutela sono state considerate degli ostacoli al libero scambio. Il Wto ha inflitto anche all’Unione Europea delle penalità di diverse centinaia di milioni di euro per il suo rifiuto di importare Ogm come quelli della Monsanto, che finanziò l’elezione di Obama.«La novità introdotta dal Ttip e dal Tpp – osserva Lori Wallach – consiste nel permettere alle multinazionali di denunciare a loro nome un paese firmatario la cui politica avrebbe un effetto restrittivo sulla loro vitalità commerciale». Sotto un tale regime, «le aziende sarebbero in grado di opporsi alle politiche sanitarie, di protezione dell’ambiente e di regolamentazione della finanza», reclamando danni e interessi davanti a tribunali extragiudiziari. «Composte da tre avvocati d’affari, queste corti speciali rispondenti alle leggi della Banca Mondiale e dell’Onu «sarebbero abilitate a condannare il contribuente a pesanti riparazioni qualora la sua legislazione riducesse i “futuri profitti sperati” di una società». Questo sistema, che oppone le industrie agli Stati, sembrava essere stato cancellato dopo l’abbandono del Mai nel 1998, ma è stato «restaurato di soppiatto» nel corso degli anni. Di fatto, l’adozione del super-trattato riduce in schiavitù le istituzioni pubbliche, per le quali i cittadini votano, affidando ad esse il compito di governare il proprio paese. Con le mostruose norme in via di approvazione semi-clandestina, i poteri pubblici dovranno mettere mano al portafoglio se la loro legislazione ha per effetto la riduzione del valore di un investimento, anche quando questa stessa legislazione si applica alle aziende locali. In altre parole: la civiltà democratica finisce qui.«Negoziato in segreto, questo progetto fortemente sostenuto dalle multinazionali permetterebbe loro di citare in giudizio gli Stati che non si piegano alle leggi del liberismo». Si chiama Trattato Transatlantico ed è l’uragano devastante che minaccia il futuro degli europei, o quel che ne resta. All’allarme – da più parti lanciato nei mesi scorsi – si associa ora anche Lori Wallach, direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch, prestigioso osservatorio indipendente di Washington. «Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per quanto inverosimile possa apparire, questo scenario non risale a ieri».
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No-Euro: un italiano su due boccia la moneta della Bce
«Euro? No, grazie». Gli italiani – in maggioranza, ormai – bocciano la moneta unica europea. Lo rivela un sondaggio proposto da “Scenari economici” a un campione di 2.400 persone, che include ogni categoria sociale e produttiva, da nord a sud, e tutte le principli fasce di età. Contro l’euro soprattutto il settentrione e gli elettori del centrodestra e del “Movimento 5 Stelle”, compresi fra i 30 e 59 anni: operai, casalinghe, disoccupati, artigiani e lavoratori autonomi. Cioè l’Italia che – più di ogni altra – subisce la devastazione socio-economica della grande recessione: tagli ai salari e alle pensioni, enti locali senza più soldi per scuola, sanità e assistenza, crisi del credito e dei consumi, fatturati a picco, chiusure e licenziamenti, erosione dei risparmi, inaudito inasprimento fiscale. Risultato: a pochi mesi dalle europee, il partito “No-Euro” raccoglie già il 24% di voti “sicuri”, mentre un altro 32% ammette: «Prenderei in considerazione l’ipotesi di votarlo». Il restante 44%, quello dei “fedeli” alla moneta della Bce, corrisponde alla roccaforte storica del centrosinistra, quella delle regioni “rosse”.“Scenari economici” mostra l’inesorabile progressione dell’opposizione all’euro: ad aprile 2013, il centrodestra era schierato al 68% contro la moneta di Francoforte, mentre a ottobre la quota dei contrari è salita al 76%. Percentuali analoghe a quelle dei “grillini”, mentre il centro – Monti e Casini – resta ancorato alla valuta della Bce, anche se in modo più tiepido (dal 94 si passa all’83%), mentre il consenso verso l’euro cresce solo nel centrosinistra, che passa dall’89 al 90%. La bocciatura dell’euro diventa definitiva nella terza tornata di sondaggi, effettuata lo scorso dicembre. Un italiano su due (il 49%) si dichiara «favorevole alla reintroduzione di una valuta nazionale al posto dell’euro». Postilla: occorre ovviamente affiancare questo processo «con il ripristino della Banca d’Italia come prestatore d’ultima istanza, al fine di calmierare i tassi d’interesse sui titoli del debito pubblico italiano». Era solo la fine del 2011 – due anni fa – e proprio l’alibi dello spread aveva spianato la strada a Mario Monti ed Elsa Fornero, saliti al potere per “rimettere in ordine in conti”, come se lo Stato fosse un’azienda privata.Un po’ è davvero così, da quando la repubblica italiana ha perso il suo “bancomat” istituzionale, la Banca d’Italia, come finanziatrice “illimitata” del governo, attraverso il Tesoro, grazie alla “privatizzazione” del debito a vantaggio della finanza privata. Poi, con l’euro, il definitivo ko: l’impossibilità tecnica di risalire la china, emettendo moneta come fa il resto del mondo, fino al caso-limite del Giappone il cui debito raggiunge il 250% del Pil senza timore di attacchi speculativi: gli “squali” sanno benissimo che la banca centrale di Tokyo sarebbe in grado in qualsiasi momento di sostenere il debito con emissione di valuta sovrana a costo zero. All’Italia invece è stata inferta la peggiore delle terapie: tagli su tagli, col pretesto neoliberista di dover eliminare il debito (cioè il motore economico dello Stato e quindi dell’economia privata), fino alla tagliola del Fiscal Compact e al delirio puro del pareggio di bilancio inserito in Costituzione dalle “anime morte” del Parlamento, ipnotizzate dal referendum permanente su Berlusconi. Risultato finale, meno servizi e più tasse: senza più disponibilità monetaria, lo Stato è costretto a dipendere dal denaro che riceve dai cittadini, sotto forma di imposte e bollette.Silenzio totale, sull’euro, anche da Confindustria e dagli stessi sindacati: nessuna analisi approfondita sulla crisi, nessuna soluzione alternativa, nessuna proposta. Micidiale, su questo fronte, il black-out dei media: per giornali e televisioni, l’euro è stato un sostanziale tabù, un dogma intoccabile. Ed eccezione della Lega Nord – ferma comunque ai soli slogan – il grande silenzio ha allineato tutti i partiti, a cominciare dal Pd, mentre l’ostilità verso l’euro affiora a tratti nella “pancia” del centrodestra e tra i grillini, anche se Grillo – anche nel V-Day di Genova – sulla moneta unica si è limitato a proporre un semplice referendum. La rilevazione di dicembre effettuata da “Scenari economici” parla da sola: l’euro “resiste” solo nel centrosinistra e viene travolto sia dal centrodestra (77%) che dal M5S (73%) e dall’area del non-voto (58%). Il partito virtuale No-Euro vince al nord con 8 punti di scarto e al centro-sud con 4 punti, mentre nelle “regioni rosse” si ferma al 43%, contro un 50% di “fedelissimi” pro-euro. In caso di elezioni, se ci fosse «una formazione fortemente anti-euro», Forza Italia potrebbe perdere quasi l’8% dei suoi elettori (e Grillo il 6,7%), mentre centro e centrosinistra manterrebbero quasi invariato il proprio bottino elettorale. A conti fatti, già oggi una lista anti-euro varrebbe almeno il 24% dei consensi – un italiano su quattro – ma la percentuale potrebbe più che raddoppiare: si ottiene addirittura il 56% dei consensi, sommando i contrari all’euro e la quota di italiani disponibili a “prendere in considerazione” l’ipotesi di votare un partito capace di dire no alla moneta della Bce.Le elezioni europee – maggio 2014 – potrebbero rivelarsi un vero e proprio referendum sull’attuale Unione Europea a guida tedesca e sul suo strumento principale di potere, l’Eurozona: «Sovranità monetaria, svalutazione, parametri di Maastricht, Fiscal Compact, politiche di austerity, vincoli di bilancio e rapporti con la Germania – sottolinea “Scenari economici” – saranno temi che verranno discussi ed approfonditi durante la campagna elettorale, e molti cittadini potrebbero votare in modo diverso rispetto ad una consultazione per il Parlamento italiano». Cresce il desiderio di tornare alla sovranità monetaria, individuata come toccasana per difendere il bilancio statale e quindi il benessere della comunità nazionale: il ritorno a una lira garantita dalla Banca d’Italia piace «non solo tra gli elettori del centrodestra e del “Movimento a 5 Stelle”, ma anche nell’area degli indecisi e del non-voto». A favore della “permanenza nell’euro” resta invece «granitico» l’elettorato del Pd, e a livello di categorie i favorevoli alla moneta “ammazza-Italia” «sono maggioritari unicamente tra pensionati e dipendenti pubblici».«Euro? No, grazie». Gli italiani – in maggioranza, ormai – bocciano la moneta unica europea. Lo rivela un sondaggio proposto da “Scenari economici” a un campione di 2.400 persone, che include ogni categoria sociale e produttiva, da nord a sud, e tutte le principli fasce di età. Contro l’euro soprattutto il settentrione e gli elettori del centrodestra e del “Movimento 5 Stelle”, compresi fra i 30 e 59 anni: operai, casalinghe, disoccupati, artigiani e lavoratori autonomi. Cioè l’Italia che – più di ogni altra – subisce la devastazione socio-economica della grande recessione: tagli ai salari e alle pensioni, enti locali senza più soldi per scuola, sanità e assistenza, crisi del credito e dei consumi, fatturati a picco, chiusure e licenziamenti, erosione dei risparmi, inaudito inasprimento fiscale. Risultato: a pochi mesi dalle europee, il partito “No-Euro” raccoglie già il 24% di voti “sicuri”, mentre un altro 32% ammette: «Prenderei in considerazione l’ipotesi di votarlo». Il restante 44%, quello dei “fedeli” alla moneta della Bce, corrisponde alla roccaforte storica del centrosinistra, quella delle regioni “rosse”.
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Jekyll Island: il golpe dei banchieri che crearono la Fed
Jekyll Island, 1910, ovvero l’isola dei pirati di lusso. Un gruppo di banchieri e politici sbarca nell’isola di Jekyll (Georgia) dopo un viaggio segreto in treno. Provengono dalla stazione di Hoboken, nel New Jersey, dove i giornalisti li avevano appena intravisti. Se li erano lasciati sfuggire, costernati, ma non potevano sapere che la “delegazione” era svicolata con un vagone ermeticamente chiuso, tendine abbassate, per una destinazione sconosciuta. Il senatore Nelson Aldrich guida la delegazione, in qualità di capo della Commissione Monetaria Nazionale. Tre anni prima, c’era stato un panico tragico per la crisi finanziaria e nel 1908, il presidente Theodor Roosevelt aveva creato una Commissione per stabilizzare il sistema monetario nella federazione, e Aldrich aveva condotto i membri della Commissione per una tournée in Europa di due anni: costo, 300.000 dollari dell’epoca, naturalmente a spese del contribuente americano. Dopo tanto tempo, nel 1910, Aldrich non aveva né redatto il rendiconto del viaggio né – meno che mai – abbozzato la riforma bancaria.Alla stazione di Hoboken, Aldrich era accompagnato da suo segretario particolare, Shelton, dal Segretario aggiunto al tesoro, Piatt Andrew, dal presidente della National City Bank, Frank Vanderlip, dall’associato della J.P Morgan, Henry Davison, dal presidente della First National Bank, Charles Norton, da un altro rappresentante della J.P. Morgan, Benjamin Strong, e da Paul Warburg, della banca Kuhn, Loeb &Co. di New York. Si imbarcarono su una vedetta misteriosa, diretta a Jekyll Island, e non tutti sapevano la portata né la durata del soggiorno laggiù. Il senatore Aldrich aveva confidato solo a Henry, Frank, Paul e Piatt che la delegazione sarebbe rimasta in clausura nell’isola sino a quando non avesse elaborato un sistema monetario “scientifico” per gli Stati Uniti.Il Club di Jekyll lsland lavorerà per due settimane. Nell’isola è già rappresentato un sesto dell’intera ricchezza mondiale. Non è gente che si accontenta. Ha bisogno di assicurarsi l’eternizzazione dell’immenso potere finanziario e politico acquisito. Vedremo in un prossimo articolo il percorso che farà il lavoro da cospiratori, sino al fatidico dicembre 1913, durante il primo anno del presidente Woodrow Wilson. Sono dunque passati cento anni dalla nascita del Federal reserve system, che non è né federale, né riserva, ma semplicemente un potere di alcuni oligarchi di creare moneta e credito per il proprio profitto.(Agostino Alciator, “Fed, centenario di un colpo di Stato”, da “Megachip” del 1° gennaio 2014. Già diplomatico, console italiano in Francia, Alciator è responsabile esteri di “Alternativa”, laboratorio politico fondato da Giulietto Chiesa).Jekyll Island, 1910, ovvero l’isola dei pirati di lusso. Un gruppo di banchieri e politici sbarca nell’isola di Jekyll (Georgia) dopo un viaggio segreto in treno. Provengono dalla stazione di Hoboken, nel New Jersey, dove i giornalisti li avevano appena intravisti. Se li erano lasciati sfuggire, costernati, ma non potevano sapere che la “delegazione” era svicolata con un vagone ermeticamente chiuso, tendine abbassate, per una destinazione sconosciuta. Il senatore Nelson Aldrich guida la delegazione, in qualità di capo della Commissione Monetaria Nazionale. Tre anni prima, c’era stato un panico tragico per la crisi finanziaria e nel 1908, il presidente Theodor Roosevelt aveva creato una Commissione per stabilizzare il sistema monetario nella federazione, e Aldrich aveva condotto i membri della Commissione per una tournée in Europa di due anni: costo, 300.000 dollari dell’epoca, naturalmente a spese del contribuente americano. Dopo tanto tempo, nel 1910, Aldrich non aveva né redatto il rendiconto del viaggio né – meno che mai – abbozzato la riforma bancaria.
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Via i parassiti della finanza, e avremo ancora un futuro
Il principale processo storico che sta segnando il nuovo secolo, cioè lo spostamento del baricentro geopolitico dall’Atlantico al Pacifico, condanna l’Europa a diventare sempre più periferica. La crescente proiezione internazionale di una Cina punta chiaramente a diventare potenza navale oltreché commerciale, in Estremo Oriente ma anche in direzione dell’Africa e del Medio Oriente. Questo impegnerà direttamente gli Usa e li obbligherà ad una scelta fondamentale: Cina o ancora Giappone, come alleati strategici? Certo, Russia e India non staranno a guardare. E’ questo lo scenario nel quale Gaetano Colonna invita ad analizzare la grande crisi che sta travolgendo l’Eurozona. Se il vecchio continente perde terreno nel forziere petrolifero mediorientale, l’influenza cinese continua a crescere in teatri strategici per gli Stati Uniti, dall’Iran al Pakistan fino al continente nero, che rappresenta un’enorme riserva di materie prime e terre coltivabili.Di conseguenza, osserva Colonna su “Clarissa”, torna alla ribalta il ruolo del Mediterraneo: decisivo snodo geografico e culturale tra Africa, Vicino Oriente ed Europa, il “mare nostrum” «diverrà, se possibile, ancora più rilevante di quanto non lo sia già stato dalla fine del XIX secolo, quale linea di comunicazione vitale per gli imperi anglosassoni, oltreché frontiera fra il Nord ed il Sud del mondo». Di recente, il protagonismo neo-coloniale della Francia (appoggiato da Usa e Israele) ha relegato l’Italia a «alla semplice condizione di piattaforma logistica dei grandi alleati occidentali». Ma se l’Occidente deve comunque fare il conti con la Cina, questo influisce anche sul nuovo ruolo della Russia di Putin, la cui condizione ricorda quella dell’impero zarista di cent’anni fa, schiacciato a oriente dalla potenza giapponese e ad occidente dall’impero germanico.Oggi, riconosce Colonna, la politica estera russa ha costruito un asse preferenziale con la Cina, dato che in Occidente la pressione della Nato e degli Usa non si è minimamente allentata, né l’Unione Europea ha saputo smarcarsi dalla vecchia politica atlantica ereditata dalla guerra fredda. Smaltita la «passeggera ubriacatura filo-occidentale» del disastroso governatorato di Eltsin, «pur non perseguendo più una politica da superpotenza» la Russia post-sovietica «non rinuncia al suo ruolo di grande potenza sullo scenario mondiale», e per questo non rinuncia «ad una propria forte capacità militare, in grado di tutelare i propri fondamentali interessi strategici». Ora, alla luce della nuova gravitazione del mondo sull’Oceano Pacifico, si tratta di vedere se la Russia di Putin «seguirà la propria vocazione asiatica oppure quella europea».E’ davvero singolare, osserva Colonna, che l’Europa «continui a seguire pedissequamente i desiderata americani, rivolti ad isolare la Russia sul piano internazionale, invece di perseguire una propria assai più realistica politica di avvicinamento ed integrazione con il grande paese che costituisce la sola efficace copertura del nostro continente rispetto a qualsiasi ambizione cinese». Ma il peggio è in assoluto l’Italia: ancora una volta, il nostro paese si “scopre” collocato – dalla geografia e dalla storia – al crocevia delle forze da cui dipende il futuro del pianeta, ma le classi dirigenti italiane non se ne sono accorte. In loro c’è una «evidente mancanza di coscienza» dell’importanza geopolitica dello Stivale. E questo è «uno dei fattori più gravi e preoccupanti della nostra attuale condizione storica». Colonna la definisce «devastante pochezza» di uomini «privi di un sentire vivamente operante e non retorico per la patria». Mezzi uomini, «colpevolmente ignari delle prove che anche l’Italia si troverà presto a dover affrontare».Là fuori, infatti, impazza la grande crisi: ci si muove tra macerie economiche, provocate dall’oligarchia finanziaria che ha devastato la “democrazia del lavoro”. «La lezione del 2007-2008 non è stata compresa: basterebbe questa affermazione per definire lo scenario dell’economia mondiale dei prossimi mesi e anni», sostiene Colonna. «I grandi centri finanziari mondiali, che elaborano le strategie sistemiche dell’economia mondiale, dimostrano di non volere e di non potere rinunciare all’orientamento speculativo che è insieme all’origine della crisi che ha investito il sistema-mondo nell’ultimo quinquennio». Questa avidità cieca è anche «il fondamento stesso del potere dei “padroni dell’universo”, come questi oligarchi amano definirsi». Lo dimostra il fatto che «nessuna delle regolamentazioni statunitensi o europee ha affrontato le tre questioni che avrebbero dovuto essere preliminari all’adozione di qualsiasi modalità di risoluzione della crisi». Ovvero: paradisi fiscali, finanza speculativa fuori controllo e agenzie di rating che si fingono soggetti terzi, ma sono in realtà pilotati e pienamente complici dei grandi speculatori.L’Occidente ha risposto in un solo modo, cioè tutelando i monopolisti del crimine finanziario: negli Usa coi salvataggi delle banche “troppo grandi per fallire”, tenute in piedi coi dollari della Fed, e in Europa spremendo senza pietà paesi interi, con super-tasse e tagli selvaggi alla spesa vitale, cioè “fiscalizzando” le rovinose perdite del sistema finanziario internazionale, il cui conto viene fatto pagare ai lavoratori. Nessuna alternativa in campo, finora, «per il semplice fatto che, da oltre mezzo secolo, sono i centri finanziari mondiali a condizionare gli Stati-nazione dell’Occidente, grazie alla formazione di una vera e propria classe dirigente internazionale che occupa con continuità le posizioni chiave, indipendentemente dalle alternanze di governo e dalle competizioni elettorali». Classe dirigente «cui viene affidata la puntuale esecuzione di strategie economiche, monetarie e legislative costruite a livello globale». Si tratta di «una vera e propria oligarchia economico-politica internazionale, che ha progressivamente svuotato di significato la democrazia parlamentare occidentale», visto che il popolo è stato privato della sua prerogativa essenziale (la sovranità) e anche della sua principale forza politica (il lavoro).La finanziarizzazione dell’economia ha infatti trasformato i sistemi industriali, togliendo al lavoro ogni potere contrattuale: dagli anni ’80 la finanza controlla le aziende, i cui pacchetti azionari sono diventati “merce” sui mercati finanziari mondiali, distogliendo il management dall’economia reale, cioè strategie produttive e commerciali. Conseguenza: progetti dalla vita sempre più breve, anziché investimenti, ricerca e sviluppo. Da parte della proprietà industriale, si è così «accentuata la tendenza a servirsi degli utili per entrare nel grande gioco finanziario, piuttosto che reinvestire nel futuro delle imprese». Per questo, oggi, i grandi gruppi bancari «preferiscono investire i generosi aiuti ottenuti a spese della collettività nell’acquisto di titoli di Stato piuttosto che nel credito alle Pmi». E il peggio è che tutto questo è avvenuto nel silenzio generale della politica, incapace di elaborare un’alternativa «ai dogmi dell’economia speculativa».Risultato: «Si è persa l’occasione per prendere coraggiosamente atto della crisi come di un evento globale e non contingente, esigendo quindi, da parte delle classi dirigenti, un radicale mutamento di rotta». Pre-condizione: l’emancipazione dell’economia reale. «Imprenditori, lavoratori e consumatori» dovrebbero cioè liberarsi «dal controllo dell’oligarchia finanziaria e dalla strumentalizzazione politica dei partiti», prendendo il mano «istituzioni autonome dell’economia reale», in grado di «esigere il controllo, per esempio, della moneta e del credito». Inoltre, la crescente consapevolezza dei “limiti allo sviluppo” «impone anch’essa che le forze dell’economia reale, piuttosto che rincorrere le asticelle statistiche della “ripresa”, si impegnino a riorganizzare la produzione», in tutti i campi: energia, tecnologia, servizi, beni di largo consumo. Servono «prodotti a basso impatto, recuperabili, di elevata qualità e durata». In sostanza, per Colonna, serve una nuova alleanza strategica: imprenditori, lavoratori e consumatori devono accordarsi per sconfiggere la finanza parassitaria, e quindi «liberare l’economia dal peso congiunto del debito e della speculazione, realizzando quella democrazia del lavoro senza la quale la democrazia politica è ormai divenuta un guscio vuoto».Il principale processo storico che sta segnando il nuovo secolo, cioè lo spostamento del baricentro geopolitico dall’Atlantico al Pacifico, condanna l’Europa a diventare sempre più periferica. La crescente proiezione internazionale di una Cina punta chiaramente a diventare potenza navale oltreché commerciale, in Estremo Oriente ma anche in direzione dell’Africa e del Medio Oriente. Questo impegnerà direttamente gli Usa e li obbligherà ad una scelta fondamentale: Cina o ancora Giappone, come alleati strategici? Certo, Russia e India non staranno a guardare. E’ questo lo scenario nel quale Gaetano Colonna invita ad analizzare la grande crisi che sta travolgendo l’Eurozona. Se il vecchio continente perde terreno nel forziere petrolifero mediorientale, l’influenza cinese continua a crescere in teatri strategici per gli Stati Uniti, dall’Iran al Pakistan fino al continente nero, che rappresenta un’enorme riserva di materie prime e terre coltivabili.
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Da Google a Twitter, l’élite digitale ha preso il potere
«Informazione, salute, politica, denaro, cultura, relazioni personali, tempo libero: nulla è più come prima». Oggi, infatti, è tutto on-line. Sono passati vent’anni da quando “Time Magazine”, nel 1983, nominò “Machine of The Year” il personal computer. Da quel momento, con la “rivoluzione digitale”, costruttori di computer e geniali inventori di software hanno cominciano a cambiarci la vita. Che dire poi dell’avvento di Internet: nel 1987 erano connessi in rete 10.000 computer, ma nel 1993 comparve Mosaic, il primo browser, e nel 1996 i computer connessi erano già 10 milioni; oggi sono 3 miliardi e a loro si aggiungono 3 miliardi di dispositivi mobili. Qualcosa è cambiato, non c’è dubbio, e la “rivoluzione” si è arricchita di protagonisti e comprimari: alla coppia iniziale hardware-software, riassume Glauco Benigni, si sono aggiunti i servizi di e-commerce e di e-banking, i motori di ricerca, i social network, i blog, i siti di informazione, le Tv online e i loro antagonisti, hacker e pirati.«C’è un pianeta parallelo ormai che vive e vegeta in un’altra dimensione, fatta di sterminate, inconcepibili sequenze di numeri che si spostano a velocità impressionanti, si trasformano e appaiono sui nostri schermi quali testi, foto, immagini in movimento e influiscono su ogni attività contemporanea». La “rivoluzione digitale” incede solenne, scrive Benigni nel suo blog in un post ripreso da “Megachip”. Il web «non perde tempo a condividere i valori e le visioni del passato» e in pratica «non rispetta nessuno, neanche i governi e gli ultimi Stati rimasti sovrani». Tutto viene travolto dalle “digital power élites” «costituite da 20enni, 30enni, solo raramente 40enni e 50enni che, giunti in parte dai garage e dalle cantine degli angoli più remoti del mondo e in parte da prestigiose università, oggi siedono nei consigli di amministrazione di enormi “conglomerates” e da lì “shape the history” (danno forma alla Storia del Futuro)».Il 2013 si era aperto con l’annuncio da parte di Pay Pal, il maggior gestore di transazioni economiche in rete, del proprio sistema mobile: per l’e-trading, un’accelerazione radicale, ovvero «la possibilità di spostare denaro con pochi click sul cellulare o sul tablet». In sintonia con questa tendenza, a febbraio Twitter ha siglato l’accordo con l’American Express: da questa accoppiata – social network e gestori di carte di credito – possono scaturire «scenari da fantaeconomia», osserva Benigni, dal momento che ormai «tre italiani su quattro comprano direttamente online», e nel 2016 il mercato italiano varrà 20 miliardi di euro (in Europa ne vale già 311). Il 2013, continua Benigni, è l’anno in cui i vecchi protagonisti della scena, i Ginger e Fred dell’hardware-software, soffrono di più. «Lord Microsoft accusa pesanti colpi al suo fatturato dovuti all’avvento dei nuovi sistemi operativi, primo fra tutti Android. E anche la vecchia lady Apple, per la prima volta in 10 anni, nonostante la cavalcata selvaggia dei suoi I-Phone e I-Pad, vede un calo degli utili». Tablet e smartphone dilagano dovunque: «Anche il sofferente mercato italiano, a maggio, registra un’impennata di vendite, nonostante la crisi». Il ruolo strategico dei social network condiziona motore di ricerca come “Yahoo!”, costretto a limitarsi al 15% delle ricerche mondiali. Come Google, ha bisogno di possedere un suo social network, e quindi tenta di perfezionare una partnership con i francesi di Daily Motion. Offerta rigettata, ma “Yahoo!” si consolerà presto comprando Tumbir, un social network con 108 milioni di blog, per 1,1 miliardi di dollari. E anche Daily Motion si consolerà, volgendo la propria attenzione al Giappone.Sul piano politico, intanto, si segnala l’altolà imposto a Mark Zuckerberg, patron di Facebook, costretto a pagare 62 milioni di dollari per risarcire broker e investitori travolti dal crollo del titolo in Borsa. Stop anche alla lobby dell’enfant prodige, messa in piedi per “infiltrare” il Congresso. Messaggio: ok al business, ma non alle scorribande politiche – a meno che non siano orchestrate dall’intelligence, che utilizza i social network per pilotare «piccole e medie rivolte di piazza, colpi di Stato, rimozioni di primi ministri e presidenti ormai bolliti e non più graditi al Washington Consensus». La Cina, intanto, stanca delle critiche sulla tutela dei diritti umani (e del pressing di Google) annuncia che non chiederà più l’accesso agli Internet Protocol alle autorità Usa, che ne hanno fatto “cosa nostra”, ma si rivolgerà direttamente all’Agenzia delle Nazioni Unite di Ginevra, che è l’istituzione suprema preposta al rilascio. «La decisione genera un grande imbarazzo diplomatico, ma tant’è: è solo uno degli atti di cyber-guerra fredda degli ultimi anni tra le due superpotenze».Il colpo di grazia alla credibilità di Facebook è il caso Datagate, scoppiato a giugno: tutti i dati sensibili degli utenti sono a disposizione della Nsa. I gestori del web sono in imbarazzo, Zuckerberg licenzia 520 dipendenti della sua controllata Zynga e in Borsa perde il 20%, crollando ai minimi, salvo poi recuperare utenti grazie all’uso dei dispositivi mobili. Per Benigni,la transizione dal Pc al laptop è un’altra “rivelazione” del 2013. Amazon fa sapere che i primi 10 prodotti venduti a livello mondiale «sono tutti devices digitali». E pertanto il boss Jeff Bezos, uno che a 49 anni fornisce 225 milioni di clienti e che in un giorno solo, secondo “Fortune”, riesce a guadagnare o a perdere anche 2 miliardi di dollari, annuncia che vuole mettersi in concorrenza con i grandi costruttori di tablet. E’ forte del successo del suo Kindle, che sta rivoluzionando tutta la tradizione di lettura libri, ma non basta. A Seul quelli della Samsung non lo faranno passare. Comincia a perdere anche Amazon.Infine, nella seconda parte del 2013, si apre un vero scontro politico tra l’élite digitale e i governi. Prima questione: i grandi motori di ricerca, Google in testa, devono pagare editori e case discografiche, perché «è grazie a loro che esiste qualcosa da ricercare». Secondo problema, più rilevante per i governi: «Questi furboni devono pagare le tasse come gli altri», perché «non è giusto che facciano profitti con la pubblicità sui territori europei e poi si inguattino i soldi nei paradisi fiscali». Google viene colta con le mani nel sacco: nel solo 2012 ha trasferito in Bermuda 8,8 miliardi di dollari. E dalle sue sedi europee, soprattutto quella irlandese, si è sottratta al fisco con grande destrezza. I lobbisti di Google si scatenano per correre ai ripari: coi francesi chiudono un pagamento di 60 milioni di dollari a favore di editori e case musicali, ma resta per aria la questione delle tasse – che non è ancora risolta.E mentre “volano gli stracci” quando si scopre che la Nsa ha spiato capi di Stato e di governo alleati, Twitter fa il botto a Wall Street, raddoppiando di valore in un solo giorno. «Anche le società digitali start up israeliane fanno il pieno di investimenti. Per un verso sembra di essere tornati ai bei tempi di Nasdaq prima della bolla del 1999. In realtà è Bernanke che pompa 85 miliardi di dollari al mese nel comparto industriale Usa e quindi ne gode anche la Borsa. In ogni caso la rivoluzione digitale smuove oceani di denaro, provocando tsunami e bonacce, sia nella economia degli scambi reali che nella finanza virtuale». Google oscilla attorno ai 300 miliardi di capitalizzazione e genera un fatturato di circa 50 miliardi l’anno. «E’ diventato uno Stato tra gli Stati», dice Benigni. «Quando ti chiede di accettare le sue Condizioni d’Uso per Google+ o YouTube sembra che proponga le nuove norme base di una futura Costituzione Planetaria». E la stessa YouTube, di proprietà di Google, ha annunciato di aver raggiunto l’incredibile cifra di 1 miliardo di utenti attivi al mese. Tutto questo, aspettando i cibernetici “Google Glasses” e le stampanti 3d che permettono a chiunque di riprodurre oggetti solidi, mentre si fa largo la grande promessa del crowdfunding (azionariato popolare per finanziare l’editoria indipendente) e l’ultima “invenzione”, la più scottante, cioè la moneta virtuale rappresentata dai Bitcoin.«Informazione, salute, politica, denaro, cultura, relazioni personali, tempo libero: nulla è più come prima». Oggi, infatti, è tutto on-line. Sono passati vent’anni da quando “Time Magazine”, nel 1983, nominò “Machine of The Year” il personal computer. Da quel momento, con la “rivoluzione digitale”, costruttori di computer e geniali inventori di software hanno cominciano a cambiarci la vita. Che dire poi dell’avvento di Internet: nel 1987 erano connessi in rete 10.000 computer, ma nel 1993 comparve Mosaic, il primo browser, e nel 1996 i computer connessi erano già 10 milioni; oggi sono 3 miliardi e a loro si aggiungono 3 miliardi di dispositivi mobili. Qualcosa è cambiato, non c’è dubbio, e la “rivoluzione” si è arricchita di protagonisti e comprimari: alla coppia iniziale hardware-software, riassume Glauco Benigni, si sono aggiunti i servizi di e-commerce e di e-banking, i motori di ricerca, i social network, i blog, i siti di informazione, le Tv online e i loro antagonisti, hacker e pirati.
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Flores d’Arcais: a Bruxelles, Tsipras meglio di Grillo
«C’è una strettissima convergenza di interessi fra l’establishment delle istituzioni europee e l’establishment italiano rappresentato da Napolitano e da Letta, ma se la gigantesca opposizione che c’è nel paese trovasse modo di avere anche una sua rappresentanza politica parlamentare la situazione cambierebbe radicalmente». Paolo Flores d’Arcais accetta la scommessa di Barbara Spinelli e punta sul greco Tsipras per costruire un’alternativa europea: dire “no” a Bruxelles significa anche riuscire a mobilitare la “sinistra sommersa” e l’opinione pubblica italiana, quella che gonfia i movimenti e vince i referendum, ma poi alle elezioni non ha chances, diserta le urne o si rassegna a votare “5 Stelle”, cioè l’autocrate Grillo e l’oscuro Casaleggio. Attenzione: il M5S «entrerà in crisi, in due o tre anni». Si tratta quindi di ereditarne le virtù «ma non i suoi gravissimi vizi». Vietato sbagliare, o si spalancherà «lo spazio per una proposta eversiva di destra». La Grecia insegna: «Se non ci fosse Syriza potrebbe dilagare Alba Dorata».Intervistato – come la Spinelli – dal quotidiano ellenico “Avgì” (aurora), il direttore di “Micromega” traccia un’analisi impietosa dell’attuale offerta politica italiana: dilaga la disaffezione perché la casta nazionale si limita ad eseguire i diktat di quella di Bruxelles “suicidando” il paese, ma milioni di italiani – pure attivissimi nei movimenti – non hanno nessuna vera possibilità di rappresentazione, al di fuori del M5S. «L’unica forza di opposizione oggi presente in Parlamento è il “Movimento 5 Stelle” di Beppe Grillo, una grande forza politica di massa (rappresenta grossomodo il 25% dei votanti) ma strutturata in modo debolissimo e soprattutto con un gruppo dirigente fatto di due persone, Beppe Grillo e un personaggio molto inquietante, che si chiama Casaleggio. Il M5S ondeggia perciò a seconda degli umori di questi due capi. Insomma, la vera forza di Letta è la debolezza dell’opposizione». Il governo? «E’ debolissimo nel paese perché inviso alla schiacciante maggioranza dei cittadini». E inoltre Matteo Renzi, «personaggio di destra “alla Blair”», non ha intenzione di appoggiarlo a lungo.Il realtà quello che conta «non è il governo Letta ma il governo Napolitano», dato che l’uomo del Colle «si comporta come un vero e proprio sovrano, attribuendosi poteri che la Costituzione non gli dà». A livello politico organizzato, «la sinistra non esiste», e «da molti anni». La sinistra «esiste invece nella società civile: e la distanza tra una sinistra sempre meno esistente nella politica ufficiale e una sinistra sempre più forte nella società civile continua ad aumentare». Primo problema, il Pd: «Non è più di sinistra», dai tempi di D’Alema e Veltroni, «che hanno realizzato una vera mutazione antropologica del partito, rendendolo parte dell’establishment». Sel e gli altri piccoli partiti? «Non contano più nulla». Ammesso che Sel riesca a superare lo sbarramento del 4%, «il suo leader Vendola sempre di più si trova implicato in inchieste che ormai stanno distruggendo la sua reputazione». Oltre a Sel, il buio: «Rifondazione, i Verdi e gli altri gruppi politici non rappresentano nulla: se non si capisce questo non si capisce la situazione italiana».Per contro, questa “sinistra sommersa” negli ultimi quindici anni è diventata una sinistra di piazza, ricorda Flores d’Arcais. Nel 2002, coi “girotondi”, Nanni Moretti riuscì a portare in piazza San Giovanni a Roma un milione di persone, catalizzando «una voglia di autoorganizzazione che era gigantesca», fino al “popolo viola” e oltre, per arrivare ai referendum del 2011 sul nucleare e sull’acqua pubblica. Ma il problema è che «questa opposizione civile e sociale non ha rappresentanza politica: i suoi militanti si sentono cittadini orfani di rappresentanza». E’ quella che Giulietto Chiesa e i suo movimento, “Alternativa”, chiamano «la voragine dei non-rappresentati», ricordando che alle ultime politiche, quelle del “boom” di Grillo, un italiano su due ha comunque disertato le urne. Elettori mobilitabili da ideali forti, riassumibili nello slogan “giustizia e libertà”? «Nanni Moretti pensava che l’area dell’attuale Pd fosse ancora recuperabile e lo crede anche ora appoggiandolo. Non abbiamo avuto il coraggio di dare un seguito organizzato ai girotondi», ammette Flores d’Arcais, citando anche il caso della Fiom, a cui molti movimenti chiedevano che il sindacato “rosso” mettesse in campo «obiettivi politici molto più espliciti, dicendo che i nemici della Costituzione oggi non sono solo le destre ma anche Letta, il Pd e il presidente Napolitano». In questo caso, l’ultima manifestazione per la difesa della Costituzione «sarebbe stata gigantesca con effetto di mobilitazione straordinario, e oggi non avremmo movimenti sociali ambigui come il movimento dei Forconi».Le europee – maggio 2014 – sembrano davvero l’ultima occasione. Se fossero elezioni nazionali, Flores d’Arcais voterebbe Grillo, «perché non ci sarebbe spazio reale per una lista nuova di “Giustizia e Libertà”». Trattandosi invece di Bruxelles, forse c’è spazio per un’alternativa, dal momento che «con la nuova legge elettorale si può presentare un candidato alla presidenza europea». L’unica carta giocabile è quella del leader greco Alexis Tsipras: «C’è oggi una sola forza politica di sinistra in Europa e si chiama Syriza (negli altri paesi o non sono di sinistra o non sono “forze”). Per questo pensiamo che una lista rigorosamente della società civile con Tsipras potrebbe avere un buon risultato». In Italia, «solo una lista che raccolga esperienze e movimenti della società civile può evitare l’ennesimo fallimento minoritario», a patto che questa lista resti lontana dalle vecchie sigle perdenti: chi si allea con l’ex “sinistra arcobaleno” – Ingroia docet – è condannato a veder dimezzati i propri voti.«Una qualsiasi lista che, poniamo, potenzialmente avesse il 10% dei voti, se si allea anche con Rifondazione o i Verdi o i Comunisti Italiani prenderebbe il 5%», dice Flores d’Arcais. «Una lista autonoma che avesse potenzialmente il 5% dei voti, se si allea con Rifondazione e gli altri prenderebbe il 2%», perché «invece di produrre una somma», oggi «allearsi con uno qualsiasi di questi partitini produce una sottrazione». Poi servono innanzitutto cervelli: quante delle personalità che hanno animato lotte e movimenti sono convinte della necessità di una lista nuova, autonoma? Quanti personaggi pubblici, invece, si illudono ancora che si possa trasformare il Pd dall’interno o recuperare Sel o replicare l’esperienza della lista-Ingroia? «Bisognerà perciò verificare se almeno un centinaio di persone eminenti nei vari campi – scrittori, filosofi, sociologi, scienziati, personalità del cinema e della musica – condividano la nostra ipotesi». Se l’adesione sarà forte, servirà il terzo passo: verificare la disponibilità dei movimenti, per poi promuovere la nascita, a tappeto, di club di sostegno completamente indipendenti. «Per andare al Parlamento Europeo dovremo superare il 4%. Se questa lista prende un risultato intorno al 5% non avrà futuro, sarà una manifestazione di testimonianza». Per Flores d’Arcais, la soglia-verità è quella del 10%.«C’è una strettissima convergenza di interessi fra l’establishment delle istituzioni europee e l’establishment italiano rappresentato da Napolitano e da Letta, ma se la gigantesca opposizione che c’è nel paese trovasse modo di avere anche una sua rappresentanza politica parlamentare la situazione cambierebbe radicalmente». Paolo Flores d’Arcais accetta la scommessa di Barbara Spinelli e punta sul greco Tsipras per costruire un’alternativa europea: dire “no” a Bruxelles significa anche riuscire a mobilitare la “sinistra sommersa” e l’opinione pubblica italiana, quella che gonfia i movimenti e vince i referendum, ma poi alle elezioni non ha chances, diserta le urne o si rassegna a votare “5 Stelle”, cioè l’autocrate Grillo e l’oscuro Casaleggio. Attenzione: il M5S «entrerà in crisi, in due o tre anni». Si tratta quindi di ereditarne le virtù «ma non i suoi gravissimi vizi». Vietato sbagliare, o si spalancherà «lo spazio per una proposta eversiva di destra». La Grecia insegna: «Se non ci fosse Syriza potrebbe dilagare Alba Dorata».
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Srm, scudo solare chimico: l’alibi per la guerra climatica
«Se partiamo dal presupposto che nel 2025 la nostra strategia di sicurezza nazionale includerà la modificazione del clima, il suo uso nella nostra strategia militare nazionale sarà la naturale conseguenza». Modificare il clima: era l’orizzonte a cui già nel lontano 1996 puntava la Air University, una dépendance dell’aviazione Usa con sede nella base aerea di Maxwell, in Alabama. A quanto pare, avvertono Giulietto Chiesa e Paolo De Santis citando fonti delle Nazioni Unite, la “conquista” del clima è già cominciata: per l’Ipcc, il panel scientifico dell’Onu sul clima, la creazione di uno “scudo termico” per proteggere la Terra dall’irraggiamento del sole sarebbe l’unica possibilità di scongiurare la catastrofe del surriscaldamento globale. Lavori già in corso da tempo? «Nessuno di noi ne deve sapere nulla, perché evidentemente la missione è stata interamente delegata ai militari». E mentre i “debunker” tentano di ridicolizzare chi parla di “scie chimiche”, il Palazzo di Vetro squarcia un velo sulle nuove frontiere della geo-ingegneria. E ammette: nessuno è in grado di valutarne gli “effetti collaterali” sul pianeta.
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Ieri il nazismo, oggi il caos che prepara la mattanza
Mi è capitato di ricevere in regalo, tra il Natale e i fuochi d’artificio di fine anno, due libri, che subito consiglio di leggere: “Come si diventa nazisti”, di William Sheridan Allen (introduzione di Luciano Gallino), Feltrinelli, e “La famiglia Karnowski”, di Israel Singer, Adelphi. Ho finito il secondo, che è un grande, grandissimo romanzo, e sto leggendo il primo. Entrambi quasi freneticamente. Diciamo che sono entrato nel 2014 sotto l’impressione fortissima provocatami da queste letture. Un caso? Naturalmente è un caso. Ma la nostra vita è piena di “casi”, di coincidenze che, a guardare bene, qualche cosa significano; che sono il prodotto di “atmosfere” magari impalpabili, ma che muovono i nostri gesti, aprono e chiudono i cassetti delle nostre emozioni, qualche volta richiamando ricordi, altre suggerendo attese premonizioni, o confermandole; che ci collegano a emozioni di altri, che circolano nell’aria e si trasmettono più sottilmente dei bacilli del raffreddore.Chissà perché due persone diverse, l’una indipendentemente dall’altra, hanno sentito il bisogno, o il gusto, di indirizzare i miei pensieri in una certa direzione. Proprio adesso. E chissà perché, questa volta – di nuovo “per caso”? – ho deciso di leggere subito l’uno e l’altro di questi due regali. Un titolo (e l’autore della presentazione) del primo può spiegare il mio interesse contingente. Ma il secondo è nato dalla mia ignoranza (avevo confuso Israel Singer con suo fratello Isaac Singer, il secondo essendo un premio Nobel per la letteratura, scrittore tra i miei primi preferiti). Eppure quest’ultimo mi ha portato sulla stessa carreggiata dell’altro, dove non pensavo di passare. L’impressione, l’emozione, sono evidentemente collegate al presente e al prossimo futuro. Ma le due “storie” si riferiscono entrambe all’intervallo tra le due guerre mondiali, e ai luoghi (la Germania, l’Austria, la Polonia, la Galizia, la Russia) in cui la seconda guerra mondiale si preparò senza che quasi nessuno – tra le vittime, intendo dire – se ne accorgesse.William Sheridan Allen racconta, con una inchiesta fittissima di dati, come una comunità pacifica, sostanzialmente democratica, attraversata da una crisi economica e sociale, e – evidentemente – morale, si trasforma in pochi anni in un piccolo, feroce esercito di fanatici, di assassini e di complici di assassini. Israel Singer racconta, in forma di romanzo, la saga della famiglia Karnowski, il cui capostipite, David, emigra a Berlino da una microscopica comunità di ebrei polacchi, attraversando una delle frontiere su cui, non molti anni dopo, si massacreranno milioni, e facendo vivere a se stesso, a suo figlio Georg, e al suo nipote Jegor, la tremenda esperienza della persecuzione nazista. Non voglio qui raccontare nulla di queste ricostruzioni, una letteraria, l’altra storiografica: non è questo l’intento, e la sede. Del libro di Israel Singer voglio qui sottolineare soltanto la profondità – e l’umanità, inevitabilmente, a tratti, feroce – dell’analisi della stratificazione delle comunità ebraiche che s’incrociano nella Berlino tra le due guerre. Delle loro miserie e viltà reciproche, come del coraggio e della vitalità insopprimibile con cui si difesero, o semplicemente soffrirono e subirono.Sullo sfondo, senza che mai appaia la parola “nazismo”, si scorge il prima lento e poi impetuoso muoversi dei “giovanotti con gli stivali” che arriveranno al potere. Il tutto con la connivenza corale di presunti “ariani” di ogni classe. Una tragedia che avviene, matura, prima impercettibilmente, poi con la forza di un torrente in piena che tutto travolge. “Resistibile” – come la chiamò Bertolt Brecht – lo sarebbe stata soltanto se coloro che la subirono, o l’appoggiarono, si fossero accorti dove avrebbe portato. La famiglia ebraica dei Karnowski precipita nello stesso gorgo che gli abitanti della piccola città dell’Hannover (tutti, senza eccezione: commercianti, impiegati, operai, padroni) stavano contribuendo a creare. Hitler arriva al potere con il consenso delle masse, trasformatesi in una micidiale miscela esplosiva. Qui si affaccia l’analogia con il nostro presente. L’Europa, di cui ci apprestiamo a eleggere quest’anno il nuovo Parlamento, è attraversata da una crisi che ne mette in discussione le fondamenta. Umori analoghi a quelli di allora, non identici, serpeggiano a tutti i livelli. Non ci sono “giovanotti con gli stivali” che marciano delle strade, ma ci sono – in uffici senza rumori – signori in giacca e cravatta la cui ferocia, già ampiamente dimostrata, è gelidamente, religiosamente superiore a quella dei faraoni. Non solo non c’è giustizia: non c’è ragionevolezza, non c’è visione. C’è, si vede, basta guardare bene in mezzo alla nebbia del mainstream, il caos che prepara una mattanza.Leggendo questi due libri ho avvertito la sensazione di trovarmi su un piano inclinato, che sta accentuando la sua pendenza. 1929: aggiungi dieci anni e avrai il 1939. 2008: aggiungi dieci anni e otterrai 2018. So bene che le analogie sono spesso cattivi indicatori. So bene che i ricorsi storici non esistono, com’è vero che l’umanità non si può mai bagnare due volte nella stessa acqua. La questione, ora, è che potrebbe non esserci più acqua. Ma basta guardare due dati: quello del riscaldamento climatico in atto e quello della produzione “infinita” di denaro, cioè di debito, per capire che la crisi del 1929 fu un esercizio di bella calligrafia rispetto a quello che si avvicina a passi da gigante: scarabocchio mostruoso che minaccia qualcosa di inimmaginabile.(Giulietto Chiesa, “Segnali di ricorsi storici?”, da “Il Fatto Quotidiano” del 7 gennaio 2013).Mi è capitato di ricevere in regalo, tra il Natale e i fuochi d’artificio di fine anno, due libri, che subito consiglio di leggere: “Come si diventa nazisti”, di William Sheridan Allen (introduzione di Luciano Gallino), Feltrinelli, e “La famiglia Karnowski”, di Israel Singer, Adelphi. Ho finito il secondo, che è un grande, grandissimo romanzo, e sto leggendo il primo. Entrambi quasi freneticamente. Diciamo che sono entrato nel 2014 sotto l’impressione fortissima provocatami da queste letture. Un caso? Naturalmente è un caso. Ma la nostra vita è piena di “casi”, di coincidenze che, a guardare bene, qualche cosa significano; che sono il prodotto di “atmosfere” magari impalpabili, ma che muovono i nostri gesti, aprono e chiudono i cassetti delle nostre emozioni, qualche volta richiamando ricordi, altre suggerendo attese premonizioni, o confermandole; che ci collegano a emozioni di altri, che circolano nell’aria e si trasmettono più sottilmente dei bacilli del raffreddore.
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Giulietto Chiesa: con Tsipras, contro questa infame Ue
Ok a una una lista civica italiana per candidare il capo di Syriza, Alexis Tsipras, alla guida della Commissione Europea: la proposta di Barbara Spinelli, intervistata dal giornale greco “Avgì”, ci permette di «andare alle elezioni del prossimo maggio meno disarmati», sostiene Giulietto Chiesa. Tsipras sarà alla guida di una coalizione “di sinistra”, e nello stesso tempo «alla testa di un partito che potrebbe aspirare al governo della Grecia martoriata dalla violenza neo-liberista». Attenzione, Tsipras è anche «un simbolo della resistenza europea contro le politiche di austerità imposte dalla Trojka». Ha ragione la Spinelli: «In questo momento non c’è candidato migliore e meglio rappresentativo delle istanze popolari e democratiche europee», mentre la politica italiana offre lo sconfortante spettacolo delle “larghe intese”, promosse da un presidente come Napolitano che «è uscito ripetutamente dalle sue prerogative costituzionali», perseguendo un disegno di sostanziale obbedienza ai diktat di Bruxelles, con risultati catastrofici: economia ko, Italia costretta a svendere tutto.Per Giulietto Chiesa, fondatore del laboratorio politico “Alternativa”, Barbara Spinelli coglie nel segno anche quando avverte che i «vecchi partiti della sinistra radicale» non dovranno essere l’architrave della proposta-Tsipras, perché «abbiamo bisogno di qualcosa di più grande, qualcosa per scuotere la coscienza della società», superando i margini molto esigui dei rottami della sinistra “arcobaleno”. Se il Partito della Sinistra Europea ha lanciato anch’esso, nel suo congresso costitutivo di Madrid, la candidatura Tsipras, al di là delle migliori intenzioni – secondo Chiesa – il perimetro storico della sinistra rischia di essere un limite invalicabile, un vicolo cieco. Ne è convinto anche il direttore di “Micromega”, Paolo Flores D’Arcais: «La parola sinistra rischia di essere equivoca, oggi: paradossalmente, non usarla è meno equivoco che usarla», dal momento che “sinistra”, per molti, è ormai in contrapposizione con gli ideali di giustizia e libertà.La parola “sinistra” ricorda l’esperienza fallitmentare del socialismo reale, nonché «la catastrofe politica e ideale che ha seguito la sparizione del Pci». E richiama alla mente «i partitini che si definiscono neocomunisti e che sono una parodia», non solo in Italia ma anche nel resto d’Europa. Rimettere in piedi qualcosa a tutti i costi, ripartendo sempre da quel disastro storico, per Aldo Giannuli ha tutta l’aria di un «accanimento terapeutico». Insistere con l’idea della “ricostruzione della sinistra”, aggiunge Giulietto Chiesa, significa anche restare fuori dalla realtà, prigionieri della logica degli steccati. E oltretutto «taglia fuori, in linea di partenza, ogni rapporto con gli otto milioni di elettori del “Movimento 5 Stelle”», cioè «l’unico insediamento istituzionale di una opposizione in Italia». Vero, il movimento diretto da Grillo e Casaleggio resta refrattario a qualsuasi alleanza. Ma perché «tagliarlo fuori dal dialogo che potrebbe condurre ad una lista civica nazionale come quella che noi proponiamo»?A differenza della sinistra in Italia, in Grecia Syriza è una forza politica in forte ascesa. Valide alcune istanze del Partito della Sinistra Europa, così come del “Movimento 5 Stelle”, ma la forma-partito «è un evidente ostacolo a ogni convergenza, ed è dunque prodromo di sconfitta». Barbara Spinelli propone un’alleanza civica «di cittadini attivi, di persone della società civile», disposti a mobilitarsi per Tsipras. «La strada è quella dei contenuti», continua Chiesa. «Se si sceglie Tsipras come candidato comune, sarà necessario fare riferimento alla sua intelligenza politica e alle sue posizioni: che non sono quelle del rifiuto dell’Europa, ma che la vogliono radicalmente cambiata». Un’Europa che sia una “unione”, diversa dall’attuale “equilibrio di potenze”, basato sugli egoismi nazionali, che si è trasformato nel dominio dei più forti sui deboli, senza meccanismi di riequilibrio economico e sociale.Giulietto Chiesa scende nei dettagli: serve un’Europa democratica e solidale, pacifica e non imperiale. Un’Europa «che cancelli i trattati di Maastricht e di Lisbona, fino al Fiscal Compact e a quel mostro intollerabile che è la costituzione, in corso, di Eurogendfor», la temuta super-gendarmeria europea (sostanzialmente antisommossa) non sottoposta a nessuna magistratura. Serve un’Europa non più ostile, «con una banca centrale interamente pubblica, i cui soci sono le banche centrali interamente pubbliche dei paesi membri». Una nuova Bce, che sia «prestatore in ultima istanza» e «abbandoni la linea dell’austerità». E infine «un’Europa che svolga un ruolo autonomo e sovrano nel contesto internazionale, interlocutrice non più subalterna degli Stati Uniti, propugnatrice di una partnership strategica con la Russia». Questo è Tsipras, «e con questo noi siamo in perfetta sintonia». Ma, aggiunge Chiesa, «occorre verificare chi, in Italia, lo è. E trovare un punto di convergenza che sia comprensibile per le grandi masse popolari di questo paese».Attenzione: l’interlocutore potenziale è costituito da milioni di elettori, a una condizione: «Questo programma non lo si può fare con l’illusione di trasformare il Partito Democratico. La sua dirigenza (non necessariamente i suoi elettori) non è riconducibile ai valori della Costituzione. Infatti è da lì che viene l’attacco a quei valori, impersonato dal presidente della Repubblica». Meglio dunque «riflettere seriamente», anche «per evitare di rimanere intrappolati su posizioni anti-europee che si stanno rapidamente diffondendo a partire dalle destre più o meno estreme», come dimostra l’appello del 27 dicembre, indirizzato ai “maggiordomi” italiani ed europei da parte di un gruppo di intellettuali guidati da Etienne Balibar. Un cambio di rotta per l’Europa? «Si tratta ora di vedere se e quante personalità indipendenti sono pronte ad assumersi la responsabilità di questo passo, rappresentato dalla creazione di una lista civica nazionale». I movimenti che lottano per i “beni comuni” saranno pronti a rispondere all’appello? Per Giulietto Chiesa serve «un programma sintetico, da proporre a milioni di italiani, comprensibile a tutti ed espresso in pochi punti». “Alternativa” nel propone uno, lapidario: «L’Italia non parteciperà più a nessuna azione militare fuori dai suoi confini».Ok a una una lista civica italiana per candidare il capo di Syriza, Alexis Tsipras, alla guida della Commissione Europea: la proposta di Barbara Spinelli, intervistata dal giornale greco “Avgì”, ci permette di «andare alle elezioni del prossimo maggio meno disarmati», sostiene Giulietto Chiesa. Tsipras sarà alla guida di una coalizione “di sinistra”, e nello stesso tempo «alla testa di un partito che potrebbe aspirare al governo della Grecia martoriata dalla violenza neo-liberista». Attenzione, Tsipras è anche «un simbolo della resistenza europea contro le politiche di austerità imposte dalla Trojka». Ha ragione la Spinelli: «In questo momento non c’è candidato migliore e meglio rappresentativo delle istanze popolari e democratiche europee», mentre la politica italiana offre lo sconfortante spettacolo delle “larghe intese”, promosse da un presidente come Napolitano che «è uscito ripetutamente dalle sue prerogative costituzionali», perseguendo un disegno di sostanziale obbedienza ai diktat di Bruxelles, con risultati catastrofici: economia ko, Italia costretta a svendere tutto.
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Mistero della Fed, il super-potere che domina il mondo
Le potenze del capitalismo finanziario avevano un piano chiarissimo, un obiettivo di lungo termine: «Creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, capace di dominare il sistema politico di ogni nazione e l’economia del mondo». Questo sistema «doveva essere controllato con modalità feudali delle banche centrali del mondo, attraverso accordi segreti». Cardine del sistema, la Banca per i regolamenti internazionali di Basilea, privata e controllata dalle banche centrali mondiali, a loro volta privatizzate. «Ogni banca centrale punta a dominare il suo governo attraverso la capacità di controllare i prestiti sui titoli di Stato, manipolare le valute estere, influenzare il livello di attività economica del paese e condizionare politici cooperativi e compiacenti attraverso ricompense economiche nel mondo del business». A scattare questa fotografia dello scenario attuale è il globalista Carroll Quigley, nel libro “Tragedia e speranza. Una storia del mondo nel nostro tempo”. L’aspetto sconvolgente, fa notare Mauro Bottarelli, è che quel libro uscì nel lontano 1966.Tutto chiaro: nuovo ordine mondiale. Ovvero: il capitalismo finanziario sfratta le sovranità nazionali, cioè l’economia pubblica e democratica, smantellando il potere degli Stati. Scomparso nel ’77, Quigley era un membro molto influente del “Council on Foreign Relations”, il super-salotto che detta l’agenda economica, finanziaria e geopolitica americana attraverso le sue sedi di Washington e New York. Tra i suoi 1.4000 membri, il vero super-potere mondiale, figurano militari e grandi banchieri, rettori universitari e direttori di giornali e televisioni, i vertici delle fondazioni Ford e Rockefeller, presidenti americani (Hoover, Eisenhower, Johnson e Nixon) e segretari di Stato come Edward Reilly Stettinius, Dean Acheson, John Foster Dulles, Christian Archibald Herter e Dean Rusk. Essendo la banca centrale più potente al mondo, la Federal Reserve – che ha appena compiuto cent’anni – era dunque destinata, fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, a un ruolo egemone per portare a termine il progetto globalista. Obiettivo: imporre la sua agenda ai governi, scavalcando la funzione pubblica.Murray Rothbard, economista americano di scuola austriaca, descrive così la banca centrale Usa: «L’operazione più segreta e meno riconducibile al governo federale non è, come ci si potrebbe aspettare, la Cia, la Dia, o qualche altra agenzia di intelligence super-segreta», perché tutte le strutture di intelligence sono comunque sottoposte al controllo democratico del Congresso. In segretezza, la Fed batte ogni altra struttura: «Il Federal Reserve System non è riconducibile a nessuno, non ha un budget, non è soggetto a nessun controllo e nessuna commissione del Congresso conosce le sue operazioni o le può davvero supervisionare». La Federal Reserve, che ha il controllo totale del sistema monetario statunitense, «non deve rendere conto a nessuno». Ecco perché per la Fed, come anche per le altre banche centrali, «è sempre stato importante investirsi di un’aura di solennità e di mistero». Infatti, «se la popolazione sapesse ciò che sta succedendo, se fosse in grado di strappare la tenda che copre l’imperscrutabile Mago di Oz, scoprirebbe ben presto che la Fed, lungi dall’essere la soluzione indispensabile al problema dell’inflazione, è essa stessa il cuore del problema».Nessuna sorpresa che un liberale puro con Rothbard abbia in odio la Fed, ammette Bottarelli su “Il Sussidiario”, ma il cuore del problema è: le banche centrali, Fed in testa, anche grazie a questa crisi sono oggi il potere principale a livello politico ed economico. «Cosa sarebbe oggi Wall Street senza la Fed e la sua liquidità? Dove sarebbero i tassi dei Treasuries e quindi il cuore stesso del sistema immobiliare dei mutui, già massacrato dai subprime? Cosa sarebbe l’America senza gli stop-and-go della Fed sul “taper”, capaci di livellare tassi e far sgonfiare e rigonfiare – evitando l’esplosione – la bolla di liquidità? Temo sarebbe un paese schiantato dalla più colossale crisi finanziaria dal 1929, superata – un eufemismo, vista l’economia reale e le sue grida di dolore – creando la più grossa bolla speculativa e di credito della storia. E, di fatto, rendendo il Congresso poco più che un’appendice, cui far recitare melodrammi a soggetto come quello dello “shutdown” o del “debt ceiling”, pantomime che tornano ciclicamente».La leva del comando è nelle mani della Fed, molto più che all’epoca di Alan Greenspan: «Lo sta diventando ora, grazie a questa crisi che ha reso tutti – finanza, economia, politica – dipendenti dalla Fed e dalle sue azioni. Se la Fed vuole crolla tutto, se non vuole gonfia bolle come bambini durante una festa e fa sfondare a Wall Street un record dopo l’altro, visto che comunque i suoi “azionisti di maggioranza” grazie a quei record e a quella liquidità fuori controllo, macinano soldi su soldi». E la stessa Bce? «Non è forse diventata il fulcro dell’intero sistema Europa, politico ed economico, grazie a questa crisi?». Unione bancaria, supervisione unica, regolamenti per i fallimenti e le nazionalizzazioni di istituti, tassi d’interesse, operazioni di finanziamento e rifinanziamento: «Quale Stato può andare contro la Bce? Nessuno, e l’Italia ne sa qualcosa. Chi ha creato, infatti, se non l’Eurotower, il cordone ombelicale tra debito sovrano e sistema bancario, con la liquidità offerta a costo zero alle banche affinché con quei soldi comprassero titoli di Stato dei paesi in crisi, abbassando artificialmente lo spread?».Quello che Bottarelli chiama «incesto» è oggi sotto gli occhi di tutti: «Solo le banche italiane hanno 450 miliardi di debito pubblico nei bilanci, quelle greche hanno ricomprato il 99% del debito ellenico detenuto da soggetti esteri, spalancando le porte al fallimento del paese senza conseguenze, quelle spagnole pure, quelle portoghesi anche». I governi di questi paesi possono forse fare qualcosa al riguardo? «No, devono sottostare alle regole della Bce, la quale può uccidere o lasciare in vita un governo come una banca con una semplice decisione sui tassi, visto che non esiste più alcuna leva di sovranità per le nazioni». La Bce di Trichet era così forte? «No, lo sta diventando sempre più e sempre più in fretta quella di Mario Draghi, uomo Goldman Sachs». Eccesso dietrologico? «Forse, ma rileggete le parole di Carroll Quigley, datate 1966». Nient’altro che un’unica, colossale “coincidenza”? Certo, ha il suo peso l’insaziabile avidità dei banchieri affaristi. Ma c’era soprattutto un duplice obiettivo da centrare: «Far purgare un sistema ormai marcio, tra derivati e altre porcherie, e contestualmente preparare il campo per l’ascesa della Fed e delle altre banche centrali a nuovi riferimenti politici».Perché chi ha visto nascere questa crisi è stato deriso e isolato? Evidente: rischiava di rivelare la vera natura dell’operazione. La verità è che il 15 settembre 2008 qualcuno ha deciso che la crisi doveva prendere un’altra piega e un’altra velocità, insiste Bottarelli. Chi ha deciso di far morire Lehman Brothers, salvando tutti gli altri? E’ stata proprio la Fed di Ben Bernanke, di concerto con l’ex segretario al Tesoro, Henry Paulson. Quel fallimento, aggiunge Bottarelli, aveva un scopo preciso: «Tramutare la Fed nel motore immobile del sistema economico-politico-finanziario Usa e mondiale». Inutili le proteste di Dick Fuld, già capo di Lehman Brothers: «Paulson ha fornito dati compromessi agli altri istituti di credito quando c’era bisogno di aiutarci, non avevamo problemi di liquidità». Il riferimento di Fuld è noto: nella notte del 14 settembre 2008, quindi il giorno prima della bancarotta, ci fu un meeting fra Paulson e i vertici delle principali banche di Wall Street. Erano presenti anche il presidente della Fed di New York, Timothy Geithner, il numero uno di Bank of America, Kenneth Lewis, e il capo della Sec, Christopher Cox. Per tenere in piedi la Lehman Brothers servivano 100 miliardi di dollari. Ma a porre il veto furono Paulson e la Merrill Lynch. Gli altri non mossero un dito e Lehman fallì.Attenzione: nella stessa settimana della bancarotta di Lehman Brothers, aggiunge Bottarelli, sono state salvate American International Group e la stessa Merrill Lynch, mentre fu concesso a Goldman Sachs e Morgan Stanley di diventare holding bancarie. Perché invece a Lehman Brothers fu impedito di cambiare statuto? La Lehman non era certo la sola a ottenere liquidità a breve termine “esternalizzando” le perdite, «ma la differenza è che affondando Lehman Brothers si affondava un simbolo e si rimetteva Wall Street, così come il Congresso, nelle mani della Fed, inviando anche uno scossone globale agli altri sistemi finanziari esposti verso l’ex gigante». All’epoca, un maxi-salvataggio pubblico non sarebbe ancora stato facilmente digeribile dagli americani, dalla politica e dai mercati. «Ma poi i tempi cambiano», e alla Casa Bianca arriva il primo presidente di colore, che «promette di far pagare il conto della crisi a Wall Street», e invece «la facilita con ogni mossa, lasciando campo sempre più libero allo strapotere della Fed». Un altro democratico, Bill Clinton, grande alfiere della globalizzazione, fu il primo «a creare le condizioni della crisi subprime con la sua politica di mutui a cani e porci con garanzie zero», facendo «pagare il conto dei fallimenti ai cittadini che compravano qualsiasi cartaccia gli venisse proposta come investimento». Tutte coincidenze?Le potenze del capitalismo finanziario avevano un piano chiarissimo, un obiettivo di lungo termine: «Creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, capace di dominare il sistema politico di ogni nazione e l’economia del mondo». Questo sistema «doveva essere controllato con modalità feudali delle banche centrali del mondo, attraverso accordi segreti». Cardine del sistema, la Banca per i regolamenti internazionali di Basilea, privata e controllata dalle banche centrali mondiali, a loro volta privatizzate. «Ogni banca centrale punta a dominare il suo governo attraverso la capacità di controllare i prestiti sui titoli di Stato, manipolare le valute estere, influenzare il livello di attività economica del paese e condizionare politici cooperativi e compiacenti attraverso ricompense economiche nel mondo del business». A scattare questa fotografia dello scenario attuale è il globalista Carroll Quigley, nel libro “Tragedia e speranza. Una storia del mondo nel nostro tempo”. L’aspetto sconvolgente, fa notare Mauro Bottarelli, è che quel libro uscì nel lontano 1966.
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Nuova Resistenza, contro chi ha tradito l’Italia per l’Ue
La Costituzione italiana del 1948 fu il prodotto di un processo costituente reso necessario dal tradimento delle classi dirigenti che avevano abbandonato la guida del paese e svenduto la sua sovranità a interessi e paesi stranieri. Fu anche il tentativo di rimettere in piedi un progetto condiviso tra forze politiche, sociali, culturali e religiose diverse ma concordanti su alcuni punti centrali di pace, di giustizia sociale, di valorizzazione delle risorse nazionali e di rilancio di un contributo autonomo dell’Italia alla realizzazione di questi obiettivi in e con la solidarietà di altri paesi. Il progetto europeo fu il prodotto di queste scelte e di questo clima politico, e non certo d’illuminati europei delle cancellerie degli Stati o di intellettuali impegnati nella elaborazione delle teorie sulla pace universale.L’Europa di Ernesto Rossi e di Altiero Spinelli nacque dal bisogno di contrapporre all’idea nazista della Grande Europa l’idea internazionalista di un’Europa di pace e solidarietà. La rottura del patto costituzionale, già incrinato dalle imposizioni della Guerra Fredda, si realizza dagli anni Novanta con la scelta di parti importanti delle élite politiche di svendere la sovranità politica del paese e le ricchezze nazionali per inserirsi nel gioco dei nuovi centri internazionali del potere militare, economico e finanziario. I passaggi principali di questo trasfigurazione del patto costituzionale sono noti e documentati. L’ex ministro delle finanze Giuseppe Guarino ne ha dato un resoconto puntuale nel suo scritto “Un saggio di verità sull’Europa e sull’euro” nel quale data al 1999 il “colpo di Stato” attuato dai poteri europei contro gli Stati nazionali espropriandoli della loro sovranità economica.L’euro è parte integrante di questa operazione resa possibile dal trasformismo (Mauro Fotia, “Il consociativismo infinito”, 2011) di parte delle élite nazionali dei paesi europei, e dell’adesione corporativa a questo piano da parte di sindacati, sinistra europea, organi separati del potere (istituzioni, magistratura, ecc.) interessati a negoziare la propria adesione alla nuova struttura del potere con la conservazione dei propri privilegi (Giulio Sapelli, “Chi comanda in Italia”, 2013). Sono gli anni in cui si organizza scientificamente la conquista del potere da parte della borghesia globale, mettendo fuori gioco le istituzioni democratiche esistenti mediante la loro delegittimazione sistematica, fino allo stravolgimento del sistema politico italiano attuato su direttiva della Troika e dei nuovi poteri finanziari nel 2011 (governo Monti e seguenti).Questo piano si realizza con la copertura del polverone mediatico che utilizza le sue armi di confusione di massa per dividere le opposizioni e le voci critiche su falsi obiettivi: pro o contro l’Europa, pro o contro l’euro, pro o contro la Costituzione, pro o contro la democrazia, pro o contro la corruzione. Su queste false divisioni si realizza l’unità delle nuove élite europee che assorbono le élite politiche nazionali dentro il nuovo meccanismo del potere trasversale ai partiti e ai poteri economici. Mentre l’attenzione si concentra sui “faccendieri”, sui “furbetti” sul “bunga bunga”, le P4 o P5, la Troika consolida il proprio potere sparando nel mucchio e rimuovendo con l’appoggio di pezzi delle istituzioni da incarichi istituzionali le persone “inaffidabili” al nuovo sistema di potere (da Baffi a Fazio).Si consolida così un sistema di potere autoritario in grado di controllare le politiche e le economie di tutti i paesi europei dei quali prende sempre più in presa diretta la gestione del potere. Un sistema di potere “criminale” del “capitalismo predatorio”, secondo la definizione utilizzata da James K. Galbraith per descriverne l’equivalente negli Stati Uniti. La resistenza a tutto questo c’è stata dagli anni Ottanta anche nel campo della cultura e della società civile. Tre voci a noi ben note, definite “gli innominati” della politica e dell’economia, sono state quelle di Federico Caffè, di Augusto Graziani e di Paolo Sylos Labini. Tre voci rapidamente isolate e marginalizzate da una sinistra e forze della società civile impegnate a ritagliarsi spazi “critici” e di proprio inserimento e sopravvivenza dentro le nuove strutture del potere. Tre voci che non hanno mai confuso il diritto con l’economia, le teorie con il progetto politico, ma che hanno tentato e potentemente contribuito a servirsi di questi strumenti per tenere la dritta di un processo di costruzione democratica e sociale.La loro biografia documenta la loro attiva partecipazione e intreccio con il processo costituzionale. Il loro impegno di studio ha contribuito in modo veramente innovativo, con una innovazione a servizio dei cittadini e non del principe o dei baroni di turno, ad aprire nuove vie alla riflessione e alla elaborazione politica. Basta ricordare qui il contributo di Federico Caffè a creare le basi teoriche per una economia sociale e uno spirito civico di solidarietà sul quale far convergere pezzi diversi e importanti della cultura economica e civile italiana, al di fuori delle schematizzazione delle scuole accademiche. Uno sforzo ostacolato da chi allora propugnava approcci più o meno marxisti e che ritroviamo oggi nelle file del pensiero liberista e nei posti del potere economico e finanziario.Interrompendo due decenni di contrapposizioni teoriche sull’analisi di classe della società italiana, con le quali i partiti e il sindacato hanno reso impossibile ogni strategia politica di alleanze sociali che non fosse quella del loro schema preferito della “compartecipazione” al potere dominante, Paolo Sylos Labini produsse una riflessione sulle classi sociali in Italia a metà degli anni Settanta nel tentativo di riaprire uno spazio di iniziativa politica non corporativa e non trasformistica alla creazione di un sistema politico di alleanze popolari in Italia. Impegno contrastato da gran parte della cultura istituzionale e di sinistra in Italia. Infine è utile richiamare anche il contributo di Augusto Graziani, un economista di chiara impostazione marxista, che mai ha piegato l’analisi della questione meridionale alle mode sociologiche di sinistra degli anni Ottanta-Novanta orientate ad addomesticare il problema sociale e di classe del Mezzogiorno ai nuovi bisogni del potere che si è cercato di legittimare con la tesi della scomparsa della questione meridionale, dei distretti chiavi in mano importati dal nord, ecc.; tesi sostenute da chi è passato dalle posizioni di sinistra di riviste come i “Quaderni Piacentini”, “Stato e Mercato” a quelle di “Meridiana” e, poi, a posizioni accademiche e politiche di potere.Noi vogliamo ripartire da qui, dalla consapevolezza che il tradimento che ancora una volta si è consumato in questi anni, e che vede oggi coinvolte forze politiche, economiche e “sindacali”, richiede la nascita di una nuova resistenza, l’unione di tutte le forze popolari che vi si oppongono. Sarà la partecipazione a questa nuova resistenza a segnare i confini dell’appartenenza dei movimenti e dei partiti al nuovo arco costituzionale, all’elaborazione di un patto costituzionale così come fu dopo il 1945. Non esistono scorciatoie giuridiche o economiche per riappropriarsi della sovranità nazionale e del progetto europeo. Quanto è accaduto non è il frutto di ingordigia, di ignoranza, ma di una rapina annunciata e scientificamente attuata del potere.Non siamo in presenza di errori o di fallimenti, ma del pieno successo delle strategie messe in campo. La crisi ha segnato in modo chiaro i confini geografici e sociali delle forze in campo; partendo da questi deve ripartire la formazione di un blocco sociale e politico europeo e nazionale. Le proposte su come affrontare la situazione esistono. Non si tratta di aggiungere buone idee a quelle esistenti, di continuare nella gara sulle “buone pratiche” o della scoperta risolutiva dell’uovo di Colombo, ma di uscire dall’illusione del tecnicismo e del tatticismo. È necessario un grande sforzo di verità che sappia fondere insieme, così come fu con la Resistenza e la Costituente, proposte e movimenti popolari, scegliendo le idee sulla loro capacità di camminare sulle gambe delle persone coinvolte. Così come avvenne nel 1945 è necessario riproporre un progetto europeo di pace e di solidarietà che contrasti e travolga quello della Grande Germania, oggi espresso dalle istituzioni dell’Unione Europea.(Bruno Amoroso, “Un sistema europeo autoritario, quale alternativa”, dal blog “Insightweb”, ripreso da “Megachip” il 21 dicembre 2013).La Costituzione italiana del 1948 fu il prodotto di un processo costituente reso necessario dal tradimento delle classi dirigenti che avevano abbandonato la guida del paese e svenduto la sua sovranità a interessi e paesi stranieri. Fu anche il tentativo di rimettere in piedi un progetto condiviso tra forze politiche, sociali, culturali e religiose diverse ma concordanti su alcuni punti centrali di pace, di giustizia sociale, di valorizzazione delle risorse nazionali e di rilancio di un contributo autonomo dell’Italia alla realizzazione di questi obiettivi in e con la solidarietà di altri paesi. Il progetto europeo fu il prodotto di queste scelte e di questo clima politico, e non certo d’illuminati europei delle cancellerie degli Stati o di intellettuali impegnati nella elaborazione delle teorie sulla pace universale.
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Il generale Mini: la guerra climatica è già cominciata
La guerra ambientale non è più solo un’ipotesi: è già in atto. Ma guai a dirlo: si passa per pazzi. Eppure, «negare l’informazione è già un atto di guerra fondamentale», denuncia il generale Fabio Mini, che conferma tutto: la “bomba climatica” è la nuova arma di distruzione di massa a cui si sta lavorando, in gran segreto, per acquisire vantaggi inimmaginabili su scala planetaria. Alluvioni, terremoti, tsunami, siccità, cataclismi. Uno scenario che, purtroppo, non è più fantascienza. E da parecchi anni. Era il lontano 1946 quando Thomas Leech, scienziato e professore israeliano-neozelandese, lavorò in Australia per conto dell’Università di Auckland con fondi americani e inglesi per provocare piccoli tsunami. Il successo del “Progetto Seal” spaventò Leech spingendolo a fermarsi dopo i primi test. Ma chi ci dice che la manipolazione del clima non sia stata portata avanti? Oggi, con la robotizzazione, per molte “operazioni” bastano poche persone. «Non ci sono vincoli, non ci sono regole, se c’è la possibilità di farlo ‘qualcuno’ lo farà». Non i governi, ma ristrette élite.Ne ha parlato di recente, in un convegno a Firenze largamente disertato dai media, l’ex comandante delle forze Nato in Kosovo. Mini rivendica la responsabilità di aver posto in Italia l’attenzione su questo tema quando nel 2007 scrisse l’articolo “Owning the weather: la guerra ambientale è già cominciata”, ufficializzando uno scenario nuovo e inquietante: le forze della natura sono adoperate e piegate come strumento ed arma. Può accadere, sottolinea Mini, perché – come di fronte a qualsiasi altra aberrazione di carattere mostruoso – l’opinione pubblica è innanzitutto incredula: «La maggior parte delle persone ritiene inconcepibili certi scenari, in quanto non è al corrente delle progettazioni in materia di tecnologie militari e quindi delle conseguenti implicazioni». Da un lato c’è la rassicurante convenzione Onu del 1977, che proibisce espressamente «l’uso militare, o di altra ostile natura, di tecniche di modificazione ambientale con effetti a larga diffusione, di lunga durata o di violenta intensità». In realtà, al 90% le prescrizioni Onu vengono regolarmente disattese, in particolare dai militari. I quali «hanno già la capacità di condizionare l’ambiente: tornado, uragani, terremoti e tsunami alterati o addirittura provocati dall’uomo sono una possibilità concreta».I militari, riassume Mini – citato nel report del blog “No Geoingegneria” – prediligono la tecnologia. E le loro richieste alla scienza non sono per programmi attuabili a breve termine, ma sono progetti con sviluppi nel medio e lunghissimo termine. Attenzione: «Non esiste una moralità che possa impedire di oltrepassare un certo punto. Basti pensare allo sviluppo e le applicazioni degli ordigni atomici. Non esiste vincolo morale, ciò che si può fare si fa». Inoltre, la nuova tecnologia viene applicata anche a livello immaturo: «La voglia di conseguire un vantaggio spinge ad usare le tecnologie senza fare test a sufficienza. Una possibilità viene messa in atto per verificarne il funzionamento, sperimentandone direttamente sul campo gli effetti». Già nel 1995, uno studio dell’aeronautica militare statunitense (“Weather as a Force Multiplier: Owning the Weather in 2025”) delineava i piani da sviluppare per conseguire nell’arco di 30 anni il controllo del meteo a livello globale. Secondo Mini, non si parlava ancora di “possedere il clima”, ma di controllare il meteo e lo spazio atmosferico per condurre operazioni belliche, «per esempio irrorando le nubi con ioduro d’argento, altre sostanze chimiche o polimeri, per dissolverle oppure spostarle».Si tratta della possibilità di destabilizzare una regione o paese, in qualsiasi parte del mondo. Oggi, a 17 anni dalla pubblicazione di quello studio, secondo il generale Mini «siamo piuttosto vicini al traguardo del 2025». Secondo il meteorologo statunitense Edward Norton Lorenz, padre della “teoria del caos”, mai e poi mai avremo conoscenze sufficienti a verificare le effettive conseguenze di una modificazione climatica. Se qualcuno trae un vantaggio da una modificazione climatica, dall’altra ci sarà qualcun altro che ne subisce un danno, e non è detto che lo paghi in termini lineari, con conseguenze anche catastrofiche, che Lorenz chiama “effetto farfalla”. Proprio in quegli anni si comincia a pensare non solo di cambiare il meteo, ma di creare una situazione permanente e quindi di trasformare il clima. «Così qualcuno inizia a pensare: cosa rende l’Europa prospera e le garantisce un clima favorevole? La corrente del Golfo del Messico. Bene, allora qualcuno si è messo a studiare come modificare questa corrente. Non solo, ma qualcuno ha iniziato a chiedersi: possiamo provocare un terremoto? Qualcuno ha risposto ‘si può fare’». Qualcuno chi?La domanda, infatti, è particolarmente inquietante: da chi scaturisce quella volontà politica che sta alla base della catena di comando? Brutte notizie, dice Mini: gli Stati stanno perdendo il controllo della situazione, che è monopolizzata da ristrettissimi gruppi di potere. Il generale le chiama “bande”. Sono costituite da «persone, associazioni e corporazioni, coaguli di potere che non hanno nessun interesse istituzionale, ma conseguono solamente il proprio interesse, e nel nome di esso sono disposte a mandare in crisi un sistema per modificarlo a proprio vantaggio, utilizzando mezzi illegali e legali». L’enorme potere di questo super-clan è confermato dalla situazione mondiale di massima emergenza, come confermato dalle analisi di carattere strategico a livello militare. In sintesi: la demografia del pianeta è in aumento esponenziale, le risorse della Terra sono in netta diminuzione, l’economia globale è in recessione. Insomma, la coperta è sempre più corta. E il ruolo degli Stati nella definizione della minaccia è ormai ridotto a zero.Non sono più gli Stati a decidere, a individuare o prevedere le minacce, sottolinea Mini. Sono “altri” che fanno le analisi. E fare le valutazioni della minaccia «vuol dire fornire le indicazioni per la politica». Bene, «questa prerogativa non è più nelle mani degli Stati, neanche di quelli forti». George W. Bush, quando ha avviato la “guerra infinita” innescata dagli attentati dell’11 Settembre, non è stato indirizzato da fonti istituzionali, ma da «qualcuno che lavora fuori dalle istituzioni, contro le istituzioni». La situazione è veramente critica: molti Stati hanno l’acqua alla gola, colpiti dalla crisi e ricattati dalla cupola finanziaria mondiale. La criminalità è in netto aumento, il contrasto verso le mafie si è indebolito e la percezione dell’insicurezza è cresciuta. Ogni problema viene estremizzato: la favola dello “scontro di civiltà” tra cultura giudaico-cristiana e cultura musulmana resta «il faro politico di tutte le relazioni internazionali». Così, non fa che cresce la militarizzazione del pianeta: «Le cose che venivano fatte con strumenti civili oggi vengono fatte quasi esclusivamente con strumenti militari, inducendo gli ambienti militari ad essere sempre più proiettati verso il controllo e il possesso di strumenti tecnologici per attuarlo».La dualità, lo scontro, si manifesta in maniera preponderante nello spazio, con il controllo delle telecomunicazioni e dei sistemi di difesa, e ora anche nell’ambiente, «che non è più il luogo ove la guerra si manifesta, ma è l’arma», e negli agglomerati urbani, «che sono i luoghi dove si prevede il maggior intervento in termini di militarizzazione». Lo spazio è definito un “bene comune” e come tale dovrebbe essere salvaguardato. «Ma non succede, e la percezione di scarsa sicurezza alimenta un incremento della militarizzazione». Come si sfrutta l’ambiente come arma? «Non solo con le modifiche meteorologiche, ma anche tramite la negazione delle informazioni. Non c’è solo la disinformazione sull’ambiente, ma c’è una pratica militare che si chiama “denial of service”». Ovvero: «Si stabilisce che è necessario non solo negare la realtà o l’evidenza, ma negare l’informazione». E questo, ribadisce Mini, è già un vero e proprio atto di guerra. «Determinate persone o paesi non devono venire a conoscenza delle informazioni», anche se questo può causare catastrofi di proporzioni bibliche, come il devastante tsunami abbattutosi sulle coste dell’Indonesia. «Lo tsunami indonesiano è ancora uno scandalo: l’informazione sul suo arrivo era disponibile, ma interruzioni nella trasmissione dati a causa di anelli malfunzionanti, o volutamente non funzionanti, ne hanno impedito la comunicazione».Un altro aspetto è emblematicamente rappresentato dal sistema Haarp. Invece di influire sull’ambiente a carattere solo locale, dice Mini, ormai si può incidere globalmente. Come? «Andando a creare, artificialmente, dei punti più caldi o più freddi, e quindi modificando il clima interferendo anche sulle correnti». Lo stesso dicasi per le alterazioni che provocano i terremoti, anche se il generale nega che il recente terremoto in Emilia sia stato “indotto”. Ma attenzione: «Nessuno può negare che ci siano state più di 2.000 esplosioni nucleari nel sottosuolo terrestre, nella profondità degli oceani e persino nello spazio». Già negli anni ’90, per colpire obiettivi di interesse militare in Cina, «fu pianificato di indurre un terremoto con delle esplosioni dalla zona di Okinawa». La dismissione di migliaia di ordigni nucleari, dopo la fine della guerra fredda, ha creato un mercato dei materiali fissili da innesco. «Le grandi compagnie petrolifere si offrirono di reimpiegarli e sappiamo che è possibile agire sulle faglie inducendo terremoti tramite ordigni nucleari o micro-nucleari».La guerra ambientale non è più solo un’ipotesi: è già in atto. Ma guai a dirlo: si passa per pazzi. Eppure, «negare l’informazione è già un atto di guerra fondamentale», denuncia il generale Fabio Mini, che conferma tutto: la “bomba climatica” è la nuova arma di distruzione di massa a cui si sta lavorando, in gran segreto, per acquisire vantaggi inimmaginabili su scala planetaria. Alluvioni, terremoti, tsunami, siccità, cataclismi. Uno scenario che, purtroppo, non è più fantascienza. E da parecchi anni. Era il lontano 1946 quando Thomas Leech, scienziato e professore israeliano-neozelandese, lavorò in Australia per conto dell’Università di Auckland con fondi americani e inglesi per provocare piccoli tsunami. Il successo del “Progetto Seal” spaventò Leech spingendolo a fermarsi dopo i primi test. Ma chi ci dice che la manipolazione del clima non sia stata portata avanti? Oggi, con la robotizzazione, per molte “operazioni” bastano poche persone. «Non ci sono vincoli, non ci sono regole, se c’è la possibilità di farlo ‘qualcuno’ lo farà». Non i governi, ma ristrette élite.