Archivio del Tag ‘popolo’
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I mercati: grazie Renzi, hai salvato l’euro-rigore tedesco
Marine Le Pen? Qualcuno le ha già “parlato”, chiedendole di ritirare la richiesta di scioglimento del Parlamento francese dopo il voto delle europee. Troppo pericoloso, per l’élite finanziaria, il credo politico democratico del Front National: via dall’euro, altrimenti usciamo dall’Unione Europea. Chi è stato a “consigliare” alla Le Pen di non radicalizzare lo scontro, in questo momento così delicato per la tenuta delle istituzioni europee? Loro, i “mercati”. Quelli che confidano che tutto si sistemerà alla svelta: dopo lo scossone euroscettico, proveniente da forze non omogenee (euro-perplessi, no-euro, anti-Ue), i popolari della Merkel e di Juncker riprenderanno il pieno controllo della situazione, grazie all’aiuto decisivo del Pd di Renzi, il cui exploit mette in salvo la socialdemocrazia europea stabilizzando il sistema. Insomma: grazie Renzi, dicono i mercati finanziari che sono i massimi responsabili della crisi che sta devastando i nostri paesi.Lo rivela Paolo Barnard, che dichiara di avere accesso a documenti riservati, quelli di «analisti top di due dei maggiori istituti d’investimento del mondo, quelli che consigliano i “mercati” su come muoversi». I famosi mercati, che avrebbero immediatamente “avvertito” (cioè minacciato) Marine Le Pen. «Non ho le prove di questo», ammette Barnard nel suo blog, «ma è risibile pensare di averle», aggiunge. «La certezza che questo è accaduto viene dalla consolidata prassi del Vero Potere da decenni, e oggi noi italiani sappiamo come questi “colloqui” non siano affatto complottismo», come insegna la spettacolare detronizzazione di Berlusconi nel 2011. E ora, dopo il voto europeo, i “mercati” «hanno tenuto il sangue freddo e hanno analizzato la situazione con le seguenti parole, che cito da documenti riservati di cui mi è stato chiesto di non divulgare la fonte». Illuminante il loro “giudizio”, che «assieme alla calata di capo della Le Pen, ha assicurato oggi la vita all’Eurozona», e quindi «la nostra condanna»: «Rimaniamo tranquilli – scrivono – perché è certo che il centrodestra dei Popolari rimarrà il partito di maggioranza», e collaborerà in modo ancora più stretto col centrosinistra grazie all’affermazione di Renzi in Italia.«Considerando i partiti anti-austerità, quelli anti-Eurozona e i nazionalisti anti-immigrazione», si legge nel documento, «il quadro che emerge è questo: in Grecia l’opposizione ha avuto un buon risultato, ma non sufficiente per impensierire il governo a breve. Syriza è anti-austerità ma non anti-Eurozona. Il Pasok non è collassato e il suo successo relativo ci dice che il governo ha superato il punto di maggior rischio. In Francia e Gran Bretagna abbiamo visto un significativo spostamento verso gli euroscettici, ma all’interno di un range che ci aspettavamo. Siamo certi che l’establishment politico saprà rispondere nel breve termine». Non fanno una piega, gli analisti, di fronte al voto europeo. E per loro le migliori notizie (le peggiori, per noi) vengono proprio dal nostro paese devastato dall’euro-rigore: «Il successo del Pd in Italia è la nota di maggior importanza. Ha portato stabilità in opposizione a tutto il fronte euroscettico europeo. La performance di Renzi apre la possibilità di una sua più stretta collaborazione con la Merkel sulla politica generale in Eurozona. L’Italia assume la presidenza Ue in luglio».«L’ottimismo del mercato – aggioungono gli analisti – viene dal fatto che, anche se l’aumento dei partiti anti-Ue può apportare maggiore imprevedibilità alla politica, paradossalmente ciò rafforzerà la determinazione dei tre maggiori gruppi pro-euro a votare per “più Europa” in Parlamento, e congelare così la compagine anti-euro». E non è finita: «Sappiamo che in ogni caso tutto il blocco anti-Ue rimane una cosa incoerente: molti non hanno esperienza di governo, sono gruppetti raffazzonati, con visioni spesso totalmente divergenti su Eurozona, immigrazione ed economia. Quindi i due gruppi mainstream continueranno a dominare». Per Barnard, la frase più inquietante è questa: «In Francia e Gran Bretagna abbiamo visto un significativo spostamento verso gli euroscettici, ma all’interno di un range che ci aspettavamo». Non è necessario commentare, aggiunge Barnard, «se non per ricordarvi che vi ho tante volte detto che il Vero Potere anticipa sempre tutto». La seconda frase-chiave è quella sull’exploit di Renzi, che stabilizza l’euro-sistema e accelera le larghe intese con la Merkel «sulla politica generale in Eurozona».Amarezza: «Che sia il mio paese, il suo popolo, oggi, a rappresentare la rete di sicurezza dell’economicidio e della chemiotassazione neofeudale da euro fa venire da piangere, perché siamo veramente il popolo più stupido del mondo», scrive Barnard, che accusa i grillini di essere «una sottospecie di stolti»: se invece di «sbavare da cefali dietro alla Casaleggio Associati» avessero adottato una linea decisa anti-eurozona, «oggi sarebbero una speranza, qui, invece di una vergogna internazionale». I mastini dei “mercati” infatti non li prendono nemmeno in considerazione: al di là del fatto che il Movimento 5 Stelle ha ottenuto la metà del punteggio elettorale di Renzi, la campagna elettorale di Grillo non hai impensierito neppure per un istante i “dominus” dell’Eurozona, quelli che ci infliggono l’austerity mediante iper-tassazione indotta dalla moneta unica. Il resto dell’euro-platea dei nuovi scettici? Brigate pasticcione, in ordine sparso. Solo Marine Le Pen si è mostrata all’altezza della sfida. «Nessuna delle forze anti-mercati, dalla Lega all’Ukip a Syriza», secondo Barnard possiede «un tipo di arma come la Mosler Economics Mmt», cioè un dispositivo tecnocratico sovranista da opporre agli oligarchi. Così, i “mercati” non si sono scomposti: sanno che potranno continuare a torturarci, come e più di prima.Marine Le Pen? Qualcuno le ha già “parlato”, chiedendole di ritirare la richiesta di scioglimento del Parlamento francese dopo il voto delle europee. Troppo pericoloso, per l’élite finanziaria, il credo politico democratico del Front National: via dall’euro, altrimenti usciamo dall’Unione Europea. Chi è stato a “consigliare” alla Le Pen di non radicalizzare lo scontro, in questo momento così delicato per la tenuta delle istituzioni europee? Loro, i “mercati”, i signori dello spread. Quelli che confidano che tutto si sistemerà alla svelta: dopo lo scossone euroscettico, proveniente da forze non omogenee (euro-perplessi, no-euro, anti-Ue), i popolari della Merkel e di Juncker riprenderanno il pieno controllo della situazione, grazie all’aiuto decisivo del Pd di Renzi, il cui exploit mette in salvo la socialdemocrazia europea stabilizzando il sistema. Insomma: grazie Renzi, dicono i mercati finanziari che sono i massimi responsabili della crisi che sta devastando i nostri paesi.
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Sternhell: basta apartheid, il mondo libero isoli Israele
Chiedere ad Abu Mazen di riconoscere Israele come Stato ebraico significa pretendere che i palestinesi ammettano la loro sconfitta storica e riconoscano la proprietà esclusiva degli ebrei del paese. Ciò che si chiede loro è rinnegare la loro identità nazionale, accettando una resa storico-culturale prima ancora che politica. Ciò che mi preoccupa di più è l’idea di “pace” che oggi permea trasversalmente Israele: un’idea diventata senso comune per la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana. E’ qualcosa di più e di più grave di una idea di pace a costo zero. E’ la convinzione che l’unica pace accettabile sia la resa incondizionata dei palestinesi. Se si chiede a un cittadino medio israeliano se è per la pace o per la guerra, risponderà pronto che lui vuole la pace. Ma la “psicologia di una nazione” emerge quando si scava nell’idea di pace. E’ qui che si nasconde l’arretramento. Una pace senza giustizia è un esercizio retorico destinato a un misero fallimento.La giustizia, in questo caso, è tale se riconosce e rispetta i diritti di tutti e non solo di chi esercita il monopolio della forza. Nel mio paese chi si considera di sinistra evoca spesso la necessità di battersi per la giustizia sociale. Ma come è possibile realizzare la giustizia sociale senza definire la giustizia come un valore universale? Quali sono i confini della giustizia e della sua attuazione? Questo ci riporta all’ occupazione. La giustizia non è solo il diritto a un alloggio decente per gli ebrei, è anche il diritto alla libertà per un popolo che vive sotto occupazione. Prima che in politica, la sinistra ha perso la sua battaglia nel campo della cultura, del confronto di visioni. A 68 anni dalla nascita d’Israele, ad affermarsi sembra essere il revisionismo sionista di Jabotinsky, quello che affida a Israele una sorta di ruolo “messianico”, da popolo eletto; una idea per cui a essere centrate è “Eretz Israel”, la sacra Terra d’Israele, piuttosto che “Medinat Israel”, lo Stato d’Israele.In questa visione lo Stato non esiste per garantire la democrazia, l’uguaglianza, i diritti umani o anche una vita dignitosa a tutti; esiste per garantire il dominio ebraico sulla Terra di Israele e per assicurarsi che nessuna entità politica supplementare è qui stabilita. Tutto è ritenuto lecito per raggiungere tale fine, e nessun prezzo è considerato troppo elevato. Ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con la “modernità”. Inesorabilmente Israele si sta trasformando sempre più in una entità anacronistica. Uno Stato di apartheid? Non si tratta di un rischio, è qualcosa che già si sta determinando nella realtà quotidiana, negli atti compiuti dalle autorità e nella percezione di sé e dell’altro che ne è il tratto ideologico: l’idea per cui se il palestinese, o l’arabo israeliano, vuol essere “tollerato” deve accettare la propria inferiorità. Quello che così facendo si è creato è un “popolo di espropriati”. Espropriati non solo delle loro terre ma della loro identità, del loro essere più profondo.Purtroppo, la strada per il Sudafrica è stata pavimentata, e potrà essere smantellata solo se il mondo libero, l’Occidente, porrà Israele di fronte a un aut-aut: fermare l’annessione e smantellare la maggior parte delle colonie e lo stato dei coloni, o essere emarginato. Fuori e dentro Israele è aperto da tempo un dibattito sul boicottaggio dei prodotti che provengono dagli insediamenti. Il boicottaggio è soprattutto un modo civile, non violento ma concreto, per protestare contro il colonialismo e l’apartheid prevalente nei Territori. Una tesi condivisa da molti intellettuali israeliani. E’ un bene che sia così, ed è un bene per Israele, per la sua immagine nel mondo. Gli intellettuali israeliani sono i migliori ambasciatori del sionismo, ma rappresentano la società israeliana, non la realtà coloniale. Pensano che calpestare i diritti dei palestinesi in nome dei nostri diritti esclusivi per la terra, e in virtù di un decreto divino, contamini la storia ebraica di una macchia indelebile.C’è chi vede proprio nel sionismo la radice ideologica e l’esperienza politica “fatta Stato” che è alla base dell’espansionismo israeliano, ma non è così: questa è una caricatura del sionismo, o comunque ne è una traduzione politica strumentale, in alcuni casi funzionale ad ammantare di idealità positiva una pratica intollerabile. Il sionismo si fonda sui diritti naturali dei popoli all’autodeterminazione e all’autogoverno. Questi diritti naturali dei popoli valgono per tutti, inclusi i palestinesi. Resto fermamente convinto che il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Purtroppo, gli insediamenti realizzati dopo la guerra del ’67 oltre la Linea Verde rappresentano la più grande catastrofe nella storia del sionismo: hanno creato una situazione coloniale, proprio quello che il sionismo voleva evitare. Da questo punto di vista, per come è stata interpretata e per ciò che ha innescato, la Guerra dei Sei Giorni è in rottura e non in continuazione con la Guerra del ’48. Quest’ultima fondò lo Stato d’Israele, quella del ’67 si trasformò, soprattutto per la destra ma non solo per essa, da risposta di difesa ad un segno “divino” di una missione superiore da compiere: quella di edificare la Grande Israele.(Zeev Sternhell, dichiarazioni rilasciate a Umberto De Giovannangeli per un’intervista pubblicata da “L’Unità” e ripresa dal blog di Gad Lerner il 5 maggio 2014. Sternhell,79 anni, è considerato il più autorevole storico israeliano, insignito nel 2008 dal Premio Israele per le Scienze Politiche, massima onorihicenza culturale del paese. Tra le sue opere, “Nascita d’Israele. Miti, storia, contraddizioni”).Chiedere ad Abu Mazen di riconoscere Israele come Stato ebraico significa pretendere che i palestinesi ammettano la loro sconfitta storica e riconoscano la proprietà esclusiva degli ebrei del paese. Ciò che si chiede loro è rinnegare la loro identità nazionale, accettando una resa storico-culturale prima ancora che politica. Ciò che mi preoccupa di più è l’idea di “pace” che oggi permea trasversalmente Israele: un’idea diventata senso comune per la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana. E’ qualcosa di più e di più grave di una idea di pace a costo zero. E’ la convinzione che l’unica pace accettabile sia la resa incondizionata dei palestinesi. Se si chiede a un cittadino medio israeliano se è per la pace o per la guerra, risponderà pronto che lui vuole la pace. Ma la “psicologia di una nazione” emerge quando si scava nell’idea di pace. E’ qui che si nasconde l’arretramento. Una pace senza giustizia è un esercizio retorico destinato a un misero fallimento.
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Salvare la democrazia: la questione morale della Le Pen
L’inaudito plebiscito pro Renzi, largamente inatteso dallo stesso Pd, relega l’Italia in posizione ancora una volta subalterna e defilata rispetto alla grande partita europea che si è ufficialmente aperta con le storiche elezioni del 25 maggio 2014, con gli euroscettici al comando in due paesi leader come la Gran Bretagna e soprattutto la Francia, dove più è evidente la bancarotta storica (politica, etica e culturale) della socialdemocrazia, la forza che più di ogni altra ha tacitamente supportato l’euro-disastro neoliberista, tradendo il proprio elettorato di sinistra. Se oggi il Pd può raccontare che – insieme a Martin Schulz – tenterà di mitigare l’austerity di Bruxelles imposta dalla Deutsche Bank per tramite della Mekel, potrà farlo solo grazie alla radicale protesta elettorale dei paesi più avanzati, la Francia in primis, che ora costringerà la Troika a fare i conti con la pressante richiesta di sovranità democratica di molti popoli europei, dalla Grecia all’Austria.Nelle ultime settimane, la campagna elettorale italiana ha riesumato – facendone oggetto di contesa polemica – la “questione morale” impugnata da Enrico Berlinguer, indimenticato leader di un partito “eretico” e anomalo, popolare e democratico, impegnato a contrastare energicamente la corruzione della classe politica italiana dell’epoca, cioè la partitocrazia anticomunista cui si perdonavano le tangenti purché facesse argine contro il “pericolo rosso”, in piena guerra fredda contro l’Unione Sovietica. Subito dopo la caduta del Muro, quella storica tolleranza verso la malapolitica italiana cessò di colpo, sotto la scure di Mani Pulite che decapitò la vecchia classe dirigente partitocratica proprio mentre quella nuova, elitaria e tecnocratica, stava già brigando per consegnare il paese all’europeismo delle banche, della grande industria e della finanza. Esattamente il tipo di europeismo al quale, il 25 maggio 2014, milioni di europei (e pochissimi italiani) hanno detto di no.Della questione morale di oggi – quella vera – si è sentito parlare moltissimo nel Regno Unito e soprattutto in Francia, dove «il popolo ha parlato», come ha detto Marine Le Pen, e ha messo al teppeto il socialista Hollande, prono ai diktat del regime affaristico euro-atlantico che ha un solo grande obiettivo: radere al suolo la democrazia, lo Stato di diritto dei cittadini, mediante la privatizzazione definitiva della finanza pubblica, delle banche centrali e della moneta, riducendo a zero la capacità di spesa pubblica. In Italia il nome di Berlinguer è stato speso chiacchierando di auto blu e stipendi d’oro, mentre – come ha ricordato Giorgio Cremaschi alla vigilia delle elezioni – proprio Berlinguer si era opposto al monetarismo dello Sme, il bisnonno dell’euro, intuendo che il controllo delle élite sulla moneta avrebbe messo in ginocchio lo Stato e quindi la democrazia popolare. Questa battaglia, vittoriosa e centrale per il nostro futuro, è stata adottata da Marine Le Pen, contestando il sistema di potere della Francia, cioè dello Stato che fu più decisivo per la nascita di questa insostenibile, oligarchica Unione Europea. Gli italiani? Non pervenuti: il derby era tra Renzi e Grillo, gli 80 euro e le auto blu.L’inaudito plebiscito pro Renzi, largamente inatteso dallo stesso Pd, relega l’Italia in posizione ancora una volta subalterna e defilata rispetto alla grande partita europea che si è ufficialmente aperta con le storiche elezioni del 25 maggio 2014, con gli euroscettici al comando in due paesi leader come la Gran Bretagna e soprattutto la Francia, dove più è evidente la bancarotta storica (politica, etica e culturale) della socialdemocrazia, la forza che più di ogni altra ha tacitamente supportato l’euro-disastro neoliberista, tradendo il proprio elettorato di sinistra. Se oggi il Pd può raccontare che – insieme a Martin Schulz – tenterà di mitigare l’austerity di Bruxelles imposta dalla Deutsche Bank per tramite della Merkel, potrà farlo solo grazie alla radicale protesta elettorale dei paesi più avanzati, la Francia in primis, che ora costringerà la Troika a fare i conti con la pressante richiesta di sovranità democratica di molti popoli europei, dalla Grecia all’Austria.
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Pritchard: così l’euro-sinistra ha svenduto i popoli all’élite
«Per un terribile rovescio del destino, la politica della sinistra europea sostiene la politica economica più reazionaria: i grandi partiti socialisti europei del dopoguerra sono rimasti intrappolati nella dinamica corrosiva dell’unione monetaria, apologeti della disoccupazione di massa e di un regime deflazionistico stile anni ‘30 che, sottilmente, favorisce gli interessi delle élite». In poche righe, Ambrose Evans-Pritchard fotografa la tragedia europea: i partiti che “inventarono” il sistema di welfare migliore del mondo sono oggi i migliori interpreti del rigore escogitato per demolire proprio quel welfare, il frutto migliore che la sinistra europea sia stata capace di creare dopo la Seconda Guerra Mondiale. Fino a cancellare la stessa idea di Europa come patria comune, traguardo civile di convivenza. E’ stato il centrosinistra europeo a far ingoiare l’amara medicina dell’oligarchia finanziaria, abusando della fiducia storicamente ottenuta dalle fasce popolari e dall’elettorato progressista.«Uno dopo l’altro, la stanno pagando tutti», scrive Pritchard sul “Telegraph”, in un’analisi ripresa da “Come Don Chisciotte”. Primo esempio, i Paesi Bassi: «Il partito laburista olandese che diede vita al “Polder Model” e amministrò l’Olanda per mezzo secolo ha perso i suoi bastioni a Amsterdam, Rotterdam e Utrecht, i suoi sostenitori sono scesi al 10% per aver timidamente approvato le politiche di austerità che hanno portato alla deflazione e ad un abbattimento del valore immobiliare tanto da arrivare a ipoteche sul 25% di patrimoni netti negativi». Le politiche recessive «sono velenose per i paesi che già hanno problemi». L’indebitamento delle famiglie olandesi è passato dal 230% al 250% del reddito disponibile dal 2008 a oggi, mentre il debito dei britannici (che si sono tenuti la sterlina) è sceso da 151% al 133% nello stesso periodo. E’ tutta colpa del rigore imposto da Bruxelles, ma il partito laburista olandese «non può fare nessuna critica coerente, perché il suo orientamento pro-Ue lo costringe quasi al silenzio».«Il Partito Socialista non ha mai creduto nell’euro e non ci crediamo nemmeno adesso: dobbiamo quindi smettere di chiedere sempre più sacrifici per mantenerlo», ha detto Dennis de Jong, il leader del partito a Strasburgo che si appella a un “Piano B” per smantellare l’unione monetaria in modo ordinato». In Grecia, il socialista Pasok che ha guidato il paese verso la democrazia dopo la dittatura dei “colonnelli”, è sceso al 5,5%: un guscio svuotato da Syriza, che ora con il 25% di voti promette di strappare Atene dalle grinfie della Troika Ue. «Il Pasok si è meritato il suo annientamento», scrive il notista del “Telepgraph”: «Ha cospirato nel colpo di stato fatto nel retrobottega a novembre 2011, ancora una volta accettando le richieste dell’Ue per rovesciare il proprio primo ministro e per annullare il referendum della Grecia sul bail-out. Rinunciò, allora, ad una prova di forza catartica e necessaria con Bruxelles, per la troppa paura di rischiare l’espulsione dall’euro. Questo referendum si farà adesso: Tsipras ha trasformato le elezioni europee di questa settimana in un verdetto sulla servitù del debito».Se si può capire la paura della sinistra nei paesi periferici, aggiunge Evans-Pritchard, «il mistero è il motivo per cui un presidente socialista francese, con una maggioranza parlamentare, debba subire passivamente le politiche che stanno fiaccando la linfa vitale dell’economia francese e che stanno distruggendo la sua presidenza». François Hollande ha vinto due anni fa puntando sulla crescita e promettendo di bocciare il Fiscal Compact. Da quando è in carica, però, la disoccupazione francese è salita dal 10,1 al 10,4%, la crescita del Pil è scesa a zero e anche nell’ultimo trimestre la Francia ha perso 23.600 posti di lavoro, dopo i 57.000 perduti nel 2013. Sicché, secondo l’ultimo sondaggio Ifop, l’indice di gradimento di Hollande è crollato sotto il 18%: il peggiore da sempre per un leader francese. «La sua retorica del New Deal non ha portato a niente». Hollande «è capitolato sul Fiscal Compact, accettando una camicia di forza che obbliga la Francia a tagliare il debito pubblico ogni anno per un importo fisso per due decenni, fino a quando non sarà scesi al 60% del Pil, a prescindere dalla demografia o dal gap che esista nel settore privato o dalle esigenze di investimento dell’economia».La sua presidenza? «E’ stata tutto uno spettacolo dell’orrore di pacchetti di austerità, uno dopo l’altro, un circolo vizioso di maggiori imposte che fanno abortire qualsiasi recupero e lo debilitano con un effetto moltiplicatore che peggiora la situazione». Inasprimento fiscale nonostante il disavanzo: è la ricetta per il suicidio, se la Bce non interviene per compensare con iniezioni di denaro. «La risposta di Hollande è stata un raddoppio del rigore per infiocchettare il pacchetto: ha ceduto alle richieste di Bruxelles per altri 50 miliardi di euro di austerità nei prossimi tre anni». Questa volta, «la scure cadrà sulla spesa pubblica, arrivata al 57% del Pil». Inoltre, «ci saranno radicali riforme del lavoro, una variante della terapia-shock Hartz IV che servì per fottere i salari tedeschi dieci anni fa». In altre parole: se il socialista Hollande ha fatto pace con le grandi imprese, «sarà l’austerità a farlo a fette».Hollande si era prodigato per una “alleanza latina” per contrastare i deflattori quando presero il potere e per costringere la Germania a mettere il veto sulle azioni della Bce. Quella momentanea dimostrazione di grinta aveva spinto Draghi verso un piano di retromarcia sul debito italiano e spagnolo nel mese di agosto 2012, aiutato molto da Washington, ma poi non è andato avanti «e la Spagna ha continuato per la sua strada, come se fosse una Prussia del Sud o una nuova Tigre latina». La Bce? «Ancora una volta ha continuato a rigirarsi i pollici, incurante della deflazione». Francoforte «ha lasciato che i vincoli negativi bloccassero il bilancio francese facendolo ridurre di 800 miliardi, mentre l’euro si è rivalutato dell’ 8% contro lo yuan e del 15% contro lo yen, in un anno». Mentre gran parte del mondo sta cercando di tener basso il cambio delle valute e la deflazione delle esportazioni, l’Europa «è rimasta l’unica e tenersi tutto il pacco sulle spalle».I francesi non possono accettare di morire per asfissia economica: «La Francia è il cuore pulsante dell’Europa, l’unico paese con una statura di civiltà capace di condurre una rivolta e di prendersi carico della macchina politica dell’Unione Monetaria. Ma per scoprire il bluff della Germania, con una minima credibilità, Hollande dovrebbe essere pronto a rovesciare tutto il progetto dalle sue fondamenta e persino a rischiare una rottura sull’euro». Ed è quello che non farà mai. «Tutta la sua vita politica, da Mitterrand a Maastricht, è stata intessuta negli affari europei». Hollande «è prigioniero dell’ideologia di questo progetto, convinto come è che un condominio franco-tedesco rimanga la leva del potere francese e che sia l’euro a tenere legati i due paesi». Lo statista francese Jean-Pierre Chevenement confronta l’acquiescenza di Hollande con il corso rovinoso dei decreti deflazionistici di Pierre Laval nel 1935 durate il Gold Standard, cioè «l’ultima volta che un leader francese pensò di dover cavare sangue dal suo paese per difendere il vezzo di un cambio fisso».E’ la verità brutale, aggiunge Evans-Pritchard: «I socialisti francesi pensavano di non avere nulla da temere dall’ascesa del Fronte Nazionale, un partito che si prepara a sfruttare la furia prorompente dalla “France Profonde”, con l’impegno di ripristinare il controllo sovrano francese su tutto ciò che conta nella nazione, e che ha messo l’euro al primo posto tra i suoi compiti». I socialisti pensavano che il Fn avrebbe tolto voti ai gollisti, dividendo la destra? Errore: Marine Le Pen «sta dilaniando, con lo stesso vigore, anche le loro proprie roccaforti della classe operaia». Hanno sottovalutato la Le Pen, ora quotata al 24%, e sono scivolati al terzo posto, travolti dal “lepenismo di sinistra”, nuovo guardiano del welfare francese. I socialisti «non hanno nessuna risposta» da opporre agli attacchi del Fn sulla “austerità insensata” e “le politiche monetarie folli della Bce”, che continuano a intaccare il nucleo industriale della Francia. La Le Pen ripete che il prgetto dell’euro coincide con la disoccupazione di massa? «E’ tutto vero», dice Evans-Pritchard, ed è per questo che Hollande non sa cosa rispondere a Marine Le Pen.Tutto cominciò con il “referendum rubato”, la fatidica decisione di approvare il Trattato di Lisbona senza farlo votare, dopo che il popolo francese aveva già respinto un testo quasi identico chiamato “Costituzione europea”. «Nella scelta di ignorare la scelta del popolo del maggio 2005 – scrive Evans-Pritchard – i leader francesi hanno anticipato tutto quello che stiamo vedendo ora in Europa», ovvero «le scosse di assestamento di quel terremoto anti-democratico in Europa», per dirla con Coralie Delaume e il suo “Gli Stati Disuniti d’Europa”. «I socialisti dicono che è un oltraggio rifiutare un referendum su Lisbona, ma quando venne il momento di votarlo in parlamento, 142 deputati e senatori si astennero, e 30 votarono a favore del Trattato e diedero al presidente Nicolas Sarkozy la maggioranza dei tre quinti», ricorda Evans-Pritchard. «Le élite pensavano di essersela cavata con le loro prestidigitazioni su Lisbona? Non se l’erano cavata affatto», ma è ormai storia lo squallore del centrosinistra europeo, senza il quale l’oligarchia neoliberista non arebbe mai potuto imporre la crisi, attraverso il progetto neo-feudale chiamato euro.«Per un terribile rovescio del destino, la politica della sinistra europea sostiene la politica economica più reazionaria: i grandi partiti socialisti europei del dopoguerra sono rimasti intrappolati nella dinamica corrosiva dell’unione monetaria, apologeti della disoccupazione di massa e di un regime deflazionistico stile anni ‘30 che, sottilmente, favorisce gli interessi delle élite». In poche righe, Ambrose Evans-Pritchard fotografa la tragedia europea: i partiti che “inventarono” il sistema di welfare migliore del mondo sono oggi i più inflessibili interpreti del rigore escogitato per demolire proprio quel welfare, il traguardo più avanzato che la sinistra europea sia stata capace di centrare dopo la Seconda Guerra Mondiale. Fino a cancellare la stessa idea di Europa come patria comune, traguardo civile di convivenza. E’ stato il centrosinistra europeo a far ingoiare l’amara medicina dell’oligarchia finanziaria, abusando della fiducia storicamente ottenuta dalle fasce popolari e dall’elettorato progressista.
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Kissinger: abbiamo vinto, i vostri Stati sono in bolletta
«Vedo in questa crisi globale una grande opportunità», perché «la crisi finanziaria ha fatto il trucco, cioè ha limitato i mezzi che ogni Stato aveva per affermare i propri interessi». Così Henry Kissinger, potentissimo profeta del super-potere mondiale, all’occorrenza anche golpista – ieri coi carri armati, oggi col dominio finanziario di una ristretta élite. «Non c’è neppure più bisogno d’inventarsi un nuovo ordine internazionale», dice l’ex segretario di Stato americano in un’intervista. «Già i problemi esistenti oggi costringono tutti a soluzioni comuni e globali». Li chiama “interessi comuni”, come fossero accordi amichevoli tra buoni vicini di casa, ma in realtà intende l’esatto contrario: «I vicini di casa, cioè gli Stati – scrive Paolo Barnard – vengono prima colonizzati da un unico sistema finanziario, poi sottoposti a crisi di quel sistema talmente devastanti da incatenarli l’uno all’altro, e così per salvarsi sono costretti a cedere tutte le sovranità e a trovare un unico regime politico, o un’unica gestione».Barnard la chiama “l’era degli interessi comuni”, ma ovviamente nell’accezione più orwelliana e ipocrita possibile: la nuova epoca «sarà dettata dalla nazione egemone, in particolare da una minuta élite di uomini». Per Kissinger, «uno dei sacerdoti occulti di questo complotto», l’attuale amministrazione Obama «deve saper cogliere nella crisi la scintilla per costruire un nuovo sistema internazionale». Lo scenario è favorevole: «Ci sono già importanti parallelismi d’interesse fra le grandi potenze, cioè Usa, Cina, Russia, India ed Europa». E aggiunge: «Conosco l’opinione secondo cui si comincia convertendo l’intero pianeta alla nostra filosofia politica». Il super-oligarca americano non vede grossi ostacoli: «Ho parlato a diversi leader mondiali. Ho cercato di capire fino a che punto la crisi finanziaria ha aumentato la loro disponibilità a cooperare con gli Usa».«Di nuovo: il Complotto è lampante, è di una semplicità diabolica», insiste Barnard. «Ripeto: negli scorsi 40 anni il sistema finanziario ha colonizzato tutti, dall’Iran all’Indonesia, dal Giappone alla Russia, dal Brasile a Europa, Cina, Africa. Wall Street e Eurozona fanno deflagrare la più potente crisi in quasi un secolo». L’Eurozona, in particolare, con l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale, «la incancrenisce con le Austerità dell’Economicidio, che di rimbalzo mandano sempre più in crisi le potenze anche più distanti, come la Cina». Il sistema, aggiunge Barnard, funziona con degli shock che rimbalzano uno contro l’altro e ri-rimbalzano indietro per ri-sfasciare i paesi da cui si erano originati, in un domino, o cane che si morde la coda, senza fine.«I mezzi sovrani di ogni nazione vegono disabilitati dalle proporzioni immani di questi shock», come nel caso delle banche “too big to fail”, troppo grosse da affrontare coi mezzi tradizionali democratici. «E allora ecco che i cosiddetti leader mondiali vengono costretti a mettersi nella mani di élite di globocrati che sono gli unici oggi in possesso delle chiavi per spegnere questa macchina mostruosa». Interi blocchi continentali, vicini a divenire delle superpotenze economiche fino a pochi anni fa, «si consegnano a questa gestione “comune” in mano a pochissimi uomini: i Neofeudali. Ecco il Complotto». Il vero potere in mano a un’élite esigua, che ormai ha raggiunto l’obiettivo indicato quarant’anni fa dal memoriale di Lewis Powell: neutralizzare completamente lo Stato come governatore democratico del popolo. Togliendoli la linfa vitale: la possibilità di fare spesa pubblica per sostenere il sistema del benessere diffuso.«Vedo in questa crisi globale una grande opportunità», perché «la crisi finanziaria ha fatto il trucco, cioè ha limitato i mezzi che ogni Stato aveva per affermare i propri interessi». Così Henry Kissinger, potentissimo profeta del super-potere mondiale, all’occorrenza anche golpista – ieri coi carri armati, oggi col dominio finanziario di una ristretta élite. «Non c’è neppure più bisogno d’inventarsi un nuovo ordine internazionale», dice l’ex segretario di Stato americano in un’intervista. «Già i problemi esistenti oggi costringono tutti a soluzioni comuni e globali». Li chiama “interessi comuni”, come fossero accordi amichevoli tra buoni vicini di casa, ma in realtà intende l’esatto contrario: «I vicini di casa, cioè gli Stati – scrive Paolo Barnard – vengono prima colonizzati da un unico sistema finanziario, poi sottoposti a crisi di quel sistema talmente devastanti da incatenarli l’uno all’altro, e così per salvarsi sono costretti a cedere tutte le sovranità e a trovare un unico regime politico, o un’unica gestione».
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Cesaratto: l’euro uccide la democrazia, ditelo alla sinistra
Il nostro è un paese dall’identità storicamente fragile. Sfiducia nello Stato nazionale o sfiducia nella saldezza democratica del popolo hanno fatto in modo che sia a destra che a sinistra si guardasse all’Europa per rafforzare la nostra debole costituzione. Un pizzico di utopia spinelliana ha fatto il resto. Quest’ultima di per sé non guasta, se non fosse andata (in particolare a sinistra) troppo oltre, dimenticando che l’Europa è un consesso di Stati nazionali che fanno ciascuno il proprio interesse. L’utopismo ha inoltre offuscato il segno reazionario che ha preso la costruzione europea, soprattutto col progetto della moneta unica. Come l’antico gold standard, la moneta unica è uno strumento disciplinante. C’è chi ha detto che precisamente attraverso questa crisi, frutto dell’euro, la moneta unica sta realizzando i suoi obiettivi: un ritorno a un capitalismo ottocentesco, quello del gold standard appunto. La sinistra ha assistito imbelle e genuflessa agli ideali europeisti, allo svuotamento dei poteri dello Stato nazionale.Quest’ultimo è il playing field naturale della democrazia, del conflitto democratico su come creare e distribuire le risorse. Una volta svuotato dei sui poteri, trasferiti a livello sovra-nazionale, con lo Stato nazionale scompare la democrazia. Fior di economisti hanno sostenuto l’incompatibilità fra moneta unica e democrazia! Il Parlamento Europeo non può sostituire le democrazie nazionali perché troppo cacofonico. Lì finiscono per prevalere gli interessi nazionali, mentre le classi lavoratrici nazionali non hanno più un terreno rivendicativo su cui esprimersi. A me pare, contrariamente alle accuse mosse dagli utopisti delle liste di sinistra, che Stati sovrani siano il presupposto di democrazia e cooperazione internazionale, mentre sia l’europeismo superficiale a fomentare il nazionalismo: dio ci scampi dagli utopisti!L’Europa dovrebbe invertire il segno delle politiche di bilancio con un forte sostegno della Bce nel controllo dei tassi di interesse e nell’agevolare forme di ristrutturazione del debito (vi sono varie proposte in merito). Il dramma è che la Germania non è interessata a quest’Europa. Essa ha un modello mercantilista (export-led) basato su un forte ordine sociale interno accompagnato dalla moderazione salariale e fiscale che non intende mettere in forse (e ciò è comprensibile). Quindi è un bel pasticcio. Parlare di Europe federali vuol dire vaneggiare. Una forte affermazione delle forze anti-euro è dunque benvenuta, se smuoverà le acque, anche se sia chiaro che in nessun senso personalmente appoggio compagini xenofobe o di destra con cui, a differenza di qualche collega (o presunto tale), non intendo avere rapporti.La sinistra avrebbe dovuto riprendere la bandiera della nostra libertà nazionale in un senso democratico e positivo, ma ne ha paura. Questo è un dramma. Una rottura consensuale dell’euro sarebbe benvenuta, ma è un processo assai complicato, forse troppo. Ma certo, se l’Europa ci prova a chiederci di applicare il Fiscal Compact, allora la rottura se la saranno cercata. Ricordiamo poi che tutto il dramma europeo cade in un quadro mondiale a sua volta assai complesso: dal pericolo di una “stagnazione secolare” del capitalismo – anche alla luce delle crescenti disuguaglianze che mortificano la domanda aggregata oltre che le coscienze – alla sfida epocale dei paesi emergenti fatta del combinato disposto di bassi salari e crescente tecnologia. Una vera unione politica, che implicherebbe uguali diritti sociali, non è e non sarà nel futuro prevedibile all’ordine del giorno. Dimentichiamoci queste stupide utopie.(Sergio Cesaratto, dichiarazioni rilasciate a “ForexInfo” per l’intervista “L’Europa che non c’è”, ripresa da “Megachip” il 6 maggio 2014. Eminente economista, esperto di politica fiscale europea, il professor Cesaratto è docente all’università di Siena e curatore del blog “Politica Economia”).Il nostro è un paese dall’identità storicamente fragile. Sfiducia nello Stato nazionale o sfiducia nella saldezza democratica del popolo hanno fatto in modo che sia a destra che a sinistra si guardasse all’Europa per rafforzare la nostra debole costituzione. Un pizzico di utopia spinelliana ha fatto il resto. Quest’ultima di per sé non guasta, se non fosse andata (in particolare a sinistra) troppo oltre, dimenticando che l’Europa è un consesso di Stati nazionali che fanno ciascuno il proprio interesse. L’utopismo ha inoltre offuscato il segno reazionario che ha preso la costruzione europea, soprattutto col progetto della moneta unica. Come l’antico gold standard, la moneta unica è uno strumento disciplinante. C’è chi ha detto che precisamente attraverso questa crisi, frutto dell’euro, la moneta unica sta realizzando i suoi obiettivi: un ritorno a un capitalismo ottocentesco, quello del gold standard appunto. La sinistra ha assistito imbelle e genuflessa agli ideali europeisti, allo svuotamento dei poteri dello Stato nazionale.
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Zupo, ex dirigente Pci: il M5S unico erede di Berlinguer
«Ai miei tempi l’onestà era un dna che andava preservato accuratamente, oggi è un optional fastidioso. Il pensiero di Berlinguer è attualissimo e l’unico erede della questione morale è il Movimento 5 Stelle». Parola dell’avvocato Giuseppe Zupo, 73 anni, responsabile nazionale giustizia del Pci ai tempi di Berlinguer. «Allora – dice Zupo, intervistato da “Micromega” – la corruzione non aveva il peso devastante che ha assunto negli anni successivi». C’era il terrorismo, che «trovava terreno fertile tra l’insoddisfazione dei giovani e delle masse popolari». Per questo Berlinguer «si è preoccupato di riguadagnare la fiducia dei cittadini nei confronti dello Stato, da qui la questione morale e l’intransigenza sull’onestà delle istituzioni». La battaglia di Grillo, dunque. E Renzi? «E’ il nulla, e sul niente c’è poco da dire». Quanto a Vendola, «sull’Ilva di Taranto ha fatto uno scivolone terribile e avrebbe dovuto trarne immediatamente le conseguenze: non si ride con i padroni che hanno inquinato una città e prodotto morti su morti».Questione morale non significa solo “non rubare”, è l’idea che lo Stato e le istituzioni democratiche sono un bene pubblico, «da preservare con attenzione essendo di proprietà di una comunità, frutto di sforzi di generazioni che nel passato hanno costruito le fondamenta per quelle future». Per Zupo, la “questione morale” impugnata dal leader del Pci era figlia della grande tradizione liberale, proveniente dalla Rivoluzione Francese, «non relegabile al campo della sinistra» ma cara a qualsiasi sincero democratico. Poi, dopo Berlinguer, il declino inarrestabile dei grandi ideali, in quel partito. Zupo “salva” anche il successore di Berlinguer, Alessandro Natta: dice che fu «defenestrato, mentre era in ospedale, dai vari D’Alema, Occhetto e Veltroni: lo dichiararono dimissionario – mentre era un falso – e lui apprese dal giornale radio di non essere più segretario del Pci». Prima di morire, nel 2001, Natta ha rilasciato un’intervista all’Unità: denunciava «la degenerazione che si era creata con Occhetto».Domanda: tra le forze politiche organizzate di oggi, chi ha preso il testimone di Berlinguer sulla questione morale? «Lo so, farò inorridire i miei compagni di una volta», premette Zupo. «Sono comunista semel semper berlingueriano e dopo il Pci non mi sono iscritto a nessun partito perché nessuno ha portato più avanti quei valori. Ora – dichiara – vedo nel M5S l’unico possibile erede». Una convinzione radicata: «Ho votato il movimento alle ultime elezioni nazionali e – pur non essendo un uomo ricco – l’ho finanziato. Sono andato al comizio di San Giovanni a Roma, prima del voto, e sono rimasto colpito dall’enorme partecipazione e dalla composizione della piazza: cittadini, lavoratori, giovani. La rappresentanza come servizio nelle istituzioni, a termine, per poi ritornare al proprio status di prima. Senza fortune politiche come avviene per gli altri partiti». Confortante, per Zupo, anche il dopo-voto: «I parlamentari 5 Stelle sono persone normalissime: casalinghe, ingegneri, impiegati, gente dalla porta accanto, non arruffoni di soldi e poltrone. Per questo sono del M5S e tornerò a votarlo».«Dall’altra parte – continua l’avvocato – abbiamo quel Pd che, tra l’incostituzionale “Porcellum” e la nuova legge elettorale, ha abrogato le preferenze togliendo alle persone il diritto di poter selezionare la propria classe dirigente. Il nominare loro i parlamentari è solo l’ennesimo atto di autoreferenzialità di una politica ormai lontana dai cittadini». Ormai il Pd è il partito di Renzi. «Berlinguer riteneva che Occhetto fosse solo un venditore di slogan e non un costruttore di politiche. Io penso lo stesso del premier Matteo Renzi, non aggiungo altro: è il nulla». Nella sinistra ufficiale, ci sono anche personaggi come Civati, il quasi-dissidente. «Civati è una persona simpatica e educata ma è compatibile al sistema», dice Zupo: «Ogni volta è lì lì per rompere e poi rientra nei ranghi: voto il M5S perché voglio una forza capace di ribaltare il tavolo su cui questi signori consumano la politica, e non qualcuno che cambi loro le stoviglie».Ai 5 Stelle, conclude l’avvocato, sono stati tesi dei trabocchetti, per esempio da Bersani, e i neoparlamentari hanno commesso errori d’inesperienza e ingenuità: per questo vanno sostenuti, perché continuino a crescere. Il Pd, invece, «ha disperso un immenso patrimonio, quello del Pci». Come diceva Natta, «non hanno tenuto conto che eravamo il punto di arrivo di una particolarità storica, significativa e apprezzata a livello internazionale: un partito socialdemocratico, sul modello scandinavo, che aveva con sé la classe operaia». Tutto questo, sostiene Zupo, non deve andare perduto, e il Movimento 5 Stelle è un’occasione: «In Europa il malcontento si sta riversando verso partiti reazionari, fascisti o addirittura neonazisti, mente qui da noi prende le sembianze del M5S che è invece antifascista, democratico e progressista. Basta osservare come Grillo ha replicato al corteggiamento di Marine Le Pen. Questa specificità del M5S andava compresa e sostenuta, e non osteggiata come fatto dal Pd. Anche le istituzioni che continuano ad accusare il movimento di populismo sbagliano in maniera grossolana».«Ai miei tempi l’onestà era un dna che andava preservato accuratamente, oggi è un optional fastidioso. Il pensiero di Berlinguer è attualissimo e l’unico erede della questione morale è il Movimento 5 Stelle». Parola dell’avvocato Giuseppe Zupo, 73 anni, responsabile nazionale giustizia del Pci ai tempi di Berlinguer. «Allora – dice Zupo, intervistato da “Micromega” – la corruzione non aveva il peso devastante che ha assunto negli anni successivi». C’era il terrorismo, che «trovava terreno fertile tra l’insoddisfazione dei giovani e delle masse popolari». Per questo Berlinguer «si è preoccupato di riguadagnare la fiducia dei cittadini nei confronti dello Stato, da qui la questione morale e l’intransigenza sull’onestà delle istituzioni». La battaglia di Grillo, dunque. E Renzi? «E’ il nulla, e sul niente c’è poco da dire». Quanto a Vendola, «sull’Ilva di Taranto ha fatto uno scivolone terribile e avrebbe dovuto trarne immediatamente le conseguenze: non si ride con i padroni che hanno inquinato una città e prodotto morti su morti».
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Usciremo dall’euro e da questa Ue, il problema è come
Si è scatenata «una campagna terroristica sugli effetti di un’uscita dell’Italia dall’euro», che parla di inflazione alle stelle, mutui insostenibili che costringerebbero a vender casa, termosifoni spenti, cure mediche proibitive, aziende fallite. «Mi spiace notare che anche “Il Fatto” si sia associato a questa campagna», annota Aldo Giannuli nel suo blog, prendendo le distanze da chi pretende che ci si debba semplicemente rassegnare all’euro, visto che ormai c’è. «Ma chi via ha garantito che l’euro sia destinato a restare in piedi?». La moneta unica, ricorda Giannuli, nacque alla fine della guerra fredda, dalla Francia di Mitterrand, come contrappeso alla riunificazione tedesca. Due versioni: quella “buonista” dice che gli eurocrati speravano che la moneta unica «avrebbe aiutato i paesi meno forti favorendo una dinamica virtuosa convergente delle diverse economie nazionali che, a sua volta, avrebbe spinto verso una celere unificazione politica». L’altra versione, la peggiore, spiega forse meglio l’attuale catastrofe: l’euro nacque essenzialmente come piano criminale dell’élite contro la democrazia sociale europea, quella del welfare.Lo sostiene tra i tanti il professor Alain Parguez, insider all’Eliseo all’epoca in cui il “monarca” Mitterrand si circondava di personaggi come Jacques Delors, futuro primo presidente della Commissione Europea, e di super-consiglieri come Jacques Attali, ben consci che l’euro non fosse certo nato «per la felicità della plebaglia europea». Una moneta senza Stato, per Stati senza più moneta, non funzionerà mai, disse Giorgio La Malfa a Tommaso Padoa Schioppa, il quale rispose: «E credi che non lo sappiamo?». Nino Galloni, per anni alto dirigente del Tesoro, sintetizza: il futuro centrosinistra italiano – ben conscio che l’euro avrebbe rovinato l’Italia – decise ugualmente di lavorare per la cessione della sovranità nazionale senza vere contropartite, pur di liberarsi per sempre della classe dirigente della Prima Repubblica, quella dei tangentocrati indagati da Mani Pulite. Che l’euro non potesse “funzionare” non è mai stato un mistero per nessun potente: e l’apparente fallimento messo in luce dall’attuale spaventosa recessione, in realtà, corrisponde a un successo fino a ieri impensabile per l’oligarchia economico-finanziaria, che ha visto schizzare in cielo il proprio potere e la propria ricchezza a spese della maggioranza della popolazione, su cui si è scaricato interamente il costo della cosiddetta crisi.Dal canto suo, Giannuli si limita a constatare che l’unificazione politica europea «è una leggenda persa nelle brume di un futuro vaghissimo», visto che «da sette anni infuria una crisi senza precedenti dal 1929» e che «le economie nazionali europee divergono più che mai e diversi paesi sono sull’orlo del default». In queste condizioni politiche e finanziarie, conclude Giannuli, «il rischio di un crollo dell’euro è più che una semplice possibilità teorica». Se dovessero cedere una serie di paesi come Grecia, Portogallo e Irlanda, «la sopravvivenza della moneta unica diverrebbe assai problematica». Se poi il default dovesse riguardare Italia o Spagna, «non si vede come la costruzione possa restare in piedi». Ma attenzione: «Anche sviluppi imprevisti della crisi Ucraina potrebbero innescare dinamiche divaricanti nella Ue tali da mettere a rischio la moneta». Senza calcolare che, a un certo punto, «i costi di mantenimento dell’unione monetaria potrebbero rivelarsi tali da rendere inevitabile l’uscita di alcuni partner, con l’effetto di un “rompete le righe” generalizzato».Questa, per Giannuli, è esattamente la prospettiva più probabile: «E non è detto che a iniziare debbano essere i paesi deboli come Grecia o Portogallo, potrebbe iniziare uno scollamento anche di uno dei paesi forti e persino la Germania non è esente da queste tentazioni». E se la cosa non sarà stata preparata e dovesse avvenire con un improvviso crack – poco importa se finanziario o politico – allora finiremmo dentro una tempesta devastante. «E qui si capisce cosa non funziona nel ragionamento degli “euristi ad oltranza”: non prevedere il rischio di un crollo improvviso della moneta e non capire che dalla moneta unica si può uscire in modo scarsamente traumatico, a condizione che questo avvenga nei modi e nei tempi opportuni». Paradossalmente, continua Giannuli, «i fautori di “euro o muerte” ragionano allo stesso modo della Lega e dei populisti che tanto disprezzano». Due facce della stessa medaglia: «I populisti più estremi prospettano un’uscita dalla moneta unica, con ritorno alla moneta nazionale, con una decisione semplice ed immediata: hic et nuc! E gli “euromani” ragionano solo su questo scenario. Ma dall’euro non si può uscire come da una festa fra amici: “Scusate, dobbiamo andare: abbiamo lasciato i bambini soli a casa”».Secondo Giannuli, non è che – una volta liberi «dall’orrenda moneta» – tutto ricomincia a girare per il verso giusto, con l’economia che rifiorisce d’incanto: l’euro è una micidiale camicia di forza, certo, ed è il principale “mandante” della devastante politica di austerità, però – intorno a noi – c’è anche una gigantesca crisi planetaria del modello produttivo globalizzato, che richiede «un ripensamento complessivo dell’ordinamento neoliberista dell’economia mondiale». Meglio allora le soluzioni intermedie: lasciare l’euro come unità di conto (com’era l’Ecu) cui agganciare le monete nazionali, con bande di oscillazione prestabilite, «in modo da dare il tempo di far riprendere la bilancia dei pagamenti dei paesi del sud Europa». Oppure, adottare per un certo periodo «un regime di doppia circolazione, con retribuzioni date in parte con una moneta e in parte con l’altra». Complesso, certo. «Ma neppure il passaggio all’euro è avvenuto in due minuti: da Maastricht all’entrata in funzione della moneta unica sono passati ben 10 anni».Il problema sembra economico, ma è eminentemente politico – lo stesso euro, del resto, è uno strumento politico che verticalizza il potere e fa sparire la democrazia, con le sue imposizioni tassative. «Non è detto che la Ue debba restare questo mostro onnivoro che è oggi», si augura Giannuli. «Di fatto, questa fusione delle tre Europe (del nord, del sud e dell’est) non ha molto funzionato né politicamente (e si pensi al fianco est), né economicamente (e si pensi al fianco Sud). Forse l’ipotesi di una unificazione politica potrebbe essere più facilmente realizzata fra paesi più omogenei, con tre federazioni a sua volta alleate fra loro. Tre federazioni europee (del nord, del sud, dell’est) sembrano una soluzione più praticabile di un’improbabilissima unione politica di tutto il continente. E la questione della moneta potrebbe trovare uno scioglimento in questo ordinamento a tre». Conclude Giannuli: «La Storia non è finita, come pensava quell’imbecille di Francis Fukuyama, e l’esistente è solo il presente. Non l’eternità».Si è scatenata «una campagna terroristica sugli effetti di un’uscita dell’Italia dall’euro», che parla di inflazione alle stelle, mutui insostenibili che costringerebbero a vender casa, termosifoni spenti, cure mediche proibitive, aziende fallite. «Mi spiace notare che anche “Il Fatto” si sia associato a questa campagna», annota Aldo Giannuli nel suo blog, prendendo le distanze da chi pretende che ci si debba semplicemente rassegnare all’euro, visto che ormai c’è. «Ma chi via ha garantito che l’euro sia destinato a restare in piedi?». La moneta unica, ricorda Giannuli, nacque alla fine della guerra fredda, dalla Francia di Mitterrand, come contrappeso alla riunificazione tedesca. Due versioni: quella “buonista” dice che gli eurocrati speravano che la moneta unica «avrebbe aiutato i paesi meno forti favorendo una dinamica virtuosa convergente delle diverse economie nazionali che, a sua volta, avrebbe spinto verso una celere unificazione politica». L’altra versione, la peggiore, spiega forse meglio l’attuale catastrofe: l’euro nacque essenzialmente come piano criminale dell’élite contro la democrazia sociale europea, quella del welfare.
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Cremaschi: l’euro è stato creato per demolire la sinistra
A trenta anni dalla scomparsa di Enrico Berlinguer vorrei ricordare, tra le sue scelte scomode allora come oggi, la decisione del 1979 di rompere con i governi di unità nazionale dicendo no all’adesione dell’Italia allo Sme. Il trattato che definiva allora il cosiddetto serpente monetario era il primo passo verso la moneta unica. Il Pci decise di opporsi a quel trattato anche per uscire dalla disastrosa politica di unità nazionale con la Dc, ma le motivazioni usate contro la rigidità della moneta (e allora il liberismo veniva chiamato non a caso monetarismo) valgono ancora oggi. Nella Banca d’Italia era stata appena liquidata la gestione del governatore Baffi, che era stato arrestato insieme al direttore Sarcinelli, su mandato del giudice neofascista Aliprandi. Successivamente furono entrambi completamente scagionati e l’inchiesta su di loro si rivelò completamente falsa. Ma intanto la Banca d’Italia era stata decapitata e aveva cambiato completamente politica monetaria.Infatti la scelta distintiva del governatorato di Baffi era stata proprio la manovra sulla moneta. La lira veniva rivalutata rispetto al dollaro, in modo da rendere meno pesante la bolletta energetica, e svalutata rispetto al marco, per sostenere la produzione industriale. Baffi motivò esplicitamente queste scelte con la necessità di non svalutare i salari e fu l’unico governatore a non demonizzare la scala mobile e il sistema di protezione sociale. Lo Sme invece mise al centro della politica economica la rigidità monetaria, adottando quel liberismo che andava al governo in Gran Bretagna con Thatcher e negli Usa con Reagan. I nostri primi interpreti di quella svolta furono il governatore Ciampi e il ministro del Tesoro Andreatta. Che assieme decisero nel 1981 la separazione del Tesoro dalla Banca d’Italia, con il conseguente obbligo di vendere sul mercato i Bot per finanziare la spesa pubblica. E con l’attacco alla indicizzazione dei salari che ebbe il suo apice in quel decreto Craxi di taglio della scala mobile, contro cui Enrico Berlinguer fece la sua ultima battaglia.In sintesi l’euro e la perdita formale della sovranità monetaria a favore della Bce sono il punto di arrivo, e non la partenza, di un sistema di accordi e decisioni che avevano un obiettivo dichiarato: rendere impossibili le politiche economiche keynesiane, imporre gli interessi della globalizzazione finanziaria e dei mercati come vincoli insuperabili per gli Stati. Il pareggio di bilancio in Costituzione, votato da noi anche dalla destra oggi anti-euro, è l’ultimo atto formale di tale politica trentennale. L’effetto euro sulle economie europee é stato duplice. Da un lato la moneta unica è stata lo strumento per istituzionalizzare ovunque le politiche liberiste. La Grecia é stata distrutta con il ricatto della sua espulsione dall’euro. Da noi lo slogan “lo vuole l’Europa” ha accompagnato ogni operazione di smantellamento dei diritti del lavoro e dello Stato sociale. Dall’altro lato la moneta unica forte ha finito per mettere alla pari economie che pari non erano, facendo della zona euro non un’area di crescita comune, bensì il campo di battaglia della competizione estrema.Di questo si è avvantaggiata profondamente l’economia tedesca, che con il governo socialdemocratico Schroeder all’inizio del duemila ha colpito duramente i diritti del lavoro, aprendo così la via all’era Merkel. La depressione salariale da sola non fa competitività, ma se si somma ad un sistema industriale forte che gode di una moneta particolarmente favorevole, allora la fa eccome. Perché l’euro desse risultati economici con un minimo di equilibrio ci sarebbe voluto un boom salariale in Germania. Invece sono nati a milioni i cosiddetti mini-job, lavori precari con paghe da pochi euro l’ora, per i quali dal Belgio son partite denunce alla Corte di Giustizia Europea a causa delle delocalizzazioni che hanno lì provocato. E questa politica continua oggi in primo luogo per opera della socialdemocrazia e della complicità sindacale. La legge sul salario minimo, vantata come un successo progressista, è in realtà una formalizzazione del dumping sociale. Stabilire che nel 2017 la paga minima in Germania sarà di 8,50 euro all’ora, quando ora in Francia è di 10, significa usare l’euro come arma di devastazione economica di massa.Ora i due partiti che guidano l’Unione Europea, la Germania e gli altri principali governi, Pse e Ppe, promettono un allentamento dei lacci delle politiche di austerità. Ma mentono sapendo di mentire perché in realtà il sistema euro, con i suoi trattati non rinegoziabili, da Maastricht al Fiscal Compact, non prevede alternative alle politiche liberiste. O salta o continua come sempre, e proprio di questa rigidità si fa forte la signora Merkel, che così ha spianato ogni debole ostacolo da parte della Spd. Tre anni fa una intervista di Giuliano Amato a Rossana Rossanda puntava sul ritorno al governo dei socialisti in Francia e Germania per farla finita con l’austerità. Non voglio infierire – certo il centrosinistra europeo è oramai una formazione social-liberale che ha ben poco della sinistra – ma la realtà è che il sistema europeo non è riformabile.Le tre misure più avanzate di cui si discute in campagna elettorale – condono di una parte del debito per i paesi del sud Europa, Eurobond, trasformazione della Bce in un istituto che dia i soldi direttamente agli Stati e non alle banche – non sono realizzabili senza cancellare, e non semplicemente aggiustare, i trattati che stanno a presidio dell’euro. E in ogni caso sarebbero impedite da qualsiasi governo tedesco. Chi sostiene queste misure dovrebbe aggiungere: o si fa questo, o salta la baracca perché così non si può andare avanti. Invece questo non viene detto, e così il sistema di potere economico finanziario che guida l’Europa capisce che non si fa sul serio. Il fondatore della Linke tedesca, Oskar Lafontaine, aveva proposto un piano europeo di smontaggio dell’euro, ma il suo stesso partito non ha avuto il coraggio di sostenerlo. E tutta la sinistra europea oggi esprime la stessa paura.È chiaro che dire no all’euro non basta se non si rimuove la politica economica liberista che ha portato alla sua costruzione, ma la fine della moneta unica è una condizione necessaria per poter ricostruire una politica economica e sociale fondata su eguaglianza e democrazia. È una condizione necessaria, ma non sufficiente; e proprio questa insufficienza avrebbe dovuto essere il campo d’azione di una vera sinistra. Come ho cercato di spiegare, l’euro non é tutto, ma è il simbolo monetario delle politiche liberiste e di austerità. La sinistra non doveva subire il ricatto psicologico di chi accusa di nazionalismo la rivendicazione della sovranità monetaria, mentre in realtà difende l’internazionalismo di banche e finanza. La sinistra non avrebbe dovuto avere il tabù dell’euro, ma anzi avrebbe dovuto fare della contestazione della moneta unica la leva per spingere in campo una critica popolare e di massa al liberismo.La sinistra doveva dire no all’euro dal suo punto di vista, e così questo punto di vista sarebbe tornato in campo nella crisi europea. Invece il campo è stato abbandonato e così il no all’euro è diventato vessillo delle destre autoritarie, xenofobe e neofasciste. Che ovviamente lo usano a loro modo e per i loro fini. Il risultato è che la politica europea è bloccata tra la continuazione delle politiche di austerità sotto le larghe intese Ppe-Pse e la contestazione degli euroscettici reazionari. E il sostegno Ue al governo ucraino infarcito di neonazisti, mostra che ci sono momenti e situazioni in cui questi due schieramenti possono trovare sintesi. Un’alternativa di sinistra a tutto questo si ricostruirà solo quando le sue forze sapranno proporre senza tabù la messa in discussione dei poteri e delle politiche dell’Europa reale, senza trastullarsi con una Europa ideale tanto ipocrita quanto inesistente.In Italia questo significa una sinistra che rompa davvero con il Pd e apra il confronto e il dialogo con il “Movimento 5 Stelle”, che avrà tanti limiti e contraddizioni, ma che finora ha anche il merito democratico di aver impedito un lepenismo di massa nel nostro paese. La prima cosa da proporre subito dopo le elezioni europee è un referendum costituzionale sui trattati e sull’euro, così come si fece già nel 1989. Lo chieda anche la sinistra che non vuol morire renziana. Aveva ragione Berlinguer a dire no allo Sme, e ha torto oggi la sinistra a non mettere in discussione quell’euro che è stato messo lì per distruggerla.(Giorgio Cremaschi, “Perché la sinistra deve dire no all’euro”, da “Micromega” del 14 maggio 2014).A trenta anni dalla scomparsa di Enrico Berlinguer vorrei ricordare, tra le sue scelte scomode allora come oggi, la decisione del 1979 di rompere con i governi di unità nazionale dicendo no all’adesione dell’Italia allo Sme. Il trattato che definiva allora il cosiddetto serpente monetario era il primo passo verso la moneta unica. Il Pci decise di opporsi a quel trattato anche per uscire dalla disastrosa politica di unità nazionale con la Dc, ma le motivazioni usate contro la rigidità della moneta (e allora il liberismo veniva chiamato non a caso monetarismo) valgono ancora oggi. Nella Banca d’Italia era stata appena liquidata la gestione del governatore Baffi, che era stato arrestato insieme al direttore Sarcinelli, su mandato del giudice neofascista Aliprandi. Successivamente furono entrambi completamente scagionati e l’inchiesta su di loro si rivelò completamente falsa. Ma intanto la Banca d’Italia era stata decapitata e aveva cambiato completamente politica monetaria.
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Pagliacci assassini, vi raccontano che il cattivo è Putin
La prima notizia è che Barack Obama scorrazza impunemente per l’Europa, senza doversela vedere con manifestazioni di protesta. Obama stringe mani di “alleati” belanti, nonostante quello che i suoi tagliagole hanno appena combinato a Kiev, a Odessa, nell’Est dell’Ucraina. L’altra notizia è che questo spettacolo non piace all’opinione pubblica europea: un sorprendende sondaggio dell’“Independent” rivela che il 90% degli inglesi stima Putin, il quale sta agendo in modo legittimo secondo l’ex cancelliere tedesco Schmidt. Lo pensano anche milioni di cittadini tedeschi: la Russia, minacciata dal golpe organizzato dagli Usa a Kiev, si è dovuta muovere tempestivamente per salvare la sua unica base navale in acque calde, sul Mar Nero, in Crimea, peraltro decisiva – meno di un anno fa – per organizzare la protezione della Siria e scongiurare l’attacco della Nato. Ma, anche in Germania, i media non stanno dalla parte dei cittadini: quelli che si attengono semplicemente ai fatti, dice Diana Johnstone, vengono definiti “Putinversteher”, cioè “persone che capiscono Putin”, individui stravaganti.«Non siamo tenuti a capire, noi dobbiamo odiare: i media esistono per questo motivo», dice la Johnstone, autrice del libro-denuncia “La crociata dei dementi” (“Fools’ Crusade: Yugoslavia, Nato, and Western Delusions”). Mentre l’Occidente si rifiuta ostinatamente di “capire” Putin, annota la saggista in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, il capo del Cremlino sembra comprendere benissimo che lui e la sua nazione «vengono sistematicamente attirati con l’inganno in una trappola mortale da un nemico che eccelle nell’arte contemporanea della “comunicazione”». In una situazione di guerra, «la comunicazione della Nato dimostra che non è importante chi fa cosa: l’unica cosa che conta è chi racconta la storia». E i media occidentali stanno recitando un copione prestabilito: Putin è il nuovo Hitler pronto all’invasione. A Odessa, dove i neonazisti anti-russi hanno organizzato un massacro raccapricciante, «i media occidentali non hanno notato atrocità, non hanno sentito di alcuna violenza, non hanno riferito di crimine alcuno. Hanno solamente condannato una “tragedia” che era appena accaduta in un qualche modo imprecisato».Odessa, aggiunge la Johnstone, è la dimostrazione che, qualunque cosa accada, la classe politica della Nato – militari, leader politici e media – punta sulla “sua” storia e si attene ad essa: «I nazionalisti che hanno preso il potere a Kiev sono i “buoni”, mentre le persone che vengono assaltate a Odessa e nell’est dell’Ucraina sono “filo-russi” e, di conseguenza, i “cattivi”». E dire che non ci va molto a “capire” Putin, a patto che si sappia distinguere tra verità e palesi menzogne. Come quelle che racconta il ministro degli esteri inglese William Hague, secondo cui la Russia sta «cercando di orchestrare conflitti e provocazioni» nel sud e nell’est dell’Ucraina, come se Putin fosse improvvisamente impazzito, felice di avere una guerra civile sulla porta di casa e, di conseguenza, i missili della Nato piazzati a 400 chilometri da Mosca. «Putin può solo desiderare di trovare una soluzione pacifica al caos ucraino», scrive la Johnstone, perché sa che il golpe di Kiev è stato una trappola ispirata da strateghi americani come Zbigniew Brzezinski, il cui sogno è la caduta di Putin e il potenziale smembramento della Russia.Per questo, Putin ha aperto un nuovo canale diplomatico con lo svizzero Didier Burkhalter, presidente dell’Ocse, e ha appena allontanato l’esercito russo dal confine ucraino, temendo una provocazione “false flag”, un falso sconfinamento organizzato tra Washington e Kiev per poi attribuirne a Mosca la responsabilità. Il ritiro delle truppe ha spaventato i russofoni, che temono di essere abbandonatio dal Cremlino sotto la pressione dell’Occidente, ma Putin si è anche speso con energia perché fossero evitati i referendum dell’est dell’Ucraina. Molto serio, peraltro, l’allarme sulla possibile violazione dei confini: i russi hanno appreso che l’Sbu, il servizio segreto ucraino, aveva segretamente inviato 200 uniformi russi e i documenti (falsi) di 70 ufficiali russi a Donetsk, una delle capitali della protesta, per mettere in scena un falso attacco contro le pattuglie di frontiera ucraine. Il piano, sostiene l’agenzia di stampa russa “Ria Nòvosti”, sarebbe stato quello di «simulare un attacco contro truppe di frontiera ucraine e filmarlo per i media». Al che, «una dozzina di combattenti dall’ultra-destra nazionalista avrebbero dovuto attraversare il confine e rapire un soldato russo, al fine di presentarlo come “prova” dell’incursione militare russa. L’operazione era prevista per l’8 o il 9 maggio».Spostando le truppe russe più lontano dal confine, aggiunge la Johnstone, Putin potrebbe sperare di rendere l’operazione “false flag” meno plausibile, e magari scongiurarla. Ma non c’è da stare tranquilli, perché «l’intera operazione ucraina, almeno in parte diretta da Victoria Nuland del Dipartimento di Stato Usa, è stata caratterizzata da operazioni “false flag”, tra cui quelle maggiormente note tramite i cecchini che hanno improvvisamente propagato i massacri e il terrore in piazza Maidan a Kiev, distruggendo di fatto l’accordo di transizione sponsorizzato a livello internazionale. I ribelli “filo-occidentali” hanno accusato il presidente Yanukovich di aver inviato gli assassini, e costretto il resto del Parlamento a dare il potere di governo al protetto della signora Nuland, Arseniy Yatsenyuk. Tuttavia, sono uscite fuori un gran numero di prove a dimostrare che i misteriosi cecchini erano mercenari filo-occidentali: prove fotografiche, seguite dalla dichiarazione telefonica di conferma del ministro degli esteri dell’Estonia, e infine dal canale televisivo tedesco “Ard”, il cui documentario del programma “Monitor” ha concluso che i cecchini provenivano dai gruppi di estrema destra anti-russi coinvolti nella rivolta di Maidan».Tutte le prove conosciute portano a un un’operazione “false flag” da parte dei fascisti inquadrati dagli americani a addestrati in Polonia, eppure i media e i politici occidentali continuano ad addossare tutte le colpe alla Russia. «Qualunque cosa faccia, Putin deve rendersi conto che sarà volutamente “frainteso” e rappresentato in maniera distorta». La verità, conclude Diana Johnstone, è che «sopra le teste del popolo americano, dei tedeschi, dei francesi e degli altri europei, un accordo privato per rianimare la guerra fredda è certamente stato raggiunto tra gli “oligarchi” occidentali, al fine di garantire all’Occidente un “nemico” abbastanza serio da salvare il complesso militare-industriale e unire la comunità transatlantica contro il resto del mondo». Naturalmente, gli oligarchi non stanno con le mani in mano neppure sul fronte degli affari: Hunter Biden, figlio del vicepresidente americano Joe Biden, ha appena avuto in dono il business del gas ucraino. Se non altro, settori sempre più vasti dell’opinione pubblica “vedono” quello che i media negano: è l’America cerca di trascinare in guerra la Russia. E se il mondo non precipiterà nella catastrofe, dovrà ringraziare innanzitutto Putin.…..Barack Obama, Europa, Kiev, Odessa, Ucraina, opinione pubblica, sondaggi, The Independent, Gran Bretagna, Vladimir Putin, Germania, Helmut Schmidt, Russia, golpe, Usa, Kiev, flotta, Mar Nero, Crimea, Siria, Nato, media, mainstream, disinformazione, cittadini, Diana Johnstone, odio, denuncia, crociate, Jugoslavia, Occidente, Come Don Chisciotte, Cremlino, inganno, trappola, comunicazione, guerra, Adolf Hitler, invasione, neonazisti, neonazismo, massacro, orrore, atrocità, violenza, crimini, tragedia, politica, militari, leader, nazionalismo, potere, verità, menzogne, William Hague, provocazioni, guerra civile, missili, Mosca, caos, Zbigniew Brzezinski, diplomazia, Svizzera, Didier Burkhalter, Ocse, esercito, false flag, referendum, allarme, violazioni, frontiere, Sbu, servizi segreti, intelligence, Donetsk, Ria Nòvosti, destra, Victoria Nuland, Dipartimento di Stato, cecchini, terrore, piazza Maidan, Viktor Yanukovich, Parlamento, Arseniy Yatsenyuk, mercenari, Estonia, televisione, Ard, documentario, Monitor, Polonia, popolo, Francia, guerra fredda, oligarchi, affari, Hunter Biden, Joe Biden, business, gas, catastrofe,La prima notizia è che Barack Obama scorrazza impunemente per l’Europa, senza doversela vedere con manifestazioni di protesta. Obama stringe mani di “alleati” belanti, nonostante quello che i suoi tagliagole hanno appena combinato a Kiev, a Odessa, nell’Est dell’Ucraina. L’altra notizia è che questo spettacolo non piace all’opinione pubblica europea: un sorprendende sondaggio dell’“Independent” rivela che il 90% degli inglesi stima Putin, il quale sta agendo in modo legittimo secondo l’ex cancelliere tedesco Schmidt. Lo pensano anche milioni di cittadini tedeschi: la Russia, minacciata dal golpe organizzato dagli Usa a Kiev, si è dovuta muovere tempestivamente per salvare la sua unica base navale in acque calde, sul Mar Nero, in Crimea, peraltro decisiva – meno di un anno fa – per organizzare la protezione della Siria e scongiurare l’attacco della Nato. Ma, anche in Germania, i media non stanno dalla parte dei cittadini: quelli che si attengono semplicemente ai fatti, dice Diana Johnstone, vengono definiti “Putinversteher”, cioè “persone che capiscono Putin”, individui stravaganti.
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I denti degli oligarchi: a Biden junior il gas dell’Ucraina
R. Hunter Biden, figlio del vicepresidente Usa, Joe, ha ereditato dal padre un numero incredibile di denti. Con questi ci sorride energicamente dalle sue foto ufficiali. Ora ci informano che quei denti azzannano una delle più ambite poltrone dell’Ucraina, facendo di lui uno dei nuovi padroni della Kiev post-golpista. Biden il Giovane si è infatti da poco insediato nel consiglio di amministrazione della più importante compagnia ucraina di estrazione del gas, la Burisma, con i pozzi in Europa e la sede a Cipro, dove la controlla un’altra impresa off-shore di diritto cipriota, la Brociti Investments Ltd. Vedremo poi dove vanno le tracce. Durante il volo che lo ha portato dai cieli dell’élite statunitense alle alte sfere dell’oligarchia di un paese post-sovietico, il rampollo americano ha potuto anche lui riflettere su come è cambiata la parola oligarca.Sino a vent’anni fa l’oligarca era un generico esponente di un sistema di governo che poche persone imponevano a tutti. L’oligarca post-sovietico è invece una cosa più specifica: è un uomo d’affari che ha arraffato – mentre occupava una posizione dominante derivante dalla politica – le immense ricchezze pubbliche tratte dalla selvaggia privatizzazione dell’economia sovietica dopo il crollo dell’Urss. Questo tipo umano è ormai l’unico a essere etichettato come oligarca. La russofobia che regna nel discorso pubblico occidentale fa il resto: a est, anzi, in Russia, ci sono oligarchi; da noi, invece, sani imprenditori di specchiata virtù che mai oserebbero spolpare una nazione. Come definire altrimenti un De Benedetti. Pazienza se moltissimi oligarchi russi, prima di decidere se appoggiare o combattere la nuova “verticale del potere” di Putin, siano stati per prima cosa delle creature occidentali.Ma Hunter Biden è lì a ricordarci, con il suo cursus honorum e i suoi denti, stretti su un cucchiaio d’argento, che gli oligarchi esistono anche qui a Ovest, e prosperano e frequentano tutti i corridoi che portano alle stanze del denaro, dei governi, dell’intelligence. Con una colossale excusatio non petita, a Washington ci provano lo stesso a dircelo: secondo loro, le entrature nel governo, per il figlio del numero due della Casa Bianca non contano. E pertanto Biden ha ottenuto la sua carica nella lontana colonia europea solo per via del suo curriculum. Se i fatti ci dicono altro, è colpa nostra, che siamo prevenuti. È solo una coincidenza, infatti, che il 21 aprile Biden il Vecchio porti la sua dentatura a Kiev per dettare i suoi voleri, e che proprio negli stessi giorni Biden il Giovane diventi l’homo americanus dell’azienda più strategica del paese, in piena battaglia del gas.Il sospetto è che laggiù servisse uno sperimentato oligarca, appunto, che facesse da ufficiale di collegamento fra l’oligarchia locale e gli ottimati di Washington. E il dottor Hunter Biden aveva davvero il curriculum giusto per questo compito urgente: carriera universitaria presso le più prestigiose ed elitarie università private, e poi un impressionante lavoro di interconnessione interno e internazionale fra multinazionali, organizzazioni non governative imbevute di valori (soldi) governativi, uffici legali di super-lobbisti, ecc. Soprattutto, Hunter Biden è uno dei più stretti collaboratori del presidente del National Democratic Institute for International Affairs (Ndi), un’organizzazione creata dal governo Usa come emanazione del National Endowment for Democracy (Ned) per canalizzare contributi e donazioni miranti a «rafforzare la democrazia» in 125 diverse nazioni. Cioè un elemosiniere politico, una delle fabbriche delle rivoluzioni colorate di mezzo mondo, presieduta nientemeno che da Madeleine K. Albright, ex segretario di Stato ai tempi di Clinton e del bombardamento della Serbia. È quella stessa personalità politica che disse in Tv che mezzo milione di bambini morti per l’embargo in Iraq erano stati «un prezzo giusto», e ne era valsa la pena («the price is worth it?»).Biden si sceglie buone compagnie. Sempre assieme alla Albright, è fra gli amministratori del Truman National Security Project, un centro di formazione che impiega ingenti risorse per forgiare intere leve di esponenti politici progressisti intorno ai temi della sicurezza nazionale. Quando sentite qualche vago esponente di sinistra che parla bene della guerra, sappiate da dove viene imbeccato. Secondo Hunter Biden, il proprio compito a Kiev consisterà nel dare buoni consigli su «trasparenza, corporate governance e responsabilità, espansione internazionale e altre priorità» al fine di contribuire, nientemeno, «all’economia e al benessere del popolo ucraino». Sembra di sentire le stesse parole pronunciate nel 2003 per l’Iraq da Paul Bremer, il governatore coloniale insediato dal presidente George W. Bush quando invase e devastò quel paese. Ma mentre gli imperialisti repubblicani avevano una concezione rudimentale dell’“esportazione della democrazia”, la gente dell’Ndi è più duttile, perché afferma che «l’Ndi non presume di imporre soluzioni né ritiene che un sistema democratico si possa replicare da qualche altra parte». Semmai, l’Ndi «condivide esperienze e offre una serie di opzioni in modo che i leader possano adattare quelle pratiche e istituzioni che possano lavorare meglio nel loro proprio ambiente».“Adattare” è dunque la parola chiave. E gli imperialisti democratici americani in Ucraina si sono “adattati” così bene da allearsi con partiti fascistoidi e formazioni paramilitari naziste. Si tratta di un’alleanza scandalosa che non imbarazza minimamente gli esponenti del Partito Socialista Europeo. Come non scandalizza nemmeno il plurimiliardario Ihor Kolomyski, fondatore della European Jewish Union, doppia cittadinanza ucraina e israeliana, co-proprietario della banca Privat e di diverse società che hanno individuato grosse riserve di gas naturale proprio nelle zone ucraine in cui si combatte. Un’inchiesta di “Forbes” ha descritto molto bene il modo in cui Kolomyski ha fatto fortuna: «Kolomyski ha usato delle forze “quasi-militari” della banca Privat per far valere l’acquisizione ostile di aziende, arruolando un gruppo di “teppisti, armati di mazze da baseball, spranghe di ferro, gas e pistole con proiettili di gomma e motoseghe” per prendersi con la forza un impianto siderurgico a Kremenchuk nel 2006 e ha usato “un mix di ordini del tribunale fasulli (spesso per mano di giudici e/o cancellieri corrotti) e di maniere forti” per sostituire amministratori nei consigli di amministrazione delle società delle quali acquistava le partecipazioni».Si vede che a “Forbes” non hanno molta dimestichezza con la cronaca antimafia, che userebbe invece concetti più brevi per descrivere il profilo criminale di un siffatto personaggio. Il presidente golpista Turchynov, a ogni buon conto, lo ha nominato governatore dell’Oblast di Dnipropetrovsk, una regione confinante con i punti caldi della rivolta dei russi d’Ucraina. Kolomyski ha promesso «una taglia per chi catturi militanti sostenuti dai russi e ricompense per chi depone le armi». Questo magnate della finanza e del gas – fra un impegno di cosca e l’altro – sarà uno di quei campioni di «trasparenza, corporate governance e responsabilità» con cui dovrà interloquire Mister Biden jr. Qui c’è un punto ancora più interessante.Il sito di documentazione anticorruzione ucraino (AntAc), d’ispirazione alquanto americana, nel 2012 ha tentato di ricostruire a chi possa appartenere davvero la Burisma, che si presenta come la faccia più alla luce del sole della catena proprietaria dell’impresa gasiera. Una volta che si muovono nel territorio finanziario off-shore, le tracce diventano più difficili, come in una caccia al tesoro mondiale.Abbiamo visto che la Burisma è controllata dall’entità cipriota Brociti Investments Ltd, che l’aveva rilevata dai precedenti proprietari, gli oligarchi Mykola Zlochevsky (ministro dell’energia del deposto presidente Janukovich) e Mykola Lisin (nel frattempo deceduto). Nello schema finanziario della vendita della Brociti sembra essere coinvolta un’altra grossa impresa del settore degli idrocarburi, la Ukrnaftoburinnya. Se vogliamo sapere chi possiede Ukrnaftoburinnya, le tracce ritornano a Cipro, dove il 90% della società sta in pancia alla Deripon Commercial Ltd. Qua dobbiamo fare un volo più lungo, perché la Deripon è controllata a sua volta da una holding delle Isole Vergini britanniche, la Burrad Financial Corp. Laggiù la nebbia, ancorché ai tropici, diventa fittissima. Ma il nome della Burrad non è tuttavia insignificante, perché ricorre in svariate inchieste che ricostruiscono le operazioni finanziarie gestite dalla banca Privat. Cioè la banca di Ihor Kolomyski.Per “Forbes”, comunque, resta probabile che il proprietario sia ancora Zlochevsky (con possibile suo doppio gioco). Lo so, vi siete persi. E anche io. Ma provo a riassumere. Kolomyski, tramite società off-shore, era il dominus della Burisma, la più importante impresa estrattiva del gas in Ucraina, in cui ora si impegna in prima persona quel dentone di Hunter Biden. Kolomyski l’ha ufficialmente ceduta, grazie a uno schema finanziario che gli era familiare, a un’impresa off-shore di cui perdiamo le tracce dei proprietari. Nello stesso tempo Kolomyski è diventato un’autorità politica territoriale di riferimento per le aree in cui si presume la presenza di grandi riserve di gas in mano alla società di cui è amministratore Biden. L’Ucraina, grazie alle nuove tecnologie estrattive per gli idrocarburi sviluppate negli ultimi anni dagli Usa, è ormai un centro di attrazione per esplorazioni e sfruttamento di nuove aree. La coltivazione di questi giacimenti – ora pienamente sfruttabili nell’orbita nordamericana – minaccia apertamente la posizione dominante di Gazprom, ossia l’architrave energetica della rinata potenza russa.Il fatto che il cuore del potere Usa si scomodi per gestire così da vicino la pratica del gas inviando il figlio del vicepresidente conferma la crescente rilevanza politica di questa partita. Solo la subalternità, la ricattabilità e le misere ambizioni sub-dominanti dei politici europei potevano consentire questo gioco. Non è un caso che l’altro eminente consigliere di amministrazione della Burisma – profilo tutto politico anche il suo – sia l’ex presidente della Polonia, Aleksander Kwaśniewski, un campione di ingerenza atlantista (e polacca) in Ucraina. Il portavoce del Cremlino fa ironia, mentre dichiara di non vedere un conflitto d’interesse nel ruolo di Biden. «In fondo, come tutti sanno, non c’è nessun gas in Ucraina. Il gas in Ucraina è russo». E mostra i denti. I suoi.R. Hunter Biden, figlio del vicepresidente Usa, Joe, ha ereditato dal padre un numero incredibile di denti. Con questi ci sorride energicamente dalle sue foto ufficiali. Ora ci informano che quei denti azzannano una delle più ambite poltrone dell’Ucraina, facendo di lui uno dei nuovi padroni della Kiev post-golpista. Biden il Giovane si è infatti da poco insediato nel consiglio di amministrazione della più importante compagnia ucraina di estrazione del gas, la Burisma, con i pozzi in Europa e la sede a Cipro, dove la controlla un’altra impresa off-shore di diritto cipriota, la Brociti Investments Ltd. Vedremo poi dove vanno le tracce. Durante il volo che lo ha portato dai cieli dell’élite statunitense alle alte sfere dell’oligarchia di un paese post-sovietico, il rampollo americano ha potuto anche lui riflettere su come è cambiata la parola oligarca.
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Sono solo comparse del Partito Ipnocratico di Massa
Avviso ai naviganti. Questo è un messaggio per chi è iscritto, a sua insaputa, al Partito Ipnocratico di Massa. Per appurare se hai la tessera, controlla se sei sotto ipnosi senza saperlo. Osserva i sintomi. Hai intenzione di votare Pd alle prossime elezioni europee (o uno qualsiasi dei partiti del nuovo arco costituzionale del sonno, Forza Italia e Nuovo Centro Destra compresi)? Hai preso parte alle primarie democratiche? Sei iscritto a un club Forza Silvio? Sei convinto che Renzi sia l’ultima (buona) occasione per l’Italia di uscire dal pantano? Se hai risposto di sì ad almeno una delle precedenti domande la diagnosi è confermata. Ciò che stai per leggere potrebbe svegliarti per cui prosegui solo se ti consideri pronto. Anzi, leggi lo stesso. Alla fine del pezzo ti riaddormenterò di nuovo e non ricorderai più nulla. Qualcuno ha detto che è meglio illudersi da ignoranti che disperarsi da consapevoli, quindi, forse, dormire è la ricetta giusta. Ecco un buon vademecum da portarsi in cabina elettorale.L’Unione Europea è una costruzione intrinsecamente anti-democratica. Nessuno dei suoi organi muniti di prerogative sovrane è elettivo. Non la Commissione Europea, che ha il potere di iniziativa legislativa, cioè di proporre le leggi che tu subirai. Non il Consiglio Europeo, che definisce orientamenti e priorità generali della Ue. Non il Consiglio dell’Unione Europea che approva le leggi che la Commissione fa e a cui tu obbedisci. C’è il Parlamento, obietterai, da europeista dormiente quale sei. Certo, ma non ha funzioni legislative e non ha alcun reale potere a parte fungere da foglia di fico, ogni cinque anni, per far credere ai cittadini di contare ancora qualcosa con la farsa delle elezioni. Ma il lato veramente liberticida di tutta la faccenda è la composizione della Commissione. E’ l’organo più potente, fa le leggi, gestisce il bilancio, vigila sull’applicazione del diritto comunitario, bacchetta gli Stati membri se non fanno i compiti per casa, può infliggergli sanzioni e le sue decisioni sono vincolanti (en passant, rappresenta pure l’Europa nel mondo).Tu, europeista addormentato nel bosco, oltre a non sapere che la Commissione non è elettiva (i tuoi leader si sono sempre dimenticati di dirtelo) non sai neppure da quanti membri sia composta questa nomenklatura. Ventotto. Incredibile, vero? Meno di trenta persone non elette che fanno e disfano le sorti di trecento milioni di persone. Non è finita. La Commissione si riunisce una volta alla settimana, le sue riunioni non sono pubbliche e le sue decisioni hanno carattere riservato. I piccoli chimici che si son dilettati a generare in provetta la Ue ne han fatte anche di peggio. Tipo concepire un sistema che privava gli Stati sovrani di una loro banca con cui fare politiche sociali tramite la spesa pubblica e attribuirne le funzioni a una banca centrale che non può rifornire di denaro gli Stati. Geniale, non trovi? E gli Stati son diventati succubi dei mercati. Et voilà monsieur lo spread!Così facendo han violato una caterva di articoli di quella Costituzione per la quale i tuoi nonni son morti in montagna. Dal primo (per cui la sovranità appartiene al popolo) al trentottesimo (tutela dei lavoratori) al quarantunesimo (per cui l’attività economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale). Benvenuto nel futuro, dove vigono regole diametralmente opposte: competitività, flessibilità, mercati in primis; poi, se resta tempo e spazio, politica e democrazia. Ora, lo so bene, caro elettore del P.I.M., che sembra una roba da regime, ma così da regime che se te l’avessero detto prima e ad alta voce li avresti appesi a testa in giù da qualche parte. E infatti lo è, solo che le tue guide te l’han fatta sotto il naso mentre eri distratto a guardare la telenovela “Berlusconi contro Occhetto” e i sequel “Berlusconi contro Rutelli”, “Berlusconi contro Veltroni”, “Berlusconi contro Bersani”.Poi, quando l’opera al nero è stata completata, han rottamato tutti i primattori e le comparse del tragicomico ventennio che abbiamo alle spalle: destra e sinistra, il partito della libertà e la classe dirigente del partito democratico, le Province e il Senato.Ora che abbiamo trovato il cadavere (la repubblica democratica e sovrana) non resta che chiedersi se qualcuno è stato corrivo con l’assassino. Purtroppo, caro elettore del P.I.M., la risposta è affermativa. Avevi un pantheon di eroi che si chiamavano De Gasperi e Togliatti, Dossetti e Nenni, Moro e Berlinguer? Bene, gli epigoni dei tuoi miti di bambino, quell’accozzaglia di acronimi che la storia ha già digerito ed evacuato (Pds, Ds, Fi, Ppi, Ccd, Udc, Pdl, Pd, Ncd) sono stati il cavallo di Troia che ti ha portato in casa la Merkel, Barroso e Van Rompuy. Quindi significa che c’è un disegno? Certo che sì. La sinistra post-comunista e la destra post-democristiana, sostenitrici accorate (e unificate) dell’ingresso dell’Italia nell’Ue, sono state il grimaldello per consegnare il nostro paese a un futuro tecnocratico, ademocratico, oligarchico (cioè il presente in cui viviamo).Vuoi la pistola fumante? Vai a rileggere il rapporto redatto nel 1975 da Michel Crouzier, Samuel Huntington e Joji Watanuki per conto della Commissione Trilaterale dove, tra l’altro, si scriveva: «Il funzionamento efficace di un sistema democratico necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi. In passato ogni società democratica ha avuto una popolazione di dimensioni variabili che stava ai margini, che non partecipava alla politica. Ciò è intrinsecamente anti-democratico, ma è stato anche uno dei fattori che ha permesso alla democrazia di funzionare bene. (…) Curare la democrazia con ancor più democrazia è come aggiungere benzina al fuoco». Adesso andiamo a citare alcuni dei padri nobili “de sinistra” e “de destra” che preconizzarono il sol dell’avvenire da cui ora ti ritrovi ustionato. Jean Claude Juncker (ex presidente dell’Eurogruppo), il 21 dicembre 1999, a “Der Spiegel”, sul modus operandi della Commissione Europea: «Prendiamo una decisione, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo un po’ per vedere cosa succede. Se non provoca proteste né rivolte, perché la maggior parte della gente non capisce niente di cosa é stato deciso, andiamo avanti passo dopo passo fino al punto di non ritorno».Romano Prodi, il 4 dicembre 2001, al “Financial Times”: «Sono sicuro che l’euro ci costringerà a introdurre un nuovo insieme di strumenti di politica economica. Proporli adesso è politicamente impossibile, ma un bel giorno ci sarà una crisi e si creeranno i nuovi strumenti». Jacques Attali (uno dei padri fondatori dell’Unione Europea e dei trattati europei), il 24 gennaio 2011, all’università partecipativa: «Abbiamo minuziosamente “dimenticato” di includere l’articolo per uscire da Maastricht. In primo luogo, tutti coloro, e io ho il privilegio di averne fatto parte, che hanno partecipato alla stesura delle prime bozze del trattato di Maastricht, hanno o meglio ci siamo incoraggiati a fare in modo che uscirne sia impossibile. Abbiamo attentamente “dimenticato” di scrivere l’articolo che permetta di uscirne. Non è stato molto democratico, naturalmente, ma è stata un’ottima garanzia per rendere le cose più difficili, per costringerci ad andare avanti».Helmuth Kohl, il 9 aprile 2013, al “Telegraph”, sull’ingresso nell’euro da parte della Germania: «Sapevo che non avrei mai potuto vincere un referendum in Germania. Avremmo perso il referendum sull’introduzione dell’euro. Questo è abbastanza chiaro. Avrei perso sette a tre. Nel caso dell’euro, sono stato come un dittatore». Ecco, caro elettore del Partito Ipnocratico di Massa, chi sono i paladini cui darai, tra poco, il tuo voto. Ora che lo sai, rilassati, inspira, espira, inspira, espira, inspira, espira. Tutto ciò che hai letto è solo un brutto sogno. Conta da ventuno a zero, piano piano. Ninna nanna, ninna oh, questo Mostro a chi lo do? Leggi i manifesti del Pd, ascolta un sermone di Renzi, sparati un monito di Napolitano. Fatto. Ora puoi tornare a dormire.(Francesco Carraro, “Il Partito Ipnocratico di Massa”,da “Libero” del 14 aprile 2014).Avviso ai naviganti. Questo è un messaggio per chi è iscritto, a sua insaputa, al Partito Ipnocratico di Massa. Per appurare se hai la tessera, controlla se sei sotto ipnosi senza saperlo. Osserva i sintomi. Hai intenzione di votare Pd alle prossime elezioni europee (o uno qualsiasi dei partiti del nuovo arco costituzionale del sonno, Forza Italia e Nuovo Centro Destra compresi)? Hai preso parte alle primarie democratiche? Sei iscritto a un club Forza Silvio? Sei convinto che Renzi sia l’ultima (buona) occasione per l’Italia di uscire dal pantano? Se hai risposto di sì ad almeno una delle precedenti domande la diagnosi è confermata. Ciò che stai per leggere potrebbe svegliarti per cui prosegui solo se ti consideri pronto. Anzi, leggi lo stesso. Alla fine del pezzo ti riaddormenterò di nuovo e non ricorderai più nulla. Qualcuno ha detto che è meglio illudersi da ignoranti che disperarsi da consapevoli, quindi, forse, dormire è la ricetta giusta. Ecco un buon vademecum da portarsi in cabina elettorale.