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Piegare la Russia: prima con la finanza, poi con i missili
Solo un cretino può assistere allo spettacolo dell’America che aggredisce la Russia, senza capire che domani potrebbe toccare a noi, alleati-sudditi, pronti eventualmente anche a entrare in guerra. A spiegare l’aria che tira provvede un super-tecnocrate come Paul Roderick Gregory, consigliere internazionale della Scuola Economica di Kiev. Il piano è semplice: abbattere Putin per conquistare Mosca. Prima si prova col ricatto della finanza. Poi, se non basta, si procede con i missili. Questo “dottor Stranamore”, scrive Giulietto Chiesa, in una recente intervista su “Forbes” parla in modo diretto, e quindi «rappresenta bene la strategia, la tattica, le intenzioni dei gruppi “neocon” americani e di una parte importante di quelli europei». Dice cose illuminanti, lo Stranamore di Kiev, «pensate per distruggere il nemico prima ancora che cominci la guerra». Attenzione: «Siamo di fronte a un progetto che è molto più importante di una profezia». E quella di Gregory «è la voce di chi conta più di Obama». Purtroppo, il piano che enuncia – salvo modifiche di percorso imposte dalle circostanze – sarà il “film” che vedremo nei prossimi mesi.Invece di sanzioni più immediate, afferma Gregory, «che lavora a Kiev per conto dell’Occidente, che lo paga», l’Europa e gli Stati Uniti «devono orientarsi verso un’assistenza militare, letale, diretta contro l’invasione russa (perché chiamarla in altro modo?)». Usa e Ue devono «riesumare le installazioni della Iniziativa di Difesa Strategica in Polonia e in Repubblica Ceca, non come una punizione ma come una precauzione». Inoltre devono «rinvigorire la Nato, includendovi lo stazionamento di truppe nei paesi Nato che confinano con la Russia». Obama? «Deve approvare l’oleodotto Keystone e aprire più territori federali alle prospezioni petrolifere, approvare i terminali per l’esportazione di gas liquido, eliminare le restrizioni all’esportazione di petrolio, promuovere il “fracking” in Europa». Testualmente: «Obama deve condurre l’Europa, trascinandola per il naso, a una politica energetica collettiva e organica». Ed ecco il primo colpo finanziario da sferrare: «Noi abbiamo una opzione nucleare di cui pochi parlano: cacciare via le istituzioni finanziarie russe dal sistema “Swift” e guardarle mentre crollano».“Swift” è l’acronimo di “Society for Worlwide Interbank Financial Telecomunications”: è il centro – sotto controllo diretto Usa – attraverso cui passano e vengono registrate tutte le transazioni bancarie della globalizzazione americana. «Un collega – chiosa Gregory – ama ricordarmi che la sanzioni finanziarie sono oggi l’equivalente della diplomazia delle cannoniere del secolo XIX. Gli Stati Uniti hanno le cannoniere grazie al sistema del dollaro». Questo è senza dubbio il piano d’attacco, osserva Chiesa su “Megachip”: resta solo da vedere se funzionerà, ma si vede che non è campato in aria. Washington, infatti, ha armi di pressione molto potenti: «Essere entrati nella globalizzazione americana significa essersi messi un cappio al collo, che ora può essere stretto a piacimento dal suo padrone». Certo, nell’analisi di “Forbes” ci sono tutti i punti deboli di Mosca, mentre gli Usa e l’Europa sono presentati come in stato di euforica tranquillità: sappiamo che non è così. «Tuttavia, a Wall Street e alla City of London ci credono. Dunque dobbiamo assumere che si comporteranno di conseguenza, anche perché sappiamo che lo show-down ucraino è stato creato da loro».Tutto questo è ormai molto chiaro a Vladimir Putin e al suo più stretto entourage, continua Giulietto Chiesa, secondo cui però «a Mosca è pieno di gente, nei posti di comando, che ragiona nello stesso modo del Dottor Stranamore». Dunque, «questo è un momento cruciale per Putin e per la Russia». Ovvero, «è il momento in cui si deve capire cosa ha significato il passaggio al capitalismo americano realizzato da Boris Eltsin e Egor Gaidar: diventare ostaggi del mercato globale. E, quando è sorto il problema di difendere la propria nazione e i propri interessi, di scoprire che la propria libertà era stata comprata, per giunta per pochi copechi». Denaro, appunto. Proprio su questo si fonda la fase-1 del piano Usa, quella che precede la guerra. «La Russia ha un mercato di capitali esiguo. In questi anni circa la metà di quello che le serviva lo prendeva dall’estero. Se la si espelle dal mercato dei capitali – americano, giapponese, europeo – la si costringerà a fare appello a paesi che non sono stati assoggettati a sanzioni. In primo luogo alla Cina. Che ci riesca o meno è da vedere, ma per intanto le si renderà impossibile rifinanziare i debiti che scadono, stabilizzare il rublo, evitare il collasso degl’investimenti. Il primo passo obbligato sarà di intaccare le sue riserve in valuta; il secondo sarà di intaccare i fondi di riserva che Putin ha accumulato in questi ultimi anni, evidentemente in previsione di questi sviluppi».Secondo “Forbes”, nel 2013 il debito russo era a 47,2 miliardi di dollari. Dall’inizio della guerra in Ucraina, Mosca ha firmato contratti per prestiti di soli 1,5 miliardi di dollari. “Bloomberg” scrive che «non un solo dollaro, euro o yen è stato prestato a compagnie russe nel mese di luglio». Si aggiunga che, in queste condizioni, anche il costo del debito aumenta: «“Standard & Poor’s” ha fatto il suo dovere, portando il 25 aprile scorso il valore del debito russo solo un punto al di sopra dei titoli-spazzatura. Ciò ha costretto il ministero delle finanze russo a sospendere le aste delle emissioni di bond che aveva in programma», ricorda Chiesa. I dati aggregati ufficiali dicono che alla vigilia di “Euromaidan”, il golpe di Kiev, le imprese russe e le banche avevano un debito estero complessivo di 653 miliardi di dollari e un debito verso i risparmiatori russi di altri 650 miliardi. Ma il 24% del debito estero, quasi 16 miliardi, va a maturazione quest’anno. Idem per il 2015. Le sanzioni? «Servono per impedire alla Russia di pagare il debito o, come minimo, per infliggerle danni strategici rilevanti». È vero che le riserve valutarie russe sono di 468 miliardi e che il ministero delle finanze ha fondi di riserva per altri 173 miliardi, ma in queste condizioni si pensa che Mosca sarà costretta a ridurre le riserve valutarie del 22%.Certo, continua Chiesa, è sempre possibile (ma a Washington lo considerano remoto) che “qualcun altro” – leggi sempre la Cina e i paesi del Brics – tenti di aggirare i divieti degli Stati Uniti. Ma – considerando “Swift” e altri strumenti di controllo, come la Nsa – sarebbero facilmente individuabili e velocemente puniti. Inoltre, c’è il fenomeno della fuga di capitali, «su cui Putin sembra al momento impotente». La Bcr, banca centrale russa, giura che nel primo trimestre 2014 sono usciti “solo” 51 miliardi di dollari – cioè più di 100 miliardi in un anno? Secondo la Bce, invece, la “fuga da Mosca” è di ben altra entità: 221 miliardi nel solo primo trimestre di quest’anno. In arrivo una guerra di sbarramento contro l’esportazione illegale di capitali, «ma l’esperienza occidentale dice che con questi metodi non si ferma l’emorragia». I russi, aggiunge Giulietto Chiesa, si fidano di un’unica banca, la Sberbank, che vuol dire “cassa di risparmio”. «Ed è questo il motivo per cui Sberbank è stata subito messa all’indice delle sanzioni». Contromossa: «La Bcr ha alzato il tasso d’interesse sui depositi al 10,2%, ma è ancora da vedere se sia sufficiente a trattenere i capitali in Russia».Comunque, secondo questi calcoli, Washington è certa che Putin non potrà mantenere il livello di investimenti attuale anche se riuscisse a rifinanziare il debito. Gli investimenti esteri diretti si sono già dimezzati, 41 miliardi contro gli 80 del 2013. E i calcoli occidentali prevedono una riduzione secca degli investimenti, del 30-50%, tra il 2014 e il 2015. «Il tutto dovrebbe portare, nelle loro speranze, a un crollo del Pil russo attorno al 6-10%». E manca ancora un tassello, fondamentale: l’energia. «Metà delle entrate dello Stato russo derivano da petrolio e gas. Da esse dipende la tenuta economica (e sociale) del paese. E – si progetta a Washington – anche quella di Putin. Dunque si è deciso di colpire anche e soprattutto qui», scrive Giulietto Chiesa. «L’ideale sarebbe ripetere il giochetto con cui fu affondata l’Urss di Gorbaciov: cioè far scendere bruscamente il prezzo dell’energia». Questa, però, «è la scommessa meno sicura da vincere, rispetto alle precedenti». La tendenza, infatti, è a un aumento dei prezzi, sui quali Putin e la Russia possono contare per i prossimi anni. «Non resta allora che tagliare la testa al toro: impedire alla Russia di vendere il suo prodotto. La crisi Ucraina – costruita dagli Stati Uniti e appoggiata da una parte dell’Europa – è esattamente l’attuazione di questa parte del piano: prendere in mano il rubinetto del gas russo, a spese dell’Ucraina e dell’Europa, e chiuderlo».Il costo per la Russia è già stato calcolato: circa 100 miliardi di dollari all’anno. Non a caso, osserva Chiesa, lo stesso Obama è venuto per ben due volte in poco più d’un mese in Europa a vendere il suo “shale gas” in sostituzione di quello russo. «Il problema è che Obama questo gas non ce l’ha ancora, e forse non lo avrà mai, perché ha tutta l’aria di una meteora. Ma intanto il danno può essere inferto agli europei che ci hanno creduto e ci credono. E questo costringerà la Russia a rivolgere i suoi gasdotti a est». L’alternativa, per Mosca, è la Cina, che è assetata di energia: Pechino ha già risposto all’appello, e il nuovo sistema gasifero verso est è stato avviato con un investimento cinese di 50 miliardi di dollari, che verranno sborsati come pagamento anticipato del gas che verrà. «Dunque Putin avanza di un passo senza impiegare capitali», ragiona Chiesa, «ma i primi metri cubi passeranno in quei tubi solo tra quattro anni». Certo, Obama sa che di acquirenti del gas e del petrolio russo ce n’è molti: «Bisognerà dunque intimidirli, ricattarli, punirli se insistono, così come si sta cercando di fare con i prestatori di capitali troppo capricciosi. Purtroppo per Washington, non tutti sono ricattabili. La Cina non lo è, ed è l’acquirente maggiore di tutti gli altri messi insieme».Questo è dunque il piano di guerra, ideato e avviato dagli Stati Uniti. «Le armi previste stanno facendo male, molto male, alla Russia. Alcune sono imparabili e altre sono parzialmente parabili». In ogni caso la partita è aperta, visto che «l’America è pronta a andare anche oltre». C’è però un aspetto che a Washington non hanno calcolato bene: «La popolarità di Putin cresce invece che diminuire». Letteralmente, «i russi si sono “svegliati”, a partire dalla Crimea. E la sveglia, fortissima, si è trasferita nel Donbass e in tutta la Russia». Questo, secondo Chiesa, potrebbe essere l’errore più grosso della strategia americana, forse commesso «perché queste cose non si misurano con il metro di “Standard & Poor’s”». Ma c’è ancora una notazione da fare, e riguarda noi: «Questa “politica delle cannoniere” è applicabile verso chiunque. L’America è in crisi e non è disposta a pagare nulla. Domani, con gli stessi mezzi, potrebbe colpire chiunque». Oggi, Putin sta difendendo la sovranità russa. Quanto a noi europei, «quando saremo diventati più furbi capiremo che la nostra sovranità ci è già stata sottratta, mentre applaudivamo ai nazisti che prendevano il potere a Euromaidan».Solo un cretino può assistere allo spettacolo dell’America che aggredisce la Russia, senza capire che domani potrebbe toccare a noi, alleati-sudditi, pronti eventualmente anche a entrare in guerra. A spiegare l’aria che tira provvede un super-tecnocrate come Paul Roderick Gregory, consigliere internazionale della Scuola Economica di Kiev. Il piano è semplice: abbattere Putin per conquistare Mosca. Prima si prova col ricatto della finanza. Poi, se non basta, si procede con i missili. Questo “dottor Stranamore”, scrive Giulietto Chiesa, in una recente intervista su “Forbes” parla in modo diretto, e quindi «rappresenta bene la strategia, la tattica, le intenzioni dei gruppi “neocon” americani e di una parte importante di quelli europei». Dice cose illuminanti, lo Stranamore di Kiev, «pensate per distruggere il nemico prima ancora che cominci la guerra». Attenzione: «Siamo di fronte a un progetto che è molto più importante di una profezia». E quella di Gregory «è la voce di chi conta più di Obama». Purtroppo, il piano che enuncia – salvo modifiche di percorso imposte dalle circostanze – sarà il “film” che vedremo nei prossimi mesi.
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Foa: così gli italiani credono a Mr. Bean, l’allievo di Blair
Matteo Renzi è un giocoliere delle parole e non è certo un caso se da ragazzo era soprannominato “il bomba” ovvero colui che la spara grosse. Il “physique du rôle” d’altronde ce l’ha: tutto guizzi, smorfie, moine. Il premier è dotato di un ego così ipertrofico da impedirgli di capire quando non è il caso ovvero quando la sua naturale teatralità sfocia nel grottesco e, sovente, nel ridicolo. Ognuno di noi arrossirebbe se venisse fotografato in pose che evocano più le gag di Mr Bean che la postura consona a un primo ministro. Lui no.Ed è permaloso, tenace, combattiero, replica colpo su colpo, come ha dimostrato con la scenetta del gelato in risposta agli sberleffi dell’“Economist”. L’uomo è fatto così. Ma se fosse solo un istrione di strada oggi non sarebbe primo ministro. L’istinto – per far carriera a questi livelli – non basta. Ci vuole anche del metodo. Che non è certo farina del suo sacco.Per giudicare Renzi non basta esaminarlo con i parametri della politica italiana, bisogna ricorrere a quelli dello spin, ovvero delle tecniche che da oltre un ventennio consentono a leader politici, anglosassoni ma non solo, di brillare sulla scena politica, dissimulando i loro veri obiettivi politici (ed economici) con una strategia di comunicazione volta a sedurre e a distrarre il pubblico. Da Tony Blair a Bill Clinton a Barack Obama, passando per il primo Nicolas Sarkozy, per l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder e persino per l’ex presidente americano George Bush, inetto nella comunicazione, ma che grazie alle alchimie del suo “stregone” Karl Rove è riuscito a farsi eleggere due volte. Matteo Renzi è il primo politico italiano che ha raggiunto il potere usando le stesse tecniche e, non a caso – a quanto si deduce dalle biografie più autentiche, quelle non agiografiche – ha frequentato gli stessi referenti internazionali, soprattutto anglosassoni.Discorso lungo, questo che non posso liquidare in un post. Qui mi limito a rilevare due tecniche tipiche dello spin. Nella fase di creazione del consenso, Renzi ricorreva sistematicamente agli ossimori, ovvero alla capacità di accostare termini o concetti in contrastro tra loro. Esempi: Io sono contro la disoccupazione, però non si può negare che di fronte a certi comportamenti il licenziamento è giusto. Io, da uomo di sinistra, riconosco i diritti dei lavoratori, però non possiamo dimenticare quelli degli imprenditori. Io, da cattolico, sono per la famiglia tradizionale, però non posso non essere solidale con i gay. In questa maniera Renzi è riuscito a piacere quasi a tutti: a cattolici e atei, alla sinistra chic e alla destra borghese, perchè attraverso l’ossimoro ogni ascoltatore si sentiva rassicurato nelle sue convinzioni più profonde e ognuno pensava: Renzi è uno dei nostri.Poi, una volta al governo, ha applicato la teoria dell’annuncio, sul modello di Tony Blair e del suo bravissimo e spregiudicato spin doctor Alistair Campbell, i quali dovendo “nutrire” la stampa e, sapendo che pubblico e giornalisti hanno la memoria corta, si inventarono letteralmente le notizie, prediligendo quelle di facile comprensione, familiari al grande pubblico e sensazionaliste. Quasi tutte naturalmente risultarono dei bluff, però servivano a Blair per passare come un innovatore, movimentista, uno che “cambiava le cose”. Sia chiaro: in 10 anni a Downing Street Blair ha comunque lasciato il segno, ma se non avesse fatto ampio uso dello spin non sarebbe passato alla storia come un grande comunicatore e probabilmente sarebbe finito rosolato dalla stampa. Avete capito a chi si ispira Matteo Renzi?Dubito fortemente che abbia la capacità innovativa di Tony Blair – anche perchè se anche volesse cambiare davvero, le ganasce dell’Unione Europea e di Maastricht scatterebbero immediatamente, impedendoglielo – ma sul fronte dello spin può considerarsi il suo italico erede. Ricordate i primi mesi a Palazzo Chigi? Era una sequenza di annunci roboanti: “una riforma al mese”, prometteva («A marzo facciamo la riforma del lavoro, ad aprile della pubblica amministrazione, a maggio del fisco…», e così via). Roboanti quanto alla luce dei fatti inconsistenti. Non ha concluso nulla, però le rifome le ha vestite bene, consapevole della forza degli slogan. Decreto Slocca Italia, Bonus 80 euro, Rivoluzione Giustizia, Miliardi per le Grandi Opere, condite con frasi del tipo: «Non lasceremo il futuro ai gufi e a chi scommette sul fallimento. Siamo al lavoro». «Se l’Italia deve cambiare, nessuno può chiamarsi fuori. Nessuno può tirarsi indietro. Vale per tutti i settori». «Dobbiamo giocare all’attacco, non in difesa. Scegliere il coraggio, non la paura».Così irresistibilmente generiche e volte a suscitare un consenso esclusivamente emotivo. Chi vuole essere dalla parte dei gufi? Chi non vuole cambiare? Chi non ha coraggio? Nella conferenza stampa odierna il velocista Matteo ha scoperto improvvisamente le virtù del mezzofondo e ha presentato il decreto “Passo Dopo Passo”. L’uomo che voleva cambiare l’Italia in cento giorni ora ne chiede mille, per essere giudicato, udite, udite, nel maggio 2017. Ma naturalmente la colpa non è sua: è dei gufi, dei disfattisti, dei paurosi. Lui è il pifferaio senza paura. Il dramma è che, a quanto pare, incanta ancora gran parte degli italiani. Per ora.(Marcello Foa, “Renzi, tecniche di manipolazione: così seduce e inganna gli italiani”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 1° settembre 2014).Matteo Renzi è un giocoliere delle parole e non è certo un caso se da ragazzo era soprannominato “il bomba” ovvero colui che la spara grosse. Il “physique du rôle” d’altronde ce l’ha: tutto guizzi, smorfie, moine. Il premier è dotato di un ego così ipertrofico da impedirgli di capire quando non è il caso ovvero quando la sua naturale teatralità sfocia nel grottesco e, sovente, nel ridicolo. Ognuno di noi arrossirebbe se venisse fotografato in pose che evocano più le gag di Mr Bean che la postura consona a un primo ministro. Lui no. Ed è permaloso, tenace, combattiero, replica colpo su colpo, come ha dimostrato con la scenetta del gelato in risposta agli sberleffi dell’“Economist”. L’uomo è fatto così. Ma se fosse solo un istrione di strada oggi non sarebbe primo ministro. L’istinto – per far carriera a questi livelli – non basta. Ci vuole anche del metodo. Che non è certo farina del suo sacco.
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Ue, sogno massonico: la rivincita storica dei Templari
E’ un caso che il cittadino europeo oggi non abbia più alcun potere, visto che il suo governo è sottomesso a Bruxelles a partire dai conti pubblici? Ovviamente no, si tratta di un piano. Ben sintetizzato dal più singolare “mostro” giuridico dell’Ue, il Trattato di Lisbona, 400 pagine di leggi «scritte in una forma volutamente pesante e incomprensibile». I Parlamenti le hanno ratificate senza discuterle, senza neppure leggerle. Quel corpus giuridico, per l’avvocato Paolo Franceschetti «rappresenta una delle ultime tappe del coronamento del sogno massonico del Nuovo Ordine Mondiale», cioè la fine delle sovranità nazionali e la centralizzazione assoluta del potere, a cominciare dal rafforzamento dell’Ue e dalla «creazione di una moneta unica elettronica». Studioso di storia esoterica, Franceschetti tira in ballo la massoneria: istituzione a cui dobbiamo moltissimo, precisa, perché contrastò l’oscurantismo secolare del Vaticano. Ma, aggiunge, se non se ne conosce la vicenda storica – con le sue “deviazioni” – non si può comprendere l’origine della pulsione egemonica e oligarchica delle élite che, di fatto, oggi hanno preso il potere nell’indifferenza generale.Secondo Franceschetti, il Trattato di Lisbona è uno strumento perfetto di questo progetto di dominio, perché aumenta i poteri del Consiglio Europeo, organismo «che nessuno conosce», e dispone «la diminuzione dei poteri del Parlamento Europeo» insieme alla «ulteriore perdita di sovranità degli Stati centrali in alcune materie chiave». Che c’entrano massoneria e Rosacroce con tutto questo? Suggestioni storico-leggendarie? Niente affattato, sostiene Franceschetti, secondo cui tutto comincia molti secoli fa, addirittura coi Templari, di cui il Trattato di Lisbona sarebbe «la vendetta ideale», dopo la fine dell’ordine cavalleresco all’inizio del ‘300. Vendetta che il capo dei Templari, Jacques de Molay, giurò contro il Papa e l’imperatore. «Se Jacques de Molay fosse vivo sarebbe senz’altro soddisfatto: la sua vendetta si realizza ogni giorno di più e tra pochi anni sarà completa», scrive Franceschetti, ripercorrendo la storia dell’ordine cristiano creato da nel 1139 da Ugo De Payns.Strano ordine: i Templari erano abili guerrieri, chiamati a proteggere le rotte dei pellegrini in Terra Santa, ma erano anche monaci e vivevano seguendo la regola dell’estrema povertà, poi codificata da San Bernardo. In più, erano onestissimi: per questo, ricevevano in custodia il denaro dei ricchi, dei nobili e dei sovrani. Diventeranno così «i primi banchieri al mondo». I Templari, continua Franceschetti, crearono «il primo sistema bancario mondiale», tanto da essere considerati «gli inventori del bancomat». Chiunque, infatti, «poteva depositare beni presso i centri templari che si impegnavano a custodirli». Al momento della consegna del denaro, «i Templari rilasciavano un attestato che dichiarava l’avvenuto deposito». Così, chi avesse depositato valori a Parigi poteva poi recuperarli anche in Italia, in Germania o in un qualsiasi altro centro templare, «che gli avrebbe rilasciato una identica quantità di oro».Sui Templari si è scritto di tutto, ma «quel che è certo è che acquisirono delle conoscenze e una sapienza particolari per quell’epoca», grazie al contatto con l’Oriente che permise loro di sviluppare «un patrimonio di conoscenze tratte sia dalla cultura cattolica ufficiale europea che dalla cultura cabalistica orientale». Divennero potenti, i Templari: troppo potenti. Alla fine del 1200, erano il super-potere dell’Europa cristiana: rispettati dagli imperatori, rispondevano solo al Papa. A decretarne la fine fu il sovrano francese Filippo il Bello, a corto di soldi, deciso a impossessarsi del “tesoro” dei cavalieri. Il Papa, Clemente V, non si oppose. Anzi, «soppresse l’ordine templare, depredò i loro beni e mandò al rogo migliaia di appartenenti all’ordine». Jacques de Molay, l’ultimo dei maestri templari, venne arso vivo il 18 marzo 1314. «Maledì il Papa e l’imperatore, i quali morirono nello stesso anno in circostanze “misteriose”».Molti Templari si rifugiarono in Svizzera, dove «crearono l’attuale sistema bancario» elvetico, continua Franceschetti. Nella Confederazione, «difesero le frontiere dagli invasori e continuarono la loro attività di banchieri». Nelle epoche successive, «molti sovrani depositavano in Svizzera i loro beni, e questa è la ragione della secolare neutralità svizzera durante tutta la storia europea: nessun sovrano avrebbe distrutto una nazione ove lui stesso aveva interessi economici». Non a caso, aggiunge l’avvocato Franceschetti, molti cantoni elvetici – e la stessa bandiera svizzera – recano «le insegne templari, o degli Ospitalieri di San Giovanni», “erranti” come gli stessi Cavalieri di Malta. Di fatto, i Templari perseguitati dalla Chiesa «conservarono la loro struttura, che sopravvisse in segreto».Struttura, continua Franceschetti, dalla quale «germinò la maggior parte delle società segrete che esistono anche oggi: Templari, Rosacroce, Massoneria, “Skull and Bones”, Illuminati». I Rosacroce, «la massoneria più potente e segreta», secondo lo studioso «altro non è che un ordine templare a cui apparteneva anche Dante Alighieri, che infatti è considerato un po’ il padre dei Rosacroce attuali». Non a caso, aggiunge l’avvocato, indagatore di molti “misteri irrisolti” della nostra storia recente, gli «omicidi massonici» vengono compiuti tutt’oggi con la regola del contrappasso dantesco: «Povero Dante! Se sapesse come è stata interpretata la sua “Divina Commedia” probabilmente si suiciderebbe da solo, e forse per la prima volta avremmo un suicidio vero, in questa Italia».Per Franceschetti, in ogni caso, ricostruire i passaggi-chiave della storia esoterica europea è fondamentale per capire meglio la storia ufficiale, fino alle attuali convulsioni sempre più autoritarie dell’Ue. Per questo è bene tener d’occhio i Templari, che “risorsero” in segreto nel 1313 in Scozia, con un nuovo emblema raffigurante un uccello, il pellicano, che è «uno dei simboli dei Rosacroce». All’interno della Chiesa Templare, «approvato dal Papa», nacque poi il “Sacro Collegio dei 33 Frati Maggiori della RosaCroce”, continua Franceschetti. Ma il «silenzio secolare» dei Rosacroce è rotto solo nel 1614, quando «entrano in scena ufficialmente, pubblicano il loro primo manifesto, la “Fama Fraternitas”, e si fanno conoscere in tutta Europa».Nel 1717, continua l’avvocato, i Rosacroce e i Templari «danno vita alla massoneria moderna, quella per così dire ufficiale». Mezzo secolo dopo, nel 1776, nasce l’ordine degli Illuminati «ad opera di Adam Weishaupt», ma secondo molti storici «questi altro non sono che un particolare ramo dei Rosacroce». Tutta l’Europa di quei secoli, dice Franceschetti, «è intrisa di cultura rosacrociana e massonica: basti pensare che sono “Rosacroce” Leonardo Da Vinci, Paracelso, Nostradamus, Bacone, Galileo, Giordano Bruno, Comenio, Cartesio, Newton, Leibniz, ma anche scrittori e romanzieri come Bram Stocker, Mary Shelley e Giulio Verne». Si badi: il fenomeno «è assolutamente positivo per la società di quel tempo: solo grazie ai Rosacroce, infatti, la ricerca scientifica e alchemica poté proseguire senza la persecuzione dei Papi e degli imperatori».Sono infatti «i ricercatori massonici, rosacrociani e templari» a battersi per lo sviluppo “eretico”, cioè libero, della conoscenza. Ovviamente, con tutte le cautele del caso: «Per sfuggire alle persecuzioni papali e imperiali, i Templari e i Rosacroce dovettero operare in segreto». Sullo sfondo, due avversari storici, da abbattere: la Chiesa cattolica, nemica del progresso dell’umanità, e il suo grande alleato, l’assolutismo monarchico nemico della libertà. Secondo Franceschetti, «molti Rosacroce, primo tra tutti Dante», coltivavano propositi più che altro riformisti, ma «il Rosacrocianesimo, come movimento mondialista anticattolico, ha potuto accogliere sotto le sue ali sia movimenti e idee positivi, come il buddismo, sia i movimenti satanisti o praticanti un esoterismo “nero”, come l’attuale Ordine della Rosa Rossa e della Croce d’oro, ovverossia la “Rosa Rossa”». Attraverso i secoli, la Chiesa ha dovuto quindi lottare per difendere la sopravvivenza del suo potere. «A un certo punto, resasi conto che non poteva vincere in un attacco frontale con la Chiesa, la massoneria decise per la strategia più ovvia: corrompere la Chiesa dall’interno, affiliando alla massoneria vescovi, cardinali e anche Papi».Sempre secondo Franceschetti, si può leggere anche come «il coronamento del sogno massonico» la decisione di Paolo VI di abolire la scomunica ai massoni. «E chissà che risate deve essersi fatto, il nostro Jacques de Molay, quando Paolo VI aprì le porte del Vaticano a Licio Gelli e Umberto Ortolani, i due padri della P2, nonché a Sindona». Ortolani venne addirittura nominato “Gentiluomo di Sua santità”, «onorificenza che gli permetteva di accedere alla residenza papale in qualsiasi momento, senza preavviso», mentre Gelli fu nominato commendatore “de equitem ordinis Sancti Silvestri Papae” nel 1965. Gelli e Ortolani «facevano entrambi parte dei Cavalieri di Malta, l’unico ordine cavalleresco ufficialmente riconosciuto dalla Chiesa». Il colpo mortale al Vasticano? «C’è stato con lo Ior, la banca vaticana», quando «la massoneria ha fatto affluire nella casse dello Ior ad opera delle banche Rotschild e Chase Manhattan ingenti flussi di denaro», trasformandolo in «un centro di riciclaggio del denaro per la criminalità organizzata di tutto il mondo, con un vincolo di segretezza superiore addirittura a quello delle banche svizzere».Spietata nemesi: «La corruzione, la violenza e l’intolleranza che la Chiesa ha dimostrato nei secoli, hanno permesso l’infiltrazione della massoneria per minare alla base il potere ecclesiale». Ma attenzione, «nessun fenomeno esiste se non ci sono i presupposti culturali e politici perché quel fenomeno cresca», con complicità ad ogni livello. Di massoneria, si sa, era intriso il Risorgimento: «Garibaldi e Mazzini furono due Maestri del Grande Oriente d’Italia». Abbattute le monarchie, però, «l’opera era solo all’inizio: occorreva realizzare quella comunità mondiale che era nel progetto rosacrociano». Per il passo successivo, in sostanza, serviva qualcosa come l’Unione Europea. Ci si arriva più facilmente con l’adozione del bipolarismo, che sforna pochi leader “controllabili” eliminando il “rischio” della democrazia reale. «Questo risultato in Italia è stato raggiunto mediante la cosiddetta strategia della tensione», sostiene Franceschetti: «Tutte le stragi degli anni di piombo, rosse e nere, fino alla stragi del ‘92, avevano infatti la regia unica di Gladio e della P2, con l’intento di trasformare il sistema-Italia da multipartitico a bipartitico».Facile osservare come la maggior parte del piano sia stata ormai realizzata, conclude Franceschetti: il bipolarismo introdotto nella maggioranza degli Stati e il Trattato di Lisbona che riduce l’Europa a un unico super-Stato. Che ne penserà il vecchio Jacques De Molay? «Avevano abbattuto e massacrato i suoi Templari perché stavano costituendo una specie di Stato sovranazionale pericoloso per gli imperi di allora; ma oggi la massoneria, che è la vera erede del sapere e delle tradizioni templari, ha ripreso il controllo della situazione creando un’organizzazione che è al di sopra degli Stati e che, anzi, ha in pugno gli Stati e i governanti». Un potere che, «come allora, ha il suo cuore nelle banche centrali», come la Bce, che non risponde neppure al Parlamento Europeo. Stati, governi, Parlamenti? Ridotti a pura rappresentanza, perché il potere è ormai «detenuto dalle banche» e la politica è completamente asservita alla finanza. A loro volta, banche e politica «sono controllate dalla massoneria», dice Franceschetti. «I Templari, insomma, hanno ricreato se stessi nel segreto, e oggi sono più potenti che mai», anche si mantengono “invisibili” (solo in Italia, le sigle riconducibili al mondo massonico sono tantissime: Grande Oriente, Gran Loggia Regolare, Umsoi, Stella D’Oriente, Roundtable, Cavalieri di Malta).C’è una storia parallela, sostiene Franceschetti, che resta sempre nell’ombra: come la militanza massonica di personaggi come Dante, Freud, Jung, Mozart. E’ tutto molto paradossale: anche grazie alla massoneria, «siamo transitati dal vecchio ordine mondiale fondato sul Papato e sugli imperi assoluti, a quello attuale». Purtroppo, in Italia, il transito verso la modernità liberale è stata pagata a caro prezzo: «Le stragi di Stato, i testimoni dei processi morti in modo inspiegabile, i poliziotti e i magistrati uccisi perché credevano di vivere in un sistema libero». E’ come se fossero stati sistematicamente uccisi «tutti quelli che in qualche modo si avvicinavano alla verità e arrivavano al cuore del sistema». E questo, perché i due grandi antagonisti – Vaticano e massoneria – «hanno avuto un curioso destino, praticamente identico». Sono nati «da due messaggi meravigliosi, quello di Cristo da una parte e quello del libero pensiero dall’altra», ma poi sono stati entrambi manipolati da «alcuni personaggi», decisi a trasformarli in «strumenti di potere», arrivando anche a usare «il crimine e la sopraffazione», quindi «rinnegando il messaggio originale».Non resta che sperare che, «da entrambi gli schieramenti, gli uomini più “illuminati” pongano fine a questa situazione per cercare nuove vie politiche, culturali, economiche, che siano più a misura d’uomo». Nel frattempo, mentre i “negazionisti” dominano la scena, il disegno oligarchico avanza incontrastato. Di Nuovo Ordine Mondiale, ricorda Franceschetti, parlava già nel 1600 il celebre Comenio, «teologo e filosofo rosacrociano». Oggi siamo a questo: abolire la sovranità nazionale degli Stati e sottometterli all’autorità di organizzazioni internazionali. E tra le “previsioni” degli ordinovisti non manca la guerra mondiale: esito evocato apertemente nel lontano 1870, lungo le pagine del carteggio tra Mazzini e Albert Pike. In quei documenti, sintetizza Franceschetti, se ne prefigurano addirittura tre: una prima guerra mondiale, per abbattere lo zarismo e instaurare il comunismo, anche in chiave anti-cattolica. Poi una seconda guerra mondiale per consentire, tra le altre cose, la creazione dello Stato di Israele. E infine una terza, originata dallo scontro tra sionismo e mondo islamico. Tutto questo, un secolo e mezzo fa. Studiare la storia della massoneria, insiste Franceschetti, ci permette di capire meglio cosa sta succedendo oggi.E’ un caso che il cittadino europeo oggi non abbia più alcun potere, visto che il suo governo è sottomesso a Bruxelles a partire dai conti pubblici? Ovviamente no, si tratta di un piano. Ben sintetizzato dal più singolare “mostro” giuridico dell’Ue, il Trattato di Lisbona, 400 pagine di leggi «scritte in una forma volutamente pesante e incomprensibile». I Parlamenti le hanno ratificate senza discuterle, senza neppure leggerle. Quel corpus giuridico, per l’avvocato Paolo Franceschetti «rappresenta una delle ultime tappe del coronamento del sogno massonico del Nuovo Ordine Mondiale», cioè la fine delle sovranità nazionali e la centralizzazione assoluta del potere, a cominciare dal rafforzamento dell’Ue e dalla «creazione di una moneta unica elettronica». Studioso di storia esoterica, Franceschetti tira in ballo la massoneria: istituzione a cui dobbiamo moltissimo, precisa, perché contrastò l’oscurantismo secolare del Vaticano. Ma, aggiunge, se non se ne conosce la vicenda storica – con le sue “deviazioni” – non si può comprendere l’origine della pulsione egemonica e oligarchica delle élite che, di fatto, oggi hanno preso il potere nell’indifferenza generale.
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Visalli: questa sporca guerra, contro tutti noi, da 19 anni
Siamo ormai al diciannovesimo anno di guerra mondiale: iniziò il 1° gennaio 1995, quando l’Uruguay Round, avviato nel 1986, si concluse con «l’inaudita decisione di abolire le barriere allo scambio dei beni, come dei servizi e delle proprietà intellettuali». Da allora, scrive Alessandro Visalli, «il potente Wto ha demolito sistematicamente ogni barriera alzata nei secoli a protezione delle vite e dei beni dei popoli del mondo, mettendo in contatto senza filtri e protezioni tradizioni e culture diverse e sistemi sociali altamente differenti». Se si considera che nella definizione di “servizi” sono sostanzialmente compresi i capitali finanziari e le funzionalità connesse, «l’evento manifesta, a quasi vent’anni di distanza, tutta la sua geometrica potenza», ora che i servizi finanziari consentono ai capitali di «alzarsi da terra, rifiutare il legame con le modalità di produzione socialmente determinate che li hanno generati e muoversi, vorticosamente, in cerca di maggiori “rendimenti” nel mondo». Cioè, «in cerca di un maggiore tasso di sfruttamento di condizioni locali».Un “tasso” che, indifferentemente, si può manifestare attraverso un intervento immobiliare speculativo, attraverso la nuvola dei derivati, attraverso la cessione dei pacchetti azionari di aziende produttive, o anche semplici movimenti su prodotti direttamente finanziari e assicurativi. «Questo mondo, da allora, brucia», scrive Visalli in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. «Il codice denaro – e i suoi provvisori possessori – sta da allora furiosamente cavalcando il mondo e travolgendo ogni ostacolo». Ecco perché «la guerra mondiale» cesserà solo «quando il piano sarà livellato, quando i capitali alzati a Cupertino o a Londra troveranno lo stesso “saggio di rendimento” in ogni luogo». Un sogno utopico – oppure un incubo, per i detentori del super-potere, dal momento che “saggio di rendimento” «è un altro e più gentile nome di “saggio di sfruttamento”». In concreto, «vuol dire che il reddito ricavabile dal lavoro sarà diventato una media tra quello americano (o tedesco) e quello nigeriano (o cinese)», con «simili livelli di tenore di vita e di garanzie, simili livelli di sicurezza, simili prestazioni assistenziali».Solo allora cesserà, la “guerra mondiale”: quando tutti i lavoratori del mondo saranno equilibrati sulla stessa media. Oggi, invece, la concorrenza con paesi come la Cina e l’Albania, che sta attraendo molte aziende italiane, «si vince quando i nostri salari saranno intermedi tra i 1.300 euro nostri e i 400 cinesi». L’aristocrazia finanziaria punta esattamente a questo, con la “svalutazione interna” dell’economia europea, contando sull’assenza di reazioni da parte di società e lavoratori occidentali. La stessa Unione Europea, infatti, «non ha alcun senso se non si percepisce la dominazione di questo pacchetto di interessi e la trappola nel quale, intenzionalmente ma in modo poco avveduto, ha condotto tutte le forze sociali e politiche europee», ovvero «se non si comprende il disegno tecnicamente eversivo che lo sottende». E quasi nessuno se ne accorgerebbe, non fosse per le “provvidenziali” esternazioni dei tecnocrati del rigore, Draghi in primis, che pretende – apertamente – la rinuncia ad ogni residua forma di sovranità nazionale. Le “riforme strutturali” prescritte dal super-potere europeo? Semplice: «Si tratta di continuare la guerra, rendere ancora più veloce la circolazione, eliminare ogni vecchio attrito, aumentare la flessibilità», scrive Visalli.Non è altro che questo: «Consentire ai titolari dei capitali di investirli rapidamente, senza tante storie, senza precauzioni, limiti, garanzie». Più nessuna tutela per il paesaggio, ad esempio «rispetto a una speculazione immobiliare condotta da un fondo assicurativo inglese, o italiano». Zero attenzione per l’ambiente, «rispetto a un investimento industriale». Fine delle tutele per il lavoro e per i servizi. E niente più responsabilità, «a partire dalla esazione fiscale del valore prodotto nel paese». A chi sposta una fabbrica dall’altra parte dell’Adriatico per lucrare qualche centinaio di euro sul salario dei lavoratori, sostiene Visalli, bisognerebbe imporre pari condizioni di accesso: porte aperte a quella fabbrica, solo se «garantisce eguale protezione dell’ambiente, del paesaggio e delle condizioni di lavoro». Ma se il risultato della produzione «è ottenuto sfruttando il territorio in misura maggiore, generando maggiori esternalità, sfruttando i lavoratori in modo selvaggio, o grazie a facilitazioni fiscali non sostenibili (e dunque competitive) dovrebbe essere diritto difendersi». Per cui, se vogliamo parlare di riforme, iniziamo da queste: stop al dumping fiscale entro la Ue, innalzamento di barriere compensative, più tasse alle grandi corporation, welfare europeo comune e salario minimo europeo. «E parliamone nel Parlamento Europeo (e nei Parlamenti nazionali), non certo nel board della Bce».Siamo ormai al diciannovesimo anno di guerra mondiale: iniziò il 1° gennaio 1995, quando l’Uruguay Round, avviato nel 1986, si concluse con «l’inaudita decisione di abolire le barriere allo scambio dei beni, come dei servizi e delle proprietà intellettuali». Da allora, scrive Alessandro Visalli, «il potente Wto ha demolito sistematicamente ogni barriera alzata nei secoli a protezione delle vite e dei beni dei popoli del mondo, mettendo in contatto senza filtri e protezioni tradizioni e culture diverse e sistemi sociali altamente differenti». Se si considera che nella definizione di “servizi” sono sostanzialmente compresi i capitali finanziari e le funzionalità connesse, «l’evento manifesta, a quasi vent’anni di distanza, tutta la sua geometrica potenza», ora che i servizi finanziari consentono ai capitali di «alzarsi da terra, rifiutare il legame con le modalità di produzione socialmente determinate che li hanno generati e muoversi, vorticosamente, in cerca di maggiori “rendimenti” nel mondo». Cioè, «in cerca di un maggiore tasso di sfruttamento di condizioni locali».
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Estulin: vogliono sterminarci, è la cupola dell’apocalisse
«Tutti gli eventi sono tra loro interconnessi. A leggere i giornali sembra che gli scontri in Ucraina siano un problema a sé, completamente slegati dagli scontri razziali di Ferguson o dalle persecuzioni razziali e religiose in Iraq e Siria». Prima di entrare nel merito delle tensioni tra la Russia e la Nato, Daniel Estulin (controverso autore del libro “La vera storia del club Bilderberg”) ci tiene a spiegare che «la Terra è un pianeta piccolo» e che, per andare fino in fondo, è fondamentale capire chi tira le fila. Perché «noi siamo solo burattini». Estulin nasce nel 1966 a Vilnius. Della sua vita non si sa molto. Ma, chiacchierando, è lui stesso a raccontare delle battaglie del padre per una Russia più libera, della fuga in Canada e della passione per la politica, senza divisione tra interni e esteri, perché «la vera politica si svolge a un livello sovranazionale, al di sopra dei governi, tra quelle persone che governano il mondo da dietro le quinte». Li chiama “shadow master”, signori dell’oscurità, e cerca di smascherarli nei suoi libri, da “L’istituto Tavistock” in avanti.Perché la Nato sta alzando i toni con la Russia? «Per capirlo bisogna guardare a Detroit, uno scenario post-apocalittico degno di un film di Will Smith. Le persone che tirano le fila del mondo vogliono le guerre, la crescita zero e la deindustrializzazione, vogliono che ogni città del mondo assomigli a Detroit». Progresso e sviluppo non dovrebbero essere direttamente proporzionali alla densità di popolazione? «Grazie ai progressi tecnologici, le società si sviluppano, creano ricchezza e costruiscono. Ma chi tira le fila del mondo sa che la Terra è un pianeta molto piccolo, con risorse naturali limitate e una popolazione in continua crescita. Ora siamo 7 miliardi e stiamo già esaurendo le risorse naturali. Ci sarà sempre abbastanza spazio sul pianeta, ma non abbastanza cibo e acqua per tutti. Perché i potenti sopravvivano, noi dobbiamo morire». Come intendono fare? «Distruggendo le nazioni a vantaggio delle strutture sovranazionali controllate dal denaro che gestiscono. Le corporazioni governano il mondo per conto dei governi che esse controllano. Così è successo con l’Unione Europea».E Putin non rientra in questo disegno. «Pensavano di poterlo controllare». Perché non ci riescono? «La Russia è una superpotenza nucleare. È questo che la rende tremendamente pericolosa agli occhi di questa gente. La Cina, per esempio, ha una grande popolazione ma non è una potenza nucleare. E per questo non è un pericolo. Mentre l’economia cinese può essere distrutta nel giro di un minuto, le tecnologie russe non possono essere annientate». Dove vogliono arrivare col conflitto in Ucraina? «Togliere il gas all’Europa per farla morire di freddo… Quando parlo di potere, non lo identifico con persone che siedono su un trono, ma con un concetto sovranazionale. L’idea è appunto distruggere ogni nazione». Alla fine non ci sarà più alcuna patria? «L’alleanza è orientata verso una struttura mondiale, che per essere controllata ha bisogno di nazioni deboli». È possibile fare qualche nome? «Christine Lagarde, Mario Draghi, Mario Monti, Petro Oleksijovyč Porošenko. Tutte queste persone sono sostituibili. Prendete Renzi: la sua politica conduce alla distruzione dell’Italia. Perché lo fa, dal momento che dovrebbe fare l’interesse del vostro paese? Non è logico».Non è poi tanto diverso da Monti. «I vari Renzi, Monti, Prodi sono traditori dell’Italia, non lavorano nell’interesse del paese. Renzi non ha mandato politico, nessuna legittimazione, non è stato eletto». L’ultimo premier eletto democraticamente è stato Berlusconi. «E questo è il motivo per cui c’è stato uno sforzo così ben orchestrato per distruggerlo». È il Bilderberg a tirare le fila? «Il Bilderberg era molto influente negli anni Cinquanta, nel mondo postbellico. Ora è molto meno importante di quanto non si creda. Organizzazioni come il Bilderberg o la Trilaterale non sono il vertice di nulla. Sono la cinghia di trasmissione. I veri processi decisionali hanno luogo ancora più in alto. L’Aspen Institute è molto più importate del Bilderberg». Nessuno ne parla. «I giornali mainstream fanno parte di questo gioco. Pensare che media come il “New York Times”, il “Washington Post” o “Le Monde” siano indipendenti, è da idioti. I giornalisti lavorano per azionisti che decidono la linea editoriale del giornale». Vale anche per l’Italia? «Il “Corriere della Sera”, “La Stampa” e “Il Sole 24 Ore” siedono spesso alle riunioni del Bilderberg. Non c’è metodo più efficace che far passare le loro idee nella stampa mainstream».Anche l’estremismo e il terrorismo islamico rientrano in questo disegno? «Certamante. Non è possibile credere che Obama lavori nell’interesse degli Stati Uniti. Come è impensabile credere che un’organizzazione come l’Isis sia passata, nel giro di poche settimane, dall’anonimato più assoluto a rappresentare la peggiore organizzazione terroristica del mondo». Come si “costruisce” un nemico? «Con gruppi come Isis, Hamas, Hezbollah o Al-Qaeda, succede quello che chiamiamo “blow-back”, cioè quello che succede quando soffi il fumo e ti torna in faccia. L’effetto è sempre lo stesso: si costruisce e si finazia un gruppo terroristico, in Ucraina come in Medio Oriente, e dopo un certo periodo di gestazione questo ti torna indietro e ti colpisce. In ogni operazione non c’è mai un solo obiettivo, ma sempre molti obiettivi. Un obiettivo lavora per te, un altro contro di te».Tutto già calcolato? «Un qualsiasi attacco implica l’uso dell’esercito e, quindi, la necessità di investire soldi nell’industria bellica. La formula è la stessa, cambiano solo i giocatori. Oltre alla guerra ci sono modi diversi per ottenere lo stesso risultato: la fame, la siccità, le droghe, la malattie. Li stanno usando tutti. Così da un lato distruggono il mondo economicamente, dall’altro usano i soldi per sviluppare tecnologie così potenti e futuristiche da creare un gap tra noi e loro sempre più marcato». Eppure faticano a contrastare l’ebola… «Macché! È solo un esempio per vedere la reazione della popolazione mondiale. Viene presentata come un’epidemia ma ha ammazzato appena tremila persone negli ultimi dieci anni. Ogni anno raffreddore, tosse e influenza ne uccidono 30.000 solo negli Stati Uniti. La prossima volta che ci sarà una vera epidemia, conosceranno già le reazioni umane».(“Ecco chi tira i fili del terrore per sovvertire l’ordine mondiale”, intervista di Andrea Indini a Daniel Estulin, da “Il Giornale” dell’11 settembre 2014).«Tutti gli eventi sono tra loro interconnessi. A leggere i giornali sembra che gli scontri in Ucraina siano un problema a sé, completamente slegati dagli scontri razziali di Ferguson o dalle persecuzioni razziali e religiose in Iraq e Siria». Prima di entrare nel merito delle tensioni tra la Russia e la Nato, Daniel Estulin (controverso autore del libro “La vera storia del club Bilderberg”) ci tiene a spiegare che «la Terra è un pianeta piccolo» e che, per andare fino in fondo, è fondamentale capire chi tira le fila. Perché «noi siamo solo burattini». Estulin nasce nel 1966 a Vilnius. Della sua vita non si sa molto. Ma, chiacchierando, è lui stesso a raccontare delle battaglie del padre per una Russia più libera, della fuga in Canada e della passione per la politica, senza divisione tra interni e esteri, perché «la vera politica si svolge a un livello sovranazionale, al di sopra dei governi, tra quelle persone che governano il mondo da dietro le quinte». Li chiama “shadow master”, signori dell’oscurità, e cerca di smascherarli nei suoi libri, da “L’istituto Tavistock” in avanti.
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Il piano: rovinarci, ma non al punto da provocare rivolte
La recente crisi di governo in Francia, con il “licenziamento” dei ministri anti-austerità e la loro sostituzione con solerti funzionari della politica economica ferocemente antipopolare che vede tutti i governi europei, di destra come di “sinistra”, impegnati a massacrare livelli di occupazione e di reddito e qualità della vita dei propri cittadini, ha scatenato l’entusiasmo dei media italiani, “Corriere della Sera” in testa, che hanno salutato con gioia l’epurazione degli eretici allievi delle teorie dell’odiato neokeynesiano Thomas Piketty e reiterato le lodi nei confronti del nostro amato leader Renzi, immune da analoghe tentazioni paleo-sinistrorse. Prosegue intanto l’assordante silenzio sugli effetti sempre più evidenti di politiche che, in barba allo strombazzato, e a parole universalmente condiviso, obiettivo di rilanciare crescita e sviluppo, appaiono inequivocabilmente autolesionistiche anche dal punto di vista capitalistico. Siamo dunque di fronte a un rincoglionimento generale di politici, media e padroni?In un articolo ripreso dall’“Huffington Post”, Jaques Attali tenta un’altra spiegazione (già anticipata dal titolo “Il consumatore ha sconfitto il lavoratore?”): queste scelte sarebbero il risultato della preoccupazione dei politici di accontentare gli elettori-consumatori, il cui consenso viene giudicato assai più importante di quello degli elettori-lavoratori ai fini della conservazione del potere. Ecco perché l’obiettivo di controllare l’inflazione (e quindi i prezzi di beni e servizi) prevale sull’obiettivo di preservare i livelli di occupazione (e quindi i livelli retributivi). La spiegazione può apparire bizzarra, ove si consideri che consumatori e lavoratori sono sostanzialmente le stesse persone, per cui la tesi adombra una sorta di schizofrenia acquisita dei cittadini-elettori, dovuta al prevalere di una “narrativa” che vede destra e sinistra impegnate a descrivere la società in termini di categorie cultural generazionali (vecchi e giovani, uomini e donne, consumatori e lavoratori, ecc.) per cancellare ogni memoria delle “vecchie” appartenenze di classe e dei relativi interessi.Eppure la tesi non è priva di un qualche merito, ove la si consideri da un altro punto di vista, ove cioè la si rilegga a partire dalle tesi dell’economista conservatore americano, Tyler Cowen, il quale, nel saggio “Average is Over”, descrive con crudo cinismo un processo destinato a generare in breve tempo una società oligarchica. Il mercato del lavoro, sostiene Cowen, è destinato a subire, a causa della rivoluzione tecnologica in corso, un’irreversibile trasformazione che produrrà tre distinti strati sociali: una minoranza vincente attorno al 10% – che otterrà redditi e qualità della vita sempre più elevati – e una massa di perdenti che si divideranno fra una classe media impoverita e una massa di esclusi ancora più miserabili. Per evitare che scoppi una rivoluzione, argomenta Cowen, occorre un nuovo contratto sociale: bisogna cioè garantire agli esclusi beni e servizi (in primo luogo abitazioni) a basso costo, privarli dei vecchi servizi sociali ma lasciare loro in tasca abbastanza soldi perché non si ribellino. Ecco dunque riformulata la tesi di Attali, non nei termini ideologici dell’interesse del consumatore, bensì nella più cinica e realistica prospettiva di come condurre la “guerra di classe dall’alto” di cui parla Gallino senza provocare pericolose rivolte sociali.(Carlo Formenti, “Verso una società oligarchica”, da “Micromega” del 29 agosto 2014).La recente crisi di governo in Francia, con il “licenziamento” dei ministri anti-austerità e la loro sostituzione con solerti funzionari della politica economica ferocemente antipopolare che vede tutti i governi europei, di destra come di “sinistra”, impegnati a massacrare livelli di occupazione e di reddito e qualità della vita dei propri cittadini, ha scatenato l’entusiasmo dei media italiani, “Corriere della Sera” in testa, che hanno salutato con gioia l’epurazione degli eretici allievi delle teorie dell’odiato neokeynesiano Thomas Piketty e reiterato le lodi nei confronti del nostro amato leader Renzi, immune da analoghe tentazioni paleo-sinistrorse. Prosegue intanto l’assordante silenzio sugli effetti sempre più evidenti di politiche che, in barba allo strombazzato, e a parole universalmente condiviso, obiettivo di rilanciare crescita e sviluppo, appaiono inequivocabilmente autolesionistiche anche dal punto di vista capitalistico. Siamo dunque di fronte a un rincoglionimento generale di politici, media e padroni?
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Pasolini profetizzò gli orrori di oggi: chi l’ha ucciso?
Nell’aprile di quest’anno il Vaticano, che aveva a suo tempo perseguitato Pasolini e ne aveva appoggiato una condanna per blasfemia, ha definito il suo capolavoro, “Il Vangelo secondo San Matteo”, «il miglior film mai realizzato su Gesù Cristo». Questa espressione della fede radicale di Pasolini dipinge Gesù come un rivoluzionario “Messia rosso”, secondo la dottrina francescana della santa povertà, che ha una parziale influenza sull’attuale pontefice Francesco. Ma l’attenzione ossessiva per la sua morte è meno spiegabile: nel 2010 l’ex sindaco di Roma e leader del Partito Democratico di centro-sinistra Walter Veltroni chiese che il caso venisse riaperto sulla base di un insieme di strane circostanze convergenti e politicamente rilevanti. Pasolini venne ucciso il giorno dopo il suo ritorno da Stoccolma, dove aveva incontrato Ingmar Bergman e altri dell’avanguardia cinematografica svedese, e aveva rilasciato un’esplosiva intervista al settimanale “L’Espresso”, in cui aveva esplicitato il suo argomento preferito: «Ritengo che il consumismo sia una forma di fascismo peggiore delle versioni classiche».La visione di Pasolini di un nuovo totalitarismo, in cui l’ipermaterialismo distrugge la cultura italiana, può essere considerata un’acuta previsione di ciò che è avvenuto in tutto il mondo nell’era di Internet. Ma la sua critica era stata, per molti mesi prima dell’assassinio, più specifica. Aveva accusato la televisione di esercitare un’influenza estremamente pericolosa, prevedendo con grande anticipo l’emergere e la presa del potere di un soggetto come il magnate mediatico e primo ministro Silvio Berlusconi. Ancor più nello specifico, aveva scritto una serie di articoli per il “Corriere della Sera” di denuncia della dirigenza del partito al potere, la Democrazia Cristiana, come pervasa dall’influenza della mafia, prefigurando gli scandali della cosiddetta Tangentopoli di 15 anni dopo, quando un’intera classe politica venne messa agli arresti nei primi anni ’90. Nei suoi articoli, Pasolini affermava che la dirigenza democristiana doveva essere processata non solo per corruzione, ma per associazione con il terrorismo neofascista, come le bombe sui treni e i fatti di Milano.Un ulteriore elemento agghiacciante: quelli erano i cosiddetti “anni di piombo” in Italia, culminati nella bomba alla stazione di Bologna cinque anni dopo la morte di Pasolini, per mano di neofascisti in collaborazione coi servizi segreti, che uccise 82 persone. Io ero uno studente nella turbolenta Firenze del 1973, dove ritornai da allora ogni anno, e militante in un’organizzazione radicale chiamata Lotta Continua; e ricordo bene che il giornale “Lotta Continua” riceveva contributi da Pasolini, benché il suo rapporto con i movimenti radicali nati nel 1968 fosse ambiguo. Lui si identificava con i poliziotti contro gli studenti che manifestavano, perché, diceva, loro erano “figli dei poveri” attaccati dai borghesi “figli di papà”. Sta di fatto che al momento dell’omicidio nel 1975, le persone vicine a Pasolini videro la mano del potere dietro al suo assassinio. Non sarebbe stato il primo caso: eminenti personaggi della sinistra furono spesso aggrediti o uccisi; la femminista Franca Rame, che avrebbe sposato l’artista anarchico Dario Fo, venne rapita da neofascisti appoggiati dai carabinieri.Membri della famiglia di Pasolini, il giro dei suoi amici, e gli scrittori Oriana Fallaci e Enzo Siciliano evidenziarono possibili motivi politici per l’assassinio e fornirono prove che contraddicevano la confessione di Pelosi, come un maglione verde ritrovato nella macchina che non apparteneva né a Pasolini né a Pelosi, e un’impronta insanguinata della mano di Pasolini sul tetto (c’era appena qualche macchia di sangue su Pelosi). Dei motociclisti ed un’altra macchina furono visti seguire l’Alfa Romeo. Nel gennaio 2001 uscì un articolo su “La Stampa”, che portava la teoria della cospirazione su un terreno pesante. Si trattava della morte, nel 1962, in un incidente aereo, di Enrico Mattei, presidente del gigante dell’energia Eni, su cui fu girato un famoso film da Francesco Rosi, con cui Pasolini aveva lavorato. L’autore dell’articolo, Filippo Ceccarelli – uno dei più esperti giornalisti politici italiani – citava le inchieste di un giudice, Vincenzo Calia, sugli intrighi politici interni ad Eni, che rivelarono che l’aereo era stato abbattuto. Il giudice Calia coinvolse il successore di Mattei, Eugenio Cefis, in connivenza con leaders politici. Il rapporto citava un giornalista, Mauro di Mauro, che aveva lavorato con Rosi per il film “L’affare Mattei”, che fu rapito e di cui si perse ogni traccia.Molto prima dell’indagine di Calia, pubblicata nel 2003, Pasolini aveva lavorato al volume “Petrolio”, pubblicato postumo, in cui si delineavano le figure, a malapena dissimulate, di Mattei e Cefis, e si mostrava a conoscenza di come lo scandalo Eni e l’assassinio conducessero al cuore del potere e della loggia massonica P2, di cui Cefis era membro fondatore. «Con 25 anni di anticipo», scrisse Ceccarelli, «lo scrittore Pasolini era consapevole dell’esito di una lunga indagine». Poi, nel 2005, si ruppero gli argini. Pelosi, intervistato in televisione, ritrattò la confessione, dichiarando che due fratelli e un altro uomo avevano ucciso Pasolini, chiamandolo “pervertito” e “sporco comunista”, mentre lo colpivano a morte. Disse che essi frequentavano la sede tiburtina del partito neofascista Msi. Tre anni dopo, Pelosi fece altri nomi in un saggio dal titolo “Profondo Nero”, pubblicato dall’editore radicale “Chiarelettere”, in cui rivelava connessioni con cellule fasciste ancor più estreme, legate ai servizi segreti, dicendo che non aveva osato parlare prima, a causa di minacce alla sua famiglia.Uno degli amici più stretti di Pasolini, l’aiuto regista Sergio Citti, uscì allo scoperto dicendo che le sue personali indagini avevano condotto a prove del tutto trascurate: dei pezzi di bastone insanguinati scaricati vicino al campo di calcio, e un testimone, ignorato dall’indagine ufficiale, che aveva visto cinque uomini tirare fuori Pasolini dalla macchina. Citti introdusse un nuovo argomento: il furto delle bobine dell’ultimo film di Pasolini, “Salò”, di cui aveva tentato di negoziare la restituzione. Venne fuori che la banda di ladri frequentava lo stesso bar del biliardo di Pelosi, e aveva contattato Pasolini l’ultimo giorno della sua vita per combinare un incontro. Un’altra ricerca dello scrittore Fulvio Abbate collegava gli assassini alla famosa banda criminale della Magliana, che operava nella periferia del litorale romano. Il caso è ormai chiuso, e c’è chi, nella cerchia di Pasolini come nella classe politica, preferisce così.(Ed Vulliamy, estratto da “Chi ha davvero ucciso Pier Paolo Pasolini?”, articolo pubblicato sul “Guardian” il 24 agosto 2014 e tradotto da “Come Don Chisciotte”, in occasione della presentazione a Venezia del film di Abel Ferrara, che ricostruisce la figura del grande intellettuale partendo dalla sua tragica e misteriosa fine, il 1° novembre 1975, nel corso di un’esecuzione in cui risultò dapprima coinvolto il giovane Giuseppe “Pino” Pelosi).Nell’aprile di quest’anno il Vaticano, che aveva a suo tempo perseguitato Pasolini e ne aveva appoggiato una condanna per blasfemia, ha definito il suo capolavoro, “Il Vangelo secondo San Matteo”, «il miglior film mai realizzato su Gesù Cristo». Questa espressione della fede radicale di Pasolini dipinge Gesù come un rivoluzionario “Messia rosso”, secondo la dottrina francescana della santa povertà, che ha una parziale influenza sull’attuale pontefice Francesco. Ma l’attenzione ossessiva per la sua morte è meno spiegabile: nel 2010 l’ex sindaco di Roma e leader del Partito Democratico di centro-sinistra Walter Veltroni chiese che il caso venisse riaperto sulla base di un insieme di strane circostanze convergenti e politicamente rilevanti. Pasolini venne ucciso il giorno dopo il suo ritorno da Stoccolma, dove aveva incontrato Ingmar Bergman e altri dell’avanguardia cinematografica svedese, e aveva rilasciato un’esplosiva intervista al settimanale “L’Espresso”, in cui aveva esplicitato il suo argomento preferito: «Ritengo che il consumismo sia una forma di fascismo peggiore delle versioni classiche».
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Torneremo sudditi: il piano del demonio, padrone d’Europa
Tagli al welfare. Si persegue quella che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa. Afferma un celebre adagio che nella pervicacia si annida il demonio. Se è vero, le leadership europee sono prigioniere di potenze infere. Da sette anni infliggono ai propri paesi e alle loro economie una terapia nel segno dell’austerity che dovrebbe debellare la crisi e rimettere in moto la crescita. Non solo questa cura non ha prodotto nessuno dei risultati attesi. Tutte le evidenze depongono in senso contrario, al punto che sempre più numerosi economisti mainstream si pronunciano a favore di politiche espansive. Ciò nonostante la musica non cambia, nemmeno ora che l’Istituto statistico nazionale della Germania federale ha reso noti i dati sul secondo semestre di quest’anno. Anzi, il mantra delle “riforme strutturali” imperversa più forte che mai. Insomma, il demonio sbanca. O c’è semplicemente un dio dispettoso che si diverte ad accecare gente che vuol perdere.Sta di fatto che a suon di “riforme” l’Europa si sta suicidando, come già avvenne nel secolo scorso dopo il crollo di Wall Street, nonostante il buon esempio degli Stati Uniti rooseveltiani, che pure di capitalismo ne capivano. Questa è una lettura possibile. I capi di Stato e di governo e i grandi banchieri starebbero sbagliando i conti. Per superbia e presunzione, forse per incapacità, come pare suggerire il ministro Padoan parlando di previsioni errate. Ma c’è un’altra ipotesi altrettanto plausibile. Anzi, a questo punto ben più verosimile. Che non si tratti di errori ma del pesante tributo imposto dal massimo potere oggi regnante. Nonché (di ciò troppo di rado si discute) del perseguimento di un lucido progetto. E di un calcolo costi benefici forse spericolato ma coerente, in base al quale la recessione, con i suoi devastanti effetti collaterali (deflazione, disoccupazione, deindustrializzazione), appare un prezzo conveniente a fronte del fine che ci si prefigge: la messa in sicurezza di un determinato modello sociale nei paesi dell’Eurozona.Quale modello è facile a dirsi, se leggiamo in chiave politica le “riforme strutturali” di cui si chiede a gran voce l’adozione. Costringere gli Stati a “far quadrare i conti” significa nei fatti imporre loro, spesso congiuntamente, tre cose. La prima: vendere (svendere) il proprio patrimonio industriale e demaniale. La seconda: accrescere la pressione fiscale sul lavoro dipendente (posto che ci si guarda bene – soprattutto ma non solo in Italia – dal colpire rendite, patrimoni e grandi evasori). La terza: tagliare la spesa sociale destinata al welfare (vedi le ultime esternazioni del ministro Poletti in tema di pensioni), al sistema scolastico pubblico e all’occupazione nel pubblico impiego (dato che altre voci del bilancio non sono mai in discussione). Non è difficile capire che tutto ciò significa affamare il lavoro e spostare enormi masse di ricchezza verso il capitale privato. Nel frattempo, accanto a questi provvedimenti, ci si impegna a modificare le cosiddette relazioni industriali. Così si varano “riforme del lavoro” che hanno tutte un denominatore comune: l’attacco ai diritti dei lavoratori (“rigidità”) al fine di fare della forza lavoro una variabile totalmente subordinata (“flessibile”) al cosiddetto “datore”, che deve poter decidere in libertà se, quanto e a quali condizioni utilizzarla.Ne emerge un progetto nitido, che rovescia di sana pianta non solo il sogno sovversivo degli anni della sommossa operaia ma anche quello dei nostri costituenti. Si vuole fare finalmente della vecchia Europa quello che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa, cioè sul potere pressoché assoluto del capitale privato. Dopodiché potrà forse spiacere che dilaghino disoccupazione e povertà mentre enormi ricchezze si concentrano nelle mani di pochi. Pazienza. La “libertà” è un bene sommo intangibile, al quale è senz’altro opportuno sacrificare un feticcio d’altri tempi come la giustizia sociale. A chi obiettasse che questa è una lettura tendenziosa, sarebbe facile replicare con un rapido cenno alla teoria economica. L’enfasi sulla disciplina di bilancio suppone il ruolo chiave del capitale finanziario nel processo di produzione, secondo quanto stabilito dalla teoria neoclassica. Nel nome della “democrazia” questa teoria affida la dinamica economica alle decisioni del capitale privato. Il processo produttivo si innesca soltanto se esso prevede di trarne un profitto, il che significa concepirlo non soltanto come dominus naturale della produzione ma anche come il sovrano sul terreno sociale e politico.Vi sono naturalmente altre teorie. Marx, per esempio (ma anche Keynes) vede nella produzione una funzione sociale determinata principalmente da due fattori: la domanda (i bisogni sociali, compresi quelli relativi a beni o servizi “fuori mercato”) e la forza lavoro disponibile a soddisfarli. In questa prospettiva la funzione del capitale (soprattutto di quello finanziario, il denaro) è solo quella di mettere in comunicazione la domanda col lavoro. Per questo non gli è riconosciuto alcun potere di veto, meno che meno la sovranità. Anzi: la disponibilità di capitale è interamente subordinata alla decisione politica, per quanto concerne sia la leva fiscale, sia la massa monetaria. Inutile dire che queste teorie sono tuttavia reiette, bollate come stravaganti e antimoderne. Si pensa alle teorie come cose astratte, ma, come si vede, esse in filigrana parlano di soggetti in carne e ossa e di concretissimi conflitti. Il che spiega in abbondanza la povertà logica delle resistenze alle critiche keynesiane e marxiste. Spiega il vergognoso servilismo dei media, fatto di ignoranza e opportunismo. E spiega soprattutto perché, per l’establishment europeo, le “riforme strutturali” propugnate nel nome della teoria neoclassica siano un valore in sé, benché non servano affatto a risolvere la crisi, anzi la stiano aggravando oltremisura.La questione, insomma, è solo in apparenza economica e in realtà squisitamente politica. Del resto, nella sovranità assoluta del capitale e nella totale subordinazione della classe lavoratrice risiede la sostanza dei trattati europei che in questi vent’anni hanno modificato i rapporti di forza tra Stati e istituzioni comunitarie, tra assemblee elettive e poteri tecnocratici. È questo il punto di caduta di provvedimenti in apparenza dettati dalla ragion pura economica come il famigerato Fiscal Compact; questa la ratio della sciagurata decisione, al tempo del “governo del presidente”, di inserire il pareggio di bilancio in Costituzione. Non ve n’era bisogno, essendoci già Maastricht. Ma si sa, si prova un brivido particolare nel prosternarsi dinanzi ai primi della classe, nell’eccedere in espressioni servili. In altri tempi si sarebbe parlato di collaborazionismo.Un solo dubbio resta, nonostante tutto. È chiaro che alle leadership europee non interessa granché dell’equità sociale, né fa problema, ai loro occhi, l’instaurarsi di un’oligarchia. Ma a un certo momento (ormai prossimo) non sarà più tecnicamente possibile drenare risorse verso il capitale. Già oggi l’impoverimento di massa genera disfunzioni gravi, come dimostra l’imperiosa esigenza di “riformare” le Costituzioni per affrancare i governi dall’onere del consenso. Insomma, è sempre più evidente che il modello neoliberista urta contro limiti sociali e politici non facili a varcarsi. È vero che in un certo senso il capitale non conosce patria (è di casa ovunque riesca a valorizzarsi). Ma, a parte il fatto che gli equilibri geopolitici risentono del grado di forza interna delle compagini sociali (per cui l’Occidente rischia grosso nel confronto con l’«altro mondo», in vertiginosa crescita, ricco di capitali e di risorse umane), davvero è pensabile tenere a bada società già avvezze alla democrazia sociale (in questo l’Europa si distingue dagli Stati Uniti) a dispetto di una regressione ad assetti neofeudali? Abbiamo detto che non si capisce la discussione economica se non la si legge in chiave politica. Ma è proprio un problema politico quello che le leadership neoliberiste sembrano non porsi. Confermando tutta la distanza che corre tra gli statisti e i politicanti.(Alberto Burgio, “L’inchino europeo al capitale privato”, da “Il Manifesto” del 20 agosto 2014).Tagli al welfare. Si persegue quella che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa. Afferma un celebre adagio che nella pervicacia si annida il demonio. Se è vero, le leadership europee sono prigioniere di potenze infere. Da sette anni infliggono ai propri paesi e alle loro economie una terapia nel segno dell’austerity che dovrebbe debellare la crisi e rimettere in moto la crescita. Non solo questa cura non ha prodotto nessuno dei risultati attesi. Tutte le evidenze depongono in senso contrario, al punto che sempre più numerosi economisti mainstream si pronunciano a favore di politiche espansive. Ciò nonostante la musica non cambia, nemmeno ora che l’Istituto statistico nazionale della Germania federale ha reso noti i dati sul secondo semestre di quest’anno. Anzi, il mantra delle “riforme strutturali” imperversa più forte che mai. Insomma, il demonio sbanca. O c’è semplicemente un dio dispettoso che si diverte ad accecare gente che vuol perdere.
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Smith: un nuovo 11 Settembre firmato Isis, cioè Cia
L’Isis è una creatura dell’Occidente al 100%: perché non aspettarsi che siano proprio gli “alleati coperti” del Califfato Islamico a firmare l’eventuale prossimo replay dell’11 Settembre? Se lo domanda Brandon Smith, in una lucida analisi nella quale mette a fuoco la storia recente e recentissima. «Il terrorismo “false flag” architettato dai governi è un fatto storico accertato: per secoli, le élite politiche e finanziarie hanno affondato navi, incendiato edifici, assassinato diplomatici, rimosso leader eletti e fatto saltare la gente per aria, per poi incolpare di questi disastri un conveniente capro espiatorio, così da generare paura nel pubblico e acquisire più potere». Gli scettici potranno discutere se una qualche specifica calamità sia stata o meno un evento terroristico “sotto falsa bandiera”, ma nessuno può negare che queste tattiche, in passato, siano state usate puntualmente, in tutto l’Occidente. «I governi hanno ammesso apertamente di creare tragedie sanguinarie e catalizzatrici con falsi pretesti, come l’Operazione Gladio, un programma false-flag in Europa, supportato dai servizi segreti europei e americani, che durò per decenni, dagli anni ’50 ai ’90».
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Se il mondo esplode, entro un anno supermarket vuoti
«Qualsiasi influenza che l’America dovrebbe lasciare in Iraq dovrebbe focalizzarsi sulla ricostruzione della credibilità delle istituzioni nazionali» (editoriale del “New York Times”). Accidenti, non era per questo che in otto anni abbiamo perso 4.500 uomini e speso un miliardo e settecentomila dollari? E a che è servito tutto questo sforzo? La guerra in Iraq è diventata come il sistema finanziario americano, chi l’ha gestita non è stato capace nemmeno di immaginarsi quanto ci sarebbe costata. Cosa, questa, che dal punto di vista politico ha visto gli Usa che si affannavano a scavare buche ovunque e da ognuna di quelle buche uscivano fuori tanti di quei sorci, che è diventato difficile trovare un pezzo di terra dove si possa stare tranquilli e fermarsi a riposare. Saremo fortunati se la vita degli americani non arriverà a somigliare a quella de “La vendetta degli uomini-talpa”.Tutto l’arco di questa storia tende solo a una probabile conclusione: il giorno terribile in cui l’Isis (abbreviazione di quello che vogliono) prenderà possesso della Green Zone Usa di Baghdad. Non credete che quello sarà uno spettacolo nauseante? Forse avverrà giusto in tempo per le elezioni Usa del 2014. E che cosa pensate si potrà dire alla prima riunione politica nella “war room” della Casa Bianca il giorno dopo (l’elezione del prossimo presidente)? Credete che ci sarà qualcuno che comincerà a spiegare che gli Usa si sono voluti prendere una pausa prima di intraprendere altre operazioni in tutto il Medio Oriente e nella Regione del Nord-Africa? Personalmente raccomandarei di restare dietro le quinte, di non fare niente, di aspettare per vedere cosa succede – perché tutto quello che abbiamo fatto finora ha solo portato distruzione per uomini e cose.Facciamo una ipotesi: l’Isis finisce per consolidare il suo potere in Iraq, Siria, e in qualche altro posto. Nell’intera regione si vivrà una dimostrazione molto colorata di quello che significa vivere sotto un dispotismo psicopatico in stile 11° secolo. A fine dimostrazione la gente – quella che sarà sopravvissuta a un’orgia di decapitazioni e di crocifissioni – potrà decidere se gli piace. Una esperienza che potrebbe chiarire meglio le idee. In ogni caso, quello a cui stiamo assistendo in Medio Oriente – a quanto pare all’insaputa di giornali e telegiornali – è che la maggioranza della popolazione ha ormai ha superato ogni limite: caos, omicidi, collasso dell’economia. La popolazione umana di questo angolo desolato del mondo è vissuta finora grazie ad una alimentazione artificiale dipendente solo dai profitti del petrolio, profitti che hanno permesso ai governi di continuare a far mangiare la gente e a mantenere una classe media artificiale che lavorava in uffici burocratici che non avevano nessun senso, dove nella migliore delle ipotesi non facevano niente, e nel peggiore dei casi vessavano il resto della popolazione con la loro corruzione e richieste di mazzette.Non c’è nessuna nazione sulla terra che si stia preparando con intelligenza per la fine dell’era del petrolio – e con questo intendo: 1) alla fine del petrolio a prezzi bassi, a prezzi accessibili; 2) alla destabilizzazione permanente degli attuali canali di fornitura del petrolio. Entrambe queste condizioni dovrebbero essere ben visibili durante questa evoluzione dinamica della geopolitica, ma nessuno sembra volerlo vedere, o sentire, come ad esempio quel frastuono che arriva dall’Ucraina. Quella nazione irresponsabile, infelice, che vive una situazione tragica per colpa dei burattinai della Ue e degli Usa, che ha appena risposto alle ultime reazioni della Russia alle sanzioni commerciali, dichiarando che potrebbe bloccare le forniture di gas russo verso l’Europa, chiudendo le condotte che passano sul suo territorio. Spero che tutti quelli che abitano oltre Dnepropetrovsk siano pronti a bruciare i mobili di casa a novembre prossimo.Ma queste dichiarazioni insensate riescono solo a dimostrare quanto la situazione sia diventata assolutamente irrazionale… e quanto quello che succede sia sempre più lontano dal quello che penso. La cosa peggiore che potrebbe succedere sarebbe che l’Isis riuscisse a instaurare un Califfato tentacolare, che potrebbe sfuggire loro di mano provocando solo episodi sanguinosi e impressionanti dopo il collasso della società esistente. Cosa che è molto probabile in quella zona che ora si chiama Arabia Saudita, dove vive una classe dirigente sclerotica e aggrappata al potere. Se e quando vedremo arrivare quei maniaci dell’Isis protagonisti di video su YouTube dove fanno rotolare le teste, con quante probabilità i tecnici che oggi lavorano nelle compagnie petrolifere resteranno attaccati al loro posto di lavoro? E allora l’Isis sarebbe capace di svolgere lo stesso lavoro e di usare quegli stessi macchinari? Io non ci conterei.E non conterei nemmeno sul fatto che l’intera catena di fornitura mondiale di petrolio possa continuare a produrre come siamo abituati adesso. Se stiamo cercando dove potrebbe accendersi la scintilla per una Terza Guerra Mondiale, cominciamo a cercare da qui. In ogni caso non è che gli Usa si siano dimostrati meno idioti degli ucraini. Noi ci siamo raccontati la storialla che lo “shale oil” – il petrolio estratto dalle rocce sotterranee frantumate – ci potrà trasformare in un’isola felice, fuori dai conflitti che scoppieranno in tutto il resto del mondo, dopo la dissoluzione del paradigma-economico-del-petrolio. La storiella dello “shale oil” è falsa. Secondo i miei calcoli ci resterà ancora un annetto per continuare a spendere tranquillamente nei supermercati, prima che la gente prenda veramente coscienza del guaio in cui ci troviamo. La cosa sorprendente è la gente comune possa arrivare a capirlo anche prima della sua classe politica. Questa dinamica di pensiero porta direttamente a pensare all’impensabile (non certo per i prossimi 150 anni) crollo degli Stati Uniti.(James Kunstler, “Una scintilla per la Terza Guerra Mondiale”, dal blog di Kunstler del 12 agosto 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”).«Qualsiasi influenza che l’America dovrebbe lasciare in Iraq dovrebbe focalizzarsi sulla ricostruzione della credibilità delle istituzioni nazionali» (editoriale del “New York Times”). Accidenti, non era per questo che in otto anni abbiamo perso 4.500 uomini e speso un miliardo e settecentomila dollari? E a che è servito tutto questo sforzo? La guerra in Iraq è diventata come il sistema finanziario americano, chi l’ha gestita non è stato capace nemmeno di immaginarsi quanto ci sarebbe costata. Cosa, questa, che dal punto di vista politico ha visto gli Usa che si affannavano a scavare buche ovunque e da ognuna di quelle buche uscivano fuori tanti di quei sorci, che è diventato difficile trovare un pezzo di terra dove si possa stare tranquilli e fermarsi a riposare. Saremo fortunati se la vita degli americani non arriverà a somigliare a quella de “La vendetta degli uomini-talpa”.
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Cabras: siam pronti anche noi alla macelleria della guerra?
Perché mai, domanda il giornalista, avete deciso di far sfilare i prigionieri di guerra? «E’ stata Kiev a dire che avrebbero marciato in parata a Donetsk il giorno 24. E così han fatto». Questa la terribile ironia che i difensori russofoni del Donbass aggredito dall’esercito ucraino esibiscono dopo aver respinto l’attacco. Avvertono: nessuna illusione sui cosiddetti dispersi dell’esercito regolare. «Le famiglie ricevono lettere che li dichiarano “dispersi in azione”. In realtà sono morti. Le autorità di Kiev lo fanno apposta. Centinaia e migliaia di morti in qualche decina di tombe». Il comandante russofono lo annuncia ufficialmente: «Ognuno sappia che se hai ricevuto una lettera che lo definisce “disperso in azione”, allora molto probabilmente tuo marito, fratello o figlio è stato ucciso». Il video è proposto da “Pandora Tv”, che presenta anche l’intera conferenza stampa del presidente del Donbass, Aleksandr Zakharchenko, tenutasi il 24 agosto nel pieno della controffensiva delle milizie ribelli, che hanno sbaragliato le meglio armate e più numerose forze del governo di Kiev.«Sarà l’Ucraina, sarà il richiamo bellico dell’anno quattordici, sarà che ormai le dichiarazioni di molti politici europei già annunciano la carneficina all’orizzonte», moltiplicando ogni giorno le nuove evocazioni di una guerra mondiale, ma intanto «cresce per molti una sensazione di pericolo», scrive Pino Cabras su “Megachip”. «Evocare è facile, ma essere davvero pronti all’anticamera dell’Apocalisse è un’altra cosa». Chi è davvero pronto per la guerra? Certo non i popoli europei: «Vivono in una bolla televisiva che fa loro sperare di essere ancora a lungo i consumatori che sono stati negli ultimi decenni. La cuccagna non è stata ancora smontata, perciò il ricordo dell’ultima guerra mondiale rimane annacquato. Gli europei medi – continua Cabras – non riescono più a immaginare la guerra come catastrofe. I telegiornali e i grandi quotidiani li ammaestrano all’isteria bellica, alla propaganda più sfacciata, alla russofobia, questo sì. Ma occultano l’idea che la distruzione possa entrare nelle loro case o sommergere intere coorti dei loro figli».Il peggio è che «nessun europeo medio ha saputo cosa è accaduto in Ucraina negli ultimi sei mesi, dal golpe in poi. Tanto meno sa cosa c’era prima. Né sa che il governo di Kiev ha martoriato la popolazione civile delle regioni orientali». L’europeo medio «ignora gli interessi predatori di quei capitalisti mafiosi che vorrebbero svuotare quelle regioni dei loro abitanti russofoni», non sa che «le forze di sicurezza ucraine sono in mano ad avventurieri imbevuti di ideologie naziste». E naturalmente «non sa nulla della Russia, non sa nulla di nulla: e si ritroverà nella guerra vasta che annuncia il neopresidente polacco del Consiglio Europeo, Donald Tusk (un burattino atlantista), e peggio di lui il ministro della difesa ucraino Gheletei, senza sapere ancora nulla». Certamente a scalpitare è Tusk, il regime dell’Ue è al guinzaglio di Washington, lo stesso Cameron sembra avere il dito sul grilletto. La Nato sembra abbozzare una frenata – su richiesta della Merkel, cioè dell’export tedesco danneggiato dalle sanzioni contro Mosca – ma intanto prepara una forza di pronto intervento per l’Est. In teoria, era pronta alla guerra anche la giunta golpista di Kiev, «ma in modo totalmente irresponsabile, con una tragica incapacità di valutare gli interessi dei russi e – di questi – la determinazione (cioè una prontezza reale) a pagare e infliggere il prezzo di una guerra vera».Quel che accade ora in Ucraina, dice Cabras, misura le reali dimensioni di queste diverse “prontezze”. Da un lato i popoli occidentali «anestetizzati dai loro media», popoli «che non hanno alcuna misura dei fatti», e in più il popolo ucraino «che si sorprende di dover subire una disfatta (in Italia si direbbe una Caporetto), come nel caso delle mamme e sorelle disperate che chiedono conto delle notizie di una brigata di 4.700 uomini, di cui sono tornati con le proprie gambe in appena 83». Queste famiglie «hanno appena riscoperto il concetto di “carne da cannone”», quello della Grande Guerra. «Sono le avanguardie delle mamme che ripeteranno la scena in tante altre lingue, anche da noi, nelle capitali in bancarotta dell’Europa ai comandi di Bruxelles e Francoforte». Dall’altro lato della barricata, ecco invece i militari del Donbass: «Colpisce la sicurezza e l’agghiacciante autorevolezza – in un dosaggio di gravitas e brutale ironia – con cui questi partigiani dei nostri giorni parlano di migliaia di vittime di guerra». La “gravitas” è quella che annuncia l’avvenuta strage dei militari mandati allo sbaraglio dagli aggressori incoraggiati dalla Nato. L’ironia è quella della sfilata dei prigionieri: a marciare (disarmati e sconfitti) il 24 agosto sono stati gli ucraini di Kiev, quelli che avevano annunciato con troppa fretta la conquista di Donesk, con tanto di parata dal sapore hitleriano.«Purtroppo, cari giornalisti, l’Occidente cerca di invaderci con una frequenza di 30-50 anni», dicono i resistenti dell’Est. «Ogni 30-50 anni la civiltà occidentale cerca di imporci la sua opinione e il suo modo di vivere. La Prima Guerra Mondiale, la Grande guerra patriottica, la guerra di Crimea prima ancora, e così via nelle profondità della storia. Come risultato, l’Occidente tradizionalmente ottiene la caduta di Berlino, di Parigi. L’Occidente arriva ogni 30-50 anni per ottenere ciò che si merita. Ora, nel 2014, sono un po’ in ritardo», ma il copione sembra lo stesso. Loro, sì, sono pronti alla guerra. Lo hanno dimostrato. E lo spiegano in modo chiarissimo: «Diremo a chiunque venga a farci del male sul nostro territorio: ci batteremo con le unghie e con i denti per la nostra patria. Kiev e l’Occidente hanno fatto un grosso sbaglio a risvegliarci. Noi siamo gente laboriosa. Mentre altri saltavano a Maidan per 300 grivne, la nostra gente era giù in miniera a estrarre carbone, a fondere metallo e a seminare le colture. Nessuno di noi ha avuto il tempo di saltare, eravamo impegnati a lavorare». Poi, quando li hanno presi a cannonate, si sono ribellati.«Quando un tizio che appena ieri lavorava con un martello pneumatico o guidava una mietitrebbia, oggi si trova alla guida di un carro armato o di un Grad, o a raccogliere un mitra, la linea è stata passata e non lo potete più fermare», dicono i militari dell’Est. «Quello che ha dovuto lasciare il proprio lavoro sa che combatterà fino alla fine e fino al suo ultimo respiro». E l’Occidente è pronto è combattere “fino all’ultimo respiro”? Certo non lo è la nuova Lady Pesc, Federica Mogherini, che si abbandona a dichiarazioni desolanti, del tipo: «Se non esiste più un partenariato strategico è per scelta di Mosca». Ovvero: nessuna autocritica ai piani alti dell’Ovest. «Ecco, Mogherini non è pronta», scrive Cabras. «Fa interamente sua tutta l’eredità della Nato e della Ue in questi anni di crisi internazionali, destabilizzazioni, aggressioni ed escalation: cioè un bilancio disastroso e criminale, dall’Iraq all’Afghanistan al dossier libico, alla Siria, e ora all’Ucraina».Il bilancio occidentale di questi anni? «Un caos funesto interamente imputabile alla lunga “guerra infinita” scatenata dalle capitali dell’atlantismo», subito dopo l’opaco super-attentato dell’11 Settembre. Lo stesso Cabras ricorda che, all’indomani della guerra-lampo nell’Ossezia del Sud attaccata dall’esercito georgiano armato da Bush e poi travolto dai russi, nel 2008 il “Times” ricordava le parole di Lord Salisbury, ministro degli esteri e primo ministro ai tempi dell’Impero Britannico», un uomo che «irradiò un potere globale immenso». Di fronte a proposte pericolose, in cui Londra minacciava seriamente altri paesi, Salisbury avrebbe guardato i suoi colleghi negli occhi, chiedendo semplicemente: «Siete davvero pronti a combattere? Altrimenti, non imbarcatevi in questa politica».Già: siete davvero pronti a combattere? «E’ la domanda giusta, quella che non vi hanno ancora fatto», osserva Cabras. «Nell’Europa politicamente desertificata dall’obbedienza alla Nato si continua ad agire come se la Russia fosse ancora oggi lo Stato esausto degli anni novanta, su cui si muoveva etilicamente Boris Eltsin e sul cui collo si stringeva il capestro del Fondo Monetario Internazionale. La situazione è completamente diversa, eppure si va lo stesso allo scontro. O si va proprio per questo, nel momento in cui i Brics picconano il Dollar Standard. E gli Usa non possono accettare un mondo multipolare in cui il dollaro non sia l’architrave». Allora, siamo pronti a combattere? La risposta la anticipano – a distanza – i comandanti militari dell’Est ucraino, che a questa guerra hanno già preso le misure. «Potete dirlo in giro: non svegliate la bestia», raccomandano. «Non fatelo, davvero. Finché c’è ancora la possibilità, lasciate che le madri risparmino i propri figli».Perché mai, domanda il giornalista, avete deciso di far sfilare i prigionieri di guerra? «E’ stata Kiev a dire che avrebbero marciato in parata a Donetsk il giorno 24. E così han fatto». Questa la terribile ironia che i difensori russofoni del Donbass aggredito dall’esercito ucraino esibiscono dopo aver respinto l’attacco. Avvertono: nessuna illusione sui cosiddetti dispersi dell’esercito regolare. «Le famiglie ricevono lettere che li dichiarano “dispersi in azione”. In realtà sono morti. Le autorità di Kiev lo fanno apposta. Centinaia e migliaia di morti in qualche decina di tombe». Il comandante russofono lo annuncia ufficialmente: «Ognuno sappia che se hai ricevuto una lettera che lo definisce “disperso in azione”, allora molto probabilmente tuo marito, fratello o figlio è stato ucciso». Il video è proposto da “Pandora Tv”, che presenta anche l’intera conferenza stampa del presidente del Donbass, Aleksandr Zakharchenko, tenutasi il 24 agosto nel pieno della controffensiva delle milizie ribelli, che hanno sbaragliato le meglio armate e più numerose forze del governo di Kiev.
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Sbanca-Italia, dal Vangelo secondo Matteo Cirino Pomicino
«Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete». Firmato: Matteo (non Renzi, ovviamente, ma l’altro, l’evangelista. «Non mi disturba la sindrome “annuncite” che affligge il primo ministro e i suoi sodali, la considero un attributo dei tempi in cui viviamo», scrive Luca Giunti. «Mi disturba molto, invece, l’“ipocrisite”, i cui sintomi leggeri sono gli annunci disonorati, mentre quelli gravi si manifestano con atti formali opposti a quanto dichiarato». Il fumo? «E’ sopportabile se poi c’è l’arrosto; in sua assenza, irrita la gola». I No-Tav valsusini, come il tecnico Giunti, ne sono vaccinati. E dietro al decantato decreto Sblocca-Italia scoprono «verità brutali», o meglio «banali», esattamente come quelle – marce, marcissime – della rottamata Prima Repubblica, finita nel tritacarne di Tangentopoli. Il decreto annunciato da Renzi il 29 agosto, infatti, «in realtà viene continuamente modificato dai parlamentari e ogni giorno tramonta su una bozza diversa: perché si tratta sostanzialmente di una finanziaria “vecchia maniera” che ogni lobby strapazza per sostenere i propri interessi».Come i vecchi tempi, col bilancino: «Un tanto all’Abruzzo e altrettanto al Veneto, una strada alla Calabria e una ferrovia al Lazio, un appalto per le coop rosse e uno per Cl, nella migliore tradizione da “assalto alla diligenza” di prassi dorotea e di craxiana memoria». Dopo la diagnosi e l’analisi della forma, Luca Giunti passa al contenuto: «Limitiamoci all’articolo 1, per evitare noia e disperazione. Riguarda la ferrovia ad alta velocità Napoli-Bari. Se ne parla da almeno 10 anni. Compare con 3,8 miliardi nel 7° Dpef del 2009 perché “opera di nuovo inserimento a causa dell’avanzato stato progettuale” (testuale, non ridete). In precedenza era stata annunciata come “in corso di progettazione” (Dpef 2004) e poi “inseribile nelle opere strategiche della Legge Obiettivo” (Dpef 2007). Da notare che quei documenti parlano anche del collegamento, normale, Salerno-Potenza-Bari, tante volte scritto e mai realizzato. Ora, perché uno Stato decide di costruire una nuova ferrovia? Perché serve. Come lo dimostra? Con uno studio chiamato Analisi Costi-Benefici (Acb)».A quanto a pare è talmente fondamentale, questo approccio, che lo propone persino il commissario dell’Osservatorio sulla Torino-Lione, Mario Virano propone, nel semisconosciuto “Quaderno 9”: tutte le fasi progettuali di un’infrastruttura, scrive Virano, dovrebbero basarsi su un’Acb. «Appare insostituibile per la sua diffusione, sinteticità nei risultati e necessità da parte dei promotori di definire molti aspetti di importanza decisiva per gli stakeholder, compresa evidentemente la collettività che finanzia parte o la totalità dell’opera». E in ogni fase, le Acb «dovrebbero essere redatte da soggetti qualificati, utilizzare metodologia consolidate e/o raccomandate da organi autorevoli e fatte oggetto di verifica da parte di organismi terzi». E’ mai stata fatta per la Napoli-Bari? No. Anzi, molti autori ne hanno denunciano l’assenza, e soprattutto l’inutilità dell’opera, osserva Giunti «Infatti, come la Torino-Lione, la Milano-Genova e la Roma-Napoli, si affiancherebbe a ferrovie esistenti, sottoutilizzate e migliorabili con costi minori e denari più immediatamente circolanti».Non è difficile verificarlo: oggi si può benissimo andare in treno da Napoli a Bari. Secondo le opzioni proposte dal sito di Trenitalia, ci vogliono dalle 4 alle 5 ore, cambiando quasi sempre a Caserta. Sono circa 270 chilometri. «E’ necessario migliorare il collegamento? Si può fare subito. Intendiamoci: non occorre rinunciare al progetto nuovo. Ma intanto uno Stato serio offre ai propri cittadini una possibilità immediata. Convince le Ferrovie, ad esempio, a incrementare gli Intercity e a eliminare i cambi, magari richiamando in servizio l’onorato e mai dimenticato Pendolino (perfetto per l’Italia: andava forte – non fortissimo – sulle tortuose linee esistenti, in attesa di costruire quelle nuove più veloci ma molto più esigenti)». Ma poi, perché stupirsi? «Lo stesso decreto impone una nuova linea ad alta velocità tra Palermo, Catania e Messina (nella prima versione del decreto si fermava a Catania, ma poi le lobbies…)». L’aspetto più grave, però, non è nemmeno questo: è l’alta velocità del premier sulle grandi opere. «Renzi ha fretta, vuole aprire i cantieri entro un anno, anche se mancano ancora tutte le approvazioni previste dalle leggi. Allora cosa fa? Innanzitutto, dichiara gli interventi indifferibili, urgenti e di pubblica utilità. Poi nomina un commissario (un altro!) e gli dà poteri terribili».Il commissario renziano approva i progetti, rielabora quelli già approvati ma non ancora appaltati, bandisce gare anche sulla base dei soli progetti preliminari e provvede alla consegna dei lavori entro 120 giorni dall’approvazione dei progetti, anche adottando provvedimenti d’urgenza. «Appaltare i lavori in base al progetto preliminare – senza valutare il definitivo e l’esecutivo – è il sogno di ogni costruttore, onesto o criminale», osserva Giunti. «Gli inconvenienti, le varianti, gli imprevisti saranno innumerevoli. E il conseguente lucro, ingentissimo. Tanto, paga lo Stato. Povero Renzi: come un Pomicino qualsiasi…». Soprattutto, il Rottamatore «ordina imperiosamente che la conferenza di servizi è convocata entro quindici giorni dall’approvazione dei progetti definitivi. Qualora il rappresentante di un’amministrazione sia assente o non dotato di adeguato potere di rappresentanza, la conferenza delibera a prescindere». Il dissenso manifestato in sede di conferenza dei servizi? «Deve essere motivato. E recare, a pena di non ammissibilità, le specifiche indicazioni progettuali necessarie ai fini dell’assenso».In caso di motivato dissenso espresso da una amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico artistico o alla tutela della salute dei cittadini, la determinazione finale «è subordinata ad apposito provvedimento del commissario entro sette giorni dalla richiesta». Sicché «i pareri, i visti e i nullaosta relativi agli interventi necessari sono resi dalle amministrazioni competenti entro trenta giorni dalla richiesta». Decorso inutilmente quel termine, «si intendono acquisiti con esito positivo». Domanda: «Cosa vuol dire questo burocratese?». Facile: «Che dell’ambiente, del paesaggio, del territorio, dell’arte e della salute, a Renzi e ai suoi sodali non gliene frega un cazzo, con buona pace della Costituzione, dei cittadini, degli annunci fatti in ogni occasione di rilanciare la cultura e tutelare il patrimonio italiano (eccola, l’“annuncite”), l’unico che nessun’altra nazione possiede. E con un insulto alla logica, alla geografia e alla storia: qualcuno può dubitare che scavando tra Bari e Napoli si troveranno molti resti archeologici?».D’altronde, fu lo stesso Renzi, in conferenza stampa, a parlare di «Soprintendenze che creano problemi». Aggiunge Giunti: «Tralascio per carità di patria le scempiaggini che ha detto riguardo le terre e le rocce da scavo». Basti ricordare che «l’Europa ha imposto norme vincolanti, l’Italia le ha eluse fino all’inevitabile procedura d’infrazione, si è corretta senza pentirsi e da tempo cerca di ritornare all’anarchia filo-mafiosa del passato: lo dimostra proprio questo decreto». Lo Sblocca-Italia prevede infatti «una Disciplina semplificata del deposito preliminare» e la «cessazione della qualifica di rifiuto» per i materiali di scavo, facilitando evidentemente il loro smaltimento senza bonificare i siti. Chiara la “prognosi” di un naturalista come Giunti: «Questo Renzi si è cucito addosso il ruolo di rottamatore e innovatore, ma le azioni che lui stesso prima annuncia e poi firma dimostrano che è vecchio, invece, vecchissimo». Matteo 7, 15.20: “Dai loro frutti li riconoscerete”. «Uguale preciso ai suoi predecessori: sono la causa della malattia e si spacciano per la cura. Dov’è la differenza con Monti, con Amato, con D’Alema? O con un Dini o un Colombo? Stringi stringi, sotto gli slogan trovi sempre calcestruzzo, bitume, impalcature e favori ai grandi costruttori, sia legali sia criminali». Se guariremo, non sarà «con queste medicine, decrepite e tossiche come pozioni di negromanti». Etica, partecipazione. E medici veri: «I decreti vecchi e i loro annunciatori vanno gettati via».«Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete». Firmato: Matteo (non Renzi, ovviamente, ma l’altro, l’evangelista). «Non mi disturba la sindrome “annuncite” che affligge il primo ministro e i suoi sodali, la considero un attributo dei tempi in cui viviamo», scrive Luca Giunti. «Mi disturba molto, invece, l’“ipocrisite”, i cui sintomi leggeri sono gli annunci disonorati, mentre quelli gravi si manifestano con atti formali opposti a quanto dichiarato». Il fumo? «E’ sopportabile se poi c’è l’arrosto; in sua assenza, irrita la gola». I No-Tav valsusini, come il tecnico Giunti, ne sono vaccinati. E dietro al decantato decreto Sblocca-Italia scoprono «verità brutali», o meglio «banali», esattamente come quelle – marce, marcissime – della rottamata Prima Repubblica, finita nel tritacarne di Tangentopoli. Il decreto annunciato da Renzi il 29 agosto, infatti, «in realtà viene continuamente modificato dai parlamentari e ogni giorno tramonta su una bozza diversa: perché si tratta sostanzialmente di una finanziaria “vecchia maniera” che ogni lobby strapazza per sostenere i propri interessi».