Archivio del Tag ‘politica’
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Galloni: pastori sardi, una moneta locale li salverebbe tutti
Anche questa volta, come per i Gilet Jaunes o i Forconi, la storia pare essere la stessa. Un movimento nasce e, non potendosi (o non riuscendo a) darsi una forma organizzativa e dei leader comuni, si scinde tra due componenti: i banditi e i “coglionati”. Senza una chiara strategia e leader da tutti riconosciuti, infatti, la maggioranza svolge una sterile protesta che tende ad affievolirsi; mentre la componente minoritaria, ma molto attiva, si spinge persino fuori dai confini della legalità. In casi particolarissimi, tale componente (magari grazie ad appoggi internazionali) riesce ad imporsi sostituendo un “vecchio regime”. Pare non sia la sorte di questi movimenti, destinati a ricalcare la stessa divisione che c’è nella società tra “irriducibili” e coglionati. Il partito, in fondo è questo: il passaggio dal cenacolo di pochi saggi ispirati a una forma organizzativa più evoluta, ma attraverso la fase del movimento (semprechè quest’ultima, come stiamo cercando di dire, non si esaurisca). Quindi abbiamo tre diverse situazioni: i movimenti che si esauriscono, i cenacoli che non riescono a crescere e i partiti politici che sono frutto dell’incontro tra una leadership adeguata e un movimento che non si esaurisce.Il movimento che trova guida e strategie può trasformarsi in partito politico, dunque, se lascia il terreno monotematico e si allarga ai tanti problemi di una società. Nel caso dei pastori sardi, ad esempio, pur essendo urgente e vitale spuntare un prezzo del latte adeguato (ma che ci stanno a fare le istituzioni se non sanno gestire una produzione abbondante e lasciano cadere il prezzo illimitatamente?), tuttavia la domanda strategica era ed è: ma come fa un prezzo a scendere al di sotto del costo (di produzione)? In due casi: quando la domanda ovvero il mercato non è più interessato al prodotto (e non è il caso del latte sardo); quando il prezzo lo decide il compratore a prescindere dal mantenimento dei minimi vitali per i produttori. Ciò non accade solo per illimitata ingordigia di chi ha potere ed obiettivi di massimizzazione del profitto, ma anche per situazioni dei prezzi internazionali che non tengono conto della qualità. I prezzi internazionali, infatti, dipendono dalla concorrenza sui prodotti finiti e distribuiti al dettaglio: se essa avviene solo sul prezzo, allora sarà favorito il produttore peggiore che imporrà il prezzo sul mercato internazionale e tutti dovranno accettare la sua imposizione (anche facendo peggiorare la qualità del prodotto).Come ci si difende da questa diabolica situazione? O facendo rispettare regole precise o costituendo il cartello dei produttori (ma se la concorrenza non è agguerrita) o sottraendosi alle dinamiche della globalizzazione (quando essa, appunto, è senza regole e con logiche che il buon senso ed il bene comune dovrebbero respingere). Come ci si sfila, dunque, dalla globalizzazione in un caso come quello della Sardegna? Molto semplice, immettendo una moneta locale per consentire ai produttori di approvvigionarsi di tutto ciò che loro necessita: quindi il pastore – ottenendo tale moneta in cambio del suo prodotto – potrà comperare tutti gli altri beni e servizi che servono alla sua attività ed al sostentamento suo e della famiglia; se, dopo saturato il mercato interno, avanza una produzione, quest’ultima potrà essere venduta all’esterno in valuta internazionale. Questa valuta servirà a comprare quanto non si riesce a produrre all’interno (non si deve dimenticare, infatti, che i prodotti locali possono venir pagati anche in valuta locale, mentre per quelli di importazione è necessaria la valuta estera, ovvero gli euro).Lo stesso può dirsi per il grano duro siciliano: inutile e dannoso importare grano di diversa qualità (e magari pieno di glifosato!); difendere il prodotto locale non è protezionismo, ma riferimento ad un modello economico sostenibile e più etico (che anche i produttori degli altri paesi possono praticare). Un modello economico in cui si parte dall’economia reale del territorio e dove – tutti – esportino le eccedenze dopo aver saturato il proprio mercato interno senza le interferenze dei monopoli internazionali a scapito del lavoro e della salute collettiva. Ma è anche molto importante esportare prodotti finiti (ad esempio formaggio) e non materie prime o semilavorati, perché chi esporta questi ultimi rinuncia alla quota più importante di valore aggiunto ovvero di reddito. Non sarebbe male, quindi, che le Regioni dotate di autonomia provvedessero, anche, a limitare l’esportazione di materie prime e semilavorati come fondamentale misura di sostegno del reddito interno.(Nino Galloni, “Pastori in movimento, banditi e partiti”, da “Scenari Economici” del 26 febbraio 2019).Anche questa volta, come per i Gilet Jaunes o i Forconi, la storia pare essere la stessa. Un movimento nasce e, non potendosi (o non riuscendo a) darsi una forma organizzativa e dei leader comuni, si scinde tra due componenti: i banditi e i “coglionati”. Senza una chiara strategia e leader da tutti riconosciuti, infatti, la maggioranza svolge una sterile protesta che tende ad affievolirsi; mentre la componente minoritaria, ma molto attiva, si spinge persino fuori dai confini della legalità. In casi particolarissimi, tale componente (magari grazie ad appoggi internazionali) riesce ad imporsi sostituendo un “vecchio regime”. Pare non sia la sorte di questi movimenti, destinati a ricalcare la stessa divisione che c’è nella società tra “irriducibili” e coglionati. Il partito, in fondo è questo: il passaggio dal cenacolo di pochi saggi ispirati a una forma organizzativa più evoluta, ma attraverso la fase del movimento (semprechè quest’ultima, come stiamo cercando di dire, non si esaurisca). Quindi abbiamo tre diverse situazioni: i movimenti che si esauriscono, i cenacoli che non riescono a crescere e i partiti politici che sono frutto dell’incontro tra una leadership adeguata e un movimento che non si esaurisce.
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Q-Anon: guerra segreta contro il Deep State, anche in Ue
Se è una fiaba, è bellissima. Infatti, testate come “Wired” e il quotidiano web “Next” di Enrico Mentana l’hanno già dichiarata una schifezza, nient’altro che una bufala. Stefano Fait, consulente strategico internazionale per aziende ed entità pubbliche, la prende sul serio. Si tratta di Q-Anon, sigla-fantasma che sta invadendo il web. Distilla informazioni spesso preziose, sempre esatte, precise, coerenti. Lo stile, dice Fait, è quello dell’intelligence militare Usa. Campo d’azione: guerra psicologica. Obiettivo: colpire e affondare il maledetto Deep State che ha globalizzato il capitalismo finanziario più predatorio, criminale e terrorista. Il piano: rovesciare l’élite neoliberista planetaria, che ha in pugno i grandi media. Non mi stupirei, dice Fait – intervistato da Fabio Frabetti a “Border Nights” – se domani si scoprisse che Trump, Putin e Xi-Jinping sono segretamente alleati, in questa operazione di portata epocale. Passaggi cruciali: le elezioni europee e poi le presidenziali americane, che Q-Anon prevede saranno precedute da una vigilia turbolenta e violentissima. In Europa, la bistrattata Italia gialloverde gioca il ruolo dell’ariete contro il sistema Ue-Bce. Immediata risposta francese, i Gilet Gialli: una regia unica. La rivolta in Francia, stranamente organizzatissima, è scattata dopo il fatale tweet di Trump: «Make France great again».Che cos’è Q-Annon? Il solito network di “whistleblower”, come Wikileaks? Non esattamente: Anonimo-Q sarebbe «un’intelligence mista, militare e civile», riassume “Border Nights” sul suo sito. «Un’unità speciale, cabina di regia congiunta all’interno di Nsa e Dia, rivali di Cia e Fbi». Struttura-ombra, che sarebbe stata creata nientemeno che da John Fitzgerald Kennedy, e che ora ne starebbe «vendicando la morte». Le informazioni trasmesse tramite forum selezionati (“4chan” e poi “8chan”, come Jackie Chan) sono «una via di mezzo tra codici da decifrare e moderne parabole in linguaggio sapienziale, come le potrebbero formulare esperti di intelligence militare». In sostanza, Q-Anon «dissemina idee e nozioni nelle coscienze delle persone, fungendo da catalizzatore cognitivo e spirituale, prima ancora che politico». Cosa vuole Q-Anon? «La graduale rimozione di una mafia globalizzata che ha preso il controllo di quasi tutte le nazioni-chiave del mondo, a partire dal sistema bancario», gestendo direttamente «traffico di esseri umani e di organi, traffico di armi e di droga, segreti industriali». Obiettivo finale: «La creazione di una cittadinanza consapevole e resiliente, che prevenga il ripetersi di questa mostruosità».Fondamentalmente, secondo Fait, assistiamo al passaggio di consegne del potere «dall’élite bancaria psicopatica o sociopatizzata a una nuova élite scientifico-militare», che per molti versi assomiglia a quella che governa “Tomorrowland”, la “terra di domani”, nell’omonimo film. Rischio: una volta preso il comando, i “buoni” potrebbero comportarsi esattamente come i “cattivi”, secondo lo schema orwelliano della “Fattoria degli animali”. Stefano Fait è consapevole del pericolo, ma si dichiara costretto a registrare l’avvento di Q-Anon come una realtà inedita e assolutamente credibile. «Mi occupo principalmente di decifrare il presente per anticipare il futuro per aziende e amministrazioni pubbliche», spiega. «Q-Anon coinvolge decine di milioni di persone in tutto il mondo. I maggiori quotidiani e le Tv internazionali ne parlano, celebrità citano le formule rituali nelle reti sociali. Non si può fingere che non stia accadendo nulla». Secondo Fait, l’operazione Q-Anon «ha tutto quel che occorre per diventare il più vasto fenomeno sociale da quando esiste Internet, superando in intensità il Sessantotto e i figli dei fiori». Da cosa lo deduce? Dalla cronometrica, micidiale precisione dei “drop” immessi nella rete: contengono previsioni dettagliatissime, che rivelano l’autorevolezza delle fonti. E cioè: gli uomini del Pentagono che stanno proteggendo Trump.Geopolitica, innanzitutto: è in corso una guerra a tutto campo. Pietra miliare, la Brexit: «Sono convinto che la Gran Bretagna ne uscirà bene: non ci sarà nessun accordo con Bruxelles, non ci sarà nessun replay del referendum e il Regno Unito ci guadagnerà, dal divorzio, con grande scorno degli eurocrati». Poi l’Italia: «Da fonti certe – aggiunge Fait – so che l’opzione gialloverde era sul tappeto già prima delle elezioni. Missione: creare un governo non suddito di Bruxelles». I gialloverdi sono ammaccati, non sono riusciti a ottenere nulla – se non l’ostilità feroce dell’Ue. «Ne pagheremo il prezzo», dice Fait, «ma molto dipenderà dalle europee di maggio: nessuno sogna che le forze populiste-sovraniste possano davvero vincere, ma si spera che crescano abbastanza da acquisire sufficiente potere negoziale per impedire all’eurocrazia di proseguire con l’attuale politica di austerity». Dall’Europa – dove l’altra pedina sono i Gilet Gialli – i misteriosi promotori di Q-Anon si aspettano un successo, che aiuti Trump a restare alla Casa Bianca tra due anni. In altre parole: il piano procede se i vari Merkel e Macron rimediano una forte battuta d’arresto.Attento “esegeta” degli indizi cifrati di Q-Anon, Fait invita a indossare gli occhiali giusti, al di là delle retoriche politicanti cavalcate dalla disinformazione quotidiana del mainstream. Trump, per esempio: ha abbattuto le tasse e fatto volare l’occupazione, attacca Wall Street e la Fed, ha “smontato” molte regole globaliste del Wto. Attenzione: il Russiagate si sta sgonfiando, per ammissione dei suoi stessi “inventori”. Politica estera? Altri successi: le due Coree si stanno pacificando, e l’Isis sta sparendo dal Medio Oriente (dopo che gli Usa hanno dato via libera alla Russia, in Siria). Come aveva agito, Trump, in prima battuta? Abbaiando. Lo scopo: illudere il Deep State e dare tempo alla trattativa. Ma non solo: decifrando Q-Anon, Fait sfodera un ragionamento sofisticato: «Minacciare un imminente intervento militare ha un effetto preciso: fa uscire allo scoperto la rete nascosta del “nemico interno”, che a quel punto si attiva e diventa finalmente riconoscibile, agli occhi della contro-intelligence che la sta mappando». E’ esattamente quello che sta succedendo in Venezuela, scommette Fait: «Le minacce contro Maduro – roboanti come quelle contro Kim e Assad, finite nel nulla – porteranno alla luce le pedine del vecchio potere globalista e i loro legami. L’obiettivo finale è battere i peggiori settori del Deep State, annidati sia tra i sostenitori di Maduro che tra quelli di Guaidò».Troppo bello per essere vero? L’ennesima leggenda del web? Stefano Fait non la pensa così, anche se resta giustamente cauto: aspettiamo qualche mese, dice, e vedremo se le previsioni di Q-Anon saranno esatte. In ogni caso, aggiunge, la struttura-ombra sembra davvero impegnata nella “madre di tutte le battaglie”: spazzare via il peggior neoliberismo, che considera frutto – almeno, negli Usa – di veri e propri “traditori della patria”, divenuti mercenari (plutocrati cinici e apolidi, senz’altra bandiera che il denaro). C’è davvero una specie di esercito della salvezza, dietro la ruvida maschera di Trump? Secondo gli scettici, si tratta della solita trappola: è solo una guerra di potere, interna all’élite. Vale anche per la periferia dell’impero: basti vedere il cedimento italiano sul deficit e la conferma della legge Lorenzin sui vaccini. Tutto è teoricamente ambivalente, osserva Fait: se oggi Big Pharma intasca il grande business dei vaccini “sporchi”, non è detto che, domani, vaccini di nuova generazione – finalmente “puliti” e sicuri – non possano giovare alla salute dell’umanità.Si stanno verificando vere e proprie stranezze, come l’anomala insistenza parallela – di Trump e di Putin – sulla diffusione della temuta tecnologia G5. Molti esperti avvertono: le onde al altissima frequenza potrebbero “friggere” il cervello. E se domani – si domanda Fait – il G5 venisso reso sicuro, e impiegato per mettere fine alla politica della scarsità artificiale? Idem le cosiddette scie chimiche. «Scandaloso il silenzio dei media: i cieli di Tokyo sono puliti, come quelli cinesi, mentre da noi sono rigati dalle scie persistenti rilasciate dagli aerei». Ma, di nuovo: «Siamo certi che non siano un dispositivo a nostra tutela, per contrastare le alterazioni del clima?». Lo stesso Fait non vende certezze, si ferma onestamente alle domande. Però insiste: l’operazione Q-Anon ha l’aria di essere molto seria, più di quanto possiamo immaginare.Se è una fiaba, è bellissima. Infatti, testate come “Wired” e il quotidiano web “Next” di Enrico Mentana l’hanno già dichiarata una pagliacciata, nient’altro che una bufala. Stefano Fait, consulente strategico internazionale per aziende ed entità pubbliche, la prende sul serio. Si tratta di Q-Anon, sigla-fantasma che sta invadendo il web. Distilla informazioni spesso preziose, sempre esatte, precise, coerenti. Lo stile, dice Fait, è quello dell’intelligence militare Usa. Campo d’azione: guerra psicologica. Obiettivo: colpire e affondare il maledetto Deep State che ha globalizzato il capitalismo finanziario più predatorio, criminale e terrorista. Il piano: rovesciare l’élite neoliberista planetaria, che ha in pugno i grandi media. Non mi stupirei, dice Fait – intervistato da Fabio Frabetti a “Border Nights” – se domani si scoprisse che Trump, Putin e Xi-Jinping sono segretamente alleati, in questa operazione di portata epocale. Passaggi cruciali: le elezioni europee e poi le presidenziali americane, che Q-Anon prevede saranno precedute da una vigilia turbolenta e violentissima. In Europa, la bistrattata Italia gialloverde gioca il ruolo dell’ariete contro il sistema Ue-Bce. Immediata risposta francese, i Gilet Gialli: una regia unica. La rivolta in Francia, stranamente organizzatissima, è scattata dopo il fatale tweet di Trump: «Make France great again».
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Scuola di golpe: è nato in Serbia l’oscuro progetto Guaidò
Prima della data fatidica del 22 gennaio, meno di un venezuelano su 5 aveva mai sentito parlare di Juan Guaidó. Solo pochi mesi fa, il trentacinquenne era un personaggio oscuro in un gruppo di estrema destra di scarsa influenza politica, strettamente associato a macabri atti di violenza di strada. Anche nel suo stesso partito, Guaidó era una figura di medio livello nell’Assemblea Nazionale dominata dall’opposizione, che sta ora agendo in maniera incostituzionale. Ma dopo una sola telefonata dal vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, Guaidó si è proclamato presidente del Venezuela. Unto come capo del suo paese da Washington, uno sguazzatore di bassifondi politici precedentemente sconosciuto è stato fatto salire sul palcoscenico internazionale, selezionato dagli Stati Uniti come il leader della nazione con le maggiori riserve petrolifere del mondo. Facendo eco al consenso di Washington, il comitato editoriale del “New York Times” ha definito Guaidó un «rivale credibile» per il presidente Nicolás Maduro, con uno «stile rinfrescante e una visione per portare avanti il paese». Il comitato editoriale di “Bloomberg” lo ha applaudito per aver cercato «il ripristino della democrazia», e il “Wall Street Journal” lo ha dichiarato «un nuovo leader democratico».Al contempo il Canada, numerose nazioni europee, Israele e il blocco dei governi latinoamericani di destra, conosciuti come il Gruppo di Lima, hanno riconosciuto Guaidó come il leader legittimo del Venezuela. Mentre Guaidó sembra essersi materializzato dal nulla, è in realtà il prodotto di oltre un decennio di coltivazione attenta da parte delle “fabbriche di cambio di regime” del governo degli Stati Uniti. Accanto a un gruppo di attivisti studenteschi di destra, Guaidó è stato coltivato per minare il governo socialista, destabilizzare il paese e un giorno prendere il potere. Sebbene sia stato una figura minore nella politica venezuelana, ha passato anni a dimostrare la sua “dignità” nelle sale del potere di Washington. «Juan Guaidó è un personaggio creato per questa circostanza», ha detto a “Grayzone” Marco Teruggi, sociologo argentino e tra i principali cronisti della politica venezuelana. «È la logica di laboratorio: Guaidó è come una miscela di diversi elementi che creano un personaggio che, in tutta onestà, oscilla tra il risibile e il preoccupante».Diego Sequera, giornalista e scrittore venezuelano per l’agenzia investigativa “Mision Verdad”, concorda: «Guaidó è più popolare fuori dal Venezuela che dentro, specialmente nelle élite Ivy League e nei circoli di Washington. È un personaggio conosciuto lì, è prevedibilmente di destra ed è considerato fedele al programma». Mentre Guaidó è oggi venduto come il volto della restaurazione democratica, ha trascorso la sua carriera nella fazione più violenta del partito di opposizione più radicale del Venezuela, posizionandosi in prima linea in una campagna di destabilizzazione dopo l’altra. Il suo partito è stato ampiamente screditato in Venezuela, ed è ritenuto in parte responsabile della frammentazione di un’opposizione fortemente indebolita. «Questi leader radicali non hanno più del 20% nei sondaggi d’opinione», scrive Luis Vicente León, il principale sondaggista del Venezuela. Secondo Leon, il partito di Guaidó rimane isolato perché la maggioranza della popolazione non vuole la guerra: «Quello che vogliono è una soluzione».Ma questo è precisamente il motivo per cui Guaidó è stato scelto da Washington: non è previsto che guidi il Venezuela verso la democrazia, ma che faccia collassare un paese che negli ultimi due decenni è stato un baluardo di resistenza all’egemonia degli Stati Uniti. La sua improbabile ascesa segna il culmine di un progetto durato due decenni per distruggere un solido esperimento socialista. Dall’elezione del 1998 di Hugo Chavez, gli Stati Uniti hanno combattuto per ripristinare il controllo sul Venezuela e le sue vaste riserve petrolifere. I programmi socialisti di Chavez hanno in parte ridistribuito la ricchezza del paese e aiutato a sollevare milioni dalla povertà, ma gli hanno anche dipinto un bersaglio sulle spalle. Nel 2002, l’opposizione di destra venezuelana lo depose con un colpo di Stato che aveva il sostegno e il riconoscimento degli Stati Uniti, ma l’esercito ripristinò la sua presidenza dopo una mobilitazione popolare di massa. Durante le amministrazioni dei presidenti degli Stati Uniti George W. Bush e Barack Obama, Chavez è sopravvissuto a numerosi tentativi di omicidio, prima di soccombere al cancro nel 2013. Il suo successore, Nicolás Maduro, è sopravvissuto a tre attentati.L’amministrazione Trump ha immediatamente elevato il Venezuela al vertice della lista dei cambi di regime di Washington, dandogli il marchio di leader di una “troika della tirannia”. L’anno scorso, la squadra di sicurezza nazionale di Trump ha cercato di reclutare membri dell’esercito venezuelano per istaurare una giunta militare, ma questo sforzo è fallito. Secondo il governo venezuelano, gli Stati Uniti erano anche coinvolti in una trama chiamata “Operazione Costituzione” per catturare Maduro nel palazzo presidenziale di Miraflores, e un’altra chiamata “Operazione Armageddon” per assassinarlo a una parata militare nel luglio 2017. Poco più di un anno dopo, i leader dell’opposizione esiliata hanno cercato di uccidere Maduro, usando droni-bomba durante una parata militare a Caracas. Più di un decennio prima di questi intrighi, un gruppo di studenti dell’opposizione di destra fu selezionato e curato da un’accademia di formazione d’élite per il cambio di regimi, finanziata dagli Stati Uniti per rovesciare il governo venezuelano e ripristinare l’ordine neoliberista.Il 5 ottobre 2005, con la popolarità di Chavez al suo apice e il suo governo che pianifica vasti programmi socialisti, cinque “leader studenteschi” venezuelani arrivarono a Belgrado, in Serbia, per iniziare l’addestramento per un’insurrezione. Gli studenti erano arrivati dal Venezuela per gentile concessione del Centro per le azioni e strategie nonviolente applicate, o Canvas. Questo gruppo è finanziato in gran parte attraverso il National Endowment for Democracy, un cut-out della Cia che funziona come il braccio principale del governo degli Stati Uniti per promuovere i cambi di regime, e propaggini come l’International Republican Institute e il National Democratic Institute for International Affairs. Secondo le e-mail interne trapelate da Stratfor, una società di intelligence nota come “la Cia-ombra”, «Canvas potrebbe aver ricevuto finanziamenti e addestramento dalla Cia durante la lotta anti-Milosevic del 1999-2000».Canvas è uno spin-off di Otpor, un gruppo di protesta serbo fondato da Srdja Popovic nel 1998 all’Università di Belgrado. Otpor, che significa “resistenza” in serbo, è stato il gruppo studentesco che ha guadagnato fama internazionale – e la pubblicità di Hollywood – mobilitando le proteste che alla fine hanno fatto cadere Slobodan Milosevic. Questa piccola cellula di specialisti del cambio di regime operava secondo le teorie del defunto Gene Sharp, “il Von Clausewitz della lotta non violenta”. Sharp aveva lavorato con un ex analista della Defense Intelligence Agency, il colonnello Robert Helvey, per ideare le linee guida per l’utilizzo della protesta come una forma di guerra ibrida, mirata agli Stati che resistevano alla dominazione unipolare di Washington. Otpor è stato sostenuto dal National Endowment for Democracy, dall’Usaid e dall’Istituto Albert Einstein di Sharp. Sinisa Sikman, uno dei creatori di Otpor, una volta ha detto che il gruppo ha persino ricevuto finanziamenti diretti della Cia.Secondo un’e-mail trapelata dallo staff di Stratfor, dopo aver eliminato Milosevic dal potere, «i ragazzi che gestivano Otpor sono cresciuti, si sono vestiti bene e hanno progettato Canvas, o in altre parole un gruppo “export-a-revolution” che ha gettato i semi delle varie altre “rivoluzioni colorate”. Sono ancora legati ai finanziamenti degli Stati Uniti e fondamentalmente vanno in giro per il mondo cercando di rovesciare dittatori e governi autocratici (quelli che agli Usa non piacciono)». Stratfor ha rivelato che Canvas «ha rivolto la sua attenzione al Venezuela» nel 2005, dopo aver addestrato i movimenti di opposizione che hanno portato le operazioni di cambio di regime pro-Nato in tutta l’Europa orientale. Mentre monitorava il programma di formazione Canvas, Stratfor ha delineato il suo programma insurrezionalista in un linguaggio straordinariamente chiaro: «Il successo non è affatto garantito, e i movimenti studenteschi sono solo l’inizio di quello che potrebbe essere uno sforzo di anni per innescare una rivoluzione in Venezuela, ma i formatori sono le persone che si sono fatte le ossa col “Macellaio dei Balcani”. Hanno delle abilità pazzesche. Quando vedrete studenti in cinque università venezuelane tenere dimostrazioni simultanee, saprete che la formazione è finita e il vero lavoro è iniziato».Il “vero lavoro” è iniziato due anni dopo, nel 2007, quando Guaidó si è laureato presso l’Università Cattolica Andrés Bello di Caracas. Si è trasferito a Washington per iscriversi al corso di governance e gestione politica presso la George Washington University sotto la guida dell’economista venezuelano Luis Enrique Berrizbeitia, uno dei principali economisti neoliberali latinoamericani. Berrizbeitia è un ex direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale, che ha trascorso oltre un decennio lavorando nel settore energetico venezuelano sotto il vecchio regime oligarchico poi estromesso da Chavez. Quell’anno, Guaidó contribuì a guidare i raduni anti-governativi dopo che il governo venezuelano rifiutò di rinnovare la licenza di “Radio Caracas Televisión” (Rctv). Questa stazione privata svolse un ruolo di primo piano nel colpo di Stato del 2002 contro Hugo Chavez. “Rctv” aiutò a mobilitare i manifestanti anti-governativi, diffondendo informazioni false che incolpavano i sostenitori del governo di atti di violenza, compiuti in realtà dai membri dell’opposizione, e censurò tutte le dichiarazioni pro-governative in occasione del colpo di Stato.Il ruolo di “Rctv” e di altre stazioni di proprietà degli oligarchi nel guidare il fallito tentativo di colpo di Stato è stato ben descritto nell’acclamato documentario “La rivoluzione non sarà trasmessa”. Nello stesso anno, gli studenti rivendicarono il merito di aver soffocato il referendum costituzionale di Chavez per “un socialismo del XXI secolo” che prometteva di «impostare il quadro legale per la riorganizzazione politica e sociale del paese, dando un potere diretto alle comunità organizzate come prerequisito per lo sviluppo di un nuovo sistema economico». Dalle proteste su “Rctv” e referendum, nacque un gruppo specializzato di attivisti del cambio di regime sostenuto dagli Stati Uniti. Si sono definiti “Generation 2007”. I formatori di Stratfor e Canvas di questa cellula hanno identificato un organizzatore chiamato Yon Goicoechea, alleato di Guaidó – quale “fattore chiave” nel soffocamento del referendum costituzionale. L’anno seguente, Goicochea fu ricompensato per i suoi sforzi con il Milton Friedman Prize for Advancing Liberty del Cato Institute, insieme a un premio di 500.000 dollari, che investì prontamente nella costruzione della sua rete politica “Prima la Libertà” (Primero Justicia).Friedman, naturalmente, era il padrino del famigerato think-tank neoliberista dei Chicago Boys che fu importato in Cile dal leader della giunta dittatoriale Augusto Pinochet per attuare politiche di radicale austerità fiscale in stile “shock-doctrine”. E il Cato Institute è il think-tank neoliberista di Washington, fondato dai fratelli Koch, due grandi donatori del partito repubblicano che sono diventati aggressivi sostenitori della destra in tutta l’America Latina. WikiLeaks ha pubblicato un’e-mail del 2007 che l’ambasciatore americano in Venezuela William Brownfield ha inviato al Dipartimento di Stato, al Consiglio di sicurezza nazionale e al Comando meridionale del Dipartimento della difesa elogiando «la Generazione del ‘07» per aver «costretto il presidente venezuelano, abituato a fissare l’agenda politica, a reagire spropositatamente». Tra i «leader emergenti» identificati da Brownfield c’erano Freddy Guevara e Yon Goicoechea. Ha applaudito quest’ultima figura come «uno dei difensori più articolati delle libertà civili». Riempiti di denaro dagli oligarchi neoliberali, i quadri radicali venezuelani hanno portato le loro tattiche Otpor nelle strade, insieme a una loro particolare versione del logo del gruppo.Nel 2009, gli attivisti giovanili di “Generation 2007” hanno messo in scena la loro dimostrazione più provocatoria, calandosi i pantaloni nelle strade e scimmiottando le “scandalose” tattiche di “guerrilla” delineate da Gene Sharp nei suoi manuali sul cambio di regime. I manifestanti si erano mobilitati contro l’arresto di un alleato di un altro gruppo giovanile, chiamato Javu. Questo gruppo di estrema destra «raccolse fondi da una varietà di fonti governative degli Stati Uniti, che gli permisero di acquisire rapida notorietà come l’ala più dura dei movimenti di opposizione», secondo il libro dell’accademico George Ciccariello-Maher, “Building the Commune”. Mentre i video della protesta non sono disponibili, molti venezuelani hanno identificato Guaidó come uno dei suoi partecipanti chiave. Sebbene l’accusa non sia confermata, è certamente plausibile; i manifestanti con le natiche nude erano membri del nucleo interno di “Generazione 2007” a cui apparteneva Guaidó e indossavano le T-shirt col loro marchio di fabbrica “Resistencia!”.Quell’anno, Guaidó si espose al pubblico in un altro modo, fondando un partito politico per catturare l’energia anti-Chavez che la sua “Generazione 2007” aveva coltivato. Il partito, chiamato “Volontà popolare”, fu guidato da Leopoldo López, un purosangue di destra educato a Princeton, pesantemente coinvolto nei programmi del National Endowment for Democracy ed eletto sindaco di un distretto di Caracas tra i più ricchi del paese. Lopez era un ritratto dell’aristocrazia venezuelana, direttamente discendente dal primo presidente del suo paese. È anche cugino di Thor Halvorssen, fondatore della Human Rights Foundation, con sede negli Stati Uniti, che funge da facciata pubblicitaria per gli attivisti anti-governativi sostenuti dagli Stati Uniti in paesi presi di mira da Washington. Sebbene gli interessi di Lopez fossero allineati perfettamente con quelli di Washington, i documenti diplomatici statunitensi pubblicati da WikiLeaks mettevano in luce le tendenze fanatiche che avrebbero portato alla marginalizzazione dal consenso popolare.Un comunicato identificava Lopez come «una figura di divisione all’interno dell’opposizione, spesso descritta come arrogante, vendicativa e assetata di potere». Altri hanno evidenziato la sua ossessione per gli scontri e il suo «approccio intransigente» come fonte di tensione con altri leader dell’opposizione, che davano priorità all’unità e alla partecipazione alle istituzioni democratiche del paese. Nel 2010 “Volontà Popolare” e i suoi sostenitori stranieri si sono mossi per sfruttare la peggiore siccità che avesse colpito il Venezuela, da decenni. La grande carenza di energia elettrica aveva colpito il paese a causa della scarsità d’acqua, necessaria per alimentare le centrali idroelettriche. La recessione economica globale e un calo dei prezzi del petrolio aggravarono la crisi, provocando il malcontento pubblico. Stratfor e Canvas – i principali consiglieri di Guaidó e dei suoi quadri anti-governativi – escogitarono un piano scandalosamente cinico per pugnalare al cuore la rivoluzione bolivariana. Il piano prevedeva un crollo del 70% del sistema elettrico del paese già nell’aprile 2010.«Questo potrebbe essere l’evento spartiacque, poiché c’è poco che Chavez possa fare per proteggere i poveri dal fallimento di quel sistema», dichiara il memorandum interno di Stratfor. «Questo avrà probabilmente l’effetto di galvanizzare i disordini pubblici in un modo che nessun gruppo di opposizione potrebbe mai sperare di generare. A quel punto, un gruppo di opposizione potrebbe servirsene per approfittare della situazione e scagliare l’opinione pubblica contro Chavez». In quel momento l’opposizione venezuelana riceveva 40-50 milioni di dollari l’anno da organizzazioni governative statunitensi come Usaid e National Endowment for Democracy, secondo un rapporto di un think-tank spagnolo, l’Istituto Frude. Aveva anche una grande ricchezza da attingere dai suoi conti, che erano per lo più al di fuori del paese. Ma lo scenario immaginato da Statfor non si realizzò, gli attivisti del partito “Volontà Popolare” e i loro alleati misero quindi da parte ogni pretesa di non violenza e si unirono in un piano radicale di destabilizzazione del paese.Nel novembre 2010, secondo le e-mail ottenute dai servizi di sicurezza venezuelani e presentate dall’ex ministro della giustizia Miguel Rodríguez Torres, Guaidó, Goicoechea e diversi altri attivisti studenteschi hanno partecipato ad un corso di formazione segreto di cinque giorni presso l’hotel Fiesta Mexicana di Città del Messico. Le sessioni sono state condotte da Otpor, i formatori del cambio regime a Belgrado appoggiati dal governo degli Stati Uniti. Secondo quanto riferito, l’incontro aveva ricevuto la benedizione di Otto Reich, un esiliato cubano fanaticamente anticastrista che lavorava nel Dipartimento di Stato di George W. Bush, e dall’ex presidente colombiano di destra Alvaro Uribe. All’hotel Fiesta Mexicana, Guaidó e i suoi compagni attivisti hanno ordito un piano per rovesciare Hugo Chavez generando il caos attraverso spasmi prolungati di violenza di strada.Tre personaggi dell’industria petrolifera – Gustavo Tovar, Eligio Cedeño e Pedro Burelli – hanno a quanto pare pagato il conto di 52.000 dollari dell’albergo. Torrar è un autoproclamato “attivista per i diritti umani” e “intellettuale”, il cui fratello minore Reynaldo Tovar Arroyo è il rappresentante in Venezuela della società petrolifera messicana privata Petroquimica del Golfo, che ha un contratto con lo Stato venezuelano. Cedeño, da parte sua, è un fuggitivo uomo d’affari venezuelano che ha chiesto asilo negli Stati Uniti, e Pedro Burelli un ex dirigente della Jp Morgan ed ex direttore della compagnia petrolifera nazionale venezuelana Petroleum of Venezuela (Pdvsa). Lasciò la Pdvsa nel 1998 mentre Hugo Chavez prendeva il potere, e faceva parte del comitato consultivo del programma di leadership in America Latina della Georgetown University. Burelli ha insistito sul fatto che le e-mail che dettagliavano la sua partecipazione erano state inventate, e ha persino assunto un investigatore privato per dimostrarlo. L’investigatore dichiarò che i registri di Google mostravano che le e-mail che si presumeva fossero sue non vennero mai trasmesse.Eppure oggi Burelli non fa mistero del suo desiderio di vedere deposto l’attuale presidente venezuelano, Nicolás Maduro, e anche di volerlo «trascinato per le strade e sodomizzato con una baionetta», come accaduto al capo libico Muhammar Gheddafi, così trattato dai miliziani sostenuti dalla Nato. La presunta trama di Fiesta Mexicana è confluita in un altro piano di destabilizzazione, rivelato in una serie di documenti mostrati dal governo venezuelano. Nel maggio 2014, Caracas ha rilasciato documenti che descrivono un complotto di omicidio contro il presidente Nicolás Maduro. Le fughe di notizie hanno identificato Maria Corina Machado, con sede a Miami, come leader del piano. Estremista con un debole per la retorica estrema, Machado ha funto da collegamento internazionale per l’opposizione, incontrando addirittura il presidente George W. Bush nel 2005. «Penso che sia tempo di raccogliere gli sforzi; fai le chiamate necessarie e ottieni finanziamenti per annientare Maduro e il resto andrà in pezzi», ha scritto Maria Corina Machado in una e-mail all’ex diplomatico venezuelano Diego Arria nel 2014.In un’altra email, la Machado sosteneva che la trama violenta aveva la benedizione dell’ambasciatore statunitense in Colombia, Kevin Whitaker. «Ho già deciso, e questa lotta continuerà fino a quando questo regime non sarà rovesciato e consegneremo il risultato ai nostri amici nel mondo. Se sono andata a San Cristobal e mi sono esposta all’Oas, non ho paura di nulla. Kevin Whitaker ha già riconfermato il suo sostegno e ha sottolineato i nuovi passaggi. Abbiamo un libretto degli assegni più forte di quello del regime per rompere l’anello di sicurezza internazionale». Nel febbraio 2014, i manifestanti studenteschi che agivano come truppe d’assalto per l’oligarchia in esilio eressero barricate in tutto il paese, trasformando quartieri controllati dall’opposizione in fortezze violente, note come “guarimbas”. Mentre i media internazionali ritraevano lo sconvolgimento come una protesta spontanea contro la regola del pugno di ferro di Maduro, ci sono molte prove che fosse “Volontà Popolare” ad orchestrare lo spettacolo.«I manifestanti delle università non indossavano le loro magliette, tutti indossavano magliette di “Volontà Popolare” o “Justice First”», ha detto un partecipante alla “guarimba”, all’epoca. «Potrebbero essere stati gruppi di studenti, ma i consigli studenteschi sono affiliati ai partiti politici di opposizione e sono responsabili nei loro confronti». Alla domanda su chi fossero i capobanda, il partecipante alla “guarimba” ha dichiarato: «Beh, ad essere onesti, quei ragazzi ora sono in Parlamento». Circa 43 sono stati i morti durante le “guarimbas” del 2014. Le stesse violenze eruttarono di nuovo tre anni dopo, causando grandi distruzioni di infrastrutture pubbliche, l’assassinio di sostenitori del governo e la morte di 126 persone, molte delle quali erano chaviste. In diversi casi, i sostenitori del governo sono stati bruciati vivi da bande armate. Guaidó è stato direttamente coinvolto nelle “guarimbas” del 2014. Infatti, ha twittato un video in cui si mostrava vestito con un elmetto e una maschera antigas, circondato da elementi mascherati e armati che avevano bloccato un’autostrada e che si stavano impegnando in uno scontro violento con la polizia. Alludendo alla sua partecipazione alla “Generazione 2007”, proclamava: «Ricordo che nel 2007, abbiamo proclamato, “Studenti!”. Ora gridiamo: “Resistenza! Resistenza”». Guaidó ha poi cancellato il tweet, dimostrando un’apparente preoccupazione per la sua immagine di paladino della democrazia.Il 12 febbraio 2014, durante il culmine delle “guarimbas” di quell’anno, Guaidó si è unito a Lopez sul palco di una manifestazione di “Volontà Popolare” e “Prima la Giustizia”. Con un lungo discorso contro il governo, Lopez esortò la folla a marciare verso l’ufficio del procuratore generale Luisa Ortega Diaz. Poco dopo, l’ufficio di Diaz venne attaccato da bande armate che tentarono di bruciarlo. La Diaz ha definito l’episodio come «violenza programmata e premeditata». In un’apparizione televisiva del 2016, Guaidó ha liquidato come “mito” le morti risultanti da “guayas” – una tattica di “guarimba” che consiste nel piazzare filo spinato su una strada ad altezza della testa per ferire o uccidere motociclisti. I suoi commenti hanno minimizzato una tattica micidiale che aveva ucciso civili disarmati come Santiago Pedroza e decapitato un uomo di nome Elvis Durán, tra molti altri. Questo insensibile disprezzo per la vita umana definisce “Volontà Popolare” agli occhi di gran parte del pubblico, compresi molti avversari di Maduro.Con l’intensificarsi della violenza e della polarizzazione politica in tutto il paese, il governo ha iniziato ad agire contro i leader di “Volontà Popolare”. Freddy Guevara, vicepresidente dell’Assemblea Nazionale e secondo in comando di “Volontà Popolare”, è stato il principale leader delle rivolte di strada del 2017. Di fronte a un processo per il suo ruolo nelle violenze, Guevara si è rifugiato nell’ambasciata cilena, dove rimane. Lester Toledo, un legislatore di “Volontà Popolare” dello Stato di Zulia, è stato ricercato dal governo venezuelano nel settembre 2016 con l’accusa di finanziamento del terrorismo e di complotto a fini di omicidio. Si dice che i piani siano stati preparati insieme all’ex presidente colombiano Álavaro Uribe. Toledo è fuggito dal Venezuela e ha fatto diverse tournée con Human Rights Watch, la Freedom House, il Congresso spagnolo e il Parlamento Europeo, sostenuto dal governo degli Stati Uniti.Carlos Graffe è un altro membro della “Generazione 2007” addestrata da Otpor, che ha guidato Volontà Popolare. E’ stato arrestato nel luglio 2017. Secondo la polizia, era in possesso di una borsa piena di chiodi, esplosivo C4 e un detonatore. È stato rilasciato il 27 dicembre 2017. Leopoldo Lopez, il leader di lunga data di “Volontà Popolare”, è oggi agli arresti domiciliari, accusato di aver avuto un ruolo chiave nella morte di 13 persone durante le “guarimbas” nel 2014. Amnesty International ha elogiato Lopez come «prigioniero di coscienza». Nel frattempo, i familiari delle vittime di “guarimba” hanno presentato una petizione per ulteriori accuse contro Lopez. Goicoechea, il poster-boy dei fratelli Koch e fondatore di “Prima la Giustizia”, sostenuto dagli Stati Uniti, è stato arrestato nel 2016 dalle forze di sicurezza, che hanno affermato di aver trovato un chilo di esplosivo nel suo veicolo. In un editoriale del “New York Times”, Goicoechea ha protestato contro le accuse (che definisce false) e ha affermato di essere stato imprigionato semplicemente per il suo «sogno di una società democratica, libera dal comunismo». È stato liberato nel novembre 2017.David Smolansky, anche lui membro dell’originale “Generation 2007” di Otpor, è diventato il più giovane sindaco venezuelano quando è stato eletto nel 2013 nel ricco sobborgo di El Hatillo. Ma è stato spogliato della sua posizione e condannato a 15 mesi di prigione dalla Corte Suprema dopo essere stato trovato colpevole di aver fomentato le violenze delle “guarimbas”. Prima dell’arresto, Smolansky si rasò la barba, indossò occhiali da sole e scivolò in Brasile travestito da prete con una Bibbia in mano e il rosario al collo. Ora vive a Washington, dove è stato scelto dal segretario dell’Organizzazione degli Stati Americani Luis Almagro per guidare il gruppo di lavoro sulla crisi dei migranti e dei rifugiati venezuelani. Lo scorso 26 luglio, Smolansky ha tenuto quella che ha definito una «riunione cordiale» con Elliot Abrams, il criminale condannato nel processo Iran-Contra, ora mandato da Trump come inviato speciale degli Stati Uniti in Venezuela. Abrams è noto per aver supervisionato la politica segreta degli Stati Uniti di armare gli squadroni della morte di destra durante gli anni ‘80 in Nicaragua, El Salvador e Guatemala. Il suo ruolo principale nel colpo di Stato venezuelano ha alimentato i timori che un’altra guerra per procura potrebbe essere in arrivo. Quattro giorni prima, Machado aveva urlato un’altra violenta minaccia contro Maduro, dichiarando che «se vuole salvarsi la vita, dovrebbe capire che il suo tempo è scaduto».Il collasso di “Volontà Popolare”, sotto il peso della violenta campagna di destabilizzazione che aveva avviato, ha alienato il consenso di ampi settori dell’opinione pubblica e ha costretto gran parte della sua leadership in esilio o in carcere. Guaidó è sempre rimasto una figura relativamente minore, ha infatti trascorso gran parte della sua carriera di nove anni all’Assemblea Nazionale come sostituto. Originario di uno degli Stati meno popolati del Venezuela, Guaidó arrivò secondo alle elezioni parlamentari del 2015, assicurandosi il posto in Assemblea con appena il 26% dei voti. In effetti, si può dire che il suo sedere fosse più conosciuto della sua faccia. Guaidó è noto come il presidente dell’Assemblea Nazionale, dominata dall’opposizione, ma non è mai stato eletto. I quattro partiti di opposizione che comprendevano il Tavolo di Unità Democratica dell’Assemblea avevano deciso di istituire una presidenza a rotazione. La svolta di “Volontà Popolare” era in arrivo, ma il suo fondatore, Lopez, era agli arresti domiciliari. Nel frattempo, il suo secondo incaricato, Guevara, si era rifugiato nell’ambasciata cilena. Juan Andrés Mejía avrebbe dovuto occupare la presidenza dell’Assemblea, ma per ragioni che ora sono maggiormente chiare, gli fu preferito Juan Guaidò.«C’è un ragionamento di classe che spiega l’ascesa di Guaidó», osserva Sequera, l’analista venezuelano. «Mejía è di classe alta, ha studiato in una delle università private più costose del Venezuela e non poteva essere facilmente venduto al pubblico come Guaidó. Guaidó ha caratteristiche meticce comuni alla maggior parte dei venezuelani, e sembra più un uomo della gente. Inoltre, non era stato sovraesposto nei media, quindi poteva essere presentato in praticamente qualsiasi salsa». Nel dicembre 2018, Guaidó si è recato a Washington, in Colombia e in Brasile per coordinare la preparazione di manifestazioni di massa durante l’inaugurazione della presidenza Maduro. La notte prima della cerimonia di giuramento di Maduro, sia il vicepresidente Mike Pence che il ministro degli esteri canadese Chrystia Freeland hanno chiamato Guaidó per confermare il loro sostegno. Una settimana dopo, il senatore Marco Rubio, il senatore Rick Scott e il rappresentante Mario Diaz-Balart – tutti i legislatori della base della destra della lobby di esilio cubano di destra – si sono uniti al presidente Trump e al vicepresidente Pence alla Casa Bianca. Su loro richiesta, Trump dichiarò che se Guaidó si fosse dichiarato presidente, lo avrebbe sostenuto.Il segretario di Stato Mike Pompeo ha incontrato personalmente Guaidó il 10 gennaio, secondo il “Wall Street Journal”. Tuttavia, Pompeo non riusci a pronunciare correttamente il nome di Guaidó quando lo menzionò in una conferenza stampa il 25 gennaio, riferendosi a lui come a “Juan Guido”. L’11 gennaio, la pagina di Wikipedia di Guaidó è stata modificata per 37 volte, mettendo in evidenza la lotta per modellare l’immagine di una figura precedentemente anonima che ora era un tableau per le ambizioni del cambio di regime di Washington. Alla fine, la supervisione editoriale della sua pagina è stata consegnata al consiglio d’élite dei “bibliotecari” di Wikipedia, che lo ha definito presidente «conteso» del Venezuela. Guaidó sarà anche una mezza figura, ma la sua combinazione di radicalismo e opportunismo soddisfa i bisogni di Washington. «Quel pezzo interno era mancante», ha detto di Guaidó un funzionario dell’amministrazione Trump. «Era il pezzo di cui avevamo bisogno perché la nostra strategia fosse coerente e completa». Brownfield, l’ex ambasciatore americano in Venezuela, ha dichiarato al “New York Times”: «Per la prima volta abbiamo un leader dell’opposizione che sta chiaramente segnalando alle forze armate e alle forze dell’ordine che vuole tenerle dalla parte degli angeli e dei bravi ragazzi».Ma è stata “Volontà Popolare” di Guaidó a formare le truppe d’assalto delle “guarimbas” che hanno causato la morte di agenti di polizia e comuni cittadini. Si era persino vantato della propria partecipazione alle rivolte di strada. E ora, per conquistare i cuori e le menti dei militari e della polizia, Guaidò ha dovuto cancellare questa storia intrisa di sangue. Il 21 gennaio, un giorno prima che il colpo di Stato iniziasse sul serio, la moglie di Guaidó ha presentato un video che invitava i militari a insorgere contro Maduro. La sua esibizione è stata legnosa e poco accattivante, e sottolinea le limitate prospettive politiche del marito. In una conferenza stampa di fronte ai suoi sostenitori, quattro giorni dopo, Guaidó ha annunciato la sua soluzione alla crisi: «Autorizzare un intervento umanitario!». Mentre attende l’assistenza diretta, Guaidó rimane quello che è sempre stato – una marionetta, frutto del progetto di ciniche forze esterne. «Non importa se si brucerà dopo tutte queste disavventure», dice Sequera del fantoccio del colpo di Stato. «Per gli americani, è sacrificabile».(Dan Cohen e Max Blumenthal, “The making of Juan Guaidó – Il fantoccio creato in laboratorio per il colpo di Stato in Venezuela”, da “Consortium News” del 29 gennaio 2019: reportage tradotto da Enrico Carotenuto per “Coscienze in Rete”. Max Blumenthal è un giornalista pluripremiato e autore di numerosi libri, tra cui “Gomorra Repubblicana”, “Golia”, “La guerra dei cinquanta giorni” e “La gestione della ferocia”. Ha prodotto articoli per numerose pubblicazioni, molti video report e diversi documentari, tra cui “Killing Gaza”. Blumenthal ha fondato “The Grayzone” nel 2015 per puntare un faro giornalistico sullo stato di guerra perpetua dell’America e le sue pericolose ripercussioni domestiche. Dan Cohen è un giornalista e regista. Ha prodotto reportage video ampiamente distribuiti e materiale cartaceo da tutta Israele-Palestina. E’ un corrispondente di “Rt America”).Prima della data fatidica del 22 gennaio, meno di un venezuelano su 5 aveva mai sentito parlare di Juan Guaidó. Solo pochi mesi fa, il trentacinquenne era un personaggio oscuro in un gruppo di estrema destra di scarsa influenza politica, strettamente associato a macabri atti di violenza di strada. Anche nel suo stesso partito, Guaidó era una figura di medio livello nell’Assemblea Nazionale dominata dall’opposizione, che sta ora agendo in maniera incostituzionale. Ma dopo una sola telefonata dal vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, Guaidó si è proclamato presidente del Venezuela. Unto come capo del suo paese da Washington, uno sguazzatore di bassifondi politici precedentemente sconosciuto è stato fatto salire sul palcoscenico internazionale, selezionato dagli Stati Uniti come il leader della nazione con le maggiori riserve petrolifere del mondo. Facendo eco al consenso di Washington, il comitato editoriale del “New York Times” ha definito Guaidó un «rivale credibile» per il presidente Nicolás Maduro, con uno «stile rinfrescante e una visione per portare avanti il paese». Il comitato editoriale di “Bloomberg” lo ha applaudito per aver cercato «il ripristino della democrazia», e il “Wall Street Journal” lo ha dichiarato «un nuovo leader democratico».
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5 Stelle: dovevano aprire la scatoletta, e ora sono il tonno
Sono diventati la scatoletta di tonno. Dovevano aprire il Parlamento e invece sono arroccati come gli ultimi giapponesi. Prendevano in giro gli altri quando commentavano le elezioni e non sentivano il Bum! E invece ora stanno cercando di spiegarci in tutti i modi che in Abruzzo e in Sardegna sono andati benissimo, anche se hanno perso tre quarti dei voti. E già che ci sono, si danno alle spese pazze, loro, i francescani: 16 milioni e 812 mila euro per lo staff della presidenza del consiglio, 866.480 euro più di quanto spendesse Gentiloni, 2 milioni e 641 mila euro più di Renzi. Apertura alle liste civiche? Per carità, ci sta. Anzi, secondo molti la proliferazione di liste e candidati è uno dei punti di forza delle elezioni amministrative. Tuttavia, risulta piuttosto antipatico per chi diceva che tutto il resto era merda e che solo loro, solo il loro logo, solo il loro nome fossero una garanzia. E che ancora oggi attribuiscono le loro sconfitte alle orride ammucchiate altrui. Poi, certo, si sono alleati con Salvini, tanto per dire. Normale che da domani valga tutto. Fine dei due mandati? Dicono per i consiglieri comunali, ma è il più classico inizio della fine.Stare in Parlamento significa anche imparare a come muoversi e il professionismo della politica forse è stato buttato via con un po’ troppa fretta, dagli sprezzanti grillini. Che vivaddio, forse stanno imparando che il problema non è chi fa solo politica nella sua vita: il problema è che se non sai fare politica, ti fai fregare ogni volta dal ministro dell’inferno. Ma non finisce qua. Vincono sempre, anche quando perdono. Sì, esattamente come quegli altri. E come quegli altri i hanno imparato ad abusare dei numeri senza nemmeno bisogno di leggerli, solo per darli in pasto ai propri elettori. Perdi 30 punti percentuali tra le politiche e le regionali, nel giro di un anno? Sì, ma alle regionali precedenti eravamo a zero, quindi siamo cresciuti di dieci punti. Non puoi più fare il 2,4% di deficit in legge di bilancio? Pazienza facciamo il 2,04%, che magari qualcuno ci casca. Non bastasse, sono diventati un pozzo di veleni, come un qualunque partito di sinistra. Correnti e sotto correnti, a costante ricerca di un capro espiatorio, veleni senza nome contro il capo politico Luigi Di Maio, e lui – naturalmente non eletto da nessuno, non sia mai, a proposito della democrazia del Movimento – che nel partito dell’uno vale uno fa la voce grossa contro tutti.Roba da sbellicarsi dal ridere anche la promessa rivoluzione interna che, come tutto il resto, arriverà calata dall’alto. Come in un qualunque partito. La freschezza? Persa. E poi diciamolo: questo mito della freschezza era una cagata pazzesca se addirittura Grillo, giusto l’altro ieri, ha accusato i suoi di essere inesperti. Lui che fino all’altro ieri voleva sorteggiare i parlamentari, per dire. Con Travaglio che cercava di convincerci che non avere condanne perché non si era nemmeno avuto l’occasione di compierne (con lavoretti stagionali come unica esperienza professionale) fosse una virtù. E il bello è che li difendono pure, per spirito di appartenenza, come accade in qualunque partito: eppure sarebbe così facile ammattere che Danilo Toninelli non è adatto a fare il ministro. Eccovela, insomma, la prossima la scatoletta di tonno. Ora tocca aspettare che qualcuno si proponga di aprirla e convinca abbastanza gente a dargli il voto per farlo. Nel frattempo, su Rousseau si registra la fila per una poltrona a Strasburgo: 2994 aspiranti candidati per le europee, che lo scranno fa gola a tutti. Alla faccia dell’antipolitica.(Giulio Cavalli, “Buongiornissimo, Di Maio: ora i Cinque Stelle sono come tutti gli altri partiti, forse pure peggio”, da “Linkiesta” del 27 febbraio 2019).Sono diventati la scatoletta di tonno. Dovevano aprire il Parlamento e invece sono arroccati come gli ultimi giapponesi. Prendevano in giro gli altri quando commentavano le elezioni e non sentivano il Bum! E invece ora stanno cercando di spiegarci in tutti i modi che in Abruzzo e in Sardegna sono andati benissimo, anche se hanno perso tre quarti dei voti. E già che ci sono, si danno alle spese pazze, loro, i francescani: 16 milioni e 812 mila euro per lo staff della presidenza del consiglio, 866.480 euro più di quanto spendesse Gentiloni, 2 milioni e 641 mila euro più di Renzi. Apertura alle liste civiche? Per carità, ci sta. Anzi, secondo molti la proliferazione di liste e candidati è uno dei punti di forza delle elezioni amministrative. Tuttavia, risulta piuttosto antipatico per chi diceva che tutto il resto era merda e che solo loro, solo il loro logo, solo il loro nome fossero una garanzia. E che ancora oggi attribuiscono le loro sconfitte alle orride ammucchiate altrui. Poi, certo, si sono alleati con Salvini, tanto per dire. Normale che da domani valga tutto. Fine dei due mandati? Dicono per i consiglieri comunali, ma è il più classico inizio della fine.
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Cabras: bagno di sangue a Caracas, se tifiamo per Guaidò
E’ evidente che in Venezuela siamo alla fine di un lungo ciclo politico, segnato fin qui dai governi di Chavez e Maduro. Il Venezuela cerca una svolta, e merita di trovarla. Dobbiamo tutti chiederci cosa dobbiamo fare, per assicurare una transizione pacifica, verso un nuovo equilibrio che garantisca tutti ed eviti un immenso bagno di sangue. I due blocchi sono lì, entrambi abbastanza forti da potersi giocare alla pari la partita: o la guerra civile, o la conciliazione nazionale costituzionale. Chi oggi vuole ignorare lo spettro di una guerra civile con risvolti internazionali compie un azzardo politico irresponsabile: tutti i precedenti ce lo dicono, in modo evidente. Più volte abbiamo visto potenze esterne esasperare una crisi, introdursi nel nucleo cesaristico di un potere statale, sgretolarlo e cercare di afferrarne i dividendi fra le macerie. Ma quello che riescono a creare davvero è solo il caos, fatto di infiniti compromessi coi “signori della guerra”. Noi non vogliamo vedere delle milizie che scorrazzano tra le macerie di Caracas con enormi mitragliatrici caricate sui cassoni dei pick-up come abbiamo visto a Baghdad, a Tripoli o ad Aleppo. Non vogliamo una guerra in Venezuela. Il modo migliore di evitarla è la non-interferenza, che è un ottimo principio base delle Nazioni Unite.A quanti qui a Roma pensano di aver già saputo dirimere le controversie costituzionali a Caracas propongo una constatazione semplice: noi non siamo la Corte Suprema del Venezuela. Siamo invece un paese tenuto a tutelare al meglio i propri cittadini e a rispettare la carta dell’Onu. Riconoscere Guaidò, come presidente già ora pienamente in carica, può avere risvolti politici rilevanti: ne capiamo le ragioni contingenti ma, in termini diplomatici, è un atto impraticabile e incompatibile con gli obiettivi dell’Italia, non riconosciuto né riconoscibile dall’Onu. Guidò non controlla i poteri dello Stato venezuelano, non ha presa sull’amministrazione, non dirige i ministeri, non ha in mano le forze dell’ordine, non ha strumenti per garantire gli impegni internazionali. Il rischio di un riconoscimento prematuro è quello di un vicolo cieco diplomatico, che annichilirebbe le chance per il dialogo e la lascerebbe esposta la comunità italiana in Venezuela a incertezze intollerabili. Da questo aspetto non si scappa.Nell’immediato, Guaidò può riuscire a esercitare davvero il potere solo in tre modi, che comportano tutti un enorme incremento della violenza: o un’insurrezione militare, o una rivolta popolare armata (che si scontrerebbe con l’altro blocco politico e sociale, che è abbastanza forte) oppure con un intervento straniero. E in effetti l’8 febbraio, in una dichiarazione, Guaidò dice che non esclude la possibilità di autorizzare (attenzione a questa parola: autorizzare) un intervento militare statunitense per aiutare a rimuovere dal potere il presidente Maduro, naturalmente sotto l’eterno ombrello giustificativo di una crisi umanitaria. Ecco perché sostenere le forzature istituzionali per il “regime change” significa facilitare la guerra nelle case dei venezuelani: c’è ancora qualcuno che può pensare che in Venezuela si possano tenere libere elezioni e ci sia una governabilità praticabile, in assenza di un accordo politico fra i due blocchi? E senza il supporto delle organizzazioni internazionali? Servono meccanismi di mediazione approvati dell’Onu, in ossequio all’ordinamento internazionale, con l’obiettivo di una via pacifica e democratica alla crisi del Venezuela, come il faticoso tentativo in atto con il meccanismo di Montevideo.In questi giorni ci sono state molte polemiche e distorsioni sulla nostra posizione. Siamo ben lontani dal considerare Maduro un modello di qualcosa. Ma una parte della stampa e della politica ragiona così: se non ritieni auspicabile spalleggiare una forzatura istituzionale, allora sei automaticamente un fan entusiasta del presidente. Viceversa, noi non siamo tifosi di nessuno: riteniamo che, in politica estera, sia sbagliato fare il tifo e usare approcci ideologici. E’ molto più utile capire le ragioni del consenso e del dissenso, e capire perché – a sostegno di un potere che si vuole rimuovere con la logica della “debellatio” – si muovono invece forze storiche molto solide, che hanno alleanze internazionali resistenti. La base sociale del chavismo è stata creata negli anni di punta dei prezzi elevati del petrolio. E’ un buon esercizio, leggere i dati economici degli ultimi vent’anni nella scheda-paese del Venezuela compilata dal Fondo Monetario Internazionale.Ecco, i dati ufficiali non descrivono un paradiso, ma un fenomeno politico notevole, radicato, che ha fondato ex novo uno Stato sociale dentro una rete di relazioni internazionali in cui investivano Cina, Russia e altri paesi. Uno Stato sociale oggi sfiancato dalle sue contraddizioni, degli errori gestionali, da un centro di intermediazione burocratica inadeguato e corrotto, dal calo del prezzo del petrolio e delle sanzioni di Washington, che hanno inciso pesantemente negli ultimi due anni. Si tratta tuttavia di un blocco di interessi ancora consistente, che non sopporterebbe un revanscismo che volesse smantellarlo totalmente, riportando il modello classico dell’America Latina di trent’anni fa: quello di una borghesia esclusivamente orientata al Nord America e indifferente alle disuguaglianze sociali. Dal canto suo, l’opposizione ha solidissimi rapporti con il National Endowment for Democracy, l’ente statunitense che spende ogni anno milioni di dollari (e sono tutti i dati pubblici) per sorreggere il tessuto delle organizzazioni del blocco sociale alternativo venezuelano. Insomma, tutte le grandi potenze sono portatrici di vasti interessi economici e geopolitici, non riducibili alla sola questione – pur ingombrante – del petrolio.E c’è dell’altro: qualcosa di cui finora nel nostro Parlamento non si è discusso, ma che merita l’attenzione di tutti. La recentissima fine del trattato Inf sui missili nucleari a raggio intermedio può riaprire una pericolosa corsa agli armamenti: le grandi potenze nucleari guardano all’Europa e ai Caraibi come possibile teatro di dislocazione dei nuovi missili. Non possiamo trascurare questo scenario drammatico, in grado di ridurre a pochi minuti il tempo delle decisioni che possono evitare la catastrofe atomica. L’Europa ha un interesse vitale a costruire un sistema di relazioni internazionali che sia il più lontano possibile dalla “mezzanotte nucleare”, di cui sarebbe la prima vittima. E per fare questo deve ridurre le faglie che si stanno aprendo ormai su troppi fronti interconnessi, incluso questo fronte tropicale. In Venezuela si tenga conto dell’interesse di venezuelani a trovare una via di conciliazione nazionale pacifica, indipendente, attenta alle interdipendenze mondiali e al riconoscimento democratico di tutte le formazioni sociali e politiche del paese. I due polmoni della democrazia del Venezuela devono respirare nello stesso petto.(Pino Cabras, dichirazioni rilasciate nei giorni scorsi alla Camera dei Deputati sulla crisi del Venezuela, riprese su YouTube e sul blog “Megachip”. Parlamentare del Movimento 5 Stelle, Cabras è membro della Commissione Affari Esteri della Camera).E’ evidente che in Venezuela siamo alla fine di un lungo ciclo politico, segnato fin qui dai governi di Chavez e Maduro. Il Venezuela cerca una svolta, e merita di trovarla. Dobbiamo tutti chiederci cosa dobbiamo fare, per assicurare una transizione pacifica, verso un nuovo equilibrio che garantisca tutti ed eviti un immenso bagno di sangue. I due blocchi sono lì, entrambi abbastanza forti da potersi giocare alla pari la partita: o la guerra civile, o la conciliazione nazionale costituzionale. Chi oggi vuole ignorare lo spettro di una guerra civile con risvolti internazionali compie un azzardo politico irresponsabile: tutti i precedenti ce lo dicono, in modo evidente. Più volte abbiamo visto potenze esterne esasperare una crisi, introdursi nel nucleo cesaristico di un potere statale, sgretolarlo e cercare di afferrarne i dividendi fra le macerie. Ma quello che riescono a creare davvero è solo il caos, fatto di infiniti compromessi coi “signori della guerra”. Noi non vogliamo vedere delle milizie che scorrazzano tra le macerie di Caracas con enormi mitragliatrici caricate sui cassoni dei pick-up come abbiamo visto a Baghdad, a Tripoli o ad Aleppo. Non vogliamo una guerra in Venezuela. Il modo migliore di evitarla è la non-interferenza, che è un ottimo principio base delle Nazioni Unite.
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Chi smaschera il debito ci rimette la vita: Sankara insegna
Sono passati trent’anni anni da quando il presidente rivoluzionario del Burkina Faso, ribattezzato “il Che Guevara africano”, venne ucciso – secondo la ricostruzione ormai ufficiale – dal suo ex braccio destro nonché successore Blaise Campaorè, verosimilmente appoggiato dai francesi e da altre forze internazionali. Come ricorda Ilaria Bifarini nel suo blog, Sankara era divenuto un personaggio «troppo scomodo, per il piano egemonico mondiale messo in atto dai poteri finanziari internazionali attraverso lo strumento del debito». Studiosa di economia (“bocconiana redenta”), nonché autrice di saggi di successo – dalla crisi neoliberista dell’euro a quella dei migranti – Ilaria Bifarini rievoca il celebre “discorso sul debito” tenuto da Sankara nel 1987 ad Addis Abeba all’assemblea dell’Oua, l’Organizzazione per l’Unità Africana. Un’orazione memorabile, «di una forza e di una chiarezza straordinarie», che rappresenta «un appello a tutti i rappresentanti internazionali a considerare le cause e la reale natura del debito, che non è altro che una nuova e ancora più pervasiva forma di schiavitù, quella finanziaria». Lasciateci in pace, disse Sankara: non abbiamo bisogno degli aiuti della Banca Mondiale e del Fmi, di cui gli africani poi diventano prigionieri.«Con una lucidità e una lungimiranza degne di un vero rivoluzionario – scrive Ilaria Bifarini – Sankara anticipa quanto solo ora alcuni economisti hanno trovato il coraggio di proporre». Ovvero: «Annullare il debito, per permettere alla popolazione di continuare a vivere». Disse Sankara: «Loro, i finanziatori, certo non moriranno se noi non ripagheremo il debito, mentre il nostro popolo sì». La soluzione? Incentivare l’economia nazionale fondata sulla produzione diretta di beni, limitando le importazioni. Lo stesso Sankara, ricorda Bifarini, si vantò dell’abito che indossava – una camicia di cotonella, prodotta dagli artigiani burkinabé. Riguardando il video di quello storico discorso, la Bifarini annota: «La platea è sconcertata ma applaude, la forza trascinatrice è quella di un rivoluzionario, la lungimiranza di un visionario». Solo due mesi e mezzo dopo, a soli 37 anni, Sankara verrà assassinato. Era perfettamente cosciente del rischio che correva: «È possibile – disse – che, a causa degli interessi che minaccio, a causa di quelli che certi ambienti chiamano “il mio cattivo esempio”, con l’aiuto di altri dirigenti pronti a vendersi la rivoluzione, potrei essere ammazzato da un momento all’altro. Ma i semi che abbiamo seminato in Burkina e nel mondo sono qui», aggiunse.Quei semi, sappiatelo, «nessuno potrà mai estirparli: germoglieranno e daranno frutti». Concluse: «Se mi ammazzano, arriveranno migliaia di nuovi Sankara». Purtroppo, osserva Ilaria Bifarini, la sua profezia «si è avverata solo a metà», e i nuovi Sankara «verranno uccisi sul nascere». Proprio a Sankara, il Movimento Roosevelt dedica un importante convegno, in programma il 3 maggio a Milano. Tema: il modello Sankara come antidoto alla crisi dei migranti. In altre parole: restituire piena sovranità all’Africa, in modo da fermare l’esodo dei profughi economici. Nel convegno, la figura di Sankara sarà equiparata a quelle di Carlo Rosselli, martire antifascista e fautore del socialismo liberale, e del premier svedese Olof Palme, assassinato a Stoccolma nel 1986 da un killer tuttora sconosciuto. Olof Palme aveva impegnato lo Stato nel supportare le aziende svedesi in difficoltà, imponendo l’azionariato diffuso tra gli stessi operai, e si era battuto per la libertà dell’Africa protestando – prima di chiunque altro – per la scandalosa detenzione di Nelson Mandela. Come Sankara, Palme sapeva bene a quali risultati avrebbe condotto il neoliberismo coloniale nel continente nero, che costò la vita al giovane presidente del Burkina Faso.Temi di strettissima attualità, come sappiamo, che la stessa Ilaria Bifarini ha sviscerato nel saggio “I coloni dell’austerity”: è proprio l’imperialismo neoliberista a depredare l’Africa, spingendo verso l’Europa i “privilegiati” che possono pagarsi il viaggio della speranza sui barconi. Sono migranti attratti dal miraggio di un’Europa che in realtà non ha più intenzione di accoglierli, alle prese a sua volta con le contorsioni di una crisi più finanziaria che economica, innescata dall’ideologia neoliberista e privatizzatrice che ha inquinato la politica. In che modo? Mettendo fine al socialismo liberale ispirato da Rosselli, di cui proprio il carismatico Olof Palme era il leader più autorevole. Da allora, l’Europa ha cominciato a parlare una sola lingua: quella del Trattato di Maastricht, che ha impoverito gli europei e allineato il vecchio continente allo schema di dominio che – dopo la breve e illusoria parentesi della decolonizzazione – ha finito per schiavizzare l’Africa di Sankara.Sono passati trent’anni anni da quando il presidente rivoluzionario del Burkina Faso, ribattezzato “il Che Guevara africano”, venne ucciso – secondo la ricostruzione ormai ufficiale – dal suo ex braccio destro nonché successore Blaise Campaorè, verosimilmente appoggiato dai francesi e da altre forze internazionali. Come ricorda Ilaria Bifarini nel suo blog, Sankara era divenuto un personaggio «troppo scomodo, per il piano egemonico mondiale messo in atto dai poteri finanziari internazionali attraverso lo strumento del debito». Studiosa di economia (“bocconiana redenta”), nonché autrice di saggi di successo – dalla crisi neoliberista dell’euro a quella dei migranti – Ilaria Bifarini rievoca il celebre “discorso sul debito” tenuto da Sankara nel 1987 ad Addis Abeba all’assemblea dell’Oua, l’Organizzazione per l’Unità Africana. Un’orazione memorabile, «di una forza e di una chiarezza straordinarie», che rappresenta «un appello a tutti i rappresentanti internazionali a considerare le cause e la reale natura del debito, che non è altro che una nuova e ancora più pervasiva forma di schiavitù, quella finanziaria». Lasciateci in pace, disse Sankara: non abbiamo bisogno degli aiuti della Banca Mondiale e del Fmi, di cui gli africani poi diventano prigionieri.
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Casaleggio massone, ma guai a dirlo all’Italietta gialloverde
Cari amici 5 Stelle, prendete nota: il vostro amato fondatore e ideologo, Gianroberto Casaleggio, era massone. Chi lo afferma? Gioele Magaldi, naturalmente, cioè il “grembiulino” che più di ogni altro, in Italia, ha svelato l’identità liberomuratoria di moltissimi potenti, da Ciampi a Napolitano, da D’Alema a Draghi. Proprio sicuro, Magaldi, che Casaleggio senior indossasse il grembiulino? «Lo immaginavo, ma non ne ero certo. Ora invece ho acquisito la documentazione che lo comprova», afferma l’autore del saggio “Massoni”, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Beninteso: per Magaldi, severo giudice dei “cattivi massoni” al comando dell’Ue, stare in massoneria può essere un titolo di merito. L’importante è non essere ipocriti: il governo gialloverde ha addirittura messo al bando – a parole – la presenza dei massoni nell’esecutivo, pur sapendo che il club pullula di grembiulini (da Tria a Moavero, solo per citare alcuni ministri). Che faccia faranno, Di Maio e Di Battista, nello “scoprire” che anche il compianto Casaleggio era massone? Chi può dirlo: oggi staranno a leccarsi le ferite per la batosta alle regionali in Sardegna, che segue a ruota quella appena rimediata in Abruzzo. Inutile lamentarsi, dice Magaldi, è il minimo che gli potesse capitare: avevano promesso di tutto e non hanno mantenuto niente. Ma niente paura, sono in buona compagnia: con loro c’è Renzi, altro fanfarone, e presto anche Salvini vedrà sgonfiarsi la bolla che finora l’ha fatto volare.E’ una panoramica a tutto campo, quella che Magaldi offre nella video-chat settimanale con Frabetti. Tema: l’inconsistenza dei 5 Stelle come specchio dell’evanescenza generale del sistema politico italiano, dopo tante chiacchiere spese sul cambiamento di cui ancora non c’è traccia. Renzi? «Triste spettacolo, vederlo in televisione a “Non è l’Arena” con Giletti su “La7”: non una parola sui suoi errori, solo l’esecrazione per quella che considera la gogna mediatica alla quale è stato sottoposto per via della vicenda giudiziaria che ha coinvolto i suoi genitori». Parentesi: c’è da domandarsi se sia davvero il caso di infliggere gli arresti (sia pure domiciliari) per reati non terribili. Stesso dicasi per Roberto Formigoni, pessimo esponente del più retrivo clericalismo affaristico, che in Lombardia ha privatizzato ampie fasce di sanità. Di nuovo: è proprio indispensabile la punizione del carcere? Senza con questo contestare i magistrati, Magaldi precisa: «Sul piano politico, fa male vedere che solo qualcuno paga per tutti, mentre chi è troppo potente resta intoccabile». Ma se il declino del “Celeste” si accompagna a quello della Compagnia delle Opere, in auge con la Chiesa conservatrice di Wojtyla e Ratzinger, suona surreale la performance televisiva del Renzi vittimista, versione 2019. Tecnicamente: uno zombie, ormai osteggiato anche nel suo partito. E senza neppure l’onestà elementare – politica, intellettuale – di ammettere di aver fallito su tutta la linea.Il buon Matteo, dice Magaldi, avrebbe dovuto dire, sinceramente: come erede della sinistra italiana avrei dovuto trovare il coraggio di rompere con l’austerity di Bruxelles e quindi imporre la giusta quota di deficit per far ripartire l’occupazione, anziché vendere la fuffa del Jobs Act (insieme a un’orrida riforma della Costituzione). Il Chiacchierone di Rignano ricorda qualcuno: per la precisione, i giovani leoni che promettevano agli italiani un futuro di lusso, addirittura a 5 Stelle. Letteralmente, reddito di cittadinanza significa che l’essere italiani darebbe diritto, di per sé, a una somma di denaro – a prescindere dal reddito e dalle condizioni dei singoli e delle famiglie. Invece, il Di Maio che vende la “sconfitta della povertà” si riduce a elargire un magrissimo sussidio sotto forma di card per acquisti, ma solo dopo una folle trafila bizantina per selezionare i requisiti per i pochissimi “fortunati”. Molto meglio, sostiene Magaldi, il “diritto al lavoro” sancito per legge, in Costituzione, come chiede il Movimento Roosevelt: «Lo Stato sarebbe obbligato a trovare un lavoro a tutti, e questo consentirebbe ai giovani di non dipendere più finanziariamente dalle famiglie».Facile a dirsi: bello, il libro dei sogni firmato Magaldi. E i soldi? Appunto: quelli bisogna conquistarseli, insiste Magaldi, risolvendosi a portare fino in fondo il braccio di ferro con Bruxelles. Dove sta scritto che i paesi Ue debbano sottostare al diktat arbitrario del rigore di bilancio, sorvegliato da tecno-massoni neoliberisti per lo più agli ordini di potentati finanziari privatistici? I patti erano chiari, sembra dire Magaldi ai gialloverdi: non dovevate rovesciare il tavolo europeo, come promesso alle elezioni? Poi non lamentatevi, se non l’avete fatto: vi mancano i fondi per realizzare i programmi, quindi è logico che gli elettori vi stiano scaricando. Per ora tocca ai 5 Stelle, ma presto potrebbe venire il turno di Salvini, sostiene Magaldi: sul problema-migranti (reale, sentito) finora ha campato alla grande, ma attuando solo la “pars destruens”, senza curarsi troppo del futuro. E’ bastato, per ora, a deviare l’attenzione generale dal fallimento del governo nei confronti di Bruxelles. Ma domani il ballon d’essai potrebbe sgonfiarsi, quando anche gli elettori leghisti chiederanno conto, a Salvini, del mancato rispetto delle promesse elettorali più forti, come la radicale riforma fiscale giustamente ventilata. Il 30 marzo, a Londra, il Movimento Roosevelt presieduto da Magaldi farà sentire la voce degli economisti keynesiani nel convegno che chiede a gran voce “Un New Deal rooseveltiano per l’Europa”. Prendano appunti, i 5 Stelle: probabilmente il tema sarebbe piaciuto a Gianroberto Casaleggio, massone visionario.Cari amici 5 Stelle, prendete nota: il vostro amato fondatore e ideologo, Gianroberto Casaleggio, era massone. Chi lo afferma? Gioele Magaldi, naturalmente, cioè il “grembiulino” che più di ogni altro, in Italia, ha svelato l’identità liberomuratoria di moltissimi potenti, da Ciampi a Napolitano, da D’Alema a Draghi. Proprio sicuro, Magaldi, che Casaleggio senior avesse frequentato qualche loggia? «Lo immaginavo, ma non ne ero certo. Ora invece ho acquisito la documentazione che lo comprova», afferma l’autore del saggio “Massoni”, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Beninteso: per Magaldi, severo giudice dei “cattivi massoni” al comando dell’Ue, stare in massoneria può essere un titolo di merito. L’importante è non essere ipocriti: e invece il governo gialloverde ha addirittura messo al bando – a parole – la presenza dei massoni nell’esecutivo, pur sapendo che il club pullula di grembiulini (da Tria a Moavero, solo per citare alcuni ministri). Che faccia faranno, Di Maio e Di Battista, nello “scoprire” che anche il compianto Casaleggio era massone? Chi può dirlo: oggi staranno a leccarsi le ferite per la batosta alle regionali in Sardegna, che segue a ruota quella appena rimediata in Abruzzo. Inutile lamentarsi, dice Magaldi, è il minimo che gli potesse capitare: avevano promesso di tutto e non hanno mantenuto niente. Ma sono in buona compagnia: con loro c’è Renzi, altro fanfarone, e presto anche Salvini vedrà sgonfiarsi la bolla che finora l’ha fatto volare.
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Chi comanda davvero in Italia? Non la politica (non più)
Fa sempre una certa impressione scoprire che la maggior parte delle persone ignora che il potere non è più in mano della politica da almeno 50 anni. Alla televisione mantengono un alto gradimento i talk show dedicati alla politica e sui social rivoluzionari da tastiera i cyberutenti si massacrano a colpi di destra e sinistra, bianchi e neri, guelfi e ghibellini anche se sono categorie ormai svuotate completamente del loro significato e, come tali, inutilizzabili. Eppure le informazioni sul vero potere ci sono. E sono abbondanti. E sono imbarazzanti, persino. Visto che però la cosa passa in modo a quanto pare ancora confuso, proviamo a stilare un elenco dei veri poteri in Italia, senza tirare troppo in ballo Trilaterale e gruppo Bildelberg, che puzzano di complottismo. Allora, com’è noto, Parlamento e governo sono luoghi ove si prendono alcune decisioni importanti, ma si basano quasi esclusivamente su decisioni già prese da organismi sovranazionali e in quanto tali antidemocratici (come la Commissione Europea). Affinchè ciò avvenga sotto il profilo “pratico” i politici nostrani sono circondati da una categoria di personaggi piuttosto nota e che vengono chiamati “i lobbisti”. Ecco, se ne hai già sentito parlare, sappi che comandano loro in Italia e lo fanno sulla scorta delle decisioni e pressioni provenienti da questi gruppi sovranazionali cui facevo cenno prima.Negli ultimi anni la figura del “responsabile delle relazioni istituzionali” (o “public affairs specialist”) è stata ripulita dal linguaggio mainstream e ha cominciato a conoscere una buona reputazione. Anche al di fuori delle aziende, sono tanti quelli che la considerano un’attività dignitosissima, che richiede studio, competenza e passione. Su “Linkiesta!, nel 2013, è comparsa persino un’intervista: chi è il lobbista? E cosa fa di preciso? «È un tecnico – dice Fabio Bistoncini della F&B Associati – che rappresenta un gruppo di interesse e che ha l’obiettivo di comunicare con chi gestisce il processo decisionale per influenzarlo, cercando per esempio di modificare una normativa specifica oppure, ed è ciò che si definisce “advocacy”, tentando di inserire un tema all’ordine del giorno nell’agenda politica». Qualcuno li chiama anche “spin doctor”, qualcuno dice che sono esperti in relazioni e che hanno una cultura umanistica, in prevalenza.A giudicare dai nomi che girano e dal loro curriculum vitae, in verità, i lobbisti sono dei mestatori capaci di raccogliere fondi perché la politica prenda determinate decisioni piuttosto che altre. In America, contrariamente a quello che molti “liberal” possono pensare, la categoria dei lobbisti è ancora più forte che in Italia e determina chi sarà e chi non sarà presidente della Repubblica Usa, sulla scorta dei fondi recuperati in sede di campagna elettorale. In altri termini, ci sono società che mettono soldi in “cultura lobbistica” e gli spin doctor ci mettono la faccia col politico di turno spostandolo di qua o di là a piacimento. Come ci riescono, senza essere dei maghi? Be’, provateci voi a fare una campagna elettorale senza quattrini, senza conoscenze, senza pubblicazioni. Può anche capitare, ma dopo – a certi livelli – per rimanere dentro il circo e salire gradini gerarchici occorre appoggiarsi a questi, che però fanno pagare il prezzo ben presto: vogliono che “tu” politico prenda decisioni che loro stessi hanno approntato a vantaggio di chi li finanzia, soprattutto banche e società industriali.Alcuni esempi: a parte la curiosa presenza sul territorio nazionale di istituti come l’Università Luiss a Roma o il Cuoa a Vicenza o la Bocconi milanese, a voler fare nomi di persona non si possono trascurare i Caltagirone di Roma, imparentati con il segretario dell’Udc Pierferdinando Casini. Il fondatore ed editorialista del giornale “Il Riformista”, Claudio Velardi (già comunista…). La famigerata società Cattaneo Zanetto di Alberto Cattaneo, Claudia Pomposo e Paolo Zanetto. I fratelli Gavio, costruttori che pressano da anni per fare ’sto inutile Ponte di Messina. L’enorme studio legale che faceva capo a Tina Lagostena Bassi (morta nel 2008 e nota anche come conduttrice televisiva di fascia notturna). Ho fatto abbastanza nomi? Ce ne sono molti altri, ma in Italia quelli che ho nominato sopra ci comandano di sicuro. Pensateci, quando andrete alle urne a perdere tempo.(Massimo Bordin, “Chi comanda davvero in Italia?”, dal blog “Micidial” del 19 febbraio 2019).Fa sempre una certa impressione scoprire che la maggior parte delle persone ignora che il potere non è più in mano della politica da almeno 50 anni. Alla televisione mantengono un alto gradimento i talk show dedicati alla politica e sui social rivoluzionari da tastiera i cyberutenti si massacrano a colpi di destra e sinistra, bianchi e neri, guelfi e ghibellini anche se sono categorie ormai svuotate completamente del loro significato e, come tali, inutilizzabili. Eppure le informazioni sul vero potere ci sono. E sono abbondanti. E sono imbarazzanti, persino. Visto che però la cosa passa in modo a quanto pare ancora confuso, proviamo a stilare un elenco dei veri poteri in Italia, senza tirare troppo in ballo Trilaterale e gruppo Bilderberg, che puzzano di complottismo. Allora, com’è noto, Parlamento e governo sono luoghi ove si prendono alcune decisioni importanti, ma si basano quasi esclusivamente su decisioni già prese da organismi sovranazionali e in quanto tali antidemocratici (come la Commissione Europea). Affinché ciò avvenga sotto il profilo “pratico” i politici nostrani sono circondati da una categoria di personaggi piuttosto nota e che vengono chiamati “i lobbisti”. Ecco, se ne hai già sentito parlare, sappi che comandano loro in Italia e lo fanno sulla scorta delle decisioni e pressioni provenienti da questi gruppi sovranazionali cui facevo cenno prima.
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Cade ogni politico, se non serve più al potere che ci domina
un po’ di vertigine, il saggio “Psyops” di Solange Manfredi, che illumina settant’anni di “guerra psicologica”, condotta in Italia. Indovinato: siamo il paese-cavia per eccellenza, dove sono state testate le peggiori tecniche di manipolazione, anche le più sanguinose (Gladio). Nessun’altra nazione, in Europa – ricorda l’autrice, in un’intervista alla trasmissione web-radio “Forme d’Onda” – ha subito altrettante atrocità, a causa del terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, che ha utilizzato servizi segreti e pedine dell’estremismo per mettere in piedi gli agguati degli anni di piombo e le stragi impunite nelle piazze. Pensiamo a una sigla come la Falange Armata: ha firmato 500 rivendicazioni, tra il ‘92 il ‘94, quando Tangentopoli abbatteva la Prima Repubblica e le bombe affidate alla manolavanza mafiosa condizionavano il sanguinoso esordio della Seconda, nata per sacrificare l’Italia del benessere e portarla a soccombere di fronte all’oligarchia finanziaria di Maastricht e del Trattato di Lisbona. L’Isis? E’ l’ultimo capolavoro della strategia della tensione a livello internazionale, riprodotta fedelmente secondo il modello sperimentato in Italia. C’è il referendum per la secessione della Scozia dal Regno Unito? Benissimo, e chi decapita, l’Isis, il giorno prima? Ovvio: uno scozzese. Negli Usa si vota per limitare ulteriormente le libertà del cittadino, con la scusa della sicurezza? E quindi è proprio un ostaggio americano, alla vigilia, a offrire la gola alla mannaia dello Stato Islamico.La regia è scandalosamente evidente, dice Solange Manfredi, così come il movente – per nulla connesso con Allah – dello stesso fondamentalismo religioso mediorientale, creato a tavolino per evitare che il Medio Oriente svoltasse verso il socialismo. Negli anni ‘50, ricorda l’autrice del saggio, i paesi arabi erano largamente laici. «Prima del golpe occidentale che portò al potere Saddam, l’Iraq aveva un ministro donna e si preparava a dare l’indipendenza ai curdi». Così, il governo di Baghdad è stato “suicidato”. Tutto ciò è orrendo? Certamente, ma dobbiamo sapere che è la regola. La storia non lo ammette? Lo si può capire: spesso è il sistema stesso a scriverla, imponendo la sua versione alla scuola. Storia, cioè guerre: nessuno dei conflitti che ricordiamo – dice Solange Manfredi – è stato innescato dai motivi ufficialmente noti. Dietro ogni guerra c’è una causa segreta, e il casus belli è sempre un’invenzione o comunque una manipolazione: da Pearl Harbor, dove il bombardamento giapponese era perfettamente atteso, al Golfo del Tonchino, in cui nessuna artiglieria vietnamita sparò mai contro la flotta Usa. Fino ovviamente all’11 Settembre, servito come alibi per invadere l’Iraq e l’Afghanistan, per poi terremotare tutto il Medio Oriente.Cronologia recente: primavere arabe, caduta di Mubarak in Egitto, morte di Gheddafi in Libia, guerra in Siria contro Assad, devastazione dello Yemen. Emergenze umanitarie e crisi dei migranti? Appunto. C’è sempre un’attenta regia che predispone gli scenari, pur scontando anche l’imprevedibilità relativa delle variabili. Certo, i colpi principali vanno spesso a segno: Mattei viene ucciso quando fa diventare l’Italia troppo ingombrante a livello geopolitico, e Moro è assassinato per gambizzare l’economia mista, pubblico-privata, che dovrà cedere il passo al neoliberismo. A sua volta, lo svedese Palme soccombe prima che possa diventare segretario generale dell’Onu, impedendo – fra le altre cose – la nascita dell’Ue nella sua attuale configurazione antidemocratica e antipopolare. Ma se gli eroi restano mosche bianche (Moro fu minacciato da Kissinger in modo brutalmente mafioso), la regola è invece un’altra: il politico di turno – Renzi, Formigoni – viene fatto uscire di scena quando non serve più, al potere che ne aveva assistito l’ascesa.Un meccanismo del quale il soggetto (premier, capo-partito, ministro) non è neppure pienamente consapevole, il più delle volte, salvo che per un aspetto: appena raggiunge la vetta, dice Fausto Carotenuto a “Border Nights”, la sua vita di trasforma in un inferno. Motivo: «Il suo primo pensiero, la mattina, diventa questo: chi ce l’ha con me? Chi vorrebbe farmi fuori?». Di manipolazione, Carotenuto se ne intende: per anni ha orientato il lavoro dei servizi segreti Nato. Oggi è approdato a una scelta drastica: la rinuncia sostanziale alla politica, giudicata impraticabile perché interamente manipolata. Un grande inganno, un gioco di specchi in cui nessuno è davvero quel che dice di essere. Dal canto suo, analizzando a fondo la storia italiana contemporanea sulla base di migliaia di documenti desecretati, a cominciare da quelli che comprovano l’arruolamento della mafia e di molti uomini-chiave del nazifascismo, da parte degli Usa, per controllare l’Italia post-bellica in senso anti-Urss, Solange Manfredi insiste su un punto: non è detto che i politici su cui il potere investe siano per forza mediocri, ma è essenziale che abbiano almeno un punto debole (da usare al momento oppurtuno, per liquidarli).In altre parole: un cavaliere senza macchia non diventerà neppure assessore. E se qualcuno sfugge al controllo – come Sankara – durerà al massimo una manciata di mesi, prima di venir tolto di mezzo. Il connotato etico dell’analisi si basa sulla distanza tra la verità ufficiale e quella sottostante, tra la democrazia ideale e sostanziale (espressa “in purezza”) e la post-democrazia attuale, completamente svuotata, ormai dominata in modo sempre più evidente dall’invadenza di gruppi di potere privatistici, economici e finanziari. Peraltro, sottolinea Gioele Magaldi nel suo saggio “Massoni” uscito a fine 2014, non è certo piovuta dal cielo neppure la sacrosanta democrazia cui fa giustamente riferimento Solange Manfredi: la prassi dell’uguaglianza – pari opportunità, diritto di voto, Stato laico, legge sovrana emanata dal Parlamento eletto dai cittadini – è il frutto storico dell’impegno settecentesco della massoneria, che ha “fabbricato” la Rivoluzione Francese e poi creato gli Usa. Viviamo dunque in una specie di colossale laboratorio zootecnico, come sostiene Marco Della Luna? Siamo prigioneri di uno smisurato allevamento planetario, popolato da masse interamente manipolate?Probabilmente è così da sempre, suggerisce Paolo Rumor nel saggio “L’altra Europa” basato sulle rivelazioni dell’esoterista francese Maurice Schumann, tra i fondatori dell’europeismo novecentesco già durante la Seconda Guerra Mondiale. La tesi: un organismo-fantasma, denominato “la Struttura”, reggerebbe le sorti del pianeta in modo ininterrotto, da qualcosa come 12.000 anni. Le 36 Ur-Lodges supermassoniche presentate da Magaldi potrebbero esserne l’estrema propaggine contemporanea? Dilaga il cosiddetto complottismo, anche perché il potere – sempre reticente – si è fatto aggressivo e sfacciato, nella sua alluvione quotidiana di “fake news”, cioè menzogne ufficiali truccate da notizie. Per un osservatore coraggioso e indipendente come Massimo Mazzucco, non manca il risvolto positivo: è vero che l’intrasfruttura web è comuque sempre controllata dai soliti poteri fortissimi, ma milioni di persone – proprio sulla Rete – oggi possono condividere informazioni preziose, non ortodosse, non convalidate dall’ufficialità. Informazioni di cui fino a ieri sarebbe stato impensabile disporre, e che tuttora – non a caso – sono irrintracciabili sui media mainstream, giornali e televisioni.Sta letteralmente esplodendo anche il fenomeno della nuova archeologia, che probabilmente costringerà gli storici a rivedere le narrazioni correnti sulla stessa origine dell’umanità sulla Terra. Narrazioni secolari cadono in pezzi: le ultime scoperte inducono a retrodatare (di parecchi millenni) monumenti fortemente simbolici come le piramidi, mentre affiorano un po’ ovunque i reperti che spingono gli studiosi della paleo-astronautica a ritenere che i nostri antenati siano venuti in contatto, nella notte dei tempi, con esseri sbarcati dallo spazio (probabilmente, i nostri “fabbricatori genetici”). Di qualcosa del genere parla il biblista Mauro Biglino, per anni traduttore dell’Antico Testamento per conto delle Edizioni San Paolo: il suo Yahvè – alla lettera – non ha nulla di “divino”. Non è eterno, né onnisciente, né onnipotente. E il suo rapporto col cielo è mediato dal Kavod, un velivolo rombante e pericoloso. Sono ancora gli Elohim come Yahvè a dominarci, attraverso i loro fiduciari terrestri? «Se un giorno si scoprisse che è così non me ne stupirei», dice Biglino, che però aggiunge: «Immagino che l’attuale esplosione demografica non fosse prevista: siamo oltre 7 miliardi, cioè tantissimi. Troppi, per qualsiasi potere dominante». Come dire: la partita è aperta, forse ce la possiamo giocare. Davvero?Il fatalismo complottistico è ben rappresentanto da celebrità come Davide Icke: i suoi invincibili Rettiliani finiscono per ricordare un po’ gli alieni molesti evocati da Corrado Malanga attraverso le sue ricerche, interamente fondate sull’ipnosi regressiva: ipotetici nemici troppo superiori per poter essere contrastati? La convinzione dell’esistenza di uno strapotere insormontabile (almeno, per via ordinaria) induce lo stesso Carotenuto a consigliare di lasciar perdere la politica: è tempo perso, dice. Meglio dedicarsi amorevolmente al prossimo: non è solo etico, ma anche funzionale. Ed è l’atteggiamento che il sistema di dominio più teme, perché è virtualmente contagioso. I politici? Ometti, per lo più. Scelti, dice Solange Manfredi, in base alle loro debolezze. Non sempre, certo: non tutti. Ma la lezione è utile per chi oggi assiste con delusione al declino del governo gialloverde, che ha ceduto su tutta la linea per sottomettersi ai poteri che usano Bruxelles per dominare i paesi come l’Italia. Guai, però, a sottovalutare il popolo: è vero che è sempre condizionato da precise élite, ammette Magaldi; ma da sole – aggiunge – quelle élite non le potrebbero fare, le rivoluzioni. Quella di cui si sente il bisogno oggi ha un nome preciso, si chiama democrazia. Rappresenta un’eresia della storia, un prodotto recentissimo. Di fabbricazione massonica? Certo. Ma alzi la mano chi vorrebbe tornare al potere del dittatore, all’arbitrio del monarca o del Papa-Re. Forse, come dice Mazzucco, la buona notizia è che oggi, nonostante tutto, se ne può parlare: in fondo gli orizzonti sono aperti, come non era mai successo.Sembra il nostro paladino, finalmente: l’amico del popolo. E invece è il loro uomo, l’ennesimo. Scelto per durare il necessario, capace di cavalcare l’onda grazie alle sue qualità, al suo appeal mediatico. Ma il “casting” iniziale ha individuato anche il punto debole, già in partenza. Esempio: corruzione, sete di potere e denaro. Oppure ambizione smodata, passione per le donne, o magari abuso di droghe e altre debolezze private. Saranno i tasti da pigiare al momento opportuno, quando l’ometto non servirà più e andrà bruciato. Di colpo, il suo dossier – compilato fin dall’inizio e pronto da anni – finirà ai magistrati (e alla stampa). Risultato: morte civile. Succede sempre, di continuo, secondo uno schema cinico e quasi noioso, nella sua monotonia. Formigoni e Renzi? Sembrano solo gli ultimi nomi della lista. Poi ci sono altri personaggi, di ben maggior peso. Magari finiscono in esilio ad Hammamet, o peggio: assassinati come Moro, fatti esplodere in aria come Mattei. Via loro, avanti un altro. Il gioco continua, perché serve a non cambiare mai le regole. E i padroni di quelle regole non siamo noi, salvo rarissime eccezioni, destinate a durare poco – come Olof Palme, premier svedese freddato da un killer nell’86, o Thomas Sankara, rivoluzionario leader del Burkina Faso massacrato nell’87 dopo soli quattro anni di governo, in cui aveva creduto di poter mettere fine, per davvero, alla schiavitù finanziaria dell’Africa.
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Viareggio, strage-vergogna: Moretti premiato dopo il rogo
Difficilmente mi occupo di questioni legate alla giustizia, ma quando si tratta della strage di Viareggio non posso tacere, essendo io nativo e abitante di quelle terre, e data la atrocità oggettiva di quanto accadde in quell’inferno esploso proprio nel centro cittadino. L’esplosione del convoglio avvenne sotto il sovrappasso che unisce via Ponchielli e Burlamacchi, percorso che fino a quel momento era legato ai ricordi delle moltissime persone che come me lo utilizzavano per recarsi ai rioni notturni di Carnevale. Toccato da tanto dolore e drammaticità scrissi anche una poesia quasi per sprigionare tutta l’emozione, il coinvolgimento, l’angoscia, l’incredulità: 31 morti carbonizzati, 11 dei quali “disciolti” all’istante, 2 infarti e 25 feriti, alcuni dei quali con lesioni gravissime). L’11 febbraio 2019 sono stati chiesti 15 anni e 6 mesi dalla Procura generale di Firenze (appello) per Mauro Moretti: la strage risale al 29 giugno 2009 quando egli era amministratore delegato di Fs e Rfi. Puntualmente gli organi della giustizia e del potere, perché Moretti di potere ne ha da vendere, mostrano una prevedibile resistenza, rispettivamente, a giudicare ed esser giudicati, soprattutto quando il soggetto in questione può disporre dei migliori avvocati e di enormi agganci politici. Presto saranno passati ben 10 anni.Non so se noi italiani ce ne rendiamo conto e se ci sta bene, ma i media italiani, chiacchieroni, a seconda dei propri interessi sono i più disinvolti nell’enfatizzare questioni pretestuose e inconsistenti, magari parlandone per mesi, sostanzialmente ignorando quelle notizie come QUESTA, che meriterebbero adeguato risalto. Segnalo solo alcune posizioni assunte dal Moretti: ha fatto carriera nella Cgil tra gli anni ’80 e gli anni ‘90 arrivando ai vertici del sindacato, dal 2006 al 2014 è stato Ad di Ferrovie dello Stato su nomina dell’ex ministro Pd Tommaso Padoa Schioppa (quello che definiva i giovani disoccupati “bamboccioni”) e dal 2014 al 2017 è stato “promosso” come direttore generale e Ad di Finmeccanica-Leonardo a 1,7 milioni di “salario”: il doppio, più o meno, rispetto ai tempi di Fs quando, nel 2012, si lamentava praticamente di guadagnare troppo poco, cioè quasi 900 mila euro all’anno, più i “premi”. Tutte “cosine” avvenute dopo la strage…Tra le varie posizioni assunte, anche ruoli internazionali come quello di presidente della Community of European Railway and Infrastructure Companies, sindaco di Mompeo per due mandati, presidente della Fondazione Ferrovie dello Stato, presidente dell’Associazione Europea delle Industrie per l’Aereospazio e la Difesa, membro del consiglio direttivo degli amici dell’Accademia dei Lincei. Per dire come funzionavano le cose all’epoca (nei meandri dello Stato profondo italiano ancora oggi) il 31 maggio 2010 Moretti fu nominato, dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, cavaliere del lavoro. Una vergogna e una beffa, 11 mesi dopo la strage. Bene ha fatto il M5S (tramite Gianluca Ferrara, senatore di Viareggio da me criticato per altre questioni ma in questo caso molto opportuno) a farsi “ricevere” (dovremmo dire che si “sale” da lui?) dal presidente emerito (emerito…) per avere risposte. Risposte che, se si legge l’articolo linkato, hanno il sapore delle lacrime di coccodrillo (mi si perdoni il tono emotivo e meno “professionale” del solito), con un retrogusto di scaricabarile; sono certo che esse si trasformerebbero in tutt’altro, in sordità e arroganza, qualora il presidente ringiovanisse 20 anni e si ritrovasse al Colle.Presidente Napolitano che, ricordo bene, quando militavo nel M5S (2012-2017), “c’era da stare attenti” a chiamare in causa anche “solo” per chiedergli (inutilmente) di incontrare i familiari delle vittime, perché c’era il rischio di essere accusati da parte delle altre forze politiche di “strumentalizzare” la strage. Ebbene, una parte di italiani ricorda, io ricordo, e adesso che non faccio politica (ma anche all’epoca non mi tiravo indietro ed elaborai anche il testo di una mozione in merito) posso esprimere tutto il mio disprezzo, non solo contro questo pannolone mantenuto dallo Stato, ma anche verso quei politici locali che, anziché percorrere una strada di accusa, seguendo un impulso naturale umano, facevano un compromesso tra ciò che “si dovrebbe” e ciò che “non si poteva” (per non ledere la propria ambizione di poltrona) magari perché della stessa “ditta” della prima carica dello Stato.Perfino l’ex presidente del Consiglio Letta si macchiò di una grave colpa, non permettendo allo Stato di costituirsi parte civile. Ancora oggi, quando qualcuno descrive Napolitano per quello che è, viene sottoposto alla fanfara starnazzante di fango mediatico, al fuoco incrociato degli organi di “informazione” di destra e sinistra, come avvenuto per Di Battista recentemente. Gli italiani evidentemente dimenticano troppo in fretta, perfino cosa è stato Napolitano – e non mi riferisco alla carica che rivestiva…basta un po’ di alone, la consueta bolla mediatica di pensiero dominante e l’indottrinamento orwelliano porta a stigmatizzare (stigma = base del pregiudizio e della vergogna) chi si distingue solo perché dice la verità. Eppure qualcosa sta cambiando, molti tabù stanno emergendo dalla loro intoccabilità. Concludo con una richiesta al presidente Mattarella: vada in televisione e chieda la revoca di tutti i titoli di cavalierato a tal Moretti; e chieda una iniziativa di legge che determini, per i condannati in via definitiva per reati gravissimi quali strage, associazione mafiosa e stupro, un tetto massimo di pensione pari al minimo nazionale (780 euro).(Marco Giannini, “Viareggio, la strage della vergogna: almeno, si infligga a Moretti la pensione minima”, da “Libreidee” del 24 febbraio 2019).Difficilmente mi occupo di questioni legate alla giustizia, ma quando si tratta della strage di Viareggio non posso tacere, essendo io nativo e abitante di quelle terre, e data la atrocità oggettiva di quanto accadde in quell’inferno esploso proprio nel centro cittadino. L’esplosione del convoglio avvenne sotto il sovrappasso che unisce via Ponchielli e Burlamacchi, percorso che fino a quel momento era legato ai ricordi delle moltissime persone che come me lo utilizzavano per recarsi ai rioni notturni di Carnevale. Toccato da tanto dolore e drammaticità scrissi anche una poesia quasi per sprigionare tutta l’emozione, il coinvolgimento, l’angoscia, l’incredulità: 31 morti carbonizzati, 11 dei quali “disciolti” all’istante, 2 infarti e 25 feriti, alcuni dei quali con lesioni gravissime). L’11 febbraio 2019 sono stati chiesti 15 anni e 6 mesi dalla Procura generale di Firenze (appello) per Mauro Moretti: la strage risale al 29 giugno 2009 quando egli era amministratore delegato di Fs e Rfi. Puntualmente gli organi della giustizia e del potere, perché Moretti di potere ne ha da vendere, mostrano una prevedibile resistenza, rispettivamente, a giudicare ed esser giudicati, soprattutto quando il soggetto in questione può disporre dei migliori avvocati e di enormi agganci politici. Presto saranno passati ben 10 anni.
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Meno pensi e più consumi: per questo ci rubano il tempo
Il rapporto tra la velocità e il tempo è cambiato solo negli ultimi quattro secoli: alla velocità è stato assimilato un significato di efficacia, di efficienza, mentre alla lentezza viene attribuito un coefficiente simbolico di ritardo e inefficienza. Una persona che ha dei problemi la chiamiamo “ritardata”: tendiamo a considerare poco efficiente chi, magari, una cosa la capisce dopo – chi risponde dopo, chi reagisce dopo. E’ un ritardo, che per noi oggi è automaticamente un’inefficienza, un’inabilità. Quante volte usiamo l’espressione “perdere tempo”? I latini dicevano “festina lente”, cioè “affrettati lentamente”. Per circa due secoli è stato il motto di case nobiliari nonché del veneziano Aldo Manuzio, il primo editore del mondo. Già nella favola di Fedro, la tartaruga batte la lepre. Il “festina lente” lo ritroviamo nei testi più misteriosi, all’origine del rosacrocianesimo, e in Giordano Bruno, nel famoso dialogo de “La cena delle ceneri”. Manzoni, nei “Promessi sposi”, lo cambia in “adelante, cum judicio”: veloce, ma con prudenza… La velocità percepita come virtù è un’acquisizione molto recente. Attribuire alla velocità un valore positivo e alla lentezza un valore negativo può non essere una cosa utile, in senso assoluto: chi ha detto che il boia che dice “domani” è peggio del boia che dice “subito”?Nel film “Non ci resta che piangere”, con Benigni e Troisi, Leonardo è un ritardato. Leonardo era lento, molte commissioni gli sono state tolte perché non finiva in tempo i lavori: per fare le cose si prendeva i suoi tempi. Era lento, ma questo non gli ha impedito di scrivere 13.000 pagine di studi. Impegnava il tempo secondo i suoi principi. Il tempo è un bene collettivo, ma anche individuale. Il tempo è denaro, si dice, ma non è vero: il tempo non è denaro. Il denaro è fungibile, il tempo no: se ti rubo 100 euro potrai sempre recuperarli, ma se ti rubo un’ora non te la ridarà nessuno. E questo è fondamentale per capire qual è la chiave di volta a cui siamo arrivati, nel nostro sviluppo evolutivo. Il sistema, l’intero sistema di potere mondiale, è fondato sulla sottrazione del nostro tempo. Il tempo ci dev’essere sottratto, ci dev’essere tolto: perché, in quanto moneta infungibile, diventa la vera risorsa del sistema di potere. Quindi la vera risorsa non sono i nostri soldi, ma il nostro tempo. La sottrazione del nostro tempo è mirata a trasformare l’uomo in consumatore: l’essere umano pensante deve essere trasformato in consumatore. Meno si pensa, e più si consuma. Il miglior consumatore è quello non pensante. Quindi, sottraendovi il tempo, voi non pensate.In tempi andati, fino a 70-80 anni fa, la gente teneva dei diari. Quella di racchiudere delle cose in un racconto è un’esigenza naturale dell’uomo, una narrazione destinata anche a se stessi. E quella stessa narrazione era un modo anche per pensare – perché non è che si pensa in compagnia, si pensa da soli. Il pensiero, l’introspezione, è individuale. Si può pregare in compagnia, ma non pensare. Il pensiero è veramente la radice della nostra essenza. Se un grande filosofo come Cartesio ha scritto “cogito ergo sum” (penso, dunque sono) ci sarà pure un motivo, no? E quindi il sistema ci deve togliere il tempo per non farci pensare. Ma dato che noi abbiamo l’esigenza del racconto, ci dà Facebook – che è un modo di sottrarre il tempo, evitando però di pensare: chi è che si va a riguardare le scemate che ha scritto in precedenza? Facebook non è un libro, un quaderno. E poi a un certo punto ti impedisce di andare indietro. E’ l’ennesimo sistema costruito ai fini del grande progetto: la sottrazione del tempo.Noi non pensiamo, perché il tempo ci viene sottratto. E siccome non pensiamo, non partecipiamo. Chi di noi partecipa al sistema politico? Chi di noi si iscrive al partito che ha votato, andando a rompere i coglioni ai congressi e facendo causa per averli, i congressi? Certo, nessuno nega che anche Facebook abbia anche i suoi aspetti positivi, la capacità di veicolare idee. Del resto, nessuna cosa è mai interamente negativa. In una rivisitazione del “Dottor Jekyll”, Mister Hide deve fare un’azione malvagia, pesca un pesciolino dalla boccia e dice “adesso lo do al gatto”, ma poi ci ripensa: “No, così il gatto gode”. Avrebbero mai dato uno Stato a Israele senza i 6 milioni di ebrei sterminati da Hitler? Resta però il fatto che, se facciamo la somma del tempo sottratto, a tutti quanti, scopriamo che tutti gli espedienti sono indirizzati alla sottrazione del tempo. La sottrazione del tempo opera attraverso un concetto che si chiama “astrazione del gesto”: è il modo in cui si sono fondate tutte le operazioni di business criminale dell’umanità.Se ti convinco, una tantum, a fumarti un sigaro particolare, tu non diventi un fumatore. E non sei un fumatore se ti fumi quattro sigari all’anno, nelle ricorrenze. Quand’è che diventi un fumatore? Quando io ti fabbrico l’oggetto astratto – l’astrazione di un piacere – che è la sigaretta: te la fumi, senza più neppure accorgerti che stai fumando. Devi arrivare al gesto per cui tu compri senza pensare a quello che stai comprando. Mangi, senza sapere che stai mangiando. Devono toglierti quello che c’è dietro alle cose, ai gesti – mangiare, fumare. Non necessariamente sarebbero morte di cancro migliaia di persone. Una volta il tabacco non lo si fumava, lo si annusava. Nessuno sarebbe morto di cancro, ma non sarebbe neanche nata la Philip Morris. Le cose devono funzionare in quel modo: la sottrazione del tempo significa astrazione del contenuto dei gesti, e quindi eliminazione della scelta. Non facciamo più le cose per scelta, ma perché le abbiamo fatte ieri e quindi le rifaremo domani. E’ stato costruito uno schema per cui la quantità dei nostri gesti automatici è oggi infinamente superiore a quella dell’uomo di 400 anni fa.Oggi, i nostri gesti automatici sono il 90% della giornata. L’uomo del ‘400 non ti diceva “ok, lo faccio subito”, ma “lo faccio dopo”: era la difesa del principio in base al quale lui sceglieva come destinare il proprio tempo. Su questo presupposto, il vero atto rivoluzionario è riappropriarsi del tempo. Ognuno di noi lo può fare. E’ semplice, ed è alla base di tutto: adottare un certo tipo di alimentazione, costruire un vissuto diverso. Alla base di tutto ci dev’essere la riappropriazione del tempo. E’ vero che lavoriamo 8 ore, ma poi tendiamo a perdere anche le altre. Il tempo non è perso se ho visto una cosa che non mi è piaciuta, se ho scelto di vederla, perché anche quella è un’esperienza. Il tempo è perso se sono a una conferenza noiosa e non l’ho deciso io, di andarci. E il tempo perso non è restituibile. Anche all’interno dello schema della società odierna, noi potremmo riappropriarci di una serie di cose. Rispetto ai concetti più complicati di consapevolezza e rivoluzione personale, questa è una cosa più semplice da spiegare, da far capire. Se a un certo punto ognuno di noi, nel suo piccolo, fa questa operazione su se stesso e la stimola nelle persone che gli sono vicine, scopre che questo è l’unico modo – vero – per recuperare energie per poi rifare progetti e rimettersi in moto.Dalla fine del ‘900 stiamo vivendo nel picco più basso, a livello di consapevolezza. E’ il più alto tecnologicamente, ma non ci serve a nulla. Perché la tecnologia è stata sviluppata? Per fotterci il tempo. Esce il telefonino nuovo e te lo devi comprare. Esce il computer nuovo che ti fa risparmiare del tempo, ma quel tempo lo perdi lavorando come un matto per trovare i soldi necessari a quegli acquisti. Quando dirigevo “Pc Magazine” scrissi un editoriale nel quale dicevo: non comprate l’ultimo modello, perché vi fa risparmiare un’ora di lavoro ma ve ne fa perdere dieci per pagarlo. Il direttore italiano di Cisco ci tolse la pubblicità e inviò una lettera di fuoco, di tre pagine. Risposi con due parole: “Sopravviveremo entrambi”. Tutto è costruito per fotterci il tempo. La macchina da 50 milioni di euro, che può essere il sogno della mia vita, convive col divieto di superare i 130 chilometri orari. Che me ne faccio, allora, di una Ferrari? Eppure la gente continua a comprare le Ferrari: l’automatismo è formidabile, è un sistema micidiale.A chi non piacerebbe una bella casa, con parco e piscina? Ho un amico industriale che ne ha una così, vicino a Milano, ma è stata costruita su una vena radioattiva che risale all’evento di Chernobyl. Un umanista come Leon Battista Alberti per prima cosa domanda: dove la fate, la casa? Chi si pone mai il problema del “dove”, dell’orientamento fatto in modo serio? Il Feng Shui dell’80% degli architetti italiani è una truffa, ma il vero Feng Shui si fonda sullo stesso principio del Padre Nostro, “così in cielo così in terra”, in alto come in basso. Ci sono energie che vengono da sopra e energie che vengono da sotto. Quelle che vengono da sotto vennero studiate a tutti i livelli: da egizi, persiani, alchimisti. E si chiama tellurismo. Ora, studiare la ragnatela del tellurismo, la ragnatela geo-magnetica, non è semplice. Se uno la conoscesse davvero, potrebbe prevenire i terremoti. Io ho un caro amico, Giampaolo Giuliani, che i terremoti li prevede. Ci ha sempre azzeccato, perché rileva il radon, cioè l’espressione del tellurismo: è il gas che circola e viene liberato quando le vene, i canali in cui viaggia si rompono, e quindi sale. Ma non c’è pericolo che gli architetti “chic” ne sappiano qualcosa, di tellurismo: anche a loro hanno tolto il tempo.Il problema è che la sottrazione del tempo è innanzitutto è un’operazione di consapevolezza individuale: ci ha reso aggressivi e vendicativi. Noi abbiamo un altissimo coefficiente di aggressività, vendicatività e incapacità di subire un torto. Alla fine, subire un piccolo torto non è la fine del mondo: se uno ti passa davanti nella coda, e tu non hai fretta, che te ne importa? Noi litighiamo anche quando non abbiamo fretta: perché? Perché la sottrazione del tempo ci ha reso ipersensibili anche in questo senso. Siamo convinti che non dobbiamo essere fregati. E non capiamo che, in una vita sociale, un poco dobbiamo essere fottuti tutti quanti. Siamo esseri sociali, dopotutto. E allora è molto meglio stabilire un limite entro il quale sopportare, e reagire solo quando quel limite è oltrepassato. Invece, la maggior parte di noi reagisce sempre. Succede quando ti tolgono il tempo, quando non hai più il tempo di pensare a quello che stai facendo, il tempo di contare fino a dieci. Se tu potessi contare fino a dieci, se fossi abituato a prenderti il tempo, non t’incazzeresti. Ma siccome non sei più abituato a prenderti il tempo, t’incazzi. Questo è il meccanismo.I primi che si fottono il tempo da soli siamo noi. Se al posto di Facebook avessimo un diario serio lo scopriremmo, che ci fottiamo il tempo. Il problema vero, centrale, è che rispetto a tutte le scelte – alimentazione, qualità della vita, piccole rivoluzioni personali – la prima cosa che dobbiamo fare è riprenderci il tempo. L’alta velocità? Assurda. Cos’era il senso del viaggio, 500 anni fa? Se Marco Polo fosse potuto andare da Venezia in Cina in aereo, avrebbe mai scritto il “Milione”? Il senso del viaggio qual è? Chi si organizza le vacanze lo fa, il ragionamento sul senso del viaggio? No, certo, perché gli hanno fottuto il tempo. La sottrazione del tempo coinvolge ogni aspetto della vita. “L’ozio e il negozio” dei latini si colloca perfettamente in questo quadro: tutte le cose in cui bisognava pensare erano delegate all’“otium”, non al “negotium”. Seneca dice che, se non fai un buon “otium”, ti va male il “negotium”: se non pensi le cose giuste, mentre fai l’“otium” con calma, poi nel “negotium” ti prendi le mazzate. In realtà c’è questo respiro, tra le cose che devi fare entro certi schemi e le cose che devi fare fuori dagli schemi. Se tu questo equilibrio lo alteri, e fai tutto dentro gli schemi, la tua creatività è morta.Le nostre energie sociali, la capacità di avere progetti, di scoprire cose, di scoprire nuovi modi di vivere, sono zero. Diventiamo degli ottimi consumatori: alla Coop, all’Esselunga. Da anni, altri ci fanno fare quello che vogliono loro, e noi non ce ne preoccupiamo. Anche Sant’Agostino diceva “fa’ quel che vuoi”. La gente lo fraintendeva, e pensava che fosse epicureo. Poi nella “Città di Dio” l’ha spiegato: “Fa’ quello che vuoi” significa che devi fare quel che vuoi veramente, non quello che ti spingono a fare. “Fa’ quel che vuoi” non significa andare a cercare tutti i piaceri del mondo, perché potresti scoprire che non è quel che vuoi, se ci pensi bene. «La felicità è semplice, basta inseguire il piacere; però è quasi impossibile, perché bisogna capire qual è il piacere» (Epicuro).(Gianfranco Carpeoro, estratti della conferenza “Il grande complotto: la sottrazione del tempo” tenutasi a Milano nel giugno 2012, ripresa in video su YouTube, trascritta da Dionidream” e pubblicata da “La Crepa nel Muro”. Massone, già gran maestro del Rito Scozzese italiano, Carpeoro è stato avvocato e pubblicitario. Giornalista e scrittore, allievo di Francesco Saba Sardi, è considerato uno dei massimi studiosi di esoterismo e linguaggio simbolico).Il rapporto tra la velocità e il tempo è cambiato solo negli ultimi quattro secoli: alla velocità è stato assimilato un significato di efficacia, di efficienza, mentre alla lentezza viene attribuito un coefficiente simbolico di ritardo e inefficienza. Una persona che ha dei problemi la chiamiamo “ritardata”: tendiamo a considerare poco efficiente chi, magari, una cosa la capisce dopo – chi risponde dopo, chi reagisce dopo. E’ un ritardo, che per noi oggi è automaticamente un’inefficienza, un’inabilità. Quante volte usiamo l’espressione “perdere tempo”? I latini dicevano “festina lente”, cioè “affrettati lentamente”. Per circa due secoli è stato il motto di case nobiliari nonché del veneziano Aldo Manuzio, il primo editore del mondo. Già nella favola di Fedro, la tartaruga batte la lepre. Il “festina lente” lo ritroviamo nei testi più misteriosi, all’origine del rosacrocianesimo, e in Giordano Bruno, nel famoso dialogo de “La cena delle ceneri”. Manzoni, nei “Promessi sposi”, lo cambia in “adelante, cum judicio”: veloce, ma con prudenza… La velocità percepita come virtù è un’acquisizione molto recente. Attribuire alla velocità un valore positivo e alla lentezza un valore negativo può non essere una cosa utile, in senso assoluto: chi ha detto che il boia che dice “domani” è peggio del boia che dice “subito”?
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Tutti contro i 5 Stelle, eppure Di Maio sta limitando i danni
Marcucci (Pd) imputa il recente smottamento dell’industria italiana al reddito di cittadinanza che ancora deve entrare in vigore. Allo stesso tempo, come fanno anche molti altri del monopartito Pd-Fi, afferma che a causa dello spread gli italiani dilapidano soldi pubblici. In realtà se la Bce svolgesse il suo lavoro in modo efficace e non nazionalista (Aquisgrana) ma onesto, lo spread non dovrebbe proprio esistere, ma questo ai poveri cittadini non viene detto. Non viene detto nemmeno che quando Di Battista ha informato sul doping con cui la Francia riesce a resistere nella moneta unica (cioè lo sfruttamento dei paesi africani che ancora colonizza e che paghiamo anche noi italiani, economicamente e socialmente), lo spread si è impennato; e questo perché molto probabilmente soggetti finanziari francesi amici di “Didì” Macron hanno venduto titoli decennali italiani (magari comprandone di tedeschi). Una ritorsione quindi nazionalista, oltre che ovviamente di stampo speculativo. Sarebbe interessante che in questo splendido contesto di identità europea “spinelliana” (spero si colga l’ironia) nell’Europarlamento qualcuno si incaricasse di chiedere una indagine su come si sono mossi i capitali in questione.