Archivio del Tag ‘polizia’
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Carpeoro: Fusaro e Di Pietro, tribuni dell’Italia non-pensante
Diego Fusaro in televisione accusa Antonio Di Pietro e i magistrati di Mani Pulite di aver fatto un colpo di Stato? Da un punto di vista linguistico, non definirei Mani Pulite un colpo di Stato, quanto piuttosto un complotto internazionale, nel senso che il golpe ha caratteristiche squisitamente politiche e personalistiche, che quella storia non ha avuto. Dietro c’erano interessi internazionali e servizi segreti: altre cose. Il colpo di Stato è il voler sostituire un regime con un altro regime. Qui non si voleva sostituire un regime politico: si voleva soltanto mandare a casa la sua dirigenza. Cosa che è stata fatta, con una serie di fattori che si sono incrociati, e una serie di persone che pensavano di poter gestire questo fenomeno e poi ne sono rimaste esse stesse vittime. Una di queste è stato Andreotti: quand’è stato fatto senatore a vita da Cossiga, insieme a Gianni Agnelli, circa sei mesi prima che esplodesse Mani Pulite, Andreotti sapeva bene cosa sarebbe scoppiato. Lo sapeva molto bene, come lo sapeva Cossiga – che guardacaso ha nominato due senatori a vita, Andreotti e Agnelli: vi sembra complicato dedurre che Giulio Andreotti e Gianni Agnelli sapessero cosa stava accadendo, e che lo sapesse anche Cossiga?Pensavano di poter gestire la situazione, ma queste cose scappano di mano: come diceva Craxi, prima o poi le volpi ci finiscono, in pellicceria. Poi si sono incrociate vendette internazionali: se uno sottrae all’arresto americano colui che ha materialmente ucciso uno dei capi del B’nai B’rith, non può pensare che quel braccio operativo, connesso col Mossad, “se la tenga”. E quindi ci è entrato il problema di Sigonella e tutta una serie di problemi. Di Pietro un golpista? No: Di Pietro è un opportunista, che ha lucrato politicamente (e probabilmente anche economicamente) sul fatto di trovarsi in una posizione gestita dai servizi segreti sin dalle origini, fin da quando da poliziotto diventa magistrato, sulla base di un certo piano, gestito anche dagli americani. E tramite questa posizione ha gestito rapporti con servizi segreti di tutto il mondo: dimessosi da magistrato, risulta che il primo viaggio che Di Pietro fa è in Turchia, dove partecipa a incontri con i servizi segreti turchi.Non è stato il primo, Fusaro, a sollevare la questione Mani Pulite in quei termini. Ma il problema è che Fusaro rappresenta una categoria non-pensante dell’Italia (per delle cose che ha detto prima, per come si pone). Non ho detto che lui è non-pensante: ho detto che è gradito ai non-pensanti. E questo è pericoloso, per Di Pietro, perché il suo successo lo ha dovuto ai non-pensanti. Questo per lui è un rischio forte: Di Pietro ha temuto lo scontro televisivo con Fusaro perché entrambi sono sullo stesso piano; affondano nello stesso pubblico, attingono allo stesso consenso, e quindi per Di Pietro è molto pericoloso, incrinare questo tipo di copertura. Il problema, in Italia, è che quelli che fanno qualcosa contro qualcuno vorrebbero prendergli il posto. Questa è la dinamica: attacco qualcuno perché voglio fare le cose che fa lui, al posto suo.Se questa è la dinamica, perché dovrei essere entusiasta di Fusaro? Se non lo sono stato di Di Pietro, non posso esserlo neanche di Fusaro. Le motivazioni sono uguali, le modalità sono uguali: le modalità di analisi, il populismo, la superficialità di certi giudizi, il non voler far pensare la gente (o forse, il non riuscirci). E quindi perché dovrei essere entusiasta di Fusaro se non lo sono stato di Di Pietro e di qualunque altro di questi Cola di Rienzo, di questi personaggi un po’ tribunizi che hanno cavalcato le scene italiane negli ultimi anni? Io sono per una politica diversa, una politica non fatta di tribuni. In Italia si sono abolite le tribune e si sono potenziati i tribuni. Io vorrei che venissero rispolverate le tribune e aboliti i tribuni. Magari ci riusciremo.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” durante la diretta web-streaming “Carpeoro Racconta” del 22 ottobre 2017, ripresa su YouTube. Il filosofo Diego Fusaro si è scontrato il 19 ottobre nel corso della trasmissione “L’aria che tira”, condotta sul La7 da Myrta Merlino. Il riferimento di Carpeoro al B’nai B’rith è relativo a Lion Klinghoffer, israelo-statunitense ucciso dal commando palestinese del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, che dirottò la nave da crociera Achille Lauro nel 1985. Dirottamento organizzato dagli uomini di George Habbash, leader del Fplp, e poi “risolto” dall’inviato di Arafat, Abu Abbas, con la collaborazione dell’Egitto e dell’Italia, il cui premier Craxi protesse poi il rimpatrio dei dirottatori e dello stesso Abu Abbas, dopo averli contesi a Sigonella ai marines schierati da Reagan per catturarli e tradurli negli Usa).Diego Fusaro in televisione accusa Antonio Di Pietro e i magistrati di Mani Pulite di aver fatto un colpo di Stato? Da un punto di vista linguistico, non definirei Mani Pulite un colpo di Stato, quanto piuttosto un complotto internazionale, nel senso che il golpe ha caratteristiche squisitamente politiche e personalistiche, che quella storia non ha avuto. Dietro c’erano interessi internazionali e servizi segreti: altre cose. Il colpo di Stato è il voler sostituire un regime con un altro regime. Qui non si voleva sostituire un regime politico: si voleva soltanto mandare a casa la sua dirigenza. Cosa che è stata fatta, con una serie di fattori che si sono incrociati, e una serie di persone che pensavano di poter gestire questo fenomeno e poi ne sono rimaste esse stesse vittime. Una di queste è stato Andreotti: quand’è stato fatto senatore a vita da Cossiga, insieme a Gianni Agnelli, circa sei mesi prima che esplodesse Mani Pulite, Andreotti sapeva bene cosa sarebbe scoppiato. Lo sapeva molto bene, come lo sapeva Cossiga – che guardacaso ha nominato due senatori a vita, Andreotti e Agnelli: vi sembra complicato dedurre che Giulio Andreotti e Gianni Agnelli sapessero cosa stava accadendo, e che lo sapesse anche Cossiga?
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Piazzale Loreto, sacrificio rituale: morte del nuovo Cesare
Piazzale Loreto: macelleria messicana o rito esoterico? Giorgio Galli, eminente politologo italiano, propende per la seconda ipotesi. Per questo firma il breve saggio pubblicato in appendice nel volume “Mussolini e gli Illuminati”, nel quale Enrico Montermini, giovane ricercatore indipendente, rivisita l’intera parabola del Duce, “da piazza San Sepolcro al rito sacrificale di piazzale Loreto”. L’autore mette in luce il legame occulto tra il fascismo, la massoneria italiana e gli ambienti della supermassoneria finanziaria anglosassone. Una lettura raggelante, quella della fine del dittatore interpretata in chiave esoterica: Mussolini ucciso sul Lago di Como e quindi “battezzato”, da morto, in uno strano rito di purificazione, per poi essere tradotto a Milano, fotografato cadavere con in pugno uno scettro (come l’Imperatore dei tarocchi) e infine appeso a testa in giù, per richiamare un altro degli “arcani”, l’Appeso, simbolo del potere capovolto. Tutto questo a piazzale Loreto, cioè «non a caso, nella piazza milanese dedicata alla Madonna», visto che – nella folle visione dei registi del macabro spettacolo – proprio «nel grembo della beata vergine» doveva “nascere”, simbolicamente, il nuovo Cristo. Un secondo avvento del messia, «propiziato dalla caduta del nuovo Giulio Cesare».Delirio? Eppure coincide alla lettera con la cronologia di quei drammatici giorni. Montermini sostiene che l’atroce scempio di piazzale Loreto parrebbe la diligente attuazione della “profezia” pronunciata nel 1908 dall’esoterista inglese Annie Besant, leader della Società Teosofica fondata da Helena Petrovna Blavatsky. La Besant parla per la prima volta di un nuovo periodo, il passaggio dall’Età dei Pesci all’Età dell’Acquario, segnata dal ritorno di Cristo sulla Terra, preceduto però dalla reincarnazione di Giulio Cesare, che dovrà regnare e poi cadere. Ma che c’entra Mussolini con le visioni di certo esoterismo? C’entra eccome, assicura Montermini, che si incarica di indagare cercando «l’altra faccia della storia, quella che si nasconde dietro gli avvenimenti narrati nei libri». Basta verificare chi favorì la nascita ufficiale del fascismo, il 23 marzo 1919 in piazza San Sepolcro a Milano: «Intorno a Mussolini troviamo sempre personaggi legati al substrato del mondo esoterico: massoneria e altri ordini iniziatici ancora più segreti e potenti, e naturalmente molto meno conosciuti, come la paramassoneria finanziaria con i suoi circoli elitari». La tesi: «Mussolini fu selezionato, fu aiutato ad arrivare al potere». Lo dimostrano «forze politiche ed esoteriche, presenti a piazza San Sepolcro nel momento in cui fu fondato il fascismo».Secondo Montermini, documenti alla mano, Mussolini ricevette una vera e propria investitura dal mondo delle società segrete, da parte di un personaggio in apparenza folkoristico, Regina Teruzzi, che in realtà «era la medium di un gruppo di potentissimi e autorevolissimi cultori della tradizione romana, l’aristocrazia nera dedita alla tradizione pagana». Personaggi di spicco: il duca Giovanni Antonio Colonna Di Cesarò, noto cultore della teosofia e dell’antroposofia (che poi diventerà ministro delle Poste del governo Mussolini) e Don Leone Caetani, anche lui appartenente a una delle più antiche e potenti famiglie dell’aristocrazia nera romana, il cui fratello – Celaso Caetani – diventerà ambasciatore d’Italia a Washington subito dopo la Marcia su Roma (una nomina irrituale, di provenienza non diplomatica, che suscitò scandalo alla Farnesina). Questi personaggi «invitarono la Teruzzi nel “dies natalis” del fascismo per dare a Mussolini la loro investitura». Lei, la medium, «gli profetizzò che sarebbe diventato “console d’Italia”», cioè autocrate. Investitura “profetica” che avvenne a Palazzo Castani, in piazza San Sepolcro, «sede notoria della massoneria milanese».La sala per il ricevimento, aggiunge Montermini, fu messa a disposizione da Cesare Goldman, «israelita, altissimo dignitario della massoneria italiana». Nella regia dell’operazione c’era anche il maggiore sponsor del fascismo “antemarcia”, cioè la Banca Commerciale Italiana, massonica, allora diretta da Jósef Leopold Toeplitz, «seguace dell’eresia “franchista”, una setta ereticale ebraica che aveva mischiato l’antico sapere cabalistico ebraico con i riti orgiastici delle religioni gnostiche del mondo antico». Tra i fondatori del fascismo, in quella occasione, «troviamo un lungo elenco di personaggi associati alla massoneria». Lo stesso gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Domizio Torrigiani, «dice che una centuria di massoni milanesi fu tra i fondatori dei Fasci di Combattimento». Mussolini – deduce Montermini – fu accuratamente selezionato dalle società segrete «per rimettere in piedi l’Italia», piegata dagli scioperi insurrezionali del “biennio rosso”, con le fabbriche di armi occupate dagli operai.Il futuro Duce «era perfettamente consapevole di quei piani». La cosa non sorprende: «Già all’indomani della Prima Guerra Mondiale era molto vicino alla massoneria». Per un certo periodo «andò d’amore e d’accordo con le logge, e questo spiega l’aiuto che la massoneria ha dato al successo della Marcia su Roma, soprattutto in termini di desistenza, da parte degli apparati repressivi dello Stato». Fino al 1922, continua lo storico, Mussolini ebbe stretti rapporti con Torrigiani, il leader del Goi. E alla vigilia della Marcia su Roma iniziò a intrattenere rapporti (durati fino al 1925) anche con Raoul Palermi, il “venerabile” della Gran Loggia d’Italia, la massoneria “scozzese” di Piazza del Gesù. «Non a caso Mussolini era circondato da massoni, basta guardare le foto della Marcia su Roma, i cui “quadrumviri” sono tutti affiliati alla massoneria: Italo Balbo, Michele Bianchi, Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi». Montermini esibisce un’altra foto storica, quella della stretta di mano tra il capo del fascismo e il sovrano, Vittorio Emanuele III, all’indomani della marcia. Un momento solenne, con la frase passata alla storia («Sire, vi offro l’Italia di Vittorio Veneto») suggellata da una stretta di mano particolare, “massonica”. Il Savoia era massone? Sì, secondo documenti dell’intelligence Usa: era il numero uno della Gran Loggia, al di sopra di Palermi. «E nel libro – rivela Montermini – dimostro che era massone lo stesso Mussolini», anche se poi, nel 1925, il dittatore non esiterà a mettere fuorilegge le società segrete.Nel volume, Montermini cita le testimonianze di Cesare Rossi (segretario del Duce, affiliato alla Gran Loggia d’Italia) e Michele Terzaghi (deputato del Pnf, alto dignitario della Gran Loggia): entrambi confermano che Mussolini ricevette “in punta di spada” la consacrazione al 33esimo grado del “rito scozzese antico e accettato”.Terzaghi testimonia che Palermi consegnò a Mussolini il brevetto massonico del 33esimo grado “ad honorem” e gli esibì la Dichiarazione di Principi contenuta nel Manuale massonico degli Apprendisti, su cui Mussolini appose di suo pugno le parole “Visto e approvato”. «Firmò un impegno scritto con la massoneria». Glielo ricorderà lo stesso Palermi molti anni dopo, nel 1934, in una lettera autografa – rintracciata da Montermini – in cui il “sovrano gran maestro” della Gran Loggia d’Italia rinfresca la memoria al Duce, rammentandogli come “onorò” quella dichiarazione massonica «il 12 novembre 1922, all’Hotel Savoia». Quel documento, scrive Palermi a Mussolini, «fu riprodotto nei libri di Piazza del Gesù». Aggiunge il gran maestro, sempre rivolto al dittatore: «Il prezioso originale fa ora parte di un museo di quegli americani fedeli, ai quali ci rivolgemmo all’indomani della trionfante Marcia su Roma. Ricordate?».Quella lettera, secondo Montermini, certifica in modo evidente l’affiliazione di Mussolini nella massoneria, da cui poi prese le distanze sacrificando la libera muratoria «sull’altare dei Patti Lateranensi», privilegiando il rapporto con l’altro super-potere italiano, il Vaticano. Ma anche la sopressione formale delle comunioni massoniche «rientrava in un disegno più vasto, di cui Mussolini era al corrente: azzerare la massoneria italiana per poi rifondarla, in ossequio al progetto anglosassone di “nuovo ordine mondiale”». Secondo il ricercatore, «Mussolini firmò la sua condanna a morte quando si rifiutò (sulla base probabilmente degli impegni presi con Churchill il 15 gennaio 1927 a Roma) di adempiere alla sua parte dell’accordo, cioè permettere alla massoneria di ricostituirsi e riprendere a operare, rifondata su più solide basi spirituali. Ma c’erano anche stringenti ragioni finanziarie: per esempio, i tentativi dell’Agip di mettere le mani sul pozzi di petrolio iracheni di Mosul». Forse non è casuale neppure la scelta della “forca” di piazzale Loreto: un distributore di carburante della Standard Oil, poi Esso, compagnia fondata da John Davison Rockefeller.Gli storici sottolineano il primo Mussolini, antimassonico: da direttore dell’“Avanti” fu il regista del congresso che, nel 1914, dichiarò incompatibile l’appartenza alla massoneria con la militanza nel partito socialista. Ma la vera storia del Duce è oscillante e contraddittoria, obietta Montermini: appena un anno dopo quel congresso, quando Mussolini ruppe con la direzione del Psi e venne cacciato dal partito (politicamente era un uomo finito) a salvarlo, letteralmente, fu il massone Filippo Naldi, «altissimo dignitario di Piazza del Gesù», che mise in piedi il “Popolo d’Italia” affidandone la direzione a Mussolini. Dopo l’ascesa al potere (e il successivo scaricamento della massoneria, che l’aveva aiutato nella Marcia su Roma), il Duce subì diversi attentati «di matrice esoterica», tra cui quello di una donna irlandese, Violet Gibson, che il 7 aprile 1926 gli sparò, ferendolo al naso. «Il gesto di una pazza», si disse, ma Montermini non concorda: la Gibson aveva conosciuto Colonna Di Cesarò (il promotore di piazza San Sepolcro) durante una riunione della Società Teosofica a Monaco di Baviera. E tentò di uccidere Mussolini «poche ore dopo la morte di Giovanni Amendola, massone e teosofo». I mandanti? «A Londra», sospetta Montermini.Sul fascismo, sostiene lo storico, premevano gli antesignani del New World Order (la finanza “illuminata” di Wall Street) ma anche «il progetto del paganesimo guerriero indoeuropeo e il Movimento Sinarchico d’Impero, francese», ispirato al parigino Joseph Alexandre Saint-Yves, marchese d’Alveydre, teorico della “sinarchia”: il governo oligarchico delle élite visto quasi come una forma di religione. «Quelli che nel libro chiamo “gli Illuminati” esercitavano fortissime pressioni su Mussolini, ma erano divisi al loro interno sulla spartizione del potere». Poi però un accordo lo trovarono, perlomeno sulla fine del Duce italiano: «A inchiodare Roosevelt e Churchill è una intercettazione dei servizi segreti tedeschi», racconta Montermini. Il presidentre americano e il premier britannico «stabilirono nel 1943 che Mussolini doveva essere ucciso». Per la cronaca: «Roosevelt era un 32esimo grado del rito scozzese e Churchill un 33esimo grado, come il successore di Roosevelt, Harry Truman, presidente degli Stati Uniti quando Mussolini venne ucciso».La morte del dittatore, catturato a Dongo il 27 aprile 1945, e avvenuta l’indomani nel pomeriggio a Giulino di Mezzegra, secondo la storiografia ufficiale, per Montermini sarebbe avvenuta in circostanze controverse e non del tutto chiarite. In particolare, racconta il ricercatore, la popolazione locale rimase turbata dallo strano “rito” cui sarebbe stato sottoposto il cadavere del dittatore: spogliato e lavato a una fontana, «come una sorta di rito battesimale di purificazione». Qualcosa di anomalo, al punto da «spingere gli abitanti della zona a far benedire quei luoghi, poi, dai parroci». Montermini parla di «modalità esoteriche della fine di Mussolini, trascurate dagli storici forse perché privi degli strumenti per penetrare quel linguaggio allegorico e simbolico». L’autore sostiene che la scena dell’esecuzione sia stata alterata, e il cadavere «spostato dal luogo del delitto al cancello di Villa Belmonte», prima di raggiungere Milano il 29 aprile. Il corpo di Mussolini, insieme a quello di Claretta Petacci e dei 16 “gerarchi” fucilati, fu condotto a piazzale Loreto: il luogo dove, il 10 agosto 1944, erano stati giustiziati 15 partigiani, i cui corpi erano stati dileggiati e lasciati esposti al sole per l’intera giornata, impedendo ai familiari di raccoglierne i resti.Secondo Montermini, però, la scelta di piazzale Loreto può avere anche un’altra spiegazione, lugubremente simbolica: la preparazione del “nuovo avvento di Cristo”. Fra le tante immagini, scattate e filmate dai “combat filmakers” della Quinta Armata americana agli ordini del Moral Operations Branch dell’Oss (futura Cia), ce n’è una che mostra il corpo di Mussolini ricomposto, con nella mano destra «qualcosa di simile a uno scettro», proprio come l’Imperatore nei tarocchi. «E’ una foto stra-pubblicata ma con l’inquadratura ristretta sui volti di Mussolini e della Petacci, escludendo lo scettro». Per Montermini quella messinscena «è il secondo atto della cerimonia: la consacrazione». Cosa si voleva consacrare? «Mussolini è consacrato come il nuovo Giulio Cesare di cui parlava la Besant nel 1909, nella conferenza “Il secondo ritorno di Cristo sulla Terra”». In altre parole «un Giulio Cesare esoterico, in previsione di propiziare il ritorno di Cristo sulla Terra. E dove altro poteva reimcarnarsi, Gesù Cristo, se non nel grembo della vergine Maria, ossia – a livello metaforico, sempre – al centro di piazzale Loreto, la piazza dedicata alla Madonna di Loreto?».Non è finita: «Terza e ultima fase del rituale, Mussolini viene appeso a testa in giù», come appunto l’Appeso dei tarocchi. La cosa ha «un duplice significato: il sacrificio (ecco quindi l’atto sacrificale per propiziare qualcosa) e l’iniziato, cioè colui che si fa ricettacolo passivo di forze cosmiche, e questo può avvenire soltanto in una fase successiva alla consacrazione esoterica di Mussolini quale novello Giulio Cesare». Per Montermini, si tratterebbe di un dramma simbolico in tre atti – battesimo, consacrazione “romana” e capovolgimento – che suggerisce l’identità dei mandanti, cioè gli alti vertici delle società segrete, gli Illuminati del tempo, e la massoneria angloamericana. Fantasie? Non proprio. «Giorgio Galli si è misurato con le tesi del mio libro, arrivando alla mia stessa conclusione: i fatti di piazzale Loreto, così come raccontati nei libri di storia per 70 anni, sono da riscrivere», ribadisce Montermini. «La mia intuizione la si può analizzare e discutere, ma non confutare: non si può più fare finta di niente». Aggiunge il ricercatore: «Tendiamo a dare spiegazioni sempre razionali deella storia, ma la storia la fanno gli esseri umani, con le loro convinzioni anche religiose. Io non credo in questo tipo di attività occulte – precisa l’autore – ma dal punto di vista storico non possiamo negare il fatto che esistano persone che credono in queste cose, e spesso queste persone sono ai vertici della società».Politica, burocrazia, forze armate: «Non è indifferente sapere che tutte queste persone, che occupano posizioni di potere, credono in una dottrina esoterica che rappresenta il mondo in un certo modo, e che vuole dare un certo indirizzo anche spirituale all’attività quotidiana degli affiliati», sottolinea Montermini. «Ma non c’è solo la massomeria, c’è anche la massoneria deviata, quella dei contro-iniziati, i gruppi esoterici che si ispirano alla massoneria come tipo di organizzazione ma portano avanti un pensiero, una filosofia, una dottrina esoterica diversa, in tutto o in parte, da quella massonica». Lo sappiamo: «Ci sono maestri spirituali che hanno tra i loro adepti personaggi potentissimi, in grado di condizionare la politica degli Stati e quindi la vita di milioni di persone. E dal punto di vista storico, far finta che questa cosa non esista è una mistificazione», concude Montermini. «Si presuppone che i fatti abbiano sempre una consequenzalità logica, negando quindi la presenza dell’irrazionale all’interno della storia: una visione “magica” del mondo che è stata insegnata all’interno dei circoli esoterici, magici, alchemici». Se i grandi poteri non potevano non essere con Mussolini, al momento della sua prodigiosa ascesa, forse non c’è da stupirsi troppo se poi qualcuno sostiene che la sua caduta sia stata davvero “celebrata” come un terribile sacrificio rituale.(Il libro: Enrico Montermini, “Mussolini e gli Illuminati. Da piazza San Sepolcro al rito sacrificale di piazzale Loreto”, Edizioni Sì, 214 pagine, 16 euro. In appendice, nel volume, uno studio di Giorgio Galli, “Piazzale Loreto: macelleria messicana o rito esoterico?”. Molte dichiarazioni di Montermini, in merito al contenuto del libro, sono rintracciabili in filmati su YouTube come “Da piazza San Sepolcro al rito sacrificale di piazzale Loreto” e “Mussolini e gli Illuminati”).Piazzale Loreto: macelleria messicana o rito esoterico? Giorgio Galli, eminente politologo italiano, propende per la seconda ipotesi. Per questo firma il breve saggio pubblicato in appendice nel volume “Mussolini e gli Illuminati”, nel quale Enrico Montermini, giovane ricercatore indipendente, rivisita l’intera parabola del Duce, “da piazza San Sepolcro al rito sacrificale di piazzale Loreto”. L’autore mette in luce il legame occulto tra il fascismo, la massoneria italiana e gli ambienti della supermassoneria finanziaria anglosassone. Una lettura raggelante, quella della fine del dittatore interpretata in chiave esoterica: Mussolini ucciso sul Lago di Como e quindi “battezzato”, da morto, in uno strano rito di purificazione, per poi essere tradotto a Milano, fotografato cadavere con in pugno uno scettro (come l’Imperatore dei tarocchi) e infine appeso a testa in giù, per richiamare un altro degli “arcani”, l’Appeso, simbolo del potere capovolto. Tutto questo a piazzale Loreto, cioè «non a caso, nella piazza milanese dedicata alla Madonna», visto che – nella folle visione dei registi del macabro spettacolo – proprio «nel grembo della beata vergine» doveva “nascere”, simbolicamente, il nuovo Cristo. Un secondo avvento del messia, «propiziato dalla caduta del nuovo Giulio Cesare».
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Nel segno di Olof Palme: le sue idee salverebbero l’Italia
Olof Palme, chi era costui? Il pubblico televisivo conosce Renzi e Grillo, Berlusconi e D’Alema, la Merkel e Draghi. Al massimo Ettore Rosato e Angelino Alfano, il senatore Razzi e il governatore De Luca, o almeno le loro caricature firmate Crozza. Chi ha meno di quarant’anni fatica a mettere a fuoco il museo delle cere: Andreotti e Craxi, Moro, Pertini, Cossiga, Berlinguer. E Olof Palme? Un signore elegante e lontano: svedese, e quindi “strano”, figlio di un’antropologia ormai remota, aliena. Visse prima di Internet, del G8 di Genova e dell’11 Settembre; prima di Facebook, dell’Isis e dell’iPhone. Che c’azzecca, con noi, quel gentleman ante-web che governò il paese dell’Ikea? Bisognerebbe chiederlo a Vincenzo Bellisario, che sta per dare alle stampe “Nel segno di Olof Palme?”, libro che rievoca il testamento democratico di un socialista d’altri tempi, assassinato a Stoccolma – mentre era premier – proprio per evitare che i suoi tempi potessero diventare anche i nostri, cioè diversissimi da quelli di oggi, in cui non si capisce più niente, né si conosce il nome di chi comanda il mondo: si vede solo il sangue che lascia a terra tra un attentato e l’altro, in una guerra permanente fatta anche di profughi e migranti, disoccupazione, crisi finanziarie e disinformazione planetaria.Dunque chi era Olof Palme? Bisognerebbe chiederlo a Gianfranco Carpeoro (Pecoraro, in una vita precedente), avvocato e autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che accusa un’élite occulta, super-massonica, di pilotare settori dell’intelligence Nato per costruire il terrore dell’Isis, dietro il paravento dell’alibi islamista. Obiettivo: manipolare l’opinione pubblica, spaventarla, imporle leggi speciali e distrarla, impedendole di individuare i veri responsabili del disastro economico e sociale in corso, accuratamente progettato da un’oligarchia paramassonica internazionale. Gioele Magaldi, amico di Carpeoro e suo sodale nel Movimento Roosevelt, nel quale milita lo stesso Bellisario, ricorda che il catastrofico 11 settembre del 2001 fu soltanto la seconda fase di un piano di svuotamento della democrazia avviato all’alba di un altro 11 settembre, quello del 1973, quando fu abbattuto il governo cileno di Salvador Allende per instaurare la dittatura di Pinochet. Troppa democrazia rischiava di frenare il grande business? Nel suo libro, Carpeoro ricorda il telegramma con cui Licio Gelli, proprio dal Sudamerica, informava un parlamentare statunitense, Philip Guarino, che anche “la palma svedese” stava per essere abbattuta.La “palma svedese” sarebbe caduta il 28 febbraio 1986, in un agguato a colpi di pistola all’uscita di un cinema nel centro di Stoccolma. «Probabilmente l’assassino di Olof Palme è ancora in vita, e nel delitto potrebbero essere coinvolti la polizia o qualche esponente dell’esercito», afferma il criminologo svedese Leif Gustav Willy Persson, che ha sempre dubitato della colpevolezza di Christer Pettersson, il criminale di strada inizialmente fermato, e poi a sua volta deceduto all’improvviso dopo aver contattato per telefono il figlio di Palme, annunciandogli di avere notizie sulla fine del padre. Si sospetta anche di un altro anomalo decesso, quello del romanziere Stieg Larsson, morto esattamente come il protagonista della sua triologia, “Millennium”, dopo aver condotto indagini riservate sul caso Palme e aver consegnato alla polizia, inutilmente, svariati scatoloni pieni di documenti. Ma chi era, quindi, Olof Palme? Un socialista, un democratico. Il massimo interprete del welfare europeo: pari opportunità per tutti, nessuno deve essere lasciato idietro. Chi paga? Lo Stato: per il bene di tutti, ricchi e poveri. Pur di evitare licenziamenti, Palme arrivò a far rilevare quote di aziende traballanti. Messaggio: il salario dei cittadini-lavoratori viene prima del profitto d’impresa, perché ne va della coesione sociale del sistema-paese.Era pericoloso, Palme? Eccome. Mai e poi mai avrebbe dato il via libera alla nascita di un mostro giuridico come l’Unione Europea, di fatto governata da poche famiglie di oligarchi, proprietari dalle grandi banche cui appartiene la stessa Bce. Olof Palme era convinto di dover «tagliare le unghie al capitalismo», frenandone gli eccessi e gli abusi partendo dal ruolo democratico dello Stato come fattore di equilibrio: proprio quello Stato che l’Ue ha letteralmente demolito e svuotato. Era famoso, Palme: denunciava l’apartheid del Sudafrica e quello di Israele, le malefatte degli Usa nell’America Latina e la dittatura “rossa” dell’Unione Sovietica. Una figura prestigiosa, scomoda. Stava addirittura per essere eletto segretario generale delle Nazioni Unite: una volta all’Onu, sarebbe stato più difficile abbatterla, la “palma svedese”. Andava tolta di mezzo prima. E non è un caso, probabilmente, che tuttora non si sappia nulla di preciso né del killer né dei mandanti, anche se Carpeoro – nel rievocare il famoso telegramma di Gelli rivolto a Guarino – fa il nome di un eminente politologo Usa, Michael Ledeen, all’epoca legato a Guarino. Secondo Carpeoro, l’onnipresente Ledeen («consigliere occulto di Craxi e Di Pietro, Renzi e Grillo») è un tipico esponente dell’élite supermassonica “reazionaria”, protagonista della storica svolta antidemocratica che ha ridotto l’Occidente al deserto attuale, quello della privatizzazione globalizzata e universale, imposta a mano armata, anche con guerre e attentati.«L’Italia è ormai arrivata ad uno stato di coma profondo ed ovviamente irreversibile per almeno una persona su due», scrive Vincenzo Bellisario nell’introduzione al suo volume su Olof Palme, di prossima uscita per le Edizioni Sì (140 pagine, 11 euro). «E se continua su questa strada non c’è alcuna speranza: non c’è un modo per venirne fuori, al momento, considerando gli attuali trattati Ue e l’euro». Ragiona Bellisario: «Le persone ancora “salve” in questo paese sono coloro che hanno avuto la fortuna di essere nati e cresciuti all’interno di famiglie benestanti che gli hanno permesso di studiare con “calma”», magari per poi ottenere “la spinta giusta”. Gli altri che si sono “salvati”? Sono quelli «che hanno avuto la “fortuna” di essere stati assunti anni fa con i cosiddetti “contratti vecchi”», e quelli che sono andati in pensione «ad un’età giusta e con una pensione dignitosa». Per tutti gli altri, oggi, non c’è più storia: «Sono spacciati». Parole che ricordano quelle rievocate dallo stesso Carpeoro, autore di una prefazione al volume: «Oggi è morta la speranza», disse l’avvocato, all’indomani dell’assassinio di Palme in un’assise culturale di area liberal-socialista. Lo corressero: non è vero, possono morire i grandi uomini ma non le loro idee. E’ per questo che all’inizio del 2018, a Milano, Carpeoro sarà tra i promotori di un singolare convegno internazionale del Movimento Roosevelt sulla figura del compianto statista svedese. Se da qualche parte bisogna pur ripartire, per rimettere in piedi la nostra disastrata democrazia, sarebbe un onore ricominciare proprio da Olof Palme: una bandiera da tenere alta, nell’Europa degli oligarchi e degli orchi che ammazzano i paladini della giustizia sociale.Olof Palme, chi era costui? Il pubblico televisivo conosce Renzi e Grillo, Berlusconi e D’Alema, la Merkel e Draghi. Al massimo Ettore Rosato e Angelino Alfano, il senatore Razzi e il governatore De Luca (o almeno le loro caricature firmate Crozza). Chi ha meno di quarant’anni fatica a mettere a fuoco il museo delle cere: Andreotti e Craxi, Moro, Pertini, Cossiga, Berlinguer. E Olof Palme? Un signore elegante e lontano: svedese, e quindi “strano”, figlio di un’antropologia ormai remota, aliena. Visse prima di Internet, del G8 di Genova e dell’11 Settembre; prima di Facebook, dell’Isis e dell’iPhone. Che c’azzecca, con noi, quel gentleman ante-web che governò il paese dell’Ikea? Bisognerebbe chiederlo a Vincenzo Bellisario, che sta per dare alle stampe “Nel segno di Olof Palme?”, libro che rievoca il testamento democratico di un socialista d’altri tempi, assassinato a Stoccolma – mentre era premier – proprio per evitare che i suoi tempi potessero diventare anche i nostri, cioè diversissimi da quelli di oggi, in cui non si capisce più niente, né si conosce il nome di chi comanda il mondo: si vede solo il sangue che lascia a terra tra un attentato e l’altro, in una guerra permanente fatta anche di profughi e migranti, disoccupazione, crisi finanziarie e disinformazione planetaria.
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Abbate-Buttafuoco: armatevi e morite, italiani con la pistola
Pietrangelo Buttafuoco e Carmelo Abbate firmano “Armatevi e morite”, nelle librerie per Sperling & Kupfer, un pamphlet contro l’idea dei “cittadini con la pistola” che usa i numeri della realtà statunitense, e il ragionamento, per contrastare l’idea che la difesa dal crimine da parte dello Stato possa essere integrata, o sostituita, dall’autodifesa da parte dei cittadini. «E’ un libro realista, che vuole guardare in faccia la realtà, che vuole aprire gli occhi rispetto a una strada che provano a farci imboccare», dice all’“AdnKronos” Abbate. «Non contestiamo in punta di ideologia questa “logica”», si tratta semmai di «lucida osservazione della realtà: armare il cittadino e farlo diventare il poliziotto di se stesso è anzitutto un’incredibile calalata di braghe da parte dello Stato: in un paese civile è lo Stato che ha il monopolio delle armi e della sicurezza», sottolinea Abbate. Il libro si apre con una lunga e drammatica casistica di crimini. «Anch’io in certe situazioni ho paura», ammette Abbate, usandola per rafforzare l’idea che sia necessario migliorare la capacità di intervento dello Stato e non adottare la ricetta di un’arma in ogni famiglia.Il bersaglio politico principale del pamphlet è la Lega, i destinatari sono invece i cittadini. Il messaggio degli autori agli italiani lo riassume Abbate in un paragone: «La sicurezza è come la sanità, quella fornita dallo Stato funziona male ma di certo i cittadini non si organizzano un ospedale in casa e chiedono invece che lo Stato faccia bene la sua parte. Ecco, per la sicurezza l’atteggiamento deve essere lo stesso». A sostegno delle loro tesi gli autori citano le statistiche su armi da fuoco e crimini in particolare negli Usa, dove è storicamente prevalente il “partito” di chi sostiene la libertà (anzi il diritto) dei cittadini di armarsi: negli States, affermano fra l’altro Buttafuoco e Abbate, ci sono 88,8 armi da fuoco ogni 100 persone, ovvero 25 volte più della media dei paesi Ocse, eppure gli Usa sono primatisti negli omicidi con, ad esempio, circa 12.000 morti solo nel 2008. La situazione è all’opposto in Giappone, dove a fronte di 0,6 armi da fuoco ogni 100 abitanti le persone uccise nel 2008 furono 11.Buttafuoco e Abbate hanno dato il via al lancio del libro con una sorta di lettera aperta al leader della Lega, Matteo Salvini, pubblicata dal “Fatto Quotidiano”. Carmelo Abbate è giornalista, saggista e scrittore, protagonista della trasmissione tv “Quarto grado” ed è autore, tra l’altro, de “Il regno dei casti” (Piemme 2017). Pietrangelo Buttafuoco ha studiato filosofia a Catania e in Germania, ha scritto per il “Secolo d’Italia”, per “Il Giornale”, per “Panorama”, per “Repubblica”. Dal 2015 scrive su “Il Fatto Quotidiano” e ha una rubrica su “Il Foglio”; ha pubblicato romanzi e saggi, tra i suoi ultimi lavori “Buttanissima Sicilia” (Bompiani 2014) e “I baci sono definitivi” (La Nave di Teseo 2017). Il libro: Pietrangelo Buttafuoco e Carmelo Abbate, “Armatevi e morite”, Sperling & Kupfer, 192 pagine, 17 euro.Pietrangelo Buttafuoco e Carmelo Abbate firmano “Armatevi e morite”, nelle librerie per Sperling & Kupfer, un pamphlet contro l’idea dei “cittadini con la pistola” che usa i numeri della realtà statunitense, e il ragionamento, per contrastare l’idea che la difesa dal crimine da parte dello Stato possa essere integrata, o sostituita, dall’autodifesa da parte dei cittadini. «E’ un libro realista, che vuole guardare in faccia la realtà, che vuole aprire gli occhi rispetto a una strada che provano a farci imboccare», dice all’“AdnKronos” Abbate. «Non contestiamo in punta di ideologia questa “logica”», si tratta semmai di «lucida osservazione della realtà: armare il cittadino e farlo diventare il poliziotto di se stesso è anzitutto un’incredibile calalata di braghe da parte dello Stato: in un paese civile è lo Stato che ha il monopolio delle armi e della sicurezza», sottolinea Abbate. Il libro si apre con una lunga e drammatica casistica di crimini. «Anch’io in certe situazioni ho paura», ammette Abbate, usandola per rafforzare l’idea che sia necessario migliorare la capacità di intervento dello Stato e non adottare la ricetta di un’arma in ogni famiglia.
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Bavaglio Gentiloni: non avrete altro web che quello “amico”
Fine del web come l’abbiamo finora conosciuto, fine del libero accesso alle informazioni su blog e social media? «Benvenuti nell’Italia della sorveglianza di massa», averte Fulvio Sarzana sul “Fatto”, annunciando l’inquietante giro di vite deciso in sordina da Paolo Gentiloni con un decreto legge, “aggravato” da un emendamento del Pd (primo firmatario, Davide Baruffi). Procedura-sprint, come per i vaccini: e silenzio assordante della politica. Due le notizie, la fine della privacy e il filtro dell’Agcom sui contenuti “scomodi”, che diventeranno semplicemente irraggiungibili. «Un’amara sorpresa attende gli italiani», anuncia Sarzana: il Senato “impacchetta” in via definitiva una disposizione che «all’apparenza richiama l’esigenza di rispettare le norme europee», e la approva con un iter velocissimo per evitare la discussione parlamentare. «La prima norma dispone l’allungamento dei tempi di conservazione dei dati Internet e telefonici a sei anni, ed è stata già oggetto di aspre critiche, provenienti anche dallo stesso Garante della privacy italiano, Antonello Soro», spiega Sarzana. «La seconda norma assegna all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, Agcom, il potere di intervenire in via cautelare sulle comunicazioni elettroniche dei cittadini italiani, al fine di impedire l’accesso agli stessi cittadini a contenuti presenti sul web».Le norme, fa notare il giornalista, non possono essere modificate: passeranno così come sono. «La scusa ufficiale è che non si possono procrastinare gli impegni europei». E cosa prevedono queste nuove normative, già approvate alla Camera? La prima impone ai provider italiani, «per ragioni di repressione di attività legate al terrorismo», di conservare i dati di tutti i cittadini, nel caso le autorità inquirenti decidessero di richiedere informazioni su quei dati. «In soldoni, gli operatori di Internet privati (ovvero chi ci dà accesso ad Internet, ci fa telefonare e ci consente di chattare) deterranno per sei anni (quindi per sempre, considerando che la norma entrerà in vigore da oggi) i dati di tutti gli italiani, a prescindere dalla effettiva commissione di un reato. Se poi si indaga su un reato, quei dati potranno essere richiesti ai provider». E di che dati stiamo parlando? «Di tutto ciò che abbiamo detto o fatto attraverso il telefono, le chat o Internet». E se i dati venissero “rubati” e rivenduti da un hacker? Qualcuno potrebbe “bucare” il profilo di un parlamentare, di un giornalista scomodo di un oppositore, e quindi scoprire a chi ha telefonato e quando, quali siti web ha visitato. «Altro che immunità: questo qualcuno avrà accesso a tutte le conversazioni telematiche».Si dirà: “Ma questo vale solo per il terrorismo”, e qui sta il secondo malinteso, continua Sarzana: «Il provider, infatti, deve comunque raccogliere i dati, senza sapere se e quando queste informazioni verranno richieste, né può sapere quest’ultimo il perché gli vengano richiesti i dati: l’operatore, infatti, se viene raggiunto da una richiesta non la può sindacare, né l’autorità di polizia può comunicare, per non pregiudicare le indagini, a un soggetto privato il motivo della richiesta». E se questa situazione è già di per sé owelliana, «la seconda norma è ancora più inquietante», scrive il giornalista del “Fatto”. «La proposta di legge sottrae ai giudici il compito di intervenire in via cautelare sui contenuti sul web», come invece «prevedono la nostra Costituzione e le nostre leggi, prima fra tutte la legge sul diritto d’autore». Come ha detto lo stesso Baruffi, «da oggi, con un regolamento dell’Agcom, in Italia si sperimenta la “notice and stay down” e le piattaforme dovranno rimuovere i contenuti illeciti e impedirne la riproposizione». Il famoso bavaglio, in automatico e per legge.«Ora, poiché il web è composto di milioni di informazioni che cambiano in nanosecondi e la maggior parte di questi dati sono all’estero – osserva Sarzana – non c’è modo di conoscere in anticipo la riproposizione dei contenuti che la norma vorrebbe censurare, se non con una tecnica di intercettazione di massa denominata Deep Packet Inspection». L’unico modo, insomma, di fare ciò che il governo sta per fare approvare, è di ordinare ai provider italiani di “seguire” i cittadini su Internet per vedere dove vanno, al fine poi di realizzare questo “impedimento” alla riproposizione, attraverso un meccanismo di analisi e raccolta di tutte le comunicazioni elettroniche dei cittadini che intendano recarsi su siti “dubbi”. «Questo, naturalmente, senza alcun controllo preventivo da parte di un magistrato». L’Agcom, infatti, non ha potere su operatori che non siano in Italia. «E’ per questo che, invece, in sede europea si sta discutendo in modo bilanciato di risolvere il problema alla fonte, dove nasce l’informazione, e non agendo sui cittadini presenti sul territorio nazionale». La cosa, ancorché contraria alle norme europee già approvate, ha fatto gridare allo scandalo le associazioni italiane di diritti civili, quelle internazionali, le associazioni di consumatori più sensibili e gli stessi operatori del web. «Riavvolgiamo dunque il nastro: grazie al Parlamento, i dati dei cittadini saranno raccolti in banche dati custodite dai provider per un tempo pressoché illimitato. L’autorità amministrativa, ovvero l’Agcom, avrà il potere di ordinare ai provider di “seguire” i cittadini italiani senza l’ordine di un magistrato».Fine del web come l’abbiamo finora conosciuto, fine del libero accesso alle informazioni su blog e social media? «Benvenuti nell’Italia della sorveglianza di massa», avverte l’avvocato Fulvio Sarzana sul “Fatto”, annunciando l’inquietante giro di vite deciso in sordina da Paolo Gentiloni con un decreto legge, “aggravato” da un emendamento del Pd (primo firmatario, Davide Baruffi). Procedura-sprint, come per i vaccini: e silenzio assordante della politica. Due le notizie, la fine della privacy e il filtro dell’Agcom sui contenuti “scomodi”, che diventeranno semplicemente irraggiungibili. «Un’amara sorpresa attende gli italiani», annuncia Sarzana: il Senato “impacchetta” in via definitiva una disposizione che «all’apparenza richiama l’esigenza di rispettare le norme europee», e la approva con un iter velocissimo per evitare la discussione parlamentare. «La prima norma dispone l’allungamento dei tempi di conservazione dei dati Internet e telefonici a sei anni, ed è stata già oggetto di aspre critiche, provenienti anche dallo stesso Garante della privacy italiano, Antonello Soro», spiega Sarzana. «La seconda norma assegna all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, Agcom, il potere di intervenire in via cautelare sulle comunicazioni elettroniche dei cittadini italiani, al fine di impedire l’accesso agli stessi cittadini a contenuti presenti sul web».
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Richard Sorge, la geniale spia di Stalin tra i nazisti a Tokyo
Giappone, luglio 1935. Un certo tenente colonnello Aizawa arriva a Tokyo, in treno, dalla sua città di guarnigione. Va al ministero della Guerra, entra nell’ufficio del viceministro, generale Nagata, sguaina la sciabola e lo ammazza. Al processo dirà che si vergogna di una cosa sola: di non essere riuscito a ucciderlo con un solo colpo di spada. L’omicidio non è una questione privata: è dovuto a un conflitto politico. L’esercito giapponese è spaccato tra i vecchi generali moderati, legati ai grandi trust industriali, e i giovani ufficiali estremisti, spesso di umili origini, e con forti simpatie fasciste. In Giappone c’è una tradizione di conflitti simili: c’è anche un termine che risale addirittura al XV secolo, gekokujo, che vuol dire rovesciamento degli anziani da parte dei giovani. Il 26 febbraio 1936, durante il processo del tenente colonnello Aizawa, un gruppo di giovani ufficiali fa uscire i soldati dalle caserme, occupa il ministero della Guerra, il Parlamento e la Centrale di polizia e attacca le case del primo ministro e di parecchi ministri. Due ministri vengono uccisi, il premier si salva solo perché gli insorti uccidono suo cognato, scambiandolo per lui. I ribelli dichiarano che hanno agito per dovere nei confronti dell’imperatore, e non fanno nient’altro, come se si aspettassero che l’imperatore Hirohito interverrà dalla loro parte.Il governo tratta con gli insorti per due giorni, ma intanto fa circondare tutti gli edifici occupati, usando unità della Marina, che è in pessimi rapporti con l’Esercito. Dopo tre giorni i ribelli si arrendono; la maggior parte saranno condannati a morte e giustiziati. I governi occidentali fanno una gran fatica a capire cosa sta succedendo in Giappone: quella è una società lontana, complicata e impenetrabile. Anche i pochi giornalisti europei a Tokyo brancolano nel buio. C’è un solo giornalista che è capace di spiegare cosa succede. È un tedesco, membro del Partito nazista, molto ben introdotto alla sua ambasciata, e che ha una conoscenza stranamente approfondita della politica giapponese. Dopo l’insurrezione dei giovani militari il giornalista scrive un lungo articolo, che viene pubblicato in Germania ed è commentato in tutto il mondo, al punto che la “Pravda”, a Mosca, lo ripubblica in russo. All’ambasciata tedesca si complimentano col giornalista: ormai è diventato una stella internazionale.Il giornalista ride, ma in cuor suo è fuori di sé; quella sera va a trovare un altro tedesco, un industriale, che abita in un lontano sobborgo di Tokyo. In casa, l’industriale tiene nascosta una radiotrasmittente capace di trasmettere fino in Russia. Il giornalista chiama Mosca e chiede se sono matti a pubblicare sulla “Pravda” i suoi articoli: per favore, che non capiti più in futuro, perché nessuno deve intravvedere anche il minimo collegamento tra lui e l’Unione Sovietica. Il giornalista si chiamava Richard Sorge, era iscritto al Partito comunista dal 1918, ed era a capo di una rete di spie piazzata a Tokyo dall’Armata Rossa, una rete di spie che ha influenzato il corso della Seconda guerra mondiale. L’iscrizione al Partito nazista faceva parte della sua copertura; aveva chiesto la tessera a Berlino nel 1933, mentre aspettava il rilascio del passaporto per il Giappone. A quell’epoca l’organizzazione nazista era tutt’altro che impeccabile: negli archivi di Berlino è stata ritrovata la scheda del dottor Richard Sorge, iscritto al partito nella sezione dei residenti all’estero, e come indirizzo c’è scritto soltanto: “Tokyo, Cina”. Poi qualcuno ha cancellato “Cina” a matita e ha corretto: “Giappone”.L’ambasciata tedesca a Tokyo era stata felicissima dell’arrivo di questo compatriota, giornalista esperto di Estremo Oriente, allegro compagnone e grande bevitore. La capitale nipponica negli Anni Trenta era una strana città, governata da una polizia segreta paranoica che teneva sotto sorveglianza tutti gli stranieri, ma piena di ristoranti cinesi ed europei, birrerie tedesche con nomi come «L’Oro del Reno», dove le cameriere giapponesi si tingevano i capelli di biondo, finché la polizia non decise di vietare quest’usanza antipatriottica. Lì il dottor Sorge poteva essere visto fino a tarda notte a trincare con i suoi amici dell’ambasciata tedesca, che gli confidavano tutti i segreti e si facevano aiutare da lui a cifrare i dispacci in codice da mandare a Berlino. Si fidavano a tal punto che quando la Gestapo fece sapere all’ambasciatore Ott che nell’ambasciata forse c’era una talpa, l’ambasciatore non si confidò con nessuno, tranne una persona: il suo carissimo amico, il dottor Sorge.Ma la superspia non era sola. Con lui c’erano tecnici europei addestrati a Mosca, come l’industriale che abitava nei sobborghi, che si chiamava Max Klausen e in realtà era un mago della radio, capace di costruirsi dal nulla una radioricevente portatile con pezzi comprati nei negozi di Tokyo, e di montarla e smontarla in dieci minuti. E c’erano i tanti giapponesi che avevano accettato di lavorare per Sorge e per il comunismo, tutti, senza eccezione, per convinzione ideale, nessuno per soldi, che erano pochi e incerti. Uomini piazzati a tutti i livelli della società giapponese, come il giornalista Hotsumi Ozaki, esperto di cose cinesi, consulente del governo e della potentissima Armata del Kwantung che occupava la Manciuria, ai confini con l’Unione Sovietica. Per otto anni Sorge, Ozaki e gli altri, muovendosi alla luce del sole nei circoli governativi e diplomatici, accumularono informazioni segrete e le spedirono a Mosca, che seppe in anticipo tutto quello che bolliva in pentola a Tokyo e a Berlino: dal patto anti-Comintern tra Germania e Giappone, all’aggressione hitleriana contro l’Unione Sovietica, all’attacco di Pearl Harbor.Quando, alla fine, vennero arrestati, dopo che la Gestapo giapponese, la Tokko, aveva seguito le loro tracce per due anni, Sorge e Ozaki avevano influenzato concretamente l’esito della guerra. Eppure, incredibilmente, non avevano violato quasi nessuna legge: tutte le informazioni trasmesse a Mosca le avevano raccolte grazie ai loro contatti nel governo e nell’ambasciata nazista. Ne avevano violata una sola, una legge nuova che puniva con la morte chi avesse trasmesso informazioni di qualunque genere a un paese comunista, e su quella base vennero condannati e impiccati, dopo un processo durato tre anni. Il procuratore Yoshikawa, che interrogò Sorge, disse poi: «In tutta la mia vita non ho mai incontrato un uomo di tale levatura».(Alessandro Barbero, “Nella rete di Sorge, nazista a Tokyo per conto dell’Urss”, da “La Stampa” del 31 agosto 2017. Sorge fu giustiziato il 7 novembre 1944. Mosca lo riconobbe come propria spia solo nel 1964, dichiarandolo “eroe dell’Unione Sovietica”, massima onorificenza del paese).Giappone, luglio 1935. Un certo tenente colonnello Aizawa arriva a Tokyo, in treno, dalla sua città di guarnigione. Va al ministero della Guerra, entra nell’ufficio del viceministro, generale Nagata, sguaina la sciabola e lo ammazza. Al processo dirà che si vergogna di una cosa sola: di non essere riuscito a ucciderlo con un solo colpo di spada. L’omicidio non è una questione privata: è dovuto a un conflitto politico. L’esercito giapponese è spaccato tra i vecchi generali moderati, legati ai grandi trust industriali, e i giovani ufficiali estremisti, spesso di umili origini, e con forti simpatie fasciste. In Giappone c’è una tradizione di conflitti simili: c’è anche un termine che risale addirittura al XV secolo, gekokujo, che vuol dire rovesciamento degli anziani da parte dei giovani. Il 26 febbraio 1936, durante il processo del tenente colonnello Aizawa, un gruppo di giovani ufficiali fa uscire i soldati dalle caserme, occupa il ministero della Guerra, il Parlamento e la Centrale di polizia e attacca le case del primo ministro e di parecchi ministri. Due ministri vengono uccisi, il premier si salva solo perché gli insorti uccidono suo cognato, scambiandolo per lui. I ribelli dichiarano che hanno agito per dovere nei confronti dell’imperatore, e non fanno nient’altro, come se si aspettassero che l’imperatore Hirohito interverrà dalla loro parte.
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Mariano Rajoy, il pericoloso idiota che serve all’oligarchia
Mariano Rajoy è un pericoloso idiota. E sarebbe il caso che i suoi amici del Partito popolare europeo se ne rendessero conto in fretta. Se davvero i democristiani del Vecchio continente, assieme ai socialisti un po’ ovunque loro alleati, vogliono essere il baluardo contro quello che definiscono la minaccia del vento populista dovrebbero affermare un principio chiaro, precedente a ogni legge e Costituzione: nessun governo può ordinare di picchiare, malmenare, manganellare decine di migliaia di manifestanti inermi e non violenti. Le immagini della Guardia Civil travestita da Dart Fener, che si contrappone alle divise pacifiche e colorate dei pompieri, colpendo a sangue donne anziane e ragazzi con le mani alzate sono la propaganda migliore per chi denuncia (a volte non a torto) gli abusi di un establishment apparentemente interessato solo a conservare il proprio potere.I tanti dotti commenti che in questi giorni, anche sulla stampa nostrana, si limitano a sottolineare come il referendum per l’indipendenza della Catalogna fosse illegale perché non previsto dalla Costituzione, sono miopi e ridicoli. È vero infatti che da sempre nelle democrazie l’uso legittimo della violenza è demandato allo Stato anche per mantenere l’ordine costituito. Ma è evidente che nella società contemporanea la forza deve essere l’extrema ratio, che le sue conseguenze vanno ponderate con cura e che prima di farvi ricorso va battuta ogni strada. La domanda da porsi è dunque una sola: c’erano altre vie? Le cronache che in questi mesi sono giunte dalla Spagna sono unanimi nel rispondere di sì. Basti pensare che Rajoy nel 2010 portò davanti alla Corte costituzionale (che in Spagna è di nomina solo politica) e fece cassare il nuovo statuto per l’autonomia della Catalogna siglato nel 2006 tra il suo predecessore José Zapatero e l’allora amatissimo ex sindaco di Barcellona, Pasqual Maragall.Così, oggi, le centinaia di migliaia di persone che scendono in piazza per protestare contro la violenza di Stato, fanno diventare un gigante politico l’alcadesa Ada Colau. Lei, che da subito aveva annunciato il suo no alla secessione nel referendum poi soffocato nel sangue, si era battuta perché i catalani si potessero comunque esprimere. Il perché è evidente. In un territorio in cui si parla una lingua diversa da quella dello Stato centrale e dove i partiti indipendentisti – ma quasi sempre europeisti – raccolgono il 48 per cento dei consensi, impedire ai cittadini di votare è impossibile (come ci ha insegnato il Regno Unito con la Scozia). Compito della politica è invece quello di prendere atto della situazione e trovare le vie per una mediazione. Anche perché, spesso, come ripeteva Leo Longanesi in uno dei suoi fulminanti aforismi, «un’idea che non trova spazio a tavola è capace di fare la rivoluzione».Il refrain “ma la Costituzione non lo prevede” in questo caso è solo l’ultimo rifugio di chi teme che quanto sta accadendo in Catalogna (per ragioni diverse dall’indipendenza) possa ripetersi altrove. Di chi alla realtà sa solo opporre incapacità e arroganza. Seguendo questa logica, se domani in Spagna un partito repubblicano raccogliesse il 50% e più dei consensi, il referendum per decidere se uscire dalla monarchia dovrebbe essere comunque vietato. E pure l’Europa, che spesso a vanvera si dichiara dei popoli, dovrebbe schierarsi con le truppe del Re contro i cittadini. Dimostrando che oggi il pericolo più grande corso dalle nostre democrazie non è la dittatura o il populismo, ma la sorda e cieca oligarchia.(Peter Gomez, “Mariano Rajoy, il pericoloso idiota che serve all’oligarchia”, da “Il Fatto Quotidiano” del 4 ottobre 2017).Mariano Rajoy è un pericoloso idiota. E sarebbe il caso che i suoi amici del Partito popolare europeo se ne rendessero conto in fretta. Se davvero i democristiani del Vecchio continente, assieme ai socialisti un po’ ovunque loro alleati, vogliono essere il baluardo contro quello che definiscono la minaccia del vento populista dovrebbero affermare un principio chiaro, precedente a ogni legge e Costituzione: nessun governo può ordinare di picchiare, malmenare, manganellare decine di migliaia di manifestanti inermi e non violenti. Le immagini della Guardia Civil travestita da Dart Fener, che si contrappone alle divise pacifiche e colorate dei pompieri, colpendo a sangue donne anziane e ragazzi con le mani alzate sono la propaganda migliore per chi denuncia (a volte non a torto) gli abusi di un establishment apparentemente interessato solo a conservare il proprio potere.
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Magaldi: Barcellona sbaglia, ma Rajoy è un perfetto cialtrone
Senza fare arresti, senza mandare la polizia a picchiare nessuno, senza rievocare le ombre dell’autoritarismo franchista, bastava dire: questo referendum è incostituzionale, quindi lo consideriamo non valido ed eventualmente lo sanzioneremo nelle sedi opportune, ma intanto si svolga pure. Questo avrebbe detto un governo forte, democratico, sereno, se appunto a Madrid ci fosse stato un esecutivo degno, liberale, che avesse a cuore l’integrità della Spagna. Invece c’è Mariano Rajoy, che ha condotto una conferenza stampa che faceva ridere i polli e faceva venir voglia di prenderlo a schiaffi: non è vero che non è successo nulla, a Barcellona, eppure Rajoy è arrivato a negare che si sia svolto il referendum. Peraltro la gente ha votato lo stesso: il 95% dei seggi sono rimasti aperti, nonostante i “robocop” inviati da Madrid. Guai a chi si serve delle forze di polizia (costrette a eseguire ordini) per bastonare la gente che si riunisce per esprimere un parere, costituzionale o meno. E guai a quel cialtrone di Mariano Rajoy, che non è nemmeno legittimato da un voto popolare certo. Rajoy è un politico nefasto: prima la Spagna se lo toglie di torno, e meglio è. Nessuno vuole più vedere le scene vergognose cui abbiamo assistito in televisione nelle ultime ore. Non vogliamo più vedere i manganelli, i calci e i pugni su cittadini che manifestano pacificamente.La Spagna non prevede la clausola di secessione: il referendum ha un valore politico. Ovvio che alle volte si forzano le cose, ma occorre avere un metodo di osservazione più sereno. Le istituzioni della Catalogna pongono un problema. Dicono: riteniamo ci sia una forte maggioranza popolare che vuole staccarsi dalla Spagna. Questo è incostituzionale, quindi sul piano formale avrebbe buon gioco il governo di Madrid, ma il problema politico resta. Forse, con un po’ di buon senso, questa storia potrebbe essere risolta attraverso un dialogo politico che metta a punto ancor meglio i termini dell’autonomia di Barcellona. Agli amici catalani che soffiano sul fuoco di questa indipendenza a tutti i costi voglio dire: calma e gesso, rifletteteci su, perché magari ci sono altre priorità, anche per la Catalogna e per quei cittadini di ogni provenienza culturale, etnica, sociale e linguistica che abitano la Catalogna. Perché questa visione del popolo catalano che anela all’autodeterminazione e all’affrancamento dalla Spagna egemonizzata dalla Castiglia è francamente dubbia e molto opaca: la Catalogna è una regione floridissima, ha una tradizione politica anche molto importante, è stata in primo piano nella guerra civile spagnola.Non so se questo scontro sia raccontabile in termini poetici, ferma restando la condanna del modo maldestro – e anche un po’ infame – con cui il governo centrale ha represso la convocazione (magari illegale, ma pacifica) del referendum. La Catalogna è stata sicuramente umiliata e repressa nelle sue istanze di autonomia (che è cosa diversa dalla secessione) durante il regime franchista, ma poi ha ottenuto amplissime autonomie – culturali, linguistiche, politiche. Allora cos’è questo desiderio di affrancarsi dalla Spagna? Un’anelito democratico di autodeterminazione del popolo? Anche quella spagnola è una lunga storia di sedimentazioni e contaminazioni: non vivono solo catalani, a Barcellona. Ricordiamoci che la Catalogna è la regione più ricca della Spagna: magari qualcuno soffia sul fuoco dell’indipendenza perché vuole gestirsi un po’ più di denari. Ci saranno anche tanti che vivono il sogno della nazione catalana indipendente dalla Spagna castigliana. Ma in un mondo come il nostro, dove i problemi sono altri, dovremmo forse riuscire a stare più uniti, tutti, in Europa, in forme nuove rispetto a quelle dell’attuale Disunione Europea. Uniti sapremmo meglio affrontare la globalizzazione e trasformarla in glocalizzazione, cioè qualcosa che metta insieme il bello della contaminazione globale con il rispetto delle tradizioni e delle eccellenze locali.Voci sull’apparenza di Rajoy alla superloggia Pan-Europa? Non mi risulta che ne faccia parte. In ogni caso, per come è maldestro, se mai fosse stato affiliato a qualche Ur-Lodge, credo che i suoi “fratelli” a – anche quelli che io considero contro-iniziati – presto o tardi lo caccerebbero a calci del sedere, perché una gestione come la sua non fa buon gioco nemmeno alle mire (che io combatto) dei massoni organizzati in superlogge sovranazionali. La Pan-Europa è collegata all’omonimo progetto di Richard Coudenhove-Kalergi, politico e filosofo austriaco. Negli anni ‘20 e ‘30 concepisce un’idea di Europa unita, ma in termini generici, contrapponendosi al nazionalismo e alla xenofobia di matrice fascio-nazista. Nel dopoguerra, esaurito il pericolo nazifascista (che aveva attirato su quel progretto anche dei progressisti), Kalergi getta la maschera e diventa, insieme a Jean Monnet, l’architetto principale di un’Europa neo-feudale e tecnocratica. Un’Europa che si fonda su presupposti economicistici quasi riproponendo un modello da Sacro Romano Impero, con una gerarchia di nuovi feudatari, incarnati in questo caso da tecnocrati. Uomini che rispondono peraltro a interessi privati: perché c’è una gerarchia occulta, dietro i rappresentati delle istituzioni non-elettive europee.Kalergi è questo, e la Pan-Europa è la superloggia in cui lui elabora queste idee, e che poi affilia personaggi importanti del secondo ‘900. Tuttora la Pan-Europa è uno dei maggiori puntelli di questa cattiva gestione dell’Europa, che anziché integrazione porta a una sempre maggior disunione. Il modello da opporre a Kalergi, a Monnet e a tutti costoro che hanno messo insieme la retorica economicistica e quella tecnocratica è il ritorno alla sovranità degli Stati: nazioni che poi possano un giorno riavviare un processo eventualmente federativo partendo dal basso, dall’ascolto dei propri popoli. Oppure – e le cose possono anche andare di pari passo – l’altra possibilità è la proposizione di una Costituzione Europea, che passi per la discussione e l’approvazione da parte del popolo europeo, che può governarsi attraverso una Costituzione politica e non può certo essere governato attraverso trattati stipulati sulla testa dell’interesse popolare. Rajoy? Ha semplicemente svolto un ruolo simile a quello dei tecnocrati, in questa stagione di austerity europea. Della Spagna si occupa Rajoy, che ha anche emanato una serie di leggi liberticide, reprimendo le libertà di manifestazione e di protesta. Capiremo meglio nei prossimi tempi quali “manine” comunque si muovano, e quali eventuali progetti “ultronei”, ulteriori, stiano dietro questa faccenda. Una storia che ha non pochi lati ancora da comprendere, e forse anche da rivelare all’opinione pubblica(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a David Gramiccioli di “Colors Radio” nella diretta del 2 ottobre 2017 della trasmissione “Massoneria on Air”).Senza fare arresti, senza mandare la polizia a picchiare nessuno, senza rievocare le ombre dell’autoritarismo franchista, bastava dire: questo referendum è incostituzionale, quindi lo consideriamo non valido ed eventualmente lo sanzioneremo nelle sedi opportune, ma intanto si svolga pure. Questo avrebbe detto un governo forte, democratico, sereno, se appunto a Madrid ci fosse stato un esecutivo serio, degno e liberale, che avesse a cuore l’integrità della Spagna. Invece c’è Mariano Rajoy, che ha condotto una conferenza stampa che faceva ridere i polli e faceva venir voglia di prenderlo a schiaffi: non è vero che non è successo nulla, a Barcellona, eppure Rajoy è arrivato a negare che si sia svolto il referendum. Peraltro la gente ha votato lo stesso: il 95% dei seggi sono rimasti aperti, nonostante i “robocop” inviati da Madrid. Guai a chi si serve delle forze di polizia (costrette a eseguire ordini) per bastonare la gente che si riunisce per esprimere un parere, costituzionale o meno. E guai a quel cialtrone di Mariano Rajoy, che non è nemmeno legittimato da un voto popolare certo. Rajoy è un politico nefasto: prima la Spagna se lo toglie di torno, e meglio è. Nessuno vuole più vedere le scene vergognose cui abbiamo assistito in televisione nelle ultime ore. Non vogliamo più vedere i manganelli, i calci e i pugni su cittadini che manifestano pacificamente.
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Spagna addio? Bruxelles tace, come Macron e la Merkel
«Una cosa è certa: il primo cadavere raccolto tra le urne di un referendum tanto illegale quanto cialtronesco è quello dell’Unione Europea», scrive Gian Micalessin sul “Giornale” all’indomani della consultazione sull’indipendenza della Catalogna che avrebbe coinvolto oltre 2 milioni di persone, cifra comunque inferiore alla maggioranza assoluta degli elettori catalani. In Francia e in Germania, scrive Micalessim, l’Ue se l’era cavata per il rotto della cuffia, e non per meriti propri. «Nel voto francese era stata una Marine Le Pen – incapace di trasformarsi da capofila dell’opposizione a leader nazionale – a regalare la sopravvivenza a Bruxelles», mentre un Germania «l’avanzata della destra anti-immigrati non bastava certo ad intaccare la solidità di un’Angela Merkel parzialmente ridimensionata». Eppure, nonostante questi due “colpi di fortuna”, Bruxelles non ha aperto gli occhi: «Di fronte all’irresponsabilità delle forze catalane guidate dal presidente Carles Puigdemont – scrive Micalessin – l’Ue dimostra, ancora una volta, di non aver a cuore la sovranità dei propri Stati nazionali e di non saper affrontare con tempismo le crisi interne. Il silenzio più paradossale è stato forse quello di Emmanuel Macron e Angela Merkel: giovedì a Tallinn i due politici simbolo dell’Europa sopravvissuta alla propria crisi sono riusciti a non spendere mezza parola sul drammatico referendum».In compenso, ignorando il derby Madrid-Barcellona, Macron e la Merkel hanno approfittato del vertice europeo per ribadire la loro volontà di governare il continente. «E così anche sul versante catalano – come su quello turco e su quello libico durante l’emergenza immigrati – l’Ue conferma la sua inesistenza, la sua lontananza, la sua incapacità d’imporsi come autorità credibile», aggiunge l’inviato del “Giornale”. «Dai primi di settembre, quando la crisi catalana ha incominciato prender forma, la Commissione guidata da Jean-Claude Juncker non ha saputo far di meglio che esprimere un balbettante, flebile e quasi impercettibile sostegno a Madrid, ma si è ben guardata dall’entrare nel merito della questione». Aggiunge Micalessin; si è ben guardata, la Commissione Europea, «dal confermare l’evidente illegalità di un referendum non previsto dalla Costituzione spagnola e proprio per questo esplicitamente respinto dalla Corte Costituzionale di Madrid». In questa latitanza, aggiunge il giornalista, «si nasconde la perversa debolezza politica di un’istituzione che invece di affermarsi garantendo legalità e certezza del diritto scommette bizantinamente sulla erosione del potere degli Stati per affermare la propria autorità». E pur di farlo, «arriva ad appoggiare le mosse inconsulte di una regione spinta all’arrembaggio indipendentista da una dirigenza locale estremista ed esagitata».Lo «spettacolo indecente» di Barcellona «conferma ulteriormente il suicidio europeo», conclude Micalessin, sottolineando la disobbedienza dei Mossos d’Esquadra, la polizia regionale catalana, che si è rifiutata di sigillare i seggi, ignorando l’ordine ricevuto dal governo di Madrid. «E’ un evidente atto di sedizione e sovversione». Un gesto grave, «che Bruxelles non può permettersi d’osservare in silenzio: perché qualsiasi polizia regionale o locale europea potrebbe decidere, a questo punto, di sottrarsi all’autorità centrale», nell’assoluta indifferenza delle autorità europee. Nessuno, aggiunge Micalessin, «trova nulla da eccepire sul merito una consultazione che – comunque vada lo spoglio – non avrà un briciolo di legalità». In mancanza delle liste elettorali ufficiali, custodite dal governo, «nessuno infatti può garantire la validità di un referendum senza quorum, su cui non ha vigilato alcun osservatore indipendente e dove i rischi di brogli e di accessi multipli alle urne sono stati palesi». E così, chiosa il giornalista, «il suicidio dell’Ue conferma inesorabilmente la velleità delle aspirazioni indipendentiste della Catalogna». Una Catalogna che, qualora finisse fuori dalla Spagna, «potrebbe sopravvivere soltanto nel grembo di un’Europa che non c’è».«Una cosa è certa: il primo cadavere raccolto tra le urne di un referendum tanto illegale quanto cialtronesco è quello dell’Unione Europea», scrive Gian Micalessin sul “Giornale” all’indomani della consultazione sull’indipendenza della Catalogna che avrebbe coinvolto oltre 2 milioni di persone, cifra comunque inferiore alla maggioranza assoluta degli elettori catalani. In Francia e in Germania, scrive Micalessim, l’Ue se l’era cavata per il rotto della cuffia, e non per meriti propri. «Nel voto francese era stata una Marine Le Pen – incapace di trasformarsi da capofila dell’opposizione a leader nazionale – a regalare la sopravvivenza a Bruxelles», mentre un Germania «l’avanzata della destra anti-immigrati non bastava certo ad intaccare la solidità di un’Angela Merkel parzialmente ridimensionata». Eppure, nonostante questi due “colpi di fortuna”, Bruxelles non ha aperto gli occhi: «Di fronte all’irresponsabilità delle forze catalane guidate dal presidente Carles Puigdemont – scrive Micalessin – l’Ue dimostra, ancora una volta, di non aver a cuore la sovranità dei propri Stati nazionali e di non saper affrontare con tempismo le crisi interne. Il silenzio più paradossale è stato forse quello di Emmanuel Macron e Angela Merkel: giovedì a Tallinn i due politici simbolo dell’Europa sopravvissuta alla propria crisi sono riusciti a non spendere mezza parola sul drammatico referendum».
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Violenza-spettacolo, le amnesie dei media e le regie occulte
Inorridisce giustamente, l’italiano medio, di fronte alla brutalità della polizia spagnola che a Barcellona prende a calci i giovani inermi finiti a terra, maltratta le donne tirandole per i capelli, rompe nasi e spezza braccia, spara nel mucchio proiettili di gomma ad altezza uomo, spintona e strattona persino le nonne, trascinadole via come pericolose terroriste. Inorridisce, ma senza chiedersi come mai tanta violenza di Stato venga esibita di colpo a reti unificate. E si domanda invece, giustamente, per quale motivo il governo democratico di Madrid non si vergogni nemmeno un po’ dello spettacolo barbarico dei suoi agenti antisommossa, i robocop neri a cui è stato semplicemente ordinato di picchiare senza riguardi, di pestare gente con le mani alzate, di spedire all’ospedale cittadini, popolo, anziani. Sono le domande naturali, ovvie, che assillano e disturbano lo spettatore neutrale, estraneo ai fatti, turbato dalla violenza andata in scena a Barcellona. Quegli interrogativi se li pongono anche gli addetti all’informazione ospiti dei talkshow. Ma, attenzione: sono gli stessi giornalisti mainstream che si guardarono bene dal fiatare quando a prendere a calci i cittadini – italiani – erano le forze antisommossa spedite dal governo di Roma in valle di Susa col medesimo ordine: mandare all’ospedale la gente che aveva osato protestare, presidiare spazi e invocare giustizia, molto prima che la battaglia NoTav venisse inquinata dalle derive rabbiose nate dall’esperazione.«Giornalisti bugiardi e cialtroni: ne caccerei nove su dieci», ebbe a dire recentemente un reporter di razza come lo statunitense Seymour Hersh, Premio Pulitzer. La sua tesi: se la stampa non avesse abdicato al suo ruolo, rinunciando a fare il proprio dovere, in questi ultimi decenni avremmo avuto meno vittime. Meno abusi e meno stragi, meno guerre, meno terrorismi opachi. E forse, costringendo politici e governi a dire la verità, qualche oscuro mandante sarebbe stato costretto a venire allo scoperto. I grandi media sono ormai “Presstitutes”: così li chiama Paul Craig Roberts, liberale, già viceministro di Reagan. Non sono più veri mass media, ma strumenti orwelliani di propaganda, megafoni di un regime finanziario unificato, proprietario universale dell’editoria cartacea e radiotelevisiva che ha trasformato l’informazione in gossip, in politica-marketing e tifoseria da stadio contro nemici apparenti come la Russia di Putin, o fabbricati a tavolino come i tagliagole-kamikaze dell’Isis. E’ tutto spettacolo, soltanto spettacolo – senza mai analisi, spiegazioni, memoria storica, retroscena e denunce argomentate, al punto da spingere milioni di utenti a spegnere il televisore cercando rifugio nella galassia magmatica del web, alla ricerca affannosa di informazioni e ricostruzioni (attendibili, o almeno plausibili) su qualsiasi guaio contemporaneo, dall’euro alle scie chimiche, dalle guerre ai vaccini obbligatori.Lo spettacolo, oggi, è quello della violenza imposta dagli uomini neri che Madrid ha spedito a Barcellona? Ieri era quello della Troika euro-tedesca impegnata a gambizzare un altro popolo alle prese con un referendum, quello greco. Quando i primi NoTav si agitavano in corteo nella loro valle di Susa, appena dopo il duemila, non immaginavano neppure lontanamente la reale geografia della partita in corso: ancora non era arrivato Mario Monti a usare il manganello (finanziario) contro gli italiani. In Francia, il pallido François Hollande era riuscito a conquistare l’Eliseo promettendo la fine del rigore imposto da Berlino? E’ stato “sistemato” a colpi di attentati, insieme ai francesi: che adesso si godono Macron, l’omino-Rothschild confezionato in vitro direttamente dalle officine supermassoniche cui sovrintendono personaggi come Jacques Attali, il finto-socialista che spinse a destra la politica di Mitterrand, nel segno euro-imperiale dell’ordoliberismo da cui è appena scappata la Gran Bretagna votando la Brexit. E’ tutto spettacolo, quello che va in televisione: e se ci va, è sempre bene chiedersi perché. Secondo un analista indipendente come Federico Dezzani, a manipolare la Catalogna indipendentista sarebbero gli stessi super-poteri oligarchici che orchestrarono il crollo della Prima Repubblica in Italia, corrotta ma ancora relativamente sovrana, ostile al falso europeismo neo-feudale degli oligarchi interessati a smantellare l’economia della penisola, aprendo la stagione della crisi infinita.La polizia che malmena gli inermi non è mai un bello spettacolo, e a Madrid non potevano non saperlo. Non poteva non sapere, il debolissimo governo Rajoy, che l’intera Europa avrebbe simpatizzato, in diretta televisiva, con gli abitanti di Barcellona. Ha ragione Dezzani: non può essere a Madrid, la vera regia di questa pagina imbarazzante, con troppo sangue e troppe ossa rotte. Forse non è nemmeno a Marsiglia, dove – in contemporanea – le forze di sicurezza francesi hanno abbattuto a pallettoni, tanto per cambiare, l’ennesimo presunto jihadista accoltellatore, destinato come tutti gli altri a non parlare più. La regia dell’orrore non è nemeno a Nizza, dove la polizia locale (un po’ come i Mossos catalani) si rifiutò di obbedire agli ordini di Parigi, quando il ministro dell’interno le impose di distruggere i filmati delle telecamere che avevano ripreso la strage del 14 luglio sulla Promenade des Anglais. Una parte di questa ipotetica regia probabilmente risiede proprio a Parigi, dove – dopo il non-suicidio di un valente commissario – il governo silenziò e chiuse le indagini su Charlie Hebdo con l’imposizione del segreto di Stato (segreto militare), togliendo il dossier al coraggioso magistrato che aveva scoperto una strana triangolazione per la fornitura delle armi al commando stragista, Kalashnikov slovacchi giunti in Francia via Belgio attraverso un uomo della Dgse, il servizio segreto parigino.Se tutto è spettacolo, in televisione, manca sempre il vero mandante, perché sfugge regolarmente il movente. Era di quello che si occupava il giudice italiano Gabriele Chelazzi, stranamente morto dopo aver scritto una lettera di protesta alla Procura di Firenze, che accusava di averlo lasciato solo, senza uomini e mezzi. Lo racconta un super-poliziotto, Michele Giuttari, che fece condannare i “compagni di merende”. Prima del Mostro di Firenze (la cui vera storia si è rassegnato a scriverla nei suoi romanzi), Giuttari aveva sgominato – con Chelazzi – la gang di Cosa Nostra impegnata a realizzare gli attentati dinamitardi di Milano, Firenze e Roma. Un’indagine record, con decine di mafiosi in manette. Per ordine di chi avevano agito? Totò Riina, Leoluca Baragarella. D’accordo, si domanda Giuttari: ma chi aveva ordinato a Riina e Bagarella di piazzare ordigni fuori dalla Sicilia? E per quale oscuro motivo? Per una ragione formidabile e al tempo stesso indicibile: terremotare l’Italia e renderla fragile, mentre i poteri forti organizzavano la tagliola fatale del Trattato di Maastricht, l’inizio della fine delle economie prospere e sovrane. A dirlo non è Giuttari ma Dezzani, lo studioso che ora accusa i politci catalani di essersi fatti strumento di quegli stessi poteri oligarchici che – c’è da giurarci – spingeranno il vento nelle vele degli autonomisti lombardi e veneti al referendum del 22 ottobre, sperando di veder presto anche l’Italia sbriciolarsi, come la Spagna, per meglio dominare, finanziariamente, un popolo ormai ipnotizzato dalla televisione.Inorridisce giustamente, l’italiano medio, di fronte alla brutalità della polizia spagnola che a Barcellona prende a calci i giovani inermi finiti a terra, maltratta le donne tirandole per i capelli, rompe nasi e spezza braccia, spara nel mucchio proiettili di gomma ad altezza uomo, spintona e strattona persino le nonne, trascinandole via come pericolose terroriste. Inorridisce, ma senza chiedersi come mai tanta violenza di Stato venga esibita di colpo a reti unificate. E si domanda invece, giustamente, per quale motivo il governo democratico di Madrid non si vergogni nemmeno un po’ dello spettacolo barbarico dei suoi agenti antisommossa, i robocop neri a cui è stato semplicemente ordinato di picchiare senza riguardi, di pestare gente con le mani alzate, di spedire all’ospedale cittadini, popolo, anziani. Sono le domande naturali, ovvie, che assillano e disturbano lo spettatore neutrale, estraneo ai fatti, turbato dalla violenza andata in scena a Barcellona. Quegli interrogativi se li pongono anche gli addetti all’informazione ospiti dei talkshow. Ma, attenzione: sono gli stessi giornalisti mainstream che si guardarono bene dal fiatare quando a prendere a calci i cittadini – italiani – erano le forze antisommossa spedite dal governo di Roma in valle di Susa col medesimo ordine: mandare all’ospedale la gente che aveva osato protestare, presidiare spazi e invocare giustizia, molto prima che la battaglia NoTav venisse inquinata dalle derive rabbiose nate dall’esasperazione.
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Micalizzi: liberi da Madrid e ancora più schiavi di Bruxelles?
Chiunque abbia a cuore la sovranità dei popoli non può che provare empatia per qualsiasi causa di autodeterminazione, soprattutto se conclamata dalle immagini di una popolazione che lotta per le strade per respingere la polizia inviata ad impedire la celebrazione di una consultazione popolare. Tuttavia, la partita in atto contro le élite finanziarie è complessa e richiede pragmatismo e strategia. Proviamo a porci questa domanda: supponiamo che oggi la Catalogna si stacchi dalla Spagna, e che questo inneschi altre spinte centrifughe riguardanti i baschi, i corsi, i bretoni, i fiamminghi, l’Alto Adige etc… staremmo per questo realizzando l’Europa dei popoli liberi? L’Europa della piccole patrie? L’Europa delle identità? Oggi, nel contesto nel quale siamo, non ne sono affatto sicuro. Non ho un’opinione compiuta sui fatti catalani, e plaudirei senza esitazione alla volontà indipendentista catalana se fossi sicuro che il neo-Stato avesse un piano di emancipazione dalle élite finanziarie alle quali, oggi, è soggetto come parte del perimetro spagnolo. Infatti, è l’indipendenza dall’occupazione finanziaria la prima che va cercata, che è di gran lunga superiore a qualsiasi altra forma di occupazione, inclusa quella militare.Ecco, io questa sicurezza non ce l’ho. Anzi, stando ai dati in mio possesso, nel contesto attuale ritengo che l’eventuale nuovo Stato catalano verrebbe facilmente assorbito nei meccanismi burocratico-finanziari di Bruxelles e della City di Londra, ed avrebbe ancora meno potere contrattuale di quanto non ne abbia già oggi all’interno del perimetro giuridico spagnolo. Qualsiasi decisione strategica deve essere accompagnata da un piano. Ad esempio, da anni ripeto a chi si affretta a sostenere l’uscita tout-court dall’euro di spiegare dove intende andare, con quali mezzi e con quale strategia. Stesso dicasi per i trattati militari (Nato), commerciali, etc. Non basta “uscire”, bisogna avere un piano ed avere almeno una chance di trovarsi, dopo l’uscita, in una posizione migliore, di maggiore sovranità rispetto a prima, altrimenti è meglio star fermi e costruire le condizioni necesssarie. Questo stesso principio, oggi, lo applico alle rivendicazioni indipendentiste. A me sembra che la causa catalana, infatti, non diversa da quella di altre regioni ricche europee, nasca dalla rivendicazione di autonomia amministrativa, non finanziaria.E’ rivolta, cioè, contro l’“occupazione” politica dello Stato centralista, non contro quella finanziaria esercitata dalla Troika e dalle sue propaggini bancarie attraverso l’inganno del debito. Difatti, viene rivendicata la gestione autonoma del budget fiscale, dei vincoli di bilancio, ma non si denunciano i meccanismi di asservimento finanziario, quei meccanismi automatici che sono figli di trattati europei perversi e ingannevoli. Non ho notizie di alcuna critica radicale dei catalani rispetto al debito fittizio verso la Bce, rispetto alla minaccia del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes), rispetto al meccanismo perverso del Fiscal Compact che sta attuando un piano di deflazione e svalutazione programmata dell’intera Eurozona. Se leggessi qualcosa del genere, potrei accettare la scelta indipendentista come strumentale ad un disegno più ampio di emancipazione finanziaria e quindi autenticamente politica del popolo catalano, finalizzata a ricostituire quella triade popolo-territorio-sovranità che caratterizza un’autentica comunità politica. Mi sembra, insomma, che Barcellona non disponga di alcun modello economico-sociale alternativo a quello neo-liberista, e che non guardi a Madrid come ad un nemico, quanto piuttosto come ad un antagonista, un concorrente nella corsa autolesionista a sottoporsi alla dittatura delle élite burocratico-finanziarie.Posta così la questione, potremmo addirittura trovarci alla soglia di una ricomposizione degli Stati nazionali europei in unità frazionate, più deboli e assoggettabili a piani di indebitamento più efficaci perchè adattati alle caratteristiche socio-economiche di entità maggiormente omogenee, il tutto all’interno di una cornice compiutamente neo-liberista. In più, di certo, possiamo aggiungere già da ora che nella situazione di oggi (lo sottolineo) la Catalogna indipendente implicherebbe anche la rinuncia dei catalani ad avere un peso nelle decisioni internazionali, un ruolo nelle scelte militari, geopolitiche, nelle assisi internazionali dove si fanno gli accordi sul commercio, sull’energia, sui flussi migratori, indebolendo peraltro anche il peso specifico della Spagna post-scissione. Resisterei, quindi, alla tentazione di plaudire alla Catalogna “libera”… e mi domanderei piuttosto se nel contesto attuale questa mossa non crei piuttosto le premesse per una ulteriore sottrazione di sovranità popolare, prestando alla Troika un nuovo lembo di terra sul quale esercitare il proprio dominio, con minore resistenze rispetto al passato.(Alberto Micalizzi, “Indipendenza da cosa?”, dal blog di Micalizzi del 1° ottobre 2017).Chiunque abbia a cuore la sovranità dei popoli non può che provare empatia per qualsiasi causa di autodeterminazione, soprattutto se conclamata dalle immagini di una popolazione che lotta per le strade per respingere la polizia inviata ad impedire la celebrazione di una consultazione popolare. Tuttavia, la partita in atto contro le élite finanziarie è complessa e richiede pragmatismo e strategia. Proviamo a porci questa domanda: supponiamo che oggi la Catalogna si stacchi dalla Spagna, e che questo inneschi altre spinte centrifughe riguardanti i baschi, i corsi, i bretoni, i fiamminghi, l’Alto Adige etc… staremmo per questo realizzando l’Europa dei popoli liberi? L’Europa della piccole patrie? L’Europa delle identità? Oggi, nel contesto nel quale siamo, non ne sono affatto sicuro. Non ho un’opinione compiuta sui fatti catalani, e plaudirei senza esitazione alla volontà indipendentista catalana se fossi sicuro che il neo-Stato avesse un piano di emancipazione dalle élite finanziarie alle quali, oggi, è soggetto come parte del perimetro spagnolo. Infatti, è l’indipendenza dall’occupazione finanziaria la prima che va cercata, che è di gran lunga superiore a qualsiasi altra forma di occupazione, inclusa quella militare.
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Sepúlveda: repubblica federale, o la Spagna non esisterà più
«Mariano Rajoy sta giustificando la brutalità dimostrata dalla Guardia Civil e dalla Policía Nacional contro una popolazione civile, contro cittadini che, con o senza ragione, volevano solo andare alle urne e votare». Luis Sepúlveda, scrittore cileno che ha scelto di vivere in Spagna il suo lungo esilio, e di cui è appena uscito in Italia il libro “Storie ribelli” (Guanda) parla con il “Corriere della Sera” mentre in televisione scorrono le immagini della conferenza stampa del premier spagnolo, che ha dato ordine ai reparti antisommossa di usare la forza contro la popolazione: oltre 700 persone ferite da pugni e calci, manganellate e proiettili di gomma. «Fino a pochi giorni fa, il numero dei catalani disposti a partecipare al referendum era la metà di quelli che hanno poi tentato di votare», osserva Sepúlveda, intervistato da Sara Gandolfi. I catalani «non hanno votato per o contro l’indipendenza», sostiene l’autore del bestseller “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”. I cittadini di Barcellona e Girona «votavano per il diritto a decidere liberamente, e contro l’arroganza di un governo ottuso, troppo vicino al franchismo, troppo immobile e insensibile ai problemi che si devono risolvere in modo politico e mai con la forza della repressione».