Archivio del Tag ‘popolo’
-
Sinistra, un popolo di orfani senza un solo leader credibile
Renzi può dormire sonni tranquilli: a sinistra lo contestano solo pesi-piuma come Civati e Cuperlo. Nel giorno in cui a Roma centinaia di migliaia di persone rispondevano alla chiamata della Cgil, lo storico Giovanni De Luna indicava significativamente il “deserto” alla sinistra di Renzi, anche se il conflitto tra il governo e Cgil spalancherebbe «intere praterie a sinistra del Pd». Infatti, «il partito a vocazione maggioritaria immaginato da Renzi», se da un lato tende al “grande centro” svuotando di senso il bipolarismo su cui si è fondata la Seconda Repubblica, dall’altro favorisce anche le ali estreme del sistema politico. La crisi in corso, avverte Anna Lami, porta con sé una profonda radicalizzazione del quadro politico, i cui effetti devono ancora pienamente dispiegarsi: «Inevitabile la rottamazione di chi non capisce il mutamento epocale in atto, illudendosi di poter tirare avanti come se nulla fosse, mantenendo una prospettiva di piccolo cabotaggio». L’ha capito perfettamente Matteo Renzi, e nel suo piccolo se n’è reso conto anche Matteo Salvini, trapiantando a Milano il suo lepenismo, in una piazza Duomo gremita di folla.«Come giustamente notava De Luna, la parte politica che ancora non ha capito qual è la portata degli eventi in atto è la sinistra», scrive Anna Lami su “Megachip”, nonostante il successo delle mobilitazioni sindacali delle ultime settimane. Notevole lo sciopero generale dell’Emilia Romagna proclamato dalla Cgil regionale, con decine di migliaia di lavoratori in piazza a Bologna e quasi tutte le principali fabbriche della regione ferme, per non parlare della battaglia degli operai della Thyssen di Terni, che «dopo cortei improvvisati, occupazione di Comune e Prefettura, picchetti, è culminata in una giornata di sciopero che ha fermato l’intera città umbra con una manifestazione che ha visto circa trentamila partecipanti e la contestazione dei vertici confederali». Il corteo oceanico della Cgil a Roma? «E’ la conferma che il popolo di sinistra esiste ancora, gode di buona salute ed è pronto a farsi sentire». Purtroppo, però, «non siamo più negli anni in cui una grossa manifestazione poteva bastare a frenare le intenzioni degli alti comandi».La verità è che «la crisi sta portando ad un mutamento di epoca: non basta più far vedere che “volendo si potrebbe”, occorrerebbe proprio rompere gli argini, cosa che esula decisamente dalle intenzioni dei vertici sindacali». Ancora una volta, continua Anna Lami, la base si è dimostrata più avanzata di chi dovrebbe rappresentarla: lo dicono gli slogan, i cartelli e gli striscioni, contro l’esecutivo e non solo contro il Jobs Act, dimostrando «una crescente consapevolezza politica tra il popolo lavoratore», che ormai accusa anche Napolitano, la Confindustria e la Bce. «Qui, però, entra in gioco la differenza principale tra la piazza di Milano della Lega Nord e le manifestazioni dei lavoratori», spiega Lami. «Mentre la prima ha trovato piena espressione politica, con un progetto radicale nettamente definito in senso reazionario-populista, le seconde sono ancora completamente prive di interlocutori politici credibili e adeguati ai tempi».E’ un’anomalia «che sta costando molto cara ai ceti popolari e, soprattutto, non sembra volgere verso la fine». Infatti, «fino a quando sarà possibile, come è accaduto a piazza San Giovanni, che starlettine della sinistra Pd, mezze figure come Cuperlo, Fassina e Civati, pienamente coinvolti e responsabili del disastro sociale in atto, si facciano belli sui media parlando da una manifestazione da cui dovrebbero essere cacciati in un nanosecondo, allora il divario politico che separa la realtà odierna e la rappresentazione della sinistra italiana sarà abisso». Renzi e le classi dominanti «potranno continuare a farsi beffe di ogni mobilitazione popolare», conclude Anna Lami, «fino a quando non sorgerà un soggetto politico coerentemente anticapitalista in grado di organizzare quei settori sociali che subiscono la crisi (e che sono disponibili a mobilitarsi, come anche a Roma si è visto) inserendoli in una prospettiva di conflitto», verso un cambiamento radicale.Renzi può dormire sonni tranquilli: a sinistra lo contestano solo pesi-piuma come Civati e Cuperlo. Nel giorno in cui a Roma centinaia di migliaia di persone rispondevano alla chiamata della Cgil, lo storico Giovanni De Luna indicava significativamente il “deserto” alla sinistra di Renzi, anche se il conflitto tra il governo e Cgil spalancherebbe «intere praterie a sinistra del Pd». Infatti, «il partito a vocazione maggioritaria immaginato da Renzi», se da un lato tende al “grande centro” svuotando di senso il bipolarismo su cui si è fondata la Seconda Repubblica, dall’altro favorisce anche le ali estreme del sistema politico. La crisi in corso, avverte Anna Lami, porta con sé una profonda radicalizzazione del quadro politico, i cui effetti devono ancora pienamente dispiegarsi: «Inevitabile la rottamazione di chi non capisce il mutamento epocale in atto, illudendosi di poter tirare avanti come se nulla fosse, mantenendo una prospettiva di piccolo cabotaggio». L’ha capito perfettamente Matteo Renzi, e nel suo piccolo se n’è reso conto anche Matteo Salvini, trapiantando a Milano il suo lepenismo, in una piazza Duomo gremita di folla.
-
Putin agli Usa: agite da nemici, sappiate che resisteremo
A Sochi, nell’ottobre 2014, Putin ha “resettato” drasticamente il rapporto tra la sua Russia e Washington. Un discorso ben meditato, che sarebbe grave errore, per tutti, sottovalutare. Molto più forte, a tratti drammatico nella sua chiarezza, di quello da lui pronunciato a Monaco, nel 2007. Nei 14 anni del suo potere il presidente russo non si era mai spinto fino a questo punto. E si capisce il perché solo seguendo il suo ragionamento. Vediamo di quale reset si tratta. Fino all’altro ieri Putin era rimasto “dentro” lo schema del post guerra fredda. C’era rimasto sia perché non aveva scelte diverse da fare, sia perché – con ogni probabilità – a quello schema credeva e lo riteneva utile e realistico. La crisi era già visibile. La Russia ci stava dentro scomoda. Ma rimaneva l’intenzione di superarla, con il tempo, costruendo una nuova architettura della sicurezza mondiale assieme agli Stati Uniti. Per anni, dopo il crollo del Muro, la Russia ha dovuto sopportare molti “sgarbi”. È un eufemismo. In molti casi la parola giusta sarebbe schiaffi.La Russia è stata emarginata da numerosi momenti decisionali di rilievo internazionale, messa in secondo piano, scartata senza troppi complimenti. Era (anche) un modo per farle capire che non contava e che non si voleva che contasse. Espulsa dalla gestione dei conflitti africani, ignorata nel dibattito finanziario, messa in fila per il Wto. E duramente offesa nell’intera vicenda jugoslava, fino al bombardamento di Belgrado e all’indipendenza del Kosovo. Ammessa in sala riunioni solo là dove era indispensabile che ci fosse, nel negoziato con l’Iran e nella crisi siriana. Peggio ancora: con gli ultimi presidenti americani, da Clinton, via George Bush Junior, fino a tutto Obama compreso, gli Stati Uniti hanno manovrato su scala planetaria ignorando platealmente ogni riconoscimento delle zone d’influenza russa, passeggiandovi dentro senza alcun riguardo diplomatico. Tutta l’Asia centrale ex sovietica è stata praticamente occupata dalle loro iniziative: dall’Azerbaigian fino alla Kirghisia. Non dovunque con gli stessi successi. Ma quello che conta, è il significato: Washington semplicemente mandava a dire a Mosca che non avrebbe tenuto in alcun conto il peso della Russia in quelle aree.Per non parlare della Nato, la cui espansione a est – dopo la fine del patto di Varsavia – ha proceduto senza soste, alla pari con l’allargamento dell’Unione Europea su tutta l’Europa orientale, fin dentro alcuni territori che erano stati parte dell’Unione Sovietica, come le tre repubbliche baltiche. Il tutto violando gli accordi, verbali e scritti, che impegnavano la Nato a non portare basi e armamenti nelle nuove repubbliche che via via aderivano all’Unione Europea. Espansione accompagnata da dichiarazioni sempre più incongruenti con i fatti, secondo cui l’estensione della Nato non sarebbe stata indirizzata all’accerchiamento progressivo della Russia. Infine le operazioni degli ultimissimi anni, con l’inserimento della Georgia di Saakashvili nei meccanismi Nato e la promessa di un futuro ingresso a vele spiegate nella Nato della quarta repubblica ex sovietica; e con le analoghe pressioni e promesse nei confronti della Moldavia. Da ricordare la “guerra georgiana”, conclusasi con la secca sconfitta di Tbilisi dopo il massacro di Tzkhinvali e l’intervento delle forze armate russe per ricacciare indietro i georgiani dal territorio dell’Ossetia del Sud.Il riconoscimento russo delle due repubbliche di Abkhazia e Ossetia del Sud (che Putin non aveva concesso fino all’agosto 2008) fu il primo segnale che il Cremlino aveva deciso – sebbene non di propria iniziativa ma pressato dall’iniziativa avversaria – di alzare il segnale di stop verso Washington. Tutto questo è stato superato, d’un colpo, dall’avventura spericolata del colpo di stato a Kiev, dal rovesciamento violento di Yanukovic e dal varo di una nuova Ucraina dichiaratamente ostile e bellicosa nei confronti di Mosca. Il tutto non solo con il consenso ma con il finanziamento, la direzione, il controllo americano delle operazioni sul territorio, e politiche e, infine, militari. Non si comprende la sintesi putiniana di Sochi se non tenendo conto della sommatoria di questi eventi. La conclusione è esplicita: la leadership americana non prevede alcun multipolarismo, né alcun rispetto delle regole di un qualsivoglia partenariato tra eguali. Non ci sono più regole condivise. Esiste uno stato di caos, senza alcuna direzione. Putin prende atto – senza dirlo esplicitamente, ma facendo capire che ha ben compreso – che il bersaglio è lui in persona. Che le sanzioni non sono cominciate colpendo la Russia, ma colpendo il suo stesso entourage. Che negli atteggiamenti e nelle dichiarazioni dei leader occidentali è riconoscibile l’idea che Putin non rappresenta la Russia e che, dunque, una volta eliminato lui, la Russia sarà ricondotta all’ovile. In altri termini: l’Occidente non intende negoziare con la Russia fino a che Putin sarà alla sua testa.La risposta di Sochi è ora nettissima, un vero e proprio punto di non ritorno. Poggiato su alcuni pilastri. Il primo è l’idea che l’unità dell’Occidente è precaria. L’Europa non è compatta dietro l’America. Resta un partner, anche se si trova sotto costrizione. Lo dicono i numeri delle relazioni economiche e commerciali, oltre che la storia del dopoguerra. Questo è il primo pilastro. Potrebbe essere una scommessa che non si verificherà. Ma è un modo per tenere aperto un campo di manovra. Putin mostra di sapere perfettamente che la Russia che si trova tra le mani è incastonata in mille modi nel sistema occidentale. Anche nei suoi quattordici anni di potere, non solo in quelli elstsiniani, la Russia si è legata mani e piedi ai destini dell’Occidente. Dunque è vulnerabile e dovrà pagare prezzi salati, forse salatissimi. Qui Putin è con le spalle al muro, e dovrà dimostrare ai suoi cittadini che riesce a svincolarsene. Lo spazio potrà forse aprirsi come effetto della crisi politica di questa Europa.Lo sfaldamento della tenuta dei partiti politici tradizionali, quasi dovunque, mostra che ci possono essere altri interlocutori, oltre ai conservatori tradizionali, ormai avvinghiati alle sinistre socialdemocratiche, tutte emigrate oltre Oceano. L’Europa popolare va a destra, si muove in senso antieuropeo, antiamericano e antiglobalista, e converge sull’altro pilastro su cui Putin si appoggia: quello del patriottismo, del conservatorismo etico, dei valori tradizionali della famiglia, dell’educazione, del rispetto della memoria. La “famiglia europea” potrebbe cambiare di segno nei prossimi anni. E c’è un altro pilastro, ormai evidente: l’Oriente, la Cina, l’Iran, il resto del mondo. Verso quella direzione – andassero male i tentativi verso l’Occidente – guarderà l’aquila bifronte. Le sanzioni – dice Putin – non fermeranno questa Russia, che nelle parole di Putin appare vicina, risvegliata, compatta come non lo era da molti decenni.È una specie di preludio a un governo di salvezza nazionale, in cui entreranno forse i comunisti di Ziuganov, i liberal-democratici di Zhirinovskij, i nazionalisti di destra e di sinistra, saltando a piè pari le distinzioni europee-occidentali che in Russia hanno sempre contato poco. L’America di Obama, l’America che Mosca vede come in preda a una crisi senza ritorno (perché dopo Obama potrebbe venire il peggio, con una Hillary Clinton che vince le elezioni con il programma dei repubblicani più forsennati), non è più un partner. L’orso russo – proprio questo ha detto Putin – non intende uscire dal suo habitat. Non ha ambizioni espansive. Ma non è disposto a farsi sloggiare. Putin a questa conclusione è giunto. Questo è il suo piano di resistenza. Si tratta ora di vedere se è in condizione di reggerlo. E con un’America che gioca alla “o la va o la spacca”, sarà una partita dura. È dura quando entrambi i contendenti hanno le spalle al muro.(Giulietto Chiesa, “Il reset di Putin”, da “Megachip” del 26 ottobre 2014).A Sochi, nell’ottobre 2014, Putin ha “resettato” drasticamente il rapporto tra la sua Russia e Washington. Un discorso ben meditato, che sarebbe grave errore, per tutti, sottovalutare. Molto più forte, a tratti drammatico nella sua chiarezza, di quello da lui pronunciato a Monaco, nel 2007. Nei 14 anni del suo potere il presidente russo non si era mai spinto fino a questo punto. E si capisce il perché solo seguendo il suo ragionamento. Vediamo di quale reset si tratta. Fino all’altro ieri Putin era rimasto “dentro” lo schema del post guerra fredda. C’era rimasto sia perché non aveva scelte diverse da fare, sia perché – con ogni probabilità – a quello schema credeva e lo riteneva utile e realistico. La crisi era già visibile. La Russia ci stava dentro scomoda. Ma rimaneva l’intenzione di superarla, con il tempo, costruendo una nuova architettura della sicurezza mondiale assieme agli Stati Uniti. Per anni, dopo il crollo del Muro, la Russia ha dovuto sopportare molti “sgarbi”. È un eufemismo. In molti casi la parola giusta sarebbe schiaffi.
-
Paese a pezzi, mai unito: e se rinunciassimo all’Italia?
Quindici anni fa, in una fase storica che vedeva il paese ormai impantanato in logiche politiche incapaci di affrontarne i problemi strutturali dell’economia e della società, ne “L’asino di Buridano” (ora ripubblicato dall’editore Guerini) Gianfranco Miglio immaginò una sua via d’uscita, essenzialmente basata su una struttura confederale e macro-regionale. L’Italia doveva lasciarsi alle spalle lo Stato nazionale e unitario di costruzione ottocentesca, affidarsi a logiche pattizie più coerenti con una società d’ispirazione democratica e liberale, ridefinirsi attorno ad aree omogenee per storia e struttura produttiva. Quindici anni sono pochi e sono tanti al tempo stesso. Se l’essenza della riflessione migliana resta valida, qualcosa merita indubbiamente di essere rivisto, aggiornato, ripensato. Non è in nessun modo realistica, in particolare, l’idea di una “via italiana” (o romana) alla soluzione dei problemi che affliggono il paese.Innamorato della dimensione anche tecnica e ingegneristica dei dispositivi costituzionali, Miglio ancora 15 anni fa pensava che non fosse da escludere l’ipotesi di una classe politica italiana disposta a suicidarsi nella sua dimensione nazionale per riscoprire una propria vocazione locale. Questa illusione ora non è più ammissibile e non vi sarà mai una riforma delle istituzioni, a Roma, che ponga fine a quel potere romano che vede politici settentrionali e meridionali cooperare con tanta passione. In secondo luogo, non è realistico prevedere un’Italia che tenga vivi tenui legami confederali, così come non era realistico immaginare che la Lituania o la Georgia potessero stare in una confederazione che avesse al centro la Russia. Se l’Italia perderà la configurazione prefettizia acquisita nel diciannovesimo secolo, al suo posto vi saranno piccole realtà tra loro assai slegate: non mancheranno certo accordi e alleanze (per giunta entro un condiviso quadro europeo), ma difficilmente vi sarà una struttura comune intesa in senso classico.Certo è impossibile sapere se l’Italia saprà ammettere il fallimento della sua unificazione o invece continuerà a illudersi che sia riformabile anche l’irriformabile. Ma se un giorno l’unità verrà messa in discussione, come giustamente Miglio invitava a fare, quella che ne conseguirà sarà una soluzione di tipo catalano. Qualche segnale va emergendo. A Trieste, ad esempio, c’è un movimento assai attivo che usa argomenti di diritto internazionale (legati all’amministrazione Onu delle zona A e B, create all’indomani del 1945) per rivendicare il diritto ad amministrarsi da sé: dando vita a un Lussemburgo di taglio adriatico e mitteleuropeo. Nel Tirolo meridionale, inoltre, va riemergendo la voglia di ricollegarsi a Innsbruck ed essere sempre più europei e sempre meno italiani. E spinte centrifughe sono visibili anche in Sardegna, in Lombardia e in altre parti del paese. Ma la potenziale Catalogna d’Italia è il Veneto.Miglio immaginava una soluzione confederata basata essenzialmente su tre grandi aree: Nord, Centro e Sud. Le premesse di un anti-Risorgimento vincente, invece, giungono da realtà più piccole e – ciò che è molto importante – dotate di una propria struttura istituzionale. Il Nord di Miglio, come la Padania vagheggiata dai leghisti, non ha confini e non ha un Parlamento. Non così è il Veneto, che dispone di un presidente, di un palazzo del governo e di una sua assemblea rappresentativa. E che nei mesi scorsi ha approvato una legge regionale che istituisce un referendum consultivo sull’indipendenza, che l’attuale esecutivo si è subito preoccupato di impugnare dinanzi alla Corte Costituzionale. Matteo Renzi vuole giocare alla Mariano Rajoy (niente “diritto di voto” per i catalani), e non alla David Cameron. Il referendum scozzese ha però rappresentato uno spartiacque nella storia europea: ha detto che l’unità nazionale di uno Stato dipende dalla volontà, e solo dalla volontà, delle comunità che ne fanno parte.In qualche modo, anche “retoricamente”, Miglio riteneva che l’Italia potesse ancora essere salvata soltanto disfacendola. Oggi le linee di tendenza ci dicono che l’alternativa è tra un’Italia che salva se stessa e condanna gli italiani, oppure un’Italia che si dissolve per dare alle diverse comunità italiane una qualche chance di farcela. E a questo punto c’è da domandarsi in che modo, nei mesi a venire, il potere romano saprà resistere dinanzi a chi chiede di mettere una scheda entro un’urna. La crisi spagnola in corso, che vede Madrid interpretare logiche neo-franchiste, attesta quanto sia difficile per gli Stati democratici opporsi ai movimenti indipendentisti che chiedono di andare alle urne e far decidere tutto con il voto. Le nostre istituzioni pubbliche sono macchine poderose che sottraggono diritti e risorse (ormai il 50% di quanto viene prodotto) legittimandosi con le procedure elettorali.Renzi può disporre di tanta parte dell’economia e della società italiane perché si sente legittimato dal voto. Ma se il voto è così nobile e potente, come può lo stesso Renzi negarne l’esercizio a quei veneti che vogliono interpellare la popolazione in merito alla scelta tra status quo e una Serenissima 2.0? Esattamente come quando Miglio scrisse quelle pagine, non è affatto da escludere l’ipotesi che nulla cambi e che il nostro resti il paese del gattopardismo. Ma l’Europa sta mutando: in Scozia già hanno votato e il 9 novembre catalano (la data fissata per un referendum che la Spagna considera illegale) è ormai alle porte. L’ipotesi che il Veneto sia l’anello che non tiene è assai seria. Ben poco c’è da aspettarsi dalla Corte Costituzionale e dal nostro ceto politico, ma vi sono processi che prendono luogo indipendentemente da queste cose. E talvolta prima di sprofondare nel nulla una società cerca di ripensarsi su basi nuove.(Carlo Lottieri, “E se rinunciassimo all’Italia? La profezia di Gianfranco Miglio”, da “Il Sussidiario” del 20 ottobre 2014).Quindici anni fa, in una fase storica che vedeva il paese ormai impantanato in logiche politiche incapaci di affrontarne i problemi strutturali dell’economia e della società, ne “L’asino di Buridano” (ora ripubblicato dall’editore Guerini) Gianfranco Miglio immaginò una sua via d’uscita, essenzialmente basata su una struttura confederale e macro-regionale. L’Italia doveva lasciarsi alle spalle lo Stato nazionale e unitario di costruzione ottocentesca, affidarsi a logiche pattizie più coerenti con una società d’ispirazione democratica e liberale, ridefinirsi attorno ad aree omogenee per storia e struttura produttiva. Quindici anni sono pochi e sono tanti al tempo stesso. Se l’essenza della riflessione migliana resta valida, qualcosa merita indubbiamente di essere rivisto, aggiornato, ripensato. Non è in nessun modo realistica, in particolare, l’idea di una “via italiana” (o romana) alla soluzione dei problemi che affliggono il paese.
-
Feltri: nazisti Ue, buttateci fuori così poi ridiamo noi
La lettera minatoria che il presidente della Commissione Europea, Barroso, ha inviato a Palazzo Chigi è la dimostrazione plastica che Bruxelles considera l’Italia una scolaretta negligente e, pertanto, ritiene lecito tirarle le orecchie e prenderla a bacchettate con disinvoltura. Può darsi che in assoluto noi meritiamo simile trattamento, perché da anni giuriamo di stare in riga e invece, passando da Berlusconi a Monti e da Enrico Letta a Renzi, non abbiamo fatto altro che sbandare, come certificano i dati economici degli ultimi tre anni, andati via via peggiorando rispetto a quelli registrati in epoca di centrodestra. Ammesso e non concesso che siamo asini, non si capisce comunque perché l’Ue si arroghi il diritto di darci la pagella secondo pregiudizi, e non giudizi, che prescindono dalla conoscenza dei fatti. In altri termini, più crudi, se la Germania e i suoi camerieri scodinzolanti non apprezzano la politica romana sono liberi sì di criticarci e, al limite, di buttarci fuori dal club burocratico in cui guazzano, ma non di recapitarci una missiva dai toni ultimativi, sgradevoli, maleducati e arroganti, degni del Quarto Reich, anzi del Terzo.Essi ci hanno invitato perentoriamente a rispondere entro 24 ore al loro diktat in cui si dice che la nostra manovra (legge di stabilità) fa praticamente ribrezzo ed è quindi necessario correggerla, altrimenti… Altrimenti che? Cosa fate, ci cacciate? Provateci, fessacchiotti. Senza Italia nel mucchio selvaggio di 28 paesi, in cerca di una unione fittizia, salterebbe per aria non solo la Ue, ma anche la moneta unica difesa con spocchia dagli affamatori del popolo, cioè banchieri, finanzieri e loro utili idioti, tra cui economisti da talk show. Ecco perché ci auguriamo che Matteo Renzi (costretti ad affidarci a lui, già siamo nelle sue mani, oddio in che mani siamo), attingendo una tantum all’aulico linguaggio di Beppe Grillo, e rivolgendosi a Barroso e complici, pronunci il classico vaffanculo. Quando ci vuole, ci vuole.Non ci vengano a dire lorsignori di Berlino e Bruxelles che se disubbidiamo agli ordini saremo commissariati, come se il nostro paese fosse una colonia dei tognini. Manderanno in trasferta a Roma i commissari? Li accoglieremo nel migliore albergo. Va bene l’Excelsior di via Veneto? Ok. Qui rimpinzeremo gli ospiti di spaghetti all’amatriciana e di pizza e, l’indomani, li caricheremo sulle auto blu invendute rispedendoli a casa, oltre frontiera. Ce la siamo sempre cavata da soli nei momenti più tragici, compresi due dopoguerra mondiali e una tentata rivoluzione dei brigatisti rossi (indimenticabili quanto portentosi coglioni), vi pare che ci possano far tremare le ginocchia quattro contabili avvezzi a misurare la lunghezza degli zucchini e a disporre la distruzione delle arance siciliane? Andate all’inferno.Noi con la politica dei piccoli passi (da gambero) ci eravamo guadagnati una buona posizione, poi siete arrivati voi menagramo con l’euro fasullo e coniato non per aiutare il popolo europeo, che non esiste (esistono tanti popoli europei privi di un denominatore comune), e ci siamo lasciati infinocchiare, affascinati dall’idea di appartenere a una élite che avesse in tasca le stesse banconote. Prodi e Ciampi, nel predisporci a essere presi in giro, ci misero del loro, ma sorvoliamo per rispetto della terza età (cui mi avvicino). Constato che Renzi non usa le buone maniere ma preferisce la pressa delle rottamazioni rapide. Lo preghiamo vivamente di non intimidirsi davanti a un portoghese (vocabolo che da noi ha un significato giustamente sinistro) e di apprestarsi piuttosto a mandarlo a quel paese, il suo, dove troverà altri portoghesi più malleabili di noi. Chiaro il concetto? Caro presidente Renzi, lei che ha fatto fuori le cariatidi del Pd in pochi mesi, non faticherà a far secco anche questo intruso, Barroso, un nome che evoca quello di un calciatore, anzi di vari calciatori, tutti modesti.Ci aspettiamo da lei un atteggiamento dignitoso, un atto di coraggio che riaffermi la nostra sovranità nazionale a costo di sfidare il Quarto Reich che, senza di noi, farebbe la fine del Terzo, sul serio. Un’ultima osservazione prima di chiudere. L’Ue si è risentita perché Padoan, ministro dell’economia, ha pubblicato la lettera minatoria sul sito del proprio ministero. Ma da quando in qua gli atti ufficiali in democrazia rimangono segreti? Ha fatto benissimo Padoan a divulgarla. Chi lancia il sasso e nasconde la mano è un vile; chi ambisce perfino a nascondere il sasso è un pistola. P.S.: Presidente Renzi, le rammento che nel 2011 Berlusconi ricevette una lettera dalla Ue e, non avendola rispedita al mittente con un circostanziato vaffa, fu sfanculato. Politico avvisato, mezzo salvato.(Vittorio Feltri, “Buttateci fuori che poi ridiamo noi”, da “Il Giornale” del 24 ottobre 2014).La lettera minatoria che il presidente della Commissione Europea, Barroso, ha inviato a Palazzo Chigi è la dimostrazione plastica che Bruxelles considera l’Italia una scolaretta negligente e, pertanto, ritiene lecito tirarle le orecchie e prenderla a bacchettate con disinvoltura. Può darsi che in assoluto noi meritiamo simile trattamento, perché da anni giuriamo di stare in riga e invece, passando da Berlusconi a Monti e da Enrico Letta a Renzi, non abbiamo fatto altro che sbandare, come certificano i dati economici degli ultimi tre anni, andati via via peggiorando rispetto a quelli registrati in epoca di centrodestra. Ammesso e non concesso che siamo asini, non si capisce comunque perché l’Ue si arroghi il diritto di darci la pagella secondo pregiudizi, e non giudizi, che prescindono dalla conoscenza dei fatti. In altri termini, più crudi, se la Germania e i suoi camerieri scodinzolanti non apprezzano la politica romana sono liberi sì di criticarci e, al limite, di buttarci fuori dal club burocratico in cui guazzano, ma non di recapitarci una missiva dai toni ultimativi, sgradevoli, maleducati e arroganti, degni del Quarto Reich, anzi del Terzo.
-
Un Piano Marshall: per salvare la Terra, non le banche
Troviamo miliardi per qualsiasi cosa – banche, antiterrorismo – tranne che per il futuro della Terra. «Ho negato il cambiamento climatico più a lungo di quanto mi piaccia ammettere», dichiara Naomi Klein, citando la relazione 2014 dell’Associazione Americana per l’Avanzamento della Scienza, la più importante al mondo. Il problema? Molti di noi non sospettano che, oltre un certo limite, il cambiamento climatico – gas serra e innalzamento del mare – potrebbe precipitare a velocità esponenziale: «Spingere le temperature globali oltre determinate soglie potrebbe innescare dei cambiamenti bruschi, imprevedibili e potenzialmente irreversibili, dagli effetti massicci, dirompenti e su larga scala». A quel punto, anche senza ulteriori incrementi di CO2, alcuni processi potenzialmente inarrestabili si sarebbero già messi in moto: «Possiamo pensare a questo effetto come a quello dell’improvvisa rottura dei freni o dello sterzo di un’auto, quando non possiamo più controllare né il problema né le sue conseguenze».«Sapevo che stava avvenendo, sicuro», ammette la Klein in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, «ma sono rimasta piuttosto sul vago riguardo i dettagli, e ho anche scremato la maggior parte delle notizie, soprattutto quelle veramente spaventose». Molti «si impegnano nella negazione del cambiamento climatico», oppure si limitano a un allarme episodico. «Prendiamo atto del problema, ma poi raccontiamo a noi stessi delle storie confortanti su quanto gli esseri umani siano intelligenti, e che presto realizzeremo un qualche miracolo tecnologico che ci permetterà di “succhiare” tranquillamente il carbonio dai cieli, o di abbassare magicamente il calore del sole». Oppure ci concentriamo innanzitutto sullo sviluppo economico, «come se avere in tasca un paio di dollari in più possa fare molta differenza quando la nostra città sarà sott’acqua». Non ci occupiamo del problema, «anche se sappiamo che nessuno è al sicuro, e i più deboli meno di tutti». Cambiare stile di vita? Utile, ma non basta.Conosciamo il pericolo, ormai, ma restiamo passivi: «Sappiamo che, se permettiamo alle emissioni di continuare a crescere anno dopo anno, le variazioni climatiche finiranno con il cambiare tutto il nostro mondo». Apocalisse: «Le principali città saranno molto probabilmente sommerse dall’acqua, antiche culture saranno inghiottite dai mari, e c’è una probabilità molto alta che i nostri figli debbano trascorrere gran parte della loro vita in fuga da feroci tempeste e siccità estreme». Eppure, esitiamo: nessuna reazione, «come se non avessimo a che fare con una vera e propria crisi». Preferiamo «continuare a negare a noi stessi quanto in realtà siamo impauriti». Per noi, super-consumatori, «si tratta di dover cambiare il modo in cui viviamo, il funzionamento delle nostre economie e anche le storie che raccontiamo riguardo il nostro ruolo sulla Terra». La buona notizia? «E’ che molti di questi cambiamenti sono decisamente di tipo non-catastrofico», ma succede di scoprirlo in ritardo.Naomi Klein ricorda che nell’aprile 2009 conobbe al Wto di Ginevra la giovane Angelica Navarro Llanos, ambasciatrice della Bolivia, «un paese povero, dal piccolo budget internazionale». La Navarro Llanos aveva da poco assunto il portafoglio del clima. «Durante il pranzo in un ristorante cinese vuoto, mi spiegò (usando le bacchette per fare un grafico sull’andamento globale delle emissioni) che vedeva nel cambiamento climatico una terribile minaccia per il suo popolo, ma anche un’opportunità. Ci vedeva una minaccia per ovvie ragioni: la Bolivia è straordinariamente dipendente dai ghiacciai per l’acqua potabile e per l’irrigazione, e quelle bianche montagne innevate che sovrastano la sua capitale stavano diventando di color grigio e marrone ad un ritmo allarmante. L’opportunità, disse la Navarro Llanos, stava invece nel fatto che paesi come il suo non avevano dato quasi alcun contribuito all’impennata delle emissioni, e adesso erano in grado di dichiarare se stessi “creditori climatici”. Potevano rivendicare soldi e supporto tecnologico dai grandi “paesi inquinatori” sia per coprire i costi che dovevano affrontare per i disastri legati al clima, che per potersi sviluppare lungo un percorso energetico “verde”».Alle Nazioni Unite, la Navarro Llanos aveva messo sul tavolo la questione di questa tipologia di “trasferimento di ricchezza”: «Milioni di persone che vivono su piccole isole, in paesi meno sviluppati o senza sbocco sul mare, così come alcune vulnerabili comunità del Brasile, dell’India e della Cina – disse – soffrono per gli effetti di un problema a cui non hanno dato alcun contributo». Se vogliamo ridurre le emissioni nel corso del prossimo decennio, continuò all’Onu la diplomatica boliviana, «abbiamo bisogno della più grande mobilitazione di massa mai avvenuta nella storia». Letteralmente: «Abbiamo bisogno di un Piano Marshall per la Terra». Questo piano «deve mobilitare dei finanziamenti e dei trasferimenti di tecnologia di dimensioni senza precedenti. Per garantire la riduzione delle emissioni e allo stesso tempo un miglioramento della qualità della vita, queste tecnologie devono essere rese disponibili ad ogni paese. Abbiamo a disposizione solo un decennio».Naturalmente un Piano Marshall per la Terra costerebbe centinaia, se non migliaia di miliardi di dollari, precisa Naomi Klein. E qualcuno potrebbe aver pensato che il suo costo avrebbe reso questa proposta fallita in partenza: era il 2009, e la crisi finanziaria globale era in pieno svolgimento. «Ma la logica distruttiva dell’austerità – passando dai banchieri alle persone sotto forma di licenziamenti nel settore pubblico, di chiusura delle scuole e via dicendo – non era ancora stata normalizzata». Invece di rendere meno plausibili le idee della Navarro Llanos, la crisi ha avuto l’effetto opposto: «Tutti avevamo appena visto che migliaia di miliardi di dollari venivano usati in quella specie di “Piano Marshall” concepito per soccorrere il settore finanziario, quando le nostre élites decisero di “dichiarare la crisi”. Se fosse stato permesso alle banche di fallire – ci fu detto – sarebbe crollato anche il resto dell’economia». Era una questione di sopravvivenza collettiva, sicché il denaro doveva essere trovato a tutti i costi. E solo pochi anni prima, aggiunge la Klein, la stessa operazione di mobilitazione finanziaria era stata realizzata di corsa, dopo l’11 Settembre, per «costruire uno “Stato di polizia”» in risposta alla minaccia terroristica.Banche e attentati valgono bene un super-sacrificio, mentre il clima no: «Il cambiamento climatico non ha mai ricevuto un trattamento da “tempo di crisi” da parte dei nostri leader, nonostante che il rischio di distruggere la vita delle persone sia di gran lunga maggiore del crollo di una qualche banca o di un paio di grattacieli», scrive Naomi Klein. «Il taglio delle emissioni di gas serra, che gli scienziati ci dicono sia assolutamente necessario per ridurre in modo considerevole il rischio di una catastrofe, è trattato più che altro come un gentile suggerimento, un qualcosa che può essere rimandato praticamente a tempo indeterminato». Errore fatale. Sappiamo benissimo che «quello che viene dichiarato in “stato di crisi” è una mera espressione del potere, e non una priorità che deriva dalla gravità del problema». E noi? «Non dobbiamo essere solo spettatori di tutto questo: i politici non sono gli unici ad avere il potere di dichiarare una crisi. Anche i movimenti di massa, costituiti da persone normali, possono dichiararne una».Troviamo miliardi per qualsiasi cosa – banche, antiterrorismo – tranne che per il futuro della Terra. «Ho negato il cambiamento climatico più a lungo di quanto mi piaccia ammettere», dichiara Naomi Klein, citando la relazione 2014 dell’Associazione Americana per l’Avanzamento della Scienza, la più importante al mondo. Il problema? Molti di noi non sospettano che, oltre un certo limite, il cambiamento climatico – gas serra e innalzamento del mare – potrebbe precipitare a velocità esponenziale: «Spingere le temperature globali oltre determinate soglie potrebbe innescare dei cambiamenti bruschi, imprevedibili e potenzialmente irreversibili, dagli effetti massicci, dirompenti e su larga scala». A quel punto, anche senza ulteriori incrementi di CO2, alcuni processi potenzialmente inarrestabili si sarebbero già messi in moto: «Possiamo pensare a questo effetto come a quello dell’improvvisa rottura dei freni o dello sterzo di un’auto, quando non possiamo più controllare né il problema né le sue conseguenze».
-
Renzi trucca le carte, meno rigore solo per Confindustria
Renzi archivia Monti e Letta, proni all’euro-rigore, ma lo fa “da destra”: all’autismo suicida dell’euro oppone l’antica ricetta del neoliberismo, senza il coraggio di rompere con la prigione della moneta unica. E intanto trucca le carte, per tentare di imbrogliare Angela Merkel. «E’ noto come Mussolini usasse spostare di continuo i pochi e inefficienti carri armati di cui disponeva per far credere a tutti, e a Hitler in particolare, di avere un esercito ben più potente della misera realtà che la guerra dimostrerà ben presto». Passano gli anni, ma certi vizi restano: «Al posto dei carri armati ci sono ora i miliardi di una manovra economica che ha la stessa credibilità dell’esercito mussoliniano», sostiene Leonardo Mazzei. «Allora Hitler non si fece certo impressionare dal suo alleato italiano, tanto ambizioso quanto subordinato nei fatti». La Merkel? Vedremo. «Ma il “cambiare verso” all’Europa è ormai soltanto un ricordo a cui nessuno più crede». Il prestigiatore Renzi ha da tempo superato il “maestro” Berlusconi, con una finanziaria che doveva essere di 20 miliardi, poi 30, anzi 36.Numeri inventati, replica Mazzei: basta sfogliare le tabelle ufficiali del governo, che parlano di 16,1 miliardi in entrata e 13,2 in uscita. Semplici trucchi contabili, sostiene Mazzei su “Sollevazione”, che consentono a Renzi di arrivare «alla fantasiosa cifra di 36 miliardi, sparati a tutto volume per far credere che la sua sia una manovra largamente espansiva, quando invece non c’è una sola voce di incremento degli investimenti pubblici, quando le misure per il rilancio dei consumi sono più che misere, mentre le riduzioni fiscali sono rivolte soprattutto a lorsignori». Ma la finanziaria di Renzi non è fatta solo di annunci e trovate propagandistiche: ha anche una precisa matrice ideologica, è una finanziaria liberista e confindustriale. «Uno dei dogmi del neoliberismo è quello che si fonda sull’equazione: meno spese + meno tasse = crescita. Naturalmente, per i neoliberisti le spese da tagliare sono innanzitutto quelle sociali, mentre le tasse da decurtare sono principalmente quelle dei ricchi. Tradotto in termini “filosofici”, l’idea è che non debbano esserci (Monti docet) “pasti gratis” per nessuno. Viceversa, la tassazione dovrà essere ridotta soprattutto alle aziende e alle fasce più ricche, quelle che possono investire e consumare maggiormente».Renzi esegue: la parte del leone nel capitolo entrate è rappresentato dai tagli alla spesa pubblica, mentre la più importante novità in materia fiscale è costituita dal taglio dell’Irap, una misura di cui beneficeranno soprattutto le aziende più grandi, quelle con molti dipendenti, come ammette esultante il “Sole 24 Ore”. E chi beneficerà della fiscalizzazione degli oneri sociali? «Sempre i soliti noti, dato che le grandi aziende hanno quasi tutte una quota di lavoratori a tempo determinato, una parte dei quali passano via via, per le stesse esigenze aziendali, a tempo indeterminato». Quel passaggio ora frutterà un guadagno di circa 25.000 euro a lavoratore. Un giusto incentivo alla stabilizzazione del rapporto di lavoro? «Peccato che esso avvenga in parallelo all’introduzione del Jobs Act, che di fatto precarizza anche i contratti in teoria più stabili». E in ogni caso i quasi 2 miliardi previsti ricadranno sulla fiscalità generale, dunque sulle tasche dei soliti cittadini, mentre il minor gettito dell’Irap costringerà le Regioni a nuove tasse o a dolorosi tagli alla sanità, cioè «ospedali chiusi, meno infermiere, esami diagnostici rimandati a quando non servono più, ticket più cari».Lo ha ammesso lo stesso Padoan: le Regioni «potranno aumentare le tasse», agendo sull’addizionale Irpef, e i Comuni faranno la stessa cosa rincarando Imu e Tasi. «Qui siamo semplicemente di fronte a uno scaricabarile dal governo centrale a danno delle autonomie locali». Quanto alle “rendite finanziarie”, sale dall’11,5 al 20% la tassazione sulle pensioni integrative: vero, sono servite soprattutto come alibi per demolire quelle pubbliche, ma ad esserne colpiti saranno quei lavoratori rassegnati a pagarsi anche una pensione privata come «unica alternativa a una vecchiaia da fame». Infine c’è il Tfr, l’ultima trovata propagandistica di Renzi: «Qui la truffa fiscale è completa e garantita a 360 gradi», perché l’offerta di disponibilità mensile della quota Tfr in busta paga serve solo a «nascondere il persistente calo del salario reale, al quale il governo (vedi il Jobs act) lavora alacremente». In cosa consiste la truffa? «Semplice, dal 2015 i lavoratori avranno tre possibilità: mantenere il Tfr così com’è, farselo versare in busta paga, versarlo in un fondo pensione integrativo». Nel primo caso avranno una tassazione della rivalutazione annuale aumentata dall’11 al 17%, nel secondo non solo rinunceranno alla rivalutazione ma si ritroveranno con aliquote fiscali (quelle Irpef ordinarie) assai più alte del trattamento previsto per il Tfr, e nel terzo si vedranno applicare una tassazione quasi raddoppiata rispetto all’attuale.Quindi, la riduzione della pressione fiscale per le fasce popolari è sostanzialmente una bufala, solo parzialmente compensata dai famosi “80 euro”, limitata peraltro solo ai lavoratori dipendenti, esclusi pensionati e lavoro autonomo. Ed ecco spiegata l’insolita gioia di Confindustria per la manovra renziana. Ma si tratta, ancora e sempre, di una manovra recessiva, sottolinea Mazzei. Il presupposto è fragile: i “regalini” ai soliti noti dovrebbero spingerli a investire, producendo crescita e occupazione. Facile immaginare che – a fronte del protrarsi della crisi – la pressione fiscale aumenterà ancora, «magari dispersa nelle mille forme delle tassazioni comunali e regionali». Ma se anche i 15 miliardi di tagli previsti corrispondessero a tagli equivalenti delle tasse, «avremmo un effetto negativo sul Pil di quasi un punto percentuale». Secondo il Fmi, infatti, «per ogni miliardo di taglio alle spese si ha una contrazione del Pil di 1,3 miliardi», mentre «la parallela riduzione fiscale di un miliardo dà invece solo una crescita di 0,3 miliardi».Ne consegue, all’ingrosso, che «per ogni miliardo di tagli si abbia una riduzione equivalente (sempre di 1 miliardo) del Pil», dunque «anche nel 2015 avremo un Pil col segno meno». E il governo «lo sa benissimo». Matematico: «Se la spesa pubblica cala, se quella delle famiglie non potrà certo riprendersi, se gli investimenti pubblici e privati rimangono in calo, pensiamo forse che la luce potrà accendersi solo grazie alle esportazioni?». Nell’idea mercantilista – il modello tedesco – le cose potrebbero in teoria funzionare, ma in pratica non è così: perché i venti di crisi spirano anche fuori dall’Europa, e perché l’euro ha imposto all’Italia un deficit di competitività verso il suo principale competitor, la Germania. «Detto in altre parole, nell’euro non c’è posto per due Germanie. C’è posto, semmai, soltanto per alcune appendici purché subordinate all’economia tedesca». Ma allora, in cosa spera l’ipercinetico Renzi?A differenza di Monti e Letta, il nuovo premier «non appare affatto succube della Merkel», interpretando un liberismo non “targato” Berlino. «E’ normale dunque che Renzi non venga percepito come un servo dell’eurocrazia di Bruxelles». Con l’euro e l’Ue, però, si può “rompere” in vari modi, da destra o da sinistra: nell’interesse delle classi popolari o in quello dei pescecani della finanza, in nome dell’uguaglianza e dei diritti sociali o in quello delle virtù del mercato. E’ dunque neoliberista la critica che Renzi oppone all’eurocrazia austeritaria. La sua manovra? «Non è espansiva come si vorrebbe far credere, ma di certo non è neppure quella che avrebbe voluto la Commissione Europea», perché contiene comunque più deficit e «un netto smarcamento rispetto al tradizionale rigorismo europeo in materia di conti pubblici», in linea con la Francia.«La verità è che lo scontro è iniziato», dice Mazzei, e gli interessi tra i principali paesi europei «sono troppo confliggenti per trovare una vera composizione». Al tempo stesso, «manca ai protagonisti la caratura necessaria per affrontare a viso aperto l’indispensabile processo di uscita dalla moneta unica». Sul versante italiano, questa palese contraddizione ha prodotto una finanziaria che non è né carne né pesce: «E’ così che si spiega il parto di un mostriciattolo ancora recessivo, ma non sufficiente a placare il rigorismo del triangolo della morte Berlino-Francoforte-Bruxelles». Il problema per la triade Merkel-Draghi-Juncker è che «le finanziarie italiana e francese mettono in discussione alla radice (e non solo per il 2015) il Fiscal Compact, vero architrave di quella convergenza dei debiti senza la quale non potrà esservi nessuna unione fiscale e di bilancio, decretando in questo modo la manifesta insostenibilità dell’euro».E su questo – aggiunge Mazzei – non solo i tedeschi, ma la suddetta triade al completo, non possono proprio mollare. Tanto più in considerazione della posta in gioco, «uno scontro non esclude momenti di tregua e di pace armata». Ma una eventuale provvisoria “quadratura del cerchio” «sarà solo il preludio ad uno scontro ben più aspro, quello che porterà alla definitiva resa dei conti». Problema: chi giocherà quello scontro? «Sarà solo interno al blocco dominante, o vedrà finalmente il protagonismo delle classi popolari e quello di una soggettività politica in grado di guardare più avanti, ad una prospettiva di sganciamento dal capitalismo-casinò? Questa è la posta in gioco».Renzi archivia Monti e Letta, proni all’euro-rigore, ma lo fa “da destra”: all’autismo suicida dell’euro oppone l’antica ricetta del neoliberismo, senza il coraggio di rompere con la prigione della moneta unica. E intanto trucca le carte, per tentare di imbrogliare Angela Merkel. «E’ noto come Mussolini usasse spostare di continuo i pochi e inefficienti carri armati di cui disponeva per far credere a tutti, e a Hitler in particolare, di avere un esercito ben più potente della misera realtà che la guerra dimostrerà ben presto». Passano gli anni, ma certi vizi restano: «Al posto dei carri armati ci sono ora i miliardi di una manovra economica che ha la stessa credibilità dell’esercito mussoliniano», sostiene Leonardo Mazzei. «Allora Hitler non si fece certo impressionare dal suo alleato italiano, tanto ambizioso quanto subordinato nei fatti». La Merkel? Vedremo. «Ma il “cambiare verso” all’Europa è ormai soltanto un ricordo a cui nessuno più crede». Il prestigiatore Renzi ha da tempo superato il “maestro” Berlusconi, con una finanziaria che doveva essere di 20 miliardi, poi 30, anzi 36.
-
Ebola, i Marines si installano tra petrolio, oro e diamanti
Si scrive Ebola, ma si legge Business. Metalli preziosi, materie prime, terre rare. Grazie allo stato d’emergenza proclamato per la temutissima epidemia – in realtà assai meno letale delle altre patologie di massa che straziano l’Africa – gli Stati Uniti installano in Liberia, al crocevia delle maggiori ricchezze del continente nero, la nuova task force di Africom, il comando speciale delle forze armate statunitensi creato per contendere alla Cina il controllo sulle grandi risorse africane. Nulla di ciò, ovviamente, traspare dalla retorica di Obama, secondo cui i 3.000 soldati agli ordini del generale Darryl Williams, collegati con un centro logistico in Senegal e pronti a vigilare con funzioni di «comando e controllo» sugli ospedali da campo, dimostrano che solo l’America ha «la capacità e volontà di mobilitare il mondo contro i terroristi dell’Isis», di «chiamare a raccolta il mondo contro l’aggressione russa», oltre che di «contenere e debellare l’epidemia di Ebola», definita «senza precedenti», visto che «si sta diffondendo in maniera esponenziale in Africa occidentale».Anche se la possibilità che l’ebola si propaghi negli Stati Uniti è estremamente bassa, scrive Manlio Dinucci sul “Manifesto”, in un articolo ripreso da “Contropiano”, in Africa occidentale l’epidemia avrebbe già provocato la morte di «oltre 2.400 uomini, donne e bambini». Evento certamente tragico ma comunque limitato, osserva Dinucci, se lo si rapporta al fatto che l’Africa occidentale ha circa 350 milioni di abitanti e l’intera regione subsahariana quasi 950 milioni. «Ogni anno muore per l’Aids nella regione oltre un milione di adulti e bambini», senza contare che «la malaria provoca ogni anno oltre 600.000 morti, per la maggior parte tra i bambini africani», e inoltre «nell’Africa subsahariana e nell’Asia meridionale la diarrea uccide ogni anno circa 600.000 bambini, oltre 1.600 al giorno, di età inferiore ai 5 anni». Sono “malattie della povertà”, dovute alla sottoalimentazione e alla malnutrizione, alla mancanza di acqua potabile, alle cattive condizioni igienico-sanitarie in cui vive la popolazione povera, che (secondo i dati della stessa Banca Mondiale) costituisce il 70% di quella totale, di cui il 49% si trova in condizioni di povertà estrema.«La campagna di Obama contro l’Ebola appare quindi strumentale», scrive Dinucci. «L’Africa occidentale, dove il Pentagono installa un proprio quartier generale con la motivazione ufficiale della lotta all’Ebola, è ricchissima di materie prime: petrolio in Nigeria e Benin, diamanti in Sierra Leone e Costa d’Avorio, fosfati in Senegal e Togo, caucciù, oro e diamanti in Liberia, oro e diamanti in Guinea e Ghana, bauxite in Guinea». Inoltre, «le terre più fertili sono riservate alle monocolture di cacao, ananas, arachidi e cotone, destinate all’esportazione», mentre «la Costa d’Avorio è il maggiore produttore mondiale di cacao». Beninteso: «Dallo sfruttamento di queste grandi risorse poco o nulla arriva alla popolazione, dato che i proventi vengono spartiti tra multinazionali ed élite locali, che si arricchiscono anche con l’esportazione di legname pregiato con gravi conseguenze ambientali dovute alla deforestazione».Gli interessi delle multinazionali statunitensi ed europee, continua Dinucci, sono però messi in pericolo dalle ribellioni popolari come quella nel delta del Niger, provocata dalle conseguenze ambientali e sociali dello sfruttamento petrolifero. Soprattutto, sul business euro-atlantico incombe la crescente concorrenza della Cina, «i cui investimenti sono per i paesi africani molto più utili e vantaggiosi». Così, proprio «per mantenere la propria influenza nel continente», gli Usa hanno costituito nel 2007 l’Africom: «Dietro il paravento delle operazioni umanitarie», l’African Command «recluta e forma nei paesi africani ufficiali e forze speciali locali, attraverso centinaia di attività militari». Importante base per queste operazioni è Sigonella, «dove è stata dispiegata una task force del corpo dei Marines». Dotata di convertiplani “Osprey”, la forza speciale «invia a rotazione squadre in Africa, in particolare in quella occidentale». Proprio dove inizia ora la campagna di Obama “contro l’Ebola”.Si scrive Ebola, ma si legge Business. Metalli preziosi, materie prime, terre rare. Grazie allo stato d’emergenza proclamato per la temutissima epidemia – in realtà assai meno letale delle altre patologie di massa che straziano l’Africa – gli Stati Uniti installano in Liberia, al crocevia delle maggiori ricchezze del continente nero, la nuova task force di Africom, il comando speciale delle forze armate statunitensi creato per contendere alla Cina il controllo sulle grandi risorse africane. Nulla di ciò, ovviamente, traspare dalla retorica di Obama, secondo cui i 3.000 soldati agli ordini del generale Darryl Williams, collegati con un centro logistico in Senegal e pronti a vigilare con funzioni di «comando e controllo» sugli ospedali da campo, dimostrano che solo l’America ha «la capacità e volontà di mobilitare il mondo contro i terroristi dell’Isis», di «chiamare a raccolta il mondo contro l’aggressione russa», oltre che di «contenere e debellare l’epidemia di Ebola», definita «senza precedenti», visto che «si sta diffondendo in maniera esponenziale in Africa occidentale».
-
Oggi teorie cospirative, domani verità: lo dice la storia
Forse, la prima vera operazione “false flag” dell’epoca moderna fu “l’incidente di Gleiwitz”, provocato dai nazisti nel 1939 vicino alla frontiera orientale: indossate le uniformi dell’esercito polacco, unità delle SS attaccarono una stazione radio tedesca per poi dare la colpa alla Polonia. Durante il blitz, le SS trasmisero un breve messaggio di propaganda in polacco. Poi uccisero dei prigionieri di un campo di concentramento vestiti con uniformi polacche e li lasciarono sulla scena, per far apparire l’incidente come un atto di aggressione progettato da Varsavia. Il giorno successivo, quando la Germania invase il paese confinante dando inizio alla Seconda Guerra Mondiale, Hitler citò l’episodio come uno dei pretesti. Nove giorni prima dell’incidente, Hitler aveva detto ai suoi generali: «Provvederò a un casus belli per la propaganda. La sua credibilità non ha importanza. Al vincitore non verrà chiesto se ha detto la verità». Anche se il termine “teoria del complotto” è diventato un dispregiativo usato contro chiunque metta in discussione la versione ufficiale degli eventi, innumerevoli esempi in tutta la storia delle cospirazioni hanno confermato i peggiori sospetti.«L’idea che i governi e le agenzie di intelligence svolgano atti di terrorismo sotto falsa bandiera è stata a lungo derisa dai media del sistema come una teoria della cospirazione, nonostante ci sia una pletora di casi storicamente documentati». Paul Joseph Watson e Alex Jones ne citano almeno dieci, famosi o famosissimi. Come l’Operarazione Ajax, che nel 1953 rovesciò il governo di Mohammed Mossadeq in Iran. La Cia ha ammesso il proprio ruolo nel golpe solo dopo mezzo secolo, nel 2013. Bilancio dell’attività terroristica: almeno 300 civili uccisi. Altra clamorosa “false flag”, lo scontro navale dell’estate del 1964 nel Golfo del Tonchino, che fornì il pretesto per la guerra del Vietnam. Peccato che nessuno sparò mai un solo colpo di cannone contro la flotta statunitense. Eppure, il 4 agosto 1964, il presidente Lyndon Johnson andò in televisione e disse al paese che il Vietnam del Nord aveva attaccato delle navi americane: «I ripetuti atti di violenza contro le forze armate degli Stati Uniti devono ricevere una risposta», dichiarò.Il Congresso approvò subito la Risoluzione del Golfo del Tonchino, che fornì a Johnson l’autorità per condurre operazioni militari contro il Vietnam del Nord. Nel 1969, oltre 500.000 soldati stavano già combattendo nel sud-est asiatico. «Johnson e il suo segretario alla difesa, Robert McNamara, avevano ingannato il Congresso e il popolo americano», scrivono Watson e Jones in un post su “Infowars”, tradotto da “Come Don Chisciotte”. «In realtà, il Vietnam del Nord non aveva attaccato la Uss Maddox, come il Pentagono aveva sostenuto, e la “prova inequivocabile” di un “non provocato” secondo attacco contro la nave da guerra degli Stati Uniti era uno stratagemma». Interamente all’insegna della “false flag” fu l’Operazione Gladio, cioè «il terrore sponsorizzato dallo Stato e imputato alla sinistra». In piena guerra fredda, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Cia e la britannica Mi6 collaborarono assieme alla Nato nell’Operazione Gladio per creare un esercito clandestino, o “stay behind”, al fine di combattere il comunismo nel caso di una invasione sovietica dell’Europa occidentale. Ben presto, però, la rete difensiva anti-Urss si trasformò in un esercito terrorista incaricato di intimidire l’opinione pubblica dell’Europa occidentale.«Gladio – precisano Watson e Jones – trascese rapidamente la sua missione originaria e divenne una rete terroristica segreta composta da milizie di destra, elementi della criminalità organizzata, agenti provocatori e unità militari segrete». Le forze armate “stay behind” erano attive in Francia, Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Norvegia, Germania, e Svizzera. La “strategia della tensione”, quella che straziò l’Italia per due decenni, «venne progettata per far figurare i gruppi politici di sinistra europei come terroristici e per spaventare la popolazione, inducendola così a votare per governi autoritari». Dalla bomba di piazza Fontana a quella dell’Italicus, dai misteri del sequestro Moro (eseguito dalle Brigate Rosse ma “assistito” da una rete invisibile di protezione, anche all’insaputa degli stessi brigatisti), fino alla strage della stazione di Bologna: un retroterra torbido, popolato da servizi segreti molto opachi, infiltrati da organismi come la P2 di Licio Gelli, potente loggia massonica “deviata”, in collaborazione con gruppi neofascisti (Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale), impiegati come manovalanza per le stragi. In ultima analisi, rilevano Watson e Jones, l’Operazione Gladio «ha causato la morte di centinaia di persone in tutta Europa». Secondo Vincenzo Vinciguerra, ex terrorista di Gladio all’ergastolo per l’assassinio di un poliziotto, la ragione di “stay behind” era semplice: l’organizzazione era stata progettata «per costringere la gente, i cittadini italiani, a pretendere dallo Stato maggiore sicurezza. Questa è la logica politica che sta dietro tutte le stragi e gli attentati che restano impuniti, perché lo Stato non può condannare se stesso o dichiararsi responsabile di quanto è accaduto».Alla guerra segreta contro il regime comunista di Fidel Castro a Cuba appartiene invece l’Operazione Northwood: nell’ambito dell’Operazione Mangusta della Cia, «lo stato maggiore Usa propose all’unanimità di realizzare azioni terroristiche sponsorizzate dallo Stato all’interno degli Stati Uniti». Il piano, aggiungono Watson e Jones, «prevedeva l’abbattimento di aerei americani dirottati, l’affondamento di navi americane e l’uccisione di cittadini americani, a colpi di arma da fuoco, per le strade di Washington». Lo scandaloso piano «includeva anche lo scenario di un disastro alla Nasa, che prevedeva la morte dell’astronauta John Glenn». Il presidente John Fitzgerald Kennedy, ancora vacillante dopo l’imbarazzante fallimento della Cia per l’invasione di Cuba alla Baia dei Porci, «respinse il piano nel marzo del 1962». E pochi mesi dopo, lo stesso Kennedy «negò all’autore del piano, il generale Lyman Lemnitzer, un secondo mandato come militare di rango più alto della nazione». Poco dopo, nel novembre del 1963, Kennedy fu assassinato a Dallas, in Texas.Si chiama invece “Fast and Furious” l’operazione in cui «il governo Obama ha fornito armi ai signori messicani della droga con l’apparente scopo di seguirne le tracce al fine di distruggere le gang». Secondo Watson e Jones, «era in realtà parte di un piano cospirativo per demonizzare il secondo emendamento», cioè il diritto del cittadino americano di portare armi. I documenti ottenuti da “Cbs News” nel dicembre 2011 dimostrano che gli agenti speciali dell’Atf avevano discusso su come avrebbero potuto collegare le armi coinvolte nelle violenze in Messico ai negozianti di armi degli Stati Uniti, al fine di far approvare normative più restrittive sul controllo delle armi. Una fonte della polizia ha detto a “Cbs News” che le email indicano che l’Atf ha “montato” il caso, come parte di una manovra politica: «È come se l’Atf avesse creato o incrementato il problema, in modo da poter essere proprio lei a fornire la soluzione». Quanto alla droga, i narcos non sono solo messicani o colombiani: la stessa Cia «è stata implicata in operazioni di traffico di droga in tutto il mondo, anche a livello nazionale, in particolare durante l’affare Iran-Contras».«Con la benedizione della Cia», i miliziani che dall’Honduras contrastavano i guerriglieri di dinistra del Salvador e del Nicaragua «contrabbandarono negli Stati Uniti cocaina che venne poi distribuita come droga di prima qualità a Los Angeles, e i cui profitti furono poi versati ai Contras». Michael Ruppert, allora agente della polizia di Los Angeles, ha anche testimoniato di aveva assistito al traffico di droga della Cia. «I boss della droga messicani, come Jesus Vicente Zambada Niebla, hanno perfino dichiarato pubblicamente di esser stati ingaggiati dal governo Usa per operazioni di traffico di droga». Per Watson e Jones, «c’è un voluminoso corpo di prove che conferma che la Cia e i giganti bancari degli Stati Uniti sono i maggiori players in un commercio mondiale di droga del valore di centinaia di miliardi di dollari l’anno», come confermano anche le informazioni pubblicate da svariati osservatori, tra cui Gary Webb, su autorevoli blog d’inchiesta come “Prison Planet”. Banchieri e droga? Sì, e anche sigarette: secondo la Bbc, le aziende americane del tabacco sono state “prese con le mani nel sacco” nell’ingegnerizzare deliberatamente le “bionde”, additivandole con prodotti chimici che ne incrementano artificialmente la dipendenza. Per Clive Bates, direttore di “Ash” (Action on Smoking and Health), la scoperta ha messo alla luce «uno scandalo in cui le aziende del tabacco deliberatamente utilizzano additivi per rendere i loro dannosi prodotti ancora peggiori».Poi c’è lo sterminato capitolo dello spionaggio, fino alla sorveglianza di massa dell’National Security Agency. «Negli anni ‘90, quando gli attivisti anti-sorveglianza e i personaggi dei media stavano mettendo in guardia sulla vasta operazione di spionaggio della Nsa, vennero trattati come teorici paranoici della cospirazione», riordano Watson e Jones. «Ben più di un decennio prima delle rivelazioni di Snowden», l’agenzia di intelligence «era impegnata a intercettare e registrare tutte le comunicazioni elettroniche di tutto il mondo nel quadro del programma “Echelon”». Sorveglianza globale: “Echelon” era in grado di intercettare «ogni chiamata internazionale via telefono, fa, e-mail o trasmissione radio del pianeta». Nel 1999, il governo australiano ha ammesso di farvi parte, assieme a Stati Uniti e Gran Bretagna. In cabina di regia, già allora, c’era la Nsa. Un dossier del Parlamento Europeo risalente al 2001 afferma: «In Europa, tutte le comunicazioni e-mail, telefono e fax sono regolarmente intercettate», dall’agenzia smascherata da Snowden.Vastissimo, infine, il capitolo delle morti in apparenza accidentali. Non è solo cinema: nell’arsenale degli 007, anche il “dardo invisibile” che provoca l’infarto cardiaco. Ne parlò il Senato degli Usa già nel 1975, durante una testimonianza sulle attività illegali della Cia: «Fu rivelato che l’agenzia aveva sviluppato un’arma a dardi che causa un attacco di cuore». Nella prima udienza televisiva, svolta nella sala Caucus del Senato, intervenne Frank Church, senatore dell’Idaho e presidente della commissione d’inchiesta sul caso Watergate. «Church mostrò una pistola a dardi velenosi della Cia, rivelando così che la commissione era venuta a conoscenza del fatto che l’agenzia aveva violato un ordine presidenziale diretto, conservando uno stock di tossine di molluschi che sarebbe stato sufficiente a uccidere migliaia di persone», come conferma ancora oggi una pagina web del sito ufficiale del Senato statunitense. Il veleno penetra nel sangue e provoca l’arresto cardiaco. Al massimo, la vittima percepisce il fastidio di una puntura di zanzara. Veleno micidiale e invisibile: tutto ciò che resta è un puntino rosso sulla pelle. «Una volta che il danno è fatto, il veleno denatura rapidamente, in modo che nell’autopsia è molto improbabile rilevare che l’infarto è stato provocato da qualcosa di diverso da cause naturali».Forse, la prima vera operazione “false flag” dell’epoca moderna fu “l’incidente di Gleiwitz”, provocato dai nazisti nel 1939 vicino alla frontiera orientale: indossate le uniformi dell’esercito polacco, unità delle SS attaccarono una stazione radio tedesca per poi dare la colpa alla Polonia. Durante il blitz, le SS trasmisero un breve messaggio di propaganda in polacco. Poi uccisero dei prigionieri di un campo di concentramento vestiti con uniformi polacche e li lasciarono sulla scena, per far apparire l’incidente come un atto di aggressione progettato da Varsavia. Il giorno successivo, quando la Germania invase il paese confinante dando inizio alla Seconda Guerra Mondiale, Hitler citò l’episodio come uno dei pretesti. Nove giorni prima dell’incidente, Hitler aveva detto ai suoi generali: «Provvederò a un casus belli per la propaganda. La sua credibilità non ha importanza. Al vincitore non verrà chiesto se ha detto la verità». Anche se il termine “teoria del complotto” è diventato un dispregiativo usato contro chiunque metta in discussione la versione ufficiale degli eventi, innumerevoli esempi in tutta la storia delle cospirazioni hanno confermato i peggiori sospetti.
-
Cremaschi: divorzi dal Pd, o per la Cgil è finita
In una intervista a “Il Manifesto”, Sergio Cofferati sottolinea la differenza tra la mobilitazione da lui guidata, con successo, nel 2002 contro il tentativo di Berlusconi di colpire l’articolo 18 e quella promossa oggi dalla Cgil. Allora si univano opposizione sociale e opposizione politica. Oggi, dice Cofferati, bisogna mobilitare il popolo del centrosinistra contro chi lo rappresenta al governo. È vero, ma così non si sottolinea solo una difficoltà ma una contraddizione. Il collateralismo tra Cgil e Pd è un dato di fatto, e che esso sia avvenuto soprattutto tra il gruppo dirigente sindacale e l’attuale minoranza di quel partito non cambia la sostanza. Anzi la aggrava, perché dà spazio al qualunquismo di potere di Renzi e della sua banda. Quando l’attuale minoranza del Pd era maggioranza e sosteneva il governo Monti, la Cgil ha lasciato passare la più feroce controriforma delle pensioni d’Europa e la prima gravissima modifica dell’articolo 18. È stato infatti il governo dei tecnici, con il consenso di Cgil, Cisl e Uil, ad aprire la via alla sostituzione della “reintegra” con il risarcimento monetario nel caso di licenziamento ingiustificato.E già abbiamo centinaia di licenziamenti che il giudice ha riconosciuto come ingiusti, che nel passato avrebbero avuto come conseguenza il ritorno del lavoratore colpito nel suo posto di lavoro, e che invece oggi si concludono con un po’ di soldi che non compensano certo un futuro di disoccupazione. È chiaro che Renzi vuole andare oltre, abolendo sostanzialmente la “reintegra” e soprattutto, come ha più volte dichiarato, togliendo ogni ruolo ai giudici – che per lui, come per ogni reazionario, non debbono più ingerirsi nel rapporto tra impresa lavoratore: lì ci deve essere solo il mercato, non il diritto. Susanna Camusso ha colto la gravità dei propositi del segretario del Pd capo di governo, ma cerca di chiudere un portone che ha lasciato spalancare. Se la Cgil avesse lottato sul serio contro Monti e la riforma Fornero delle pensioni, e allora c’ erano tra i lavoratori consenso e forza sufficienti, oggi non subirebbe impaurita gli sberleffi di Renzi, e soprattutto sarebbero i lavoratori a reagire.L’abilità manipolatrice permette invece al presidente del Consiglio di esercitare una operazione in totale malafede, ma non per questo poco efficace. Il capo del governo mette assieme il dilagante scontento in tutto il mondo del lavoro verso la passività di Cgil, Cisl e Uil, che per me è sacrosanto, con la vandea reazionaria di chi sostiene che il sindacato ha rovinato l’Italia. Lo può fare perché la Cgil, soprattutto in questi anni di crisi, si è ritirata dal conflitto per paura di perderlo. Così Renzi accusa di essere fermi agli anni ‘70 gruppi dirigenti sindacali che per primi hanno messo in discussione le pratiche e la cultura di quel decennio e che per primi in ogni riunione premettono: non siamo più negli anni ‘70! Sergio Cofferati probabilmente ricorderà che in un congresso della Cgil di quasi venti anni fa con Claudio Sabattini fu posta la necessità della totale indipendenza della Cgil dal quadro politico. Quella scelta non fu fatta e ora il collateralismo da condizione di sopravvivenza diventa un danno.Renzi può vantarsi: noi con la Cgil non c’entriamo niente, anzi, ma Susanna Camusso non può rompere con il Pd. Se lo facesse, per i promotori del Jobs Act sarebbe un colpo ben più duro che quello di uno sciopero generale. Ma ripeto, con l’attuale intreccio tra sistema politico e sistema sindacale, che percorre tutto il paese, Camusso non potrebbe dire basta con il Pd neppure se lo volesse. Ma la questione non è solo di rapporti politici. Ancora una volta la Cgil deve verificare che il patto tra i produttori, cioè quell’accordo tra i rappresentanti delle forze produttive con il quale condizionare la politica che il gruppo dirigente sindacale persegue da anni, quell’accordo non esiste. Dalla Confindustria alle banche alle cooperative, tutto il sistema delle imprese ha mollato la Cgil e si è schierato con Renzi. Cisl e Uil, naturalmente, han fatto lo stesso. Eppure solo il 10 gennaio di quest’anno si era firmato un testo sulla rappresentanza, per me liberticida, che veniva presentato come il nuovo avvio della stagione delle regole.Anche sul merito dei provvedimenti del governo, la Cgil non riesce ad avere una posizione senza contraddizioni. Come si fa ad accreditare la positività del contratto a tutele crescenti, quando è chiaro che con esso passa il principio che si è a termine in ogni istante del rapporto lavorativo, perché in ogni momento si può essere licenziati ingiustamente e mandati casa? Anche la Fiom qui ha preso una cantonata. Non credo che si possa davvero lottare contro la svolta reazionaria di Renzi, ispirata da Draghi e Marchionne, con il peso di tutte queste contraddizioni sulle spalle. Non credo che si possa ottenere un risultato restando in continuità con un modello sindacale che ha accumulato solo sconfitte. Renzi fa il gradasso e prende in giro la Cgil perché conta di aver sempre di fronte il solito sindacato rassegnato al meno peggio. O i sindacati, la Cgil, cambiano rapidamente e nella direzione esattamente opposta a quella seguita negli ultimi trenta anni, rompendo con il Pd e con il sistema di potere che sostiene il governo, oppure sarà un’altra terribile sconfitta. Che ricadrà tutta sulle condizioni di un mondo del lavoro che già sta precipitando verso i livelli più bassi d’Europa.(Giorgio Cremaschi, “Perché questa Cgil non ce la può fare con Renzi”, da “Micromega” del 1° ottobre 2014).In una intervista a “Il Manifesto”, Sergio Cofferati sottolinea la differenza tra la mobilitazione da lui guidata, con successo, nel 2002 contro il tentativo di Berlusconi di colpire l’articolo 18 e quella promossa oggi dalla Cgil. Allora si univano opposizione sociale e opposizione politica. Oggi, dice Cofferati, bisogna mobilitare il popolo del centrosinistra contro chi lo rappresenta al governo. È vero, ma così non si sottolinea solo una difficoltà ma una contraddizione. Il collateralismo tra Cgil e Pd è un dato di fatto, e che esso sia avvenuto soprattutto tra il gruppo dirigente sindacale e l’attuale minoranza di quel partito non cambia la sostanza. Anzi la aggrava, perché dà spazio al qualunquismo di potere di Renzi e della sua banda. Quando l’attuale minoranza del Pd era maggioranza e sosteneva il governo Monti, la Cgil ha lasciato passare la più feroce controriforma delle pensioni d’Europa e la prima gravissima modifica dell’articolo 18. È stato infatti il governo dei tecnici, con il consenso di Cgil, Cisl e Uil, ad aprire la via alla sostituzione della “reintegra” con il risarcimento monetario nel caso di licenziamento ingiustificato.
-
Strage inventata? Certo, per preparare quella vera
Il set di un film dell’orrore, per colpire l’opinione pubblica e legittimare la deposizione del tiranno. Accadde in Romania nel fatidico 1989, quando a Timisoara furono rastrellati negli obitori i corpi di persone appena decedute. Vennero martoriati e feriti per simulare le torture, in realtà mai subite. Il tutto, a beneficio delle telecamere. Per Rosanna Spadini, quel precedente dimostra un passaggio d’epoca: «La società dello spettacolo diventa schiava di se stessa», e lo spettacolo «viene trasformato in strumento di disperazione e di morte». Si rompe un patto millenario con gli spettatori, fondato sulla promozione culturale della società. Resta solo la scenografia teatrale, ed è «un teatro che rinnega se stesso, un teatro che uccide», ora anche sul palcoscenico della navigazione web, che proietta l’individuo «in un altrove extraterritoriale, slegato dallo spazio fisico del suo corpo e dal tempo della sua coscienza». Notizie sensazionali, immagini devastanti. Ma c’è il trucco: è tutto falso. La Spadini la chiama «arte dalla meraviglia multimediale dei visual network». Da allora, la messinscena servirà a dare legittimità mediatica a tutte le guerre contemporanee.
-
Contro il gas russo, l’Europa dei cretini autolesionisti
Ora che il governo di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra ha chiuso l’affare scozzese, tra sospetti brogli denunciati anche dalla “Bbc” e l’illusione dei gonnellini di Edimburgo di poter cambiare la loro sorte per via referendaria, Londra può di nuovo dedicarsi a quello che le riesce meglio: fare il cane da guardia Usa in Europa contro gli interessi degli stessi cittadini europei. Come mai un paese che non ha adottato la moneta unica, che non ha aderito a molti trattati comunitari, che misura la propria esistenza in pollici, acri ed once, che guida tenendo la sinistra, che non ha, insomma, nulla in comune col resto dei continentali, abbia così tanta voce in capitolo in Ue è uno di quei misteri del Vecchio Continente che resteranno sempre irrisolvibili, almeno finché non si apriranno gli occhi sui compiti storici di questa comunità tenuta insieme contro la volontà dei popoli e nata per volere di burocrazie politiche corrotte e cricche finanziarie speculatrici asservite al dominio d’oltreatlantico.Gli inglesi, i quali hanno difficoltà a badare a se stessi, per quanto la crisi li abbia colpiti meno di altre potenze europee, grazie al controllo esercitato dallo Stato sulla sterlina e sui capisaldi economici del sistema che sono stati contaminati meno dalle stupide imposizioni di Bruxelles, temono che Kiev possa restare all’addiaccio e si prodigano affinché ciò non avvenga. In realtà, si preoccupano per il saccheggio del gas da parte degli ucraini che sono stati convinti ad abbracciare l’“acquis communautaire” nonostante le uniche leggi riconosciute da quelle parti siano quelle del taglione e del taglieggiamento. Convincere questi gangster dell’est a comportarsi civilmente non sarà una cosa facile, ma averli allontanati dalla presa del potente vicino, per gli inglesi, evidentemente, vale il rischio che si sta correndo. Ora però bisogna ostacolare Mosca in tutti i modi possibili, impedendo che questa si rafforzi ancora sui mercati energetici e che eserciti ulteriormente la sua pressione sulle capitali europee dipendenti dalle sue forniture.La corsa ai giacimenti artici, dove i russi si sono lanciati con grande impeto, potrebbe essere il prossimo terreno di scontro. Il circolo polare artico pare custodisca il 22% delle risorse energetiche mondiali recuperabili. Mosca non nasconde le sue rivendicazioni sulla zona e reclama i suoi diritti di ricerca e di sfruttamento, che però vengono contestati strumentalmente da alcuni Stati nordici. Il recente embargo di tecnologia occidentale imposto da Washington al Cremlino, al quale l’Ue si è passivamente accodata, serve proprio ad evitare che Putin & co. proseguano spediti su questa rotta. Nessuno dei paesi dell’alleanza atlantica dovrà agevolare i russi nello sfruttamento di tale settore, per rallentare la loro corsa esplorativa nell’area. In secondo luogo, europei e americani puntano a indebolire Gazprom sabotando i suoi progetti in Europa come il gasdotto South Stream, che aggirando l’Ucraina favorisce percorsi più stabili di pompaggio dell’oro blu verso i clienti europei.In ossequio a questi pregiudizi autolesionistici, qualche giorno fa l’Europarlamento ha approvato una risoluzione non legislativa (che non sarà vincolante ma è di certo molto ipocrita) per sollecitare i paesi dell’Ue ad annullare gli accordi nel settore energetico previsti con la Russia, tra cui quelli per il gasdotto in questione. Nello stesso documento, gli eurodeputati hanno definito le sanzioni russe all’Ue ingiustificate. Questa manica d’idioti pretenderebbe che Mosca se ne restasse ferma mentre si cerca di isolare la sua economia. I sudditi d’Inghilterra sono quelli più accaniti contro il Cremlino e stanno pure spingendo affinché il monopolio della controllata di Stato russa venga contrastato attraverso le azioni dell’autorità antitrust europea, la quale dovrebbe multare per molti miliardi di euro la Gazprom per il suo modus operandi anticoncorrenziale. Si tratta unicamente di scuse per non rispettare i contratti ed indebolire l’influenza dell’azienda sul nostro mercato.Londra però non specifica con cosa e con chi sostituire i rifornimenti di Mosca, e i suoi scarni riferimenti al gas di scisto (da importare dagli Usa? Da trovare in casa? In quanto tempo e in che quantità?) non rassicurano affatto sul futuro energetico di un’Europa messa alle strette dalla crisi economica e dall’imbecillità dei suoi leader che parlano a vanvera ed agiscono a capocchia. E mentre loro studiano la via più breve per tagliarsi le palle da soli pensando di fare un dispetto a Putin, quest’ultimo si è trovato “un’amante cinese”. Fino a quando costoro seduti a fare danni a Bruxelles abuseranno della nostra pazienza e disporranno del nostro avvenire con inesistente senso di responsabilità?(Gianni Petrosillo, “L’Europa antirussa si fa male da sola”, da “Conflitti e Strategie” del 21 settembre 2014).Ora che il governo di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra ha chiuso l’affare scozzese, tra sospetti brogli denunciati anche dalla “Bbc” e l’illusione dei gonnellini di Edimburgo di poter cambiare la loro sorte per via referendaria, Londra può di nuovo dedicarsi a quello che le riesce meglio: fare il cane da guardia Usa in Europa contro gli interessi degli stessi cittadini europei. Come mai un paese che non ha adottato la moneta unica, che non ha aderito a molti trattati comunitari, che misura la propria esistenza in pollici, acri ed once, che guida tenendo la sinistra, che non ha, insomma, nulla in comune col resto dei continentali, abbia così tanta voce in capitolo in Ue è uno di quei misteri del Vecchio Continente che resteranno sempre irrisolvibili, almeno finché non si apriranno gli occhi sui compiti storici di questa comunità tenuta insieme contro la volontà dei popoli e nata per volere di burocrazie politiche corrotte e cricche finanziarie speculatrici asservite al dominio d’oltreatlantico.
-
Roberts: mentecatti europei, pagati per portarvi in guerra
Pagliacci pericolosi, pagati per mentire. Dal portoghese José Manuel Barroso, presidente della Commissione Europea prima del degno sostituto Juncker, fino al danese Anders Fogh Rasmussen, segretario generale della Nato. Obbediscono agli ordini di chi li ha piazzati al vertice: gli Stati Uniti. E l’ordine è semplice: raccontare il contrario della verità, in modo da “orientare” l’opinione pubblica grazie ai media mainstream, anch’essi “zerbini” del super-potere come i loro editori, per nulla indipendenti. E’ la dura accusa lanciata sul blog “Counterpunch” da Paul Craig Roberts, già editor e viceministro di Reagan, indignato per la criminale manipolazione delle notizie sul fronte ucraino, orchestrata dallo staff di Obama. E perché gli europei non si ribellano, visto che hanno tutto da perdere in caso di un’escalation con la Russia? Perché noi americani li paghiamo, scrive Roberts: tutti i leader europei sono stati elevati a ruoli di comando dallo Zio Sam. Grazie agli Usa hanno fatto carriera e ricevuto denaro a palate. Per questo, sono pronti a dire (e fare) qualsiasi cosa. Anche la guerra, persino contro una superpotenza nucleare.«Herbert E. Meyer, un pazzo che per un periodo aveva occupato il ruolo di assistente speciale del direttore della Cia durante l’amministrazione Reagan, ha scritto un articolo invitando all’assassinio del presidente russo Vladimir Putin», riferisce Craig Roberts in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. Dice l’ex uomo Cia: «Se dobbiamo farlo uscire dal Cremlino con i piedi in avanti e un foro di proiettile nella nuca, non avremmo problemi». Assassinare Putin? «Come il folle Meyer spiega – ribatte Roberts – il delirio che Washington ha diffuso nel mondo non ha limiti». Lo provano, su un altro piano, le bugie di Barroso, «messo alla presidenza della Commissione Europea come burattino degli Usa». Dopo una recente telefonata con Putin, Barroso ha raccontato ai media che il capo del Cremlino avrebbe espresso la seguente minaccia: «Se volessi, potrei prendermi Kiev in due settimane». C’è da mettersi a ridere, dice Roberts: «Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la disparità tra le forze russe e ucraine sa più che bene che alla Russia basterebbero 14 ore, e non 14 giorni, per prendersi l’Ucraina».Basta ricordarsi cosa accadde all’armata georgiana «addestrata e armata da Usa e Israele quando Washington aveva piazzato i suoi bambolotti georgiani nell’Ossezia del Sud». Le forze georgiane, precisa Roberts, sono collassate sotto il contrattacco russo in appena 5 ore.In ogni caso, «Putin non ha minacciato nessuno: una minaccia non sarebbe coerente con l’intero approccio attendista di Putin alla minaccia strategica che Washington e i suoi burattini della Nato hanno mosso alla Russia in Ucraina». Il rappresentante permanente della Russia all’Ue, Vladimir Chizhov, ha detto che se la menzogna di Barroso non verrà ritrattata, la Russia divulgherà la registrazione dell’intera conversazione. «La bugia che la marionetta di Washington Barroso ha raccontato non è degna di una persona rispettabile», scrive Roberts. «Ma dove, in Europa, c’è qualcuno di rispettabile al potere? Da nessuna parte. Le poche persone serie sono del tutto fuori dai centri di potere».Al vertice c’è gente come Rasmussen: era solo il premier della piccola Danimarca, e un giorno capì che «avrebbe potuto salire oltre, diventando una marionetta degli Usa». Come? Per esempio supportando l’invasione illegale dell’Iraq. E quindi, mentendo: «Sappiamo – disse – che Saddam Hussein possiede armi di distruzione di massa». Il danese conosceva le regole: «Chi serve Washington fa carriera, e Rasmussen ne ha fatta». Osserva Craig Roberts: «Il problema del mettere in certe posizioni dei mentecatti è che essi rischierebbero il mondo per la loro carriera». Ora, secondo l’ex viceministro di Reagan, il segretario della Nato ha «messo a rischio la sopravvivenza di tutta l’Europa, occidentale e orientale», annunciando al vertice di Newport la creazione di una forza speciale di attacco capace di operazioni-lampo in Russia. Ciò che «il burattino di Washington chiama “piano di azione immediata”» è giustificato come una risposta al quello che viene definito «l’atteggiamento aggressivo della Russia in Ucraina». Tutto falso, ovviamente. Inoltre, la “forza d’attacco fulminea” di Rasmussen «verrà spazzata via così come ogni capitale europea». Aggiunge Roberts: «Che tipo di idiota provoca in questo modo una superpotenza nucleare?». Risposta: un “idiota” prezzolato, riempito di dollari e quindi ricattabile.Racconta Craig Roberts: «Il mio professore di dibattito all’università, che è diventato un alto ufficiale del Pentagono con il compito di terminare la guerra in Vietnam, in risposta alla mia domanda su come Washington faccia sempre fare all’Europa ciò che vuole ha detto: “Soldi, diamo loro soldi”. “Aiuti stranieri?”, ho chiesto. “No, diamo ai politici europei un sacco di soldi. Loro sono in vendita. Noi li compriamo, e loro ci rendono conto”. Forse – aggiunge Roberts – questo spiega i 50 milioni di dollari guadagnati da Blair, in un anno, con il suo ufficio». Facile prendersela con Mosca, inventando di sana pianta ogni accusa: «La Russia se ne è stata in disparte mentre il governo-marionetta di Kiev ha accerchiato e bombardato insediamenti civili, ospedali, scuole, e lanciato una serie costante di bugie». Putin ha persino respinto le richieste delle province ora indipendenti del Sud e dell’Est dell’Ucraina, in passato territori russi, di venire nuovamente annesse. La verità è esattamente opposta: «Sono le milizie naziste ucraine ad attaccare i civili nei territori che appartenevano alla Russia». Infatti, «molti militari ucraini hanno disertato a favore delle repubbliche indipendenti».A quei soldati disertori non piaceva l’idea di bombardare civili inermi e di combattere accanto a dei neonazisti, alcuni ripresi con la svastica stampata sull’elmetto. «L’Ucraina dell’Ovest – ricorda Craig Roberts – è la dimora delle divisioni ucraine delle SS che combatterono al fianco di Hitler. Oggi le milizie organizzate dal “Right Sector” e altri partiti politici di destra indossano la divisa delle divisioni ucraine delle SS. Queste sono le persone che Washington e l’Ue sostengono. Se i nazisti ucraini potessero vincere contro la Russia, e non possono, si rivolterebbero all’Occidente. Esattamente come l’Isis, creato da Washington, e che Washington ha sguinzagliato contro Siria e Libia. Ora l’Isis sta ricreando un Medio Oriente unito, e Washington non sembra in grado di reagire. William Binney, un ex ufficiale dell’Nsa, ha scritto alla cancelliera tedesca Angela Merkel avvertendola di difendersi dalle menzogne di Obama al summit della Nato in Galles. Gli ufficiali dell’intelligence statunitense avvertono la Merkel di ricordarsi delle “armi di distruzione di massa” irachene e di non farsi ingannare nuovamente, entrando stavolta in conflitto con la Russia».La domanda è: chi rappresenta la Merkel? Washington o la Germania? «Fino ad ora», nella vertenza con Mosca sull’Ucraina, la cancelliera «ha rappresentato Washington, non gli interessi dell’economia tedesca, non il popolo tedesco, non la Germania come nazione», sostiene Roberts, ricordando che in una manifestazione di protesta, a Dresda, una folla ha ostacolato il discorso della Merkel gridandole “kriegstreiber” (guerrafondaia), “bugiarda” e “nessuna guerra contro la Russia”. Nulla, comunque, che abbia perforato il muro dei media mainstream, silenzio e menzogna. «I media occidentali, la più grande casa chiusa del mondo, agognano la guerra». Craig Roberts denuncia il “Washington Post”, «un giornale-trofeo nelle mani del proprietario miliardario di “Amazon.com”», divenuto «un zimbello mondiale» per «le bugie di Washington» su Putin, «sbrodolate» in editoriali come quello del 31 agosto. Putin avrenne «resuscitato la tirannia» per ricostituire l’impero russo. «Come ex editore del “Wall Street Journal” – replica Paul Craig Roberts – posso dire con assoluta certezza che una propaganda di questo tipo, spacciata per editoriale, sarebbe conseguita nell’immediato licenziamento di tutte le persone coinvolte».I nostri media evitando persino di riferire quello che Kiev racconta al Fmi: e cioè che l’Ucraina non è mai stata invasa. In caso di invasione, infatti, la guerra sarebbe conclamata. E una Ucraina ufficialmente in guerra con un paese straniero non potrebbe neppure ricevere le agognate sovvenzioni del Fondo Monetario. «Ma i media occidentali non si interessano ai fatti: bastano le bugie, solo le bugie. Il “Washington Post”, il “New York Times”, la “Cnn”, “Fox News”, “Die Welt”, la stampa francese e quella inglese pregano in coro: “Per favore, Washington, dacci altre bugie sensazionali da sbandierare. La nostra circolazione ne ha bisogno. Chissenefrega della guerra e della razza umana, se in cambio possiamo avere stabilità finanziaria”». Siamo seri, aggiunge Roberts: se unità militari russe fossero davvero in azione nell’Est del paese, l’Ucraina «non esisterebbe più» e sarebbe di nuovo «parte della Russia, come secoli prima che Washington sfruttasse il crollo dell’Unione Sovietica per separarla».Piuttosto, c’è da domandarsi «quanto durerà la pazienza russa di fronte alle continue bugie e provocazioni dell’Occidente», visto che «le menzogne di Washington, insieme a quelle dei suoi bambolotti europei e dei media occidentali, rendono inutili gli sforzi della Russia per risolvere la situazione con la diplomazia e un comportamento non aggressivo». Per Roberts, «non c’è nulla che la Nato possa fare se la Russia decide che un’Ucraina nelle mani di Washington è una minaccia strategica troppo grande per i propri interessi». Niente da fare, se Mosca decissere davvero di “reincorporare” Kiev: «Qualsiasi forza d’intervento della Nato inizierebbe una guerra che non potrebbe vincere. E la popolazione tedesca, memore delle conseguenze della guerra contro la Russia, ribalterebbe il governo burattino di Washington». A quel punto, «la Nato e la Ue crollerebbero, se la Germania si staccasse dall’assurdo costrutto asservito agli interessi di Washington a spese dell’Europa». Solo allora, finalmente, «il mondo avrebbe pace».Pagliacci pericolosi, pagati per mentire. Dal portoghese José Manuel Barroso, presidente della Commissione Europea prima del degno sostituto Juncker, fino al danese Anders Fogh Rasmussen, segretario generale della Nato. Obbediscono agli ordini di chi li ha piazzati al vertice: gli Stati Uniti. E l’ordine è semplice: raccontare il contrario della verità, in modo da “orientare” l’opinione pubblica grazie ai media mainstream, anch’essi “zerbini” del super-potere come i loro editori, per nulla indipendenti. E’ la dura accusa lanciata sul blog “Counterpunch” da Paul Craig Roberts, già editor e viceministro di Reagan, indignato per la criminale manipolazione delle notizie sul fronte ucraino, orchestrata dallo staff di Obama. E perché gli europei non si ribellano, visto che hanno tutto da perdere in caso di un’escalation con la Russia? Perché noi americani li paghiamo, scrive Roberts: tutti i leader europei sono stati elevati a ruoli di comando dallo Zio Sam. Grazie agli Usa hanno fatto carriera e ricevuto denaro a palate. Per questo, sono pronti a dire (e fare) qualsiasi cosa. Anche la guerra, persino contro una superpotenza nucleare.