Archivio del Tag ‘politica’
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Non cittadini di Google, ma sudditi dei ricattatori Nsa
«Scusate, di quale sovranità parliamo? Oggi sappiamo cha la National Security Agency degli Stati Uniti ci spiava, ci spia e – aggiungo – ci spierà: non penseremo mica che sia finita qui», dice Giulietto Chiesa. E la Nsa «ci spierà dall’alto della sua tecnologia, quella che qualcuno anche sul web esalta come il futuro della democrazia». Solo in Francia, racconta Snowden, 70 milioni di comunicazioni telefoniche raccolte in un mese: non certo per spiare la vita privata dei parigini. I motori di ricerca, macchine spionistiche, controllano il flusso dei meta-dati: chi ha chiamato chi, da dove è partita la telefonata, e quando. Poi interviene la selezione: qualcuno estrae dettagli specifici dalla massa delle comunicazioni. «Esempio: andiamo a vedere con chi ha parlato la signora Angela Merkel l’altro ieri». Idem per tutti gli altri “alleati”: «Con la scusa di combattere il terrorismo, hanno messo sotto controllo tutti i nostri leader politici, che io continuo a chiamare “maggiordomi”, perché – essendo tutti ricattati, e sapendo di esserlo (se non lo sanno è ancora peggio) – sono stati ben zitti».L’arma del ricatto: ti controllo, so chi hai parlato, quando, e di cosa. Se l’agenda del grande alleato riparlasse di guerra, sarebbe più difficile opporsi. «Vale per Enrico Letta, vale per la presidente brasiliana Dilma Rousseff, come sappiamo. Vale per Hollande, il burattino di Francia. Vale per l’ex presidente messicano Felipe Calderon e per l’attuale presidente messicano, Enrique Peña Nieto. Vale probabilmente anche per il Papa», aggiunge Chiesa, in un video-editoriale su “Megachip”. «Forse non vale per Xi-Jingping, il presidente cinese, e per il presidente russo Vladimir Putin, i quali – non essendo alleati degli Stati Uniti – hanno probabilmente pensato di tutelarsi, cioè di innalzare le misure difensive». Come scrive persino il “New York Times”, la questione non è certo quella della privacy dell’uomo della strada: «Il programma di sorveglianza ha investito la politica, il business, la diplomazia, le banche». Per prima cosa, spiano con molta attenzione le mosse dei partner. «Begli alleati, che abbiamo». Controllare il cellulare della Merkel: per proteggerla dai terroristi, come dice Obama? No: «Per ricattarla, all’occorrenza, nel caso decidesse di fare qualcosa che “non deve” decidere di fare».Non sugge nessuno: «Se Enrico Letta va a prostrarsi a Washington, pensate che lo faccia perché è un fedele seguace del dio dollaro? Forse, anche. Ma soprattutto: teme la punizione, se sgarrasse». Dunque: «Possiamo fidarci di un alleato di questo genere? Cioè di un’America che ci spia facendo i propri interessi, contro di noi?». Per questo, Chiesa insiste nel chiedere l’uscita dalla Nato: «Non è una questione ideologica, ma pratica: voglio salvare la pelle, la mia e quella dei nostri figli. E se questi signori decidono che per i loro interessi occorre fare la guerra, diranno ai loro servi – i nostri governanti – di portarci in guerra. E se non capiamo questo, noi in guerra ci andremo ancora, finché non ci lasceremo la pelle». Date un’occhiata al grande problema americano: la finanza. «Il loro debito in realtà è il nostro: tocca a noi pagarlo, attraverso la subordinazione dell’euro». Eppure, c’è ancora chi pensa che stiamo entrando nell’era della libertà digitale, in cui potremo decidere tutto premendo un pulsante sul computer e votare insieme ai cinesi e agli indiani su come si gestisce il mondo. «Non siate ingenui, il controllo di queste macchine non ce l’avete voi. Non facciamoci illusioni: non diventeremo cittadini di Google, ma della Nsa».«Scusate, di quale sovranità parliamo? Oggi sappiamo cha la National Security Agency degli Stati Uniti ci spiava, ci spia e – aggiungo – ci spierà: non penseremo mica che sia finita qui», dice Giulietto Chiesa. E la Nsa «ci spierà dall’alto della sua tecnologia, quella che qualcuno anche sul web esalta come il futuro della democrazia». Solo in Francia, racconta Snowden, 70 milioni di comunicazioni telefoniche raccolte in un mese: non certo per spiare la vita privata dei parigini. I motori di ricerca, macchine spionistiche, controllano il flusso dei meta-dati: chi ha chiamato chi, da dove è partita la telefonata, e quando. Poi interviene la selezione: qualcuno estrae dettagli specifici dalla massa delle comunicazioni. «Esempio: andiamo a vedere con chi ha parlato la signora Angela Merkel l’altro ieri». Idem per tutti gli altri “alleati”: «Con la scusa di combattere il terrorismo, hanno messo sotto controllo tutti i nostri leader politici, che io continuo a chiamare “maggiordomi”, perché – essendo tutti ricattati, e sapendo di esserlo (se non lo sanno è ancora peggio) – sono stati ben zitti».
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Verità cercasi, prima che la montagna ci frani addosso
La montagna è una fatica di cui non si vede mai la vetta, è Giorgia Meloni che nella trasmissione di Santoro denuncia i 90 miliardi di euro che grazie al governo Letta il gioco d’azzardo legalizzato ha sottratto al fisco, sono i No-Tav che in quello stesso studio aggiungono sul conto anche i 24 miliardi iniziali (solo previsti, mai stanziati perché inesistenti) per la grande opera più ridicola, costosa e inutile d’Europa, di cui i politici in trasmissione ammettono di sapere poco o nulla, nonostante sia diventata un caso nazionale per via delle gravi accuse di eversione piovute sulla protesta. La montagna sono le due ore di trasmissione che scorrono prima di “scoprire” che il famoso cantiere di Chiomonte, epicentro dello scontro, non è certo quello del futuro tunnel ferroviario: si sta solo scavando una mini-galleria di servizio, archiviabile alla svelta se solo si volesse farla finita, una volta per tutte, con la leggenda del treno veloce – non più per i passeggeri ma per le merci, che notoriamente viaggiano a bassa velocità.Merci letteralmente scomparse dalla tratta, dove peraltro Italia e Francia sono già perfettamente collegate dalla ferrovia Torino-Modane che attraversa la valle di Susa, appena ammodernata con 400 milioni di euro per consentire ai treni di caricare anche i Tir e i grandi container navali. La montagna è la fatica che occorre, ogni volta, per spiegare che i container navali sbarcati a Genova ormai evitano il Piemonte e la Francia e corrono verso Rotterdam attraverso i valichi del nord. Mentre per i Tir – lungi dal caricarli sui treni – si sta scavando il secondo traforo autostradale del Fréjus, sempre in valle di Susa, cioè nel territorio a cui, per buon peso, si vorrebbe infliggere anche l’Armageddon di vent’anni di cantieri Tav, coi paesi devastati e la popolazione minacciata da pericoli per la salute (cancro, causa polveri con amianto e uranio) ammessi dagli stessi tecnici della grande opera, che riconoscono che i lavori potrebbero anche aprire serie incognite idrogeologiche.Un’impresa folle, sempre più improbabile e irreale per tutti – docenti universitari compresi – tranne che per i decisori politici, i parlamentari a corto di informazioni che però vanno in televisione e scrutano i No-Tav come animali strani, un po’ naif, forse affetti dalla sindrome Nimby, evidentemente non credibili, persino quando ricordano palesi verità ormai incresciosamente ufficiali come quelle provenienti dalla Francia: al netto delle rituali cortesie diplomatiche con l’Italia, Parigi ha infatti stabilito definitivamente che il capitolo Torino-Lione verrà riaperto, eventualmente, solo a partire dal remotissimo 2030. La montagna è impervia: ci sono voluti anni prima che Santoro, paladino di tante cause civili, si decidesse a spedire il fido Ruotolo nella valle in rivolta: accadde nel 2012, quando il contadino anarchico Luca Abbà precipitò (folgorato) dal traliccio su cui si era inerpicato per protesta, tallonato da un poliziotto. Rivisto un anno dopo, sempre grazie a Ruotolo, Luca Abbà non denuncia gli oscuri attentati incendiari che hanno colpito le imprese collegate al cantiere, ne prende nota e rivendica in linea di principio il diritto di ricorrere anche al sabotaggio come strumento legittimo di lotta.E’ esattamente questo atteggiamento, diffuso in larghi settori del movimento “ribelle”, che spinge il procuratore Caselli a chiarire che – dal punto di vista della legge – non sono ammissibili infrazioni alla legalità, specie se violente come l’intimidazione o il lancio di sassi e petardi contro operai e agenti. Per contro, lo stesso Ruotolo mette a fuoco le aziende colpite dagli incendi: alcune hanno alle spalle vicissitudini giudiziarie, qualcuna è stata addirittura sfiorata da indagini dei Ros sul rapporto opaco tra politica, affari e ‘ndrangheta. Anche questo fa parte della montagna grigia, in una serata in cui Beppe Grillo tuona da Trento contro il presidente Napolitano, che il giorno dopo il blitz al Senato per disinnescare l’antifurto della Costituzione, l’articolo 138, a tarda ora ha convocato al Quirinale i partiti delle larghe intese per “invitarli” a cestinare finalmente l’impresentabile legge elettorale, tanto vituperata quanto cara ai privatizzatori della democrazia.La montagna è questa deriva infinita, nella quale gli italiani – valsusini e non – hanno ormai la certezza di non contare più niente, e di non sapere neppure più bene come arrivare alla fine del mese. La soluzione, dice Giorgia Meloni, non può essere che la partecipazione democratica: rifiutare il vittimismo passivo e scendere in campo direttamente per cambiare le cose, nonostante l’insormontabile muraglia del patriziato economico, dell’oligarchia finanziaria, della lebbra partitocratica. E anche della catastrofe nazionale dell’informazione: su questo versante, almeno, Santoro e Travaglio hanno accorciato le distanze, recuperando terreno prezioso. Certo, c’è voluta la manifestazione di Roma. Tutti i civili appelli all’ascolto, rivolti dalla valle di Susa alle maggiori istituzioni, erano sempre caduti nel vuoto – lettera morta anche per giornali e televisioni. La montagna è ancora lì. Si chiama Troika, rigore, Fiscal Compact, pareggio di bilancio, tetto del deficit al 3% del Pil. Politici sintonizzati? Zero: non pervenuti. Aspettano che la montagna ci frani addosso?La montagna è una fatica di cui non si vede mai la vetta, è Giorgia Meloni che nella trasmissione di Santoro denuncia i 90 miliardi di euro che grazie al governo Letta il gioco d’azzardo legalizzato ha sottratto al fisco, sono i No-Tav che in quello stesso studio aggiungono sul conto anche i 24 miliardi iniziali (solo previsti, mai stanziati perché inesistenti) per la grande opera più ridicola, costosa e inutile d’Europa, di cui i politici in trasmissione ammettono di sapere poco o nulla, nonostante sia diventata un caso nazionale per via delle gravi accuse di eversione piovute sulla protesta. La montagna sono le due ore di trasmissione che scorrono prima di “scoprire” che il famoso cantiere di Chiomonte, epicentro dello scontro, non è certo quello del futuro tunnel ferroviario: si sta solo scavando una mini-galleria di servizio, archiviabile alla svelta se solo si volesse farla finita, una volta per tutte, con la leggenda del treno veloce – non più per i passeggeri ma per le merci, che notoriamente viaggiano a bassa velocità.
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Lavoro per tutti, e subito. Barnard: vi spiego come
Piena occupazione. E cioè assumere, subito, milioni di italiani: tutti quelli che non trovano lavoro, che l’hanno appena perso o lo stanno perdendo, nel limbo della cassa integrazione. Non è una fiaba, è la teoria della moneta moderna basata sulla sovranità finanziaria dello Stato. Parola chiave: spesa pubblica, da investire in occupazione. Un colossale piano di assunzioni temporanee. Quanto basta per dare uno stipendio a tutti, consentire agli italiani di rilanciare i consumi e quindi ridare ossigeno anche al settore privato, che quindi potrebbe ricominciare a investire e assumere. Soldi che poi lo Stato potrebbe recuperare, sotto forma di entrate fiscali. Tutto questo, sostiene Paolo Barnard, si può fare ad un’unica condizione imprescindibile: «Il governo italiano comunichi all’Unione Europea che, per la salvezza nazionale, ignorerà il limite europeo del 3% di deficit, cioè porterà la spesa a deficit a un livello superiore, tanto quanto gli serve per ottenere in Italia la piena occupazione». Raggiunto l’obiettivo-lavoro, «il deficit dell’Italia si fermerà».L’ex inviato di “Report”, oggi attivista della Modern Money Theory sviluppata dall’economista americano Warren Mosler, protesta per l’indifferenza che accoglie lo spettacolo «pietoso e straziante» degli operai in via di licenziamento, inutilmente esibito dalla televisione. Pochi istanti di visibilità, «poi spariscono dal mondo abbandonati nella loro disperazione». Sono soli: «Nessuno gli spiega l’economia». Spesso incolpano “in politici” e “i padroni”, ma restano «incapaci di vedere quanto assurdi, falsari e ignoranti sono i loro sindacati», ormai rassegnati solo a negoziare «il grado di abolizione dei diritti» e annichiliti nell’orizzonte del pensiero unico neoliberista, quello che ha distrutto lo Stato come potente operatore anche economico, in grado di tutelare la comunità nazionale. La Mmt, fondata sull’economia democratica di Marx e Keynes, ribalta lo scenario: se il mercato è in crisi e il settore privato è in agonia, come oggi in Italia, c’è qualcuno che, se vuole, ha la forza per cancellare, in un colpo solo, la tragedia della disoccupazione, che è la prima conseguenza (ma anche la causa) della crisi. Chi può fare il “miracolo”? Un solo soggetto: lo Stato.Oggi, riassume Barnard, il settore privato di imprese e banche è impossibile che trovi le risorse per l’occupazione e gli investimenti. «Inutile sbraitare con loro: il settore privato è pro-ciclico», cioè segue l’andamento del ciclo economico. «Se questo va bene, allora i datori di lavoro assumono e non licenziano, e le banche prestano alle aziende. Ma se il ciclo economico va male, allora licenziano, cassintegrano, e le banche non prestano alle aziende, o prestano a tassi impossibili». Oggi l’economia dell’Italia «non va male, va da vomitare», e quindi non è possibile aspettarsi nulla da imprese e banche, cioè dal settore privato, che è pro-ciclico. In questa situazione, l’unico settore che può intervenire è l’altro, quello pubblico. Il governo, «essendo colui che elargisce i soldi al paese, può decidere di andare contro il ciclo economico (anti-ciclo)». Quindi, quando l’economia «va da schifo», proprio il settore governativo «può invece investire alla grande». In altre parole: «Solo il governo può spendere mentre la nave affonda, il settore privato non lo farà mai». La soluzione? Investimenti strategici, sotto forma di spesa pubblica, per assumere milioni di italiani.Gli attivisti della Mosler Economics lo chiamano Plg, programma di lavoro garantito transitorio. Un piano speciale, targato Me-Mmt, concepito appositamente per «salvare i lavoratori dalla disperazione dei licenziamenti e della cassintegrazione». Missione: assumere, subito, tutti i licenziati e i cassintegrati d’Italia, con l’obiettivo finale di rilanciare il settore oggi più in crisi, quello privato. «Il Plg – spiega Barnard – assume in lavori programmati tutti i lavoratori disoccupati, pagandogli un “reddito di dignità” che sta di un pelo al di sotto del reddito medio del settore privato per le stesse mansioni. A quel punto, milioni di disoccupati italiani immediatamente percepiscono un reddito», a spese del governo «Cosa accade? Che lo spendono. E questo cosa fa? Aumenta le vendite delle aziende». Un effetto a cascata: l’incremento del fatturato delle aziende rilancia il settore privato, fino a far ripartire le assunzioni ordinarie.Va da sé che il piano statale di piena occupazione, studiato per salvare l’economia italiana, produrrebbe milioni di salariati in più, quindi un aumento della base imponibile del prelievo fiscale, ma «senza alzare le tasse di un centesimo». Lo Stato recupererebbe soldi semplicemente consentendo a milioni di italiani (e a migliaia di aziende) di avere di nuovo un reddito. L’unica condizione perché il “miracolo” si compia è che l’Italia affronti l’Unione Europea, rifiuti la politica di rigore e annunci che ricorrerà all’aumento temporaneo del deficit per ragioni di salvezza nazionale. «Italiani che lavorate o che non lavorate più, credetemi: questa è l’unica via, l’unica speranza, cioè un programma economico figlio di un secolo di storia dell’economia», conclude Barnard. «I sindacati oggi sono incapaci di qualsiasi proposta», assistendo alla perdita graduale dei diritti del lavoro duramente conquistati nel dopoguerra. Da Barnard, un appello diretto ai lavoratori: «Dovete essere voi a capire le basi dell’economia e a organizzarvi per pretendere che quanto sopra divenga politica di governo. Ora sapete cosa fare, fatelo».Piena occupazione. E cioè assumere, subito, milioni di italiani: tutti quelli che non trovano lavoro, che l’hanno appena perso o lo stanno perdendo, nel limbo della cassa integrazione. Non è una fiaba, è la teoria della moneta moderna basata sulla sovranità finanziaria dello Stato. Parola chiave: spesa pubblica, da investire in occupazione. Un colossale piano di assunzioni temporanee. Quanto basta per dare uno stipendio a tutti, consentire agli italiani di rilanciare i consumi e quindi ridare ossigeno anche al settore privato, che quindi potrebbe ricominciare a investire e assumere. Soldi che poi lo Stato potrebbe recuperare, sotto forma di entrate fiscali. Tutto questo, sostiene Paolo Barnard, si può fare ad un’unica condizione imprescindibile: «Il governo italiano comunichi all’Unione Europea che, per la salvezza nazionale, ignorerà il limite europeo del 3% di deficit, cioè porterà la spesa a deficit a un livello superiore, tanto quanto gli serve per ottenere in Italia la piena occupazione». Raggiunto l’obiettivo-lavoro, «il deficit dell’Italia si fermerà».
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Deficit al 3%: Renzi, Cuperlo e la Grecia che ci attende
Per Gianni Cuperlo, l’ultimo anonimo prodotto di quello che Diego Fusaro chiama «il tragicomico serpentone metamorfico Pci-Pds-Ds-Pd», cioè la macchina elettorale che da più di vent’anni drena voti di sinistra per fare politiche al servizio della destra neoliberista all’insaputa degli elettori, è possibile salvare l’Italia dalla catastrofe in cui sta precipitando anche senza superare il tetto “impossibile” del deficit, fissato al 3% del Pil dai signori di Bruxelles, che nessuno ha mai eletto. La pensano allo stesso modo anche i renziani: prima di rivendicare giustizia finanziaria in sede europea, l’Italia deve scontare i suoi “peccati” storici e spremere altri soldi tagliando gli sprechi: operazione che, da sola, basterebbe a rimettere in piedi il paese. In realtà, l’Italia è stremata dalla deflazione indotta dalla Bce, dalla mancanza di liquidità, dal crollo della domanda di consumi. Disoccupazione apocalittica. La causa: ridotto in bolletta dell’euro e costretto a tagliare la spesa pubblica vitale, lo Stato determina anche in crollo del settore privato. Lo conferma l’esperimento di genocidio economico più vicino a noi, quello della Grecia.La crisi del debito sovrano che ha travolto Atene ha avuto un effetto drammatico, quasi dimezzando il reddito disponibile degli ellenici rispetto a cinque anni fa, rileva il blog di Gad Lerner. Il reddito lordo disponibile è sceso del 29,5% tra il secondo trimestre del 2008 e lo stesso periodo del 2013, spiega il servizio statistico Elstat. Se si considera anche l’inflazione, il calo si avvicina al 40%. «Questi dati – sottolinea il blog – illustrano l’impatto della brutale recessione e delle misure di austerità che il governo potrebbe essere costretto a estendere al prossimo anno: a causa della minaccia della bancarotta, il governo di Atene ha continuamente ridotto le spese sociali e alzato le tasse, al fine di ricevere i crediti internazionali che hanno finanziato parte delle attività statali dopo l’uscita del paese dai mercati dei capitali». Criminalizzata per il debito pubblico, la Grecia dell’euro – mentre il Giappone (moneta sovrana) veleggia verso un maxi-indebitamento espansivo pari al 250% del Pil, e senza scosse finanziarie perché la banca centrale garantisce per i titoli di Stato.Negli ultimi quattro anni, nella Grecia spolpata dalla Troika le prestazioni sociali sono state ridotte del 26%: «Una misura che ha pesantemente contratto i consumi, che rappresentavano circa tre quarti del Prodotto interno lordo, la proporzione maggiore dell’Eurozona». Salari in picchiata: «Gli stipendi dei lavoratori sono scesi del 34% dal secondo trimestre 2009, sempre secondo i dati Elstat». Il servizio statistico greco sottolinea come la crisi abbia interessato anche i livelli di risparmio delle famiglie, scesi dell’8,7% nel secondo trimestre del 2013 contro un calo del 6,7% dell’anno prima. E oltre il danno, la beffa: gli economisti mainstream considerano “buone notizie” quelle sui conti ellenici, dove si prevede un avanzo primario a fine 2013. I greci non sanno più come mangiare e come curarsi se sono malati, ma almeno il bilancio dello Stato non è più in rosso. Che consolazione. E chissà cosa ne pensano Renzi, Cuperlo e colleghi. Ben decisi ancora e sempre a presentare il debito pubblico come “problema”, sperando che alle elezioni europee del maggio 2014 si parli di tutto tranne che di soluzioni, a condizione che l’elettorato italiano continui a dormire.Per Gianni Cuperlo, l’ultimo anonimo prodotto di quello che Diego Fusaro chiama «il tragicomico serpentone metamorfico Pci-Pds-Ds-Pd», cioè la macchina elettorale che da più di vent’anni drena voti di sinistra per fare politiche al servizio della destra neoliberista all’insaputa degli elettori, è possibile salvare l’Italia dalla catastrofe in cui sta precipitando anche senza superare il tetto “impossibile” del deficit, fissato al 3% del Pil dai signori di Bruxelles, che nessuno ha mai eletto. La pensano allo stesso modo anche i renziani: prima di rivendicare giustizia finanziaria in sede europea, l’Italia deve scontare i suoi “peccati” storici e spremere altri soldi tagliando gli “sprechi”: operazione che, da sola, basterebbe a rimettere in piedi il paese. In realtà, l’Italia è stremata dalla deflazione indotta dalla Bce, dalla mancanza di liquidità, dal crollo della domanda di consumi. Disoccupazione apocalittica. La causa: ridotto in bolletta dell’euro e costretto a tagliare la spesa pubblica vitale, super-tassando famiglie e aziende, lo Stato determina anche il crollo del settore privato. Lo conferma l’esperimento di genocidio economico più vicino a noi, quello della Grecia.
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Maradona, gli evasori e i pagliacci (tra sdegno e fiction)
Maradona, il calcio e le tasse: quando il senso civico «finisce nelle mani dei pagliacci». Che sarebbero, nell’ordine: l’ex grande giocatore argentino e il tele-intrattenitore più coccolato d’Italia, Fabio Fazio. Con la “complicità” indiretta di un grande eretico della televisione italiana, Gianni Minà, “colpevole” di aver contribuito a mitizzare il Pibe de Oro, facendone una sorta di eroe da presentare in prima serata – tra la Littizzetto e l’anonimo Raffaele Fitto – nel bel mezzo del Grande Nulla italiano. E’ il grigio campo di gioco nel quale il mainstream di regime cincischia a bordo campo, proprio come il Dieguito dei bei tempi, pur di non parlare della crisi che sta scotennando il paese. Perfetto, nella grande finzione, anche il sapiente dosaggio emotivo del vicedirettore della “Stampa”, Massimo Gramellini, bravissimo nel dispensare ai telespettatori il suo Libro Cuore
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Giunti e Teghille: ma il mostro eversivo si chiama Tav
Il Procuratore della Repubblica di Torino interviene sulla manifestazione di sabato 19 a Roma, spiegando che se una marcia pacifica si può fare a Roma allora in val Susa si possono e si devono isolare i violenti. Con il massimo rispetto per la sua figura e la sua storia, proviamo a esprimere qualche riflessione, perché da molti anni sentiamo ripetere questo ritornello. Giornalisti e politici, anche sensibili alle ragioni della protesta, spesso ci spiegano quali danni porterebbe alla causa non espellere le mele marce. Noi, stolidi montanari, continuiamo a non capire. In realtà anche a Roma qualche scontro si è verificato, certamente non come due anni fa, sempre in ottobre, quando un analogo corteo ha avuto tutt’altro esito, né come – ricordiamo tutti – a Napoli e ancor più a Genova nel 2001. In quelle situazioni, anche sabato scorso, i filmati mostrano che curiosamente la polizia fa agire i violenti per poi accanirsi con i più tranquilli. In qualche caso si vedono agenti in borghese confondersi con i manifestanti o con i giornalisti. La storia del nostro Paese ci ha fatto conoscere anche le figure dei provocatori e degli infiltrati. Non c’è ragione per credere che gli antitav siano riusciti a restarne immuni.Non è la popolazione della valle di Susa che, alimentando simpatie antagoniste, ha promosso il progetto Torino-Lione e l’apertura del cantiere di Chiomonte. Sono questi che, per la loro insostenibilità e protervia, hanno richiamato l’antagonismo, in maniera quasi turistica. D’altronde, se qualcuno ritiene – a torto – che possa scoppiare una rivoluzione, sarà inesorabilmente attratto dove sussistono forti tensioni sociali e ambientali. Non andrà certo a Montecarlo o in Costa Smeralda! La gran parte delle iniziative condotte in vent’anni contro la Torino-Lione sono azioni pacifiche e culturali. A cominciare dalle manifestazioni, che continuano a radunare migliaia di persone in marcia a volto scoperto, per arrivare alle assemblee, alle serate informative, alle feste e agli spettacoli, a decine di conferenze di ospiti interessanti e competenti. Focalizzarsi sugli episodi violenti e sui sabotaggi è facile e strumentale ma non rende onore alla verità e al lungo cammino percorso da questo movimento.L’opposizione NoTav non è un partito o un’istituzione. Non ha un segretario politico né un presidente. E’ fatta da centinaia di persone con sensibilità diverse, anche distanti, che si ritrovano concordi nel denunciare un sistema perverso di potere, di opere, lavoro ed economia deviati, che non deve più trovare albergo nel nostro paese. Quindi non esiste nessuno che possa, in nome di tutti gli altri, prendere le distanze da qualcosa o espellere qualcuno. Al suo interno sono presenti anche moltissimi amministratori pubblici, sindaci in testa. Sempre, sempre, hanno condannato e rigettato – senza balbettare – ogni violenza, a cominciare proprio dagli eccessi nelle manifestazioni. Negare il fatto non lo cancella. Hanno anche ricordato, però, che i violenti sono molti. Persino lo Stato può esserlo, se prima impone un’opera, poi la camuffa come condivisa e infine la difende con i militari. Persino le forze dell’ordine e la Magistratura possono eccedere, non solo quando usano la forza fisica oltre il necessario, ma anche quando indagano con visioni preconcette e in una sola direzione. Persino i massmedia, se sono ossequiosi con lo sloganeggiante notabile di turno o se ignorano gli appelli alle istituzioni, i dati tecnici, la pochezza dei progetti, i dubbi espressi in altri Stati, possono fare violenza.La politica nazionale pare sappia rispondere soltanto con arroganza e con sotterfugi. L’ultimo esempio si trova nella legge sul femminicidio, che assimila i cantieri a caserme e allarga il perimetro dell’art. 260 del codice penale. Tratta di spionaggio e usa termini come stato in guerra, efficienza bellica, operazioni militari. Addirittura, in caso di conflitto, contemplava la pena di morte! Oppure si può analizzare la ratifica dell’ultimo accordo internazionale proposta al Parlamento: con essa si applicherebbe anche sul lato italiano il diritto francese, spostando oltralpe gli eventuali contenziosi ma soprattutto annullando ogni normativa antimafia, che là non esiste. Non sono forme di eversione anche le dismissioni di sovranità e lo svilimento dell’ordinamento dello Stato?La “Libera Repubblica” della Maddalena non voleva un altro Stato, ma uno Stato migliore e più rispettoso della Costituzione italiana. Rivendicava – forse immodestamente – il collegamento con la Resistenza da cui quella Costituzione nacque. Qualcosa come i 40 giorni di libertà della val d’Ossola, i 23 giorni della Città di Alba o la difesa del Monte Rubello. Non una “enclave” ma un laboratorio, fantasioso, disordinato, partecipato e vitale come ogni esperimento. Sono altre le enclaves che dovrebbero preoccupare gli italiani, le regioni dominate dalla criminalità organizzata, ad esempio, o i grumi affaristico-politico-finanziari i cui scandali scoppiano ogni settimana, ma sempre dopo che i guasti sono avvenuti. I NoTav invece, con tutti i loro difetti, stanno cercando di fermarli prima che accadano.Per quanto possa apparire blasfemo, i cittadini che si oppongono alla costruzione della Torino-Lione sono consapevoli di infrangere talvolta le leggi esistenti. Ma lo fanno in nome di un senso di giustizia più alto, magari confuso per gli altri ma limpido per loro, seguendo il principio che Giuseppe Dossetti, guardando alla Francia, avrebbe voluto inserire nella Costituzione della Repubblica Italiana: La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino. Tra quei diritti inviolabili ci sono la salute e il paesaggio che proprio la Torino-Lione massacrerebbe. Le buone ragioni di chi ha ragione non vengono cancellate da metodi poco ortodossi o addirittura illeciti. La compresenza di pratiche diverse per sostenerle non è motivo valido per sconfessarle o ignorarle. Restano valide, anche se è comodo nasconderle enfatizzando le azioni più clamorose.La fiducia nella giustizia e nei loro rappresentanti viene messa a dura prova. Cittadini informati e vilipesi l’hanno perduta perché ogni loro appello, denuncia, ricorso, esposto, è stato sempre lasciato cadere da chiunque l’abbia ricevuto, magistrato o Presidente della Repubblica che fosse. Si badi bene: non è stato accolto, giudicato e poi, eventualmente, ritenuto infondato nel merito. Non è proprio stato recepito. Non solo. Chi si è permesso di denunciare abusi e pericoli è stato inquisito per false comunicazioni e procurato allarme. Come una certa Tina Merlin a proposito del Vajont. Alla lunga una certa disistima nelle istituzioni centrali appare giustificata. L’incrollabile convinzione del Procuratore di Torino sull’eversione ricorda con amarezza le “prove granitiche” che dieci anni fa sono state considerate dalla Cassazione insufficienti per sostenere proprio l’accusa di terrorismo nella nostra valle, non senza aver cagionato due suicidi in carcere e 4 anni di ingiusta detenzione al terzo indagato. Si sta recitando da capo lo stesso identico copione, e nessuno qui in giro vuole che si ripeta anche lo stesso epilogo.Nonostante tutto, rimane la speranza – forse ingenua – che la giustizia faccia il suo corso. Non si spiegherebbe altrimenti l’ostinazione nell’analizzare progetti, sorvegliare il cantiere, produrre documenti, redigere i famosi esposti. Va poi ricordato, per quanto fastidioso sia, che in tutta questa storia si annoverano tre sentenze: quella che ha assolto i presunti Lupi Grigi dall’accusa di terrorismo, quella che ha condannato la dirigenza Sitaf per turbativa d’asta per gli appalti di Venaus, quella che riconosce i pestaggi ingiustificati delle forze dell’ordine durante lo sgombero del 2005, sempre a Venaus. Quest’ultima addirittura proclama l’omertà dei funzionari e la loro reticenza davanti ai giudici! Sentenze, non chiacchiere NoTav. Tutte decisioni ultime della Magistratura che in qualche modo confermano le tesi degli oppositori alla Torino-Lione. Aspettiamo dunque rispettosamente le conclusioni dei processi istruiti negli ultimi due anni: potrebbero rivelare delle sorprese.Il Procuratore ha già radicato la convinzione che tutti i sabotaggi sono da ricondursi al movimento NoTav, nonostante non siano stati rivendicati, le indagini siano in corso, e addirittura alcuni bersagli abbiano dichiarato di pensarla diversamente. Ma il giudizio è già vissuto come inappellabile. Eppure, molti dubbi si affollano sulle dinamiche dei singoli episodi, così come sul contesto in cui sarebbero avvenuti. Ad esempio, si apprende dalla stampa che attentati simili si sono verificati nel chivassese e nell’emiliano, sempre a carico di ditte in qualche modo coinvolte nei movimenti di terre Tav. In quelle aree lontane, per fortuna, nessuno ha ancora incolpato i NoTav. Non sarà possibile, almeno in ipotesi, che anche in val Susa gli autori siano altri e abbiano altri scopi? Che la torta da spartire sia così succulenta da attirare appetiti più onnivori di qualche presunto contestatore più esuberante di altri? E’ positivo che la legge finanziaria in discussione preveda nuove risorse proprio per risarcire le ditte eventualmente colpite dai NoTav. Costringerà a individuare senza dubbi i veri autori dei danneggiamenti, perché senza responsabilità accertata in capo ai NoTav i risarcimenti saranno zero. Come in una famosa pubblicità: No colpevoli, No soldi!A nostro modo di vedere, c’è un sistema molto facile e immediato per scoprire se davvero esiste una frattura negli oppositori e se una frangia del movimento vuole lo scontro a tutti i costi. Ascoltare le voci degli amministratori e dei docenti universitari, che chiedono di fermarsi a riflettere – ma in maniera seria, trasparente e obiettiva – sui dati trasportistici, economici, ambientali e sociali dell’opera. Se dopo tale analisi si dovesse appurare che la Torino-Lione è utile, proposta in maniera cristallina, sopportabile dall’ambiente e dalle casse dello Stato, una buona parte di chi si oppone sarebbe disposto a farsi da parte. Noi, almeno, lo faremmo. In ogni caso, è indubitabile che sic stantibus rebus non si possa andare avanti. Occorre prendere atto che l’Osservatorio governativo istituito nel 2006 ha fallito. Era stato incaricato di condividere il progetto con il territorio, di facilitare l’accettazione dell’opera, di ridurre la contestazione e abbassare la tensione. Non c’è riuscito, per la semplice ragione che la Torino-Lione è indifendibile sotto ogni punto di vista.Per accorgersene definitivamente, basta smettere di ascoltare i proclami rassicuranti che il Commissario dipinge nei salotti e in luoghi protetti, ben lontano da ogni confronto. Non potranno certo essere installati i cantieri a Susa nei prossimi due anni, come più volte annunciato. In mezzo a quartieri abitati, aziende, scuole, strade e altre strutture pubbliche. Non ci si troverà più in una valle secondaria isolata tra i monti e disabitata. Dall’estate del 2011 Chiomonte e la val Clarea insegnano che costa di più difendere l’opera che costruirla. A Susa questi costi potrebbero decuplicare. E ormai dovrebbe essere evidente a tutti che repressione e falsità non sono i metodi idonei per uscire da questo buco.(Luca Giunti e Bruno Teghille, “Riflessioni sulla lettera del procuratore della Repubblica di Torino”, 24 ottobre 2013. Giunti e Teghille sono due esponenti del movimento No-Tav).Il Procuratore della Repubblica di Torino interviene sulla manifestazione di sabato 19 a Roma, spiegando che se una marcia pacifica si può fare a Roma allora in val Susa si possono e si devono isolare i violenti. Con il massimo rispetto per la sua figura e la sua storia, proviamo a esprimere qualche riflessione, perché da molti anni sentiamo ripetere questo ritornello. Giornalisti e politici, anche sensibili alle ragioni della protesta, spesso ci spiegano quali danni porterebbe alla causa non espellere le mele marce. Noi, stolidi montanari, continuiamo a non capire. In realtà anche a Roma qualche scontro si è verificato, certamente non come due anni fa, sempre in ottobre, quando un analogo corteo ha avuto tutt’altro esito, né come – ricordiamo tutti – a Napoli e ancor più a Genova nel 2001. In quelle situazioni, anche sabato scorso, i filmati mostrano che curiosamente la polizia fa agire i violenti per poi accanirsi con i più tranquilli. In qualche caso si vedono agenti in borghese confondersi con i manifestanti o con i giornalisti. La storia del nostro Paese ci ha fatto conoscere anche le figure dei provocatori e degli infiltrati. Non c’è ragione per credere che gli antitav siano riusciti a restarne immuni.
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Caselli ai No-Tav: imparate da Roma a isolare i violenti
«Dunque è possibile. Stando alle cronache del corteo di Roma del 19 settembre, cui hanno partecipato migliaia di “antagonisti”, è possibile manifestare con forza ma senza violenza, distinguendosi nettamente dalla minoranza dei facinorosi illegalmente aggressivi. È persino possibile cercare di ostacolarne o impedirne le gesta, così facilitando l’azione delle forze dell’ordine. Perché quel che è successo a Roma sembra invece lontano se non impossibile in val di Susa, con i No-Tav?». Così il capo della Procura di Torino, Gian Carlo Caselli, dalle colonne del “Fatto Quotidiano”. Il movimento valsusino, aggiunge il magistrato, è formato per la stragrande maggioranza di persone “per bene”. «Ma ce ne sono anche “per male”, con tutte le sfumature del male, fino a mettere in conto la commissione di reati. E le persone per bene – aggiunge Caselli – non osano distinguersi troppo dai violenti. Anzi, li tollerano. Spesso li accettano e ne condividono l’azione (“siamo tutti black bloc” è uno slogan abituale…). E ciò nonostante si sia registrata, negli ultimi due anni, una evidente impennata» nelle forme di protesta adottate.A partire dal giugno-luglio 2011, continua il procuratore, vi sono stati pesanti attacchi (di solito notturni) contro il cantiere di Chiomonte: «Un’infinità di oggetti atti a offendere (pietre, biglie di ferro, razzi, bombe carta e bottiglie incendiarie) è stata scagliata contro gli operai e poliziotti che sono costretti a vivere asserragliati in quel cantiere». A operare sono «squadre organizzate secondo schemi paramilitari», tanto da indurre il Tribunale della libertà di Torino (giudice “terzo”, indipendente) a parlare ripetutamente di “eversione” e “micidialità”. «E ancora recentemente – continua Caselli – è stata fermata un’auto (che viaggiava in convoglio con altre di copertura) zeppa di strumenti che una consulenza tecnica ha qualificato come assai pericolosi». Poi si sono registrati svariati sabotaggi, «con danni assai gravi», contro i mezzi di lavoro delle ditte che sono impegnate nel cantiere: uno stile intimidatorio di stampo ‘ndranghetista, secondo Stefano Rodotà. Senza contare le «reiterate iniziative illegali contro vari giornalisti “sgraditi” in valle», tra cui il redattore della “Stampa”, Massimo Numa, a cui è stato recapitato un ordigno esplosivo in grado di uccidere. Attentato anonimo: lo stesso Numa non pare credere alla “pista No-Tav” ma, in linea di principio, la Procura non esclude la possibilità di “schegge impazzite”.Tra gli aspetti più antagonistici, Caselli include anche la cosiddetta “Libera repubblica della Maddalena”, l’occupazione temporanea dell’area di Chiomonte con cui i No-Tav nel 2011 tentarono di ritardare l’avvio del cantiere. Per il magistrato, la vicenda «avrebbe meritato ben altra attenzione», dal momento che «si è trattato di una “enclave” creata nei pressi del cantiere, con tanto di posti di blocco valicabili soltanto da coloro (forze dell’ordine comprese) che ottenevano il permesso dei sedicenti “repubblicani”». Dunque, scrive il magistrato, «un pezzo del territorio dello Stato italiano sottratto per qualche mese alla sovranità dello Stato medesimo». Un fatto che «può serenamente definirsi “eversivo”, così come è “eversivo” bloccare mezzi di trasporto sull’autostrada, circondarli con un manipolo di persone molte delle quali travisate, pretendere l’esibizione di documenti personali e di trasporto per verificare che il carico non abbia a che fare col cantiere, com’è successo a un ignaro e terrorizzato camionista olandese, al cui mezzo è stata anche squarciata una ruota per meglio bloccarlo».Tutto ciò, conclude Caselli, comporta l’usurpazione di funzioni che ogni Costituzione democratica riserva esclusivamente al potere pubblico. «E se le parole hanno ancora un senso, per definire tale usurpazione ce n’è una soltanto: che è appunto eversione». Eppure, secondo il capo della Procura di Torino, «la voce delle persone per bene del Movimento o non si è fatta sentire per nulla o ha balbettato qualche confuso distinguo, quando non ha addirittura preteso di legittimare con pubblici proclami certe azioni violente come i sabotaggi». Risultato: «Le persone per bene del Movimento potrebbero anche avere tutte le ragioni del mondo (non lo so, non rientra nel perimetro delle mie competenze) circa l’utilità e i costi del Tav: ma per quanto siano eventualmente valide, queste ragioni non possono che risultare screditate dall’accettazione di fatto di forme anche gravi di violenza».In modo ormai irreversibile, lo scontro sulla Torino-Lione «sembra diventato un pretesto per professionisti della violenza assortiti (le persone “per male”), affluiti nella Valle da varie città italiane ed europee per sperimentare metodi di lotta incompatibili con il sistema democratico». Una sorta di “laboratorio”, «che si spera non abbia mai a rivelarsi come incubatrice di vicende ancor più gravi». Per Caselli, «sono fatti che non si possono non vedere. Invece, fra politici, amministratori, intellettuali e opinionisti si trovano ancora – purtroppo – personaggi che a prendere le distanze, condannandola senza riserve, dalla commissione di reati (anche violenti) gli viene l’orticaria. Per cui preferiscono tacere o addirittura manifestare indulgenza. Inglobando in questo “generoso” atteggiamento un catalogo di attacchi scomposti contro il doveroso accertamento delle responsabilità penali. In realtà per esprimere radicale insofferenza verso la prospettiva che i violenti possano essere soggetti – come qualunque altro cittadino – all’obbligo di rispondere delle illegalità commesse».«Dunque è possibile. Stando alle cronache del corteo di Roma del 19 settembre, cui hanno partecipato migliaia di “antagonisti”, è possibile manifestare con forza ma senza violenza, distinguendosi nettamente dalla minoranza dei facinorosi illegalmente aggressivi. È persino possibile cercare di ostacolarne o impedirne le gesta, così facilitando l’azione delle forze dell’ordine. Perché quel che è successo a Roma sembra invece lontano se non impossibile in val di Susa, con i No-Tav?». Così il capo della Procura di Torino, Gian Carlo Caselli, dalle colonne del “Fatto Quotidiano”. Il movimento valsusino, aggiunge il magistrato, è formato per la stragrande maggioranza di persone “per bene”. «Ma ce ne sono anche “per male”, con tutte le sfumature del male, fino a mettere in conto la commissione di reati. E le persone per bene – aggiunge Caselli – non osano distinguersi troppo dai violenti. Anzi, li tollerano. Spesso li accettano e ne condividono l’azione (“siamo tutti black bloc” è uno slogan abituale…). E ciò nonostante si sia registrata, negli ultimi due anni, una evidente impennata» nelle forme di protesta adottate.
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Caro Letta, il dio della sinistra è lo stesso di Berlusconi
Si è chiuso un ventennio, come dice Enrico Letta? Il premier si sbaglia, replica Diego Fusaro, «perché lui stesso e il suo partito sono pienamente organici – in senso gramsciano – alla stessa visione del mondo di Berlusconi e del suo schieramento». Portatrici della stessa visione ultra-capitalistica del mondo, «destra e sinistra accettano oggi in maniera ugualmente remissiva la sovranità irresponsabile di organismi economici sistemici», dal Fmi alla Bce, «che svuotano interamente la decisione politica, costretta a una funzione meramente ancillare». Ridotte a pura gestione dell’esistente, politica e democrazia «non fanno altro che ratificare quanto viene autonomamente deciso dalla sapienza infallibile degli economisti, dalle multinazionali e dal mercato divinizzato». Quale ventennio, dunque, sarebbe finito? Forse quello del politico Berlusconi, ma «non certo lo spirito del tempo neoliberale, giacché di esso si sostanziano in egual misura Berlusconi e il partito di Letta».Fusaro lo chiama, «il tragicomico serpentone metamorfico Pci-Pds-Ds-Pd». Un ibrido politico che, «dalla lotta per l’emancipazione di tutti è oggi passato armi e bagagli a difendere le ragioni del capitale finanziario globalizzato». La cultura della sinistra? E’ da tempo «il luogo di riproduzione simbolica del capitale: nichilismo, relativismo, distruzione dei retaggi borghesi». Da Marx alla Dandini, da Gramsci a D’Alema: «La parabola sta tutta qui: farebbe ridere se non facesse piangere», scrive Fusaro su “Lo Spiffero” in un intervento ripreso da “Megachip”. L’eclissi della sinistra, quella vera? «Una tragedia politica e sociale di tipo epocale». Ridotta a «protesi di manipolazione simbolica del consenso e di addomesticamento organizzato del dissenso», la falsa dicotomia tra destra e sinistra – con buona pace di Letta – oggi «occulta il totalitarismo del mercato». La propaganda delle due fazioni non lo nomina neppure più, avendolo ormai metabolizzato «come dato naturale-eterno».Siamo in una gabbia di finzioni: «Si è liberi di scegliere tra gruppi, schieramenti, partiti e fazioni», sapendo però che hanno tutte aderito al dogma, alla «supina adesione all’integralismo economico presentato come destino», come futuro senza alternative al dominio del capitale. «Oggi il monoteismo del mercato risulta letteralmente invisibile nel proliferare ipertrofico delle dicotomie ingannatorie», e può persino spacciarsi come “male minore”, rispetto agli estremismi che hanno popolato il drammatico ‘900. Perversioni politiche: «Essere antifascisti in assenza completa del fascismo o anticomunisti a vent’anni dall’estinzione del comunismo storico novecentesco costituisce un alibi per non essere anticapitalisti, facendo slittare la passione della critica dalla contraddizione reale a quella irreale perché non più sussistente».Destra e sinistra? Sono entrambe colpevoli di una «adesione cadaverica al nomos dell’economia e all’ordine neoliberale». Letta e Berlusconi? Sono soltanto “maschere di carattere”, per dirla con Marx. «Può darsi che sia finito il ventennio di Berlusconi, ma il suo spirito continua a vivere negli “eroi” del centrosinistra, che di Berlusconi sono da anni i più preziosi alleati». L’unica differenza? Sta nel fatto che i “sinistri” «fanno finta di non essere berlusconiani, disapprovando sempre e solo gli aspetti folkloristici del Cavaliere (Arcore, Olgettina, Ruby)». Di fatto, però, condividono in toto «l’idea perversa della politica come continuazione dell’economia con altri mezzi», nonché «il disinteresse totale e conclamato per la questione sociale e per i diritti degli esclusi dal sistema». Se la sinistra smette di interessarsi a questi temi, conclude Fusaro, allora è meglio «smettere di interessarsi alla sinistra».Si è chiuso un ventennio, come dice Enrico Letta? Il premier si sbaglia, replica Diego Fusaro, «perché lui stesso e il suo partito sono pienamente organici – in senso gramsciano – alla stessa visione del mondo di Berlusconi e del suo schieramento». Portatrici della stessa visione ultra-capitalistica del mondo, «destra e sinistra accettano oggi in maniera ugualmente remissiva la sovranità irresponsabile di organismi economici sistemici», dal Fmi alla Bce, «che svuotano interamente la decisione politica, costretta a una funzione meramente ancillare». Ridotte a pura gestione dell’esistente, politica e democrazia «non fanno altro che ratificare quanto viene autonomamente deciso dalla sapienza infallibile degli economisti, dalle multinazionali e dal mercato divinizzato». Quale ventennio, dunque, sarebbe finito? Forse quello del politico Berlusconi, ma «non certo lo spirito del tempo neoliberale, giacché di esso si sostanziano in egual misura Berlusconi e il partito di Letta».
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Ragnedda: condannati dall’euro, come Atene e Lisbona
Il Portogallo sprofonda come la Grecia e anticipa quello che potrebbe accadere all’Italia. Uno schema micidiale: gli Stati europei si indebitano, esattamente come tutti gli altri Stati al mondo, ma «non potendo emettere moneta (a differenza del Giappone, degli Usa, dell’Inghilterra e della Svizzera) chiedono aiuto alla Troika». Bce, Fmi e Unione Europea ben volentieri concedono prestiti, ovviamente a condizioni-capestro: indietro non vogliono solo i soldi che prestati (più gli interessi usurai) ma impongono anche un insieme di misure antisociali per “snellire” il welfare. Così, riassume Massimo Ragnedda, lo Stato non più sovrano è costretto a comportarsi come i cittadini «indebitati e disperati», che chiedono “aiuto” agli strozzini. Si accettano i vincoli e i tagli più drammatici alla spesa pubblica, pur sapendo che non faranno che aggravare la crisi. E’ tutto orribilmente semplice: «Gli Stati un tempo sovrani sono così costretti a vendere i gioielli di famiglia (come fanno gli strozzati dagli usurai), licenziare dipendenti pubblici, ridurre la sanità pubblica, tagliare i finanziamenti alla scuola e alla ricerca, ridurre le pensioni».La politica economica dell’Eurozona, scrive Ragnedda su “Tiscali” in un intervento ripreso da “Megachip”, è ordinata e imposta da oscuri burocrati e banchieri che vivono in un mondo dorato senza nessun contatto con quello che un tempo si sarebbe definito “il popolo”. «A noi rimane l’illusione che, votando, possiamo scegliere da chi essere governati». Ora, dopo aver schiacciato la Grecia, è il turno del Portogallo: in cambio del generoso piano di “salvataggio”, la Troika ha imposto al conservatore Passos Coelho di tagliare gli stipendi pubblici. Dal 2014 tutti i dipendenti pubblici portoghesi che guadagnano più di 600 euro si vedranno tagliare lo stipendio da un minimo del 2,5% ad un massimo del 12%, annota Ragnedda. Ma non basta: «La Troika ha imposto il licenziamento del 3% dei dipendenti pubblici, in un paese in cui la disoccupazione ha già superato quota 17,4%». In più, il super-potere europeo ha anche ordinato di aumentare l’orario settimanale dei lavoratori pubblici da 35 a 40 ore. Misure ora al vaglio della Corte Costituzionale di Lisbona: in mancanza di alternative, lo Stato sarà costretto ad applicarle.La Troika, continua Ragnedda, chiede anche che vengano privatizzate le aziende in attivo, come la Rete Energetica Nazionale. «Privatizzare significa vendere a prezzi di saldo, agli amici della Troika ovviamente, le aziende che producono. I soldi che si ricaveranno dalla vendita (un po’ come i nostri soldi dell’Imu che sono serviti a salvare il Monte Paschi di Siena) serviranno per salvare dal fallimento il quinto gruppo finanziario del paese, la Banif». Ma il debito non andrebbe pagato? Certo: quello di famiglie e aziende. Quanto al debito pubblico, quello dello Stato, dipende: se si tratta di un paese libero, come il Giappone che emette moneta sovrana, il debito può tranquillamente arrivare al 250% del Pil (più del doppio dell’esposizione italiana) senza che si scateni nessuna tempesta finanziaria. Motivo: gli speculatori sanno che lo Stato giapponese è in grado di ripianare il deficit in qualsiasi momento, ricorrendo all’emissione di valuta. L’Eurozona, senza più alcun potere di autodifesa monetaria, è invece in balia del ricatto finanziario: il deficit italiano è attualmente attorno al 3% del Pil, mentre quello nipponico è al 10%.In regime di moneta sovrana, debito pubblico significa, letteralmente: soldi che lo Stato anticipa ai cittadini, in termini di servizi, stipendi e infrastrutture, assicurando in tal modo il necessario supporto all’economia, in termini di fatturati e consumi, oltre che di stabilità sociale. Infatti, nonostante il suo elevatissimo debito virtuale, il Giappone non solo non ha tagliato la spesa pubblica (come invece la Grecia che ha dovuto chiudere ospedali e università, fabbriche e uffici) ma ha lanciato un ulteriore piano di espansione della spesa statale con un primo intervento da 85 miliardi di euro, con l’obiettivo di creare 600.000 nuovi posti di lavoro, secondo i piani keynesiani del premier Shinzo Abe. «Mentre in Grecia si registra un drastico aumento della povertà, casi di malnutrizione minorile, aumento dei reati legati alla “sopravvivenza”, sistema educativo e sanitario ridotto all’osso, in Giappone il tasso di disoccupazione è del 4.5%», precisa Ragnedda. Dopo la Grecia, ora tocca al Portogallo: il paese è costretto a licenziare i dipendenti pubblici, tagliare loro lo stipendio, ridurre la spesa pubblica elargendo meno servizi vitali per i cittadini.Dov’è il trucco? Nella moneta: a differenza di noi sventurati “sudditi” della Bce, i giapponesi sono proprietari del loro denaro, che può essere liberamente emesso dalla Bank of Japan, così come fanno la Federal Reserve statunitense, la Bank of England e la Banca centrale svizzera. Il rischio è l’aumento dell’inflazione, continua Ragnedda, ma il vantaggio è che non si è costretti a chiedere prestiti usurai alla Troika e farsi dettare la politica economica e sociale da oscuri banchieri. Attenti poi a maneggiare lo spauracchio dell’inflazione, sempre agitato dal super-potere neoliberista che, dopo quarant’anni di guerra ideologico-economica, sta finendo di distruggere lo Stato democratico come “sindacato dei cittadini” e loro grande sponsor economico. Secondo Paolo Barnard e Warren Mosler, in base alla “teoria della moneta moderna” ci si cautela facilmente dell’iper-inflazione se lo Stato crea posti di lavoro produttivi, e non assistenziali, vincolando quindi la maggiore liquidità all’incremento del Pil, cioè dell’economia reale.Per un vero piano di piena occupazione, abbonderebbero gli spazi nei settori con elevato impiego di personale, dai servizi alla persona alle opere di ripristino del territorio. Senza contare i posti di lavoro – centinaia di migliaia, forse milioni – ricavabili da un grande piano nazionale di riconversione ecologica dell’economia, dalle fonti rinnovabili alla ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio pubblico e privato. Lo Stato, però, può tornare a tutelare la comunità nazionale a una sola condizione: rientrando in possesso della propria moneta sovrana. Giochino piuttosto semplice, conclude Ragnedda: «Il Giappone, l’Inghilterra e gli Usa possono finanziarie il loro debito direttamente, emettendo moneta. Noi no. E per poter pagare il debito siamo perciò costretti a chiedere i soldi alla Bce e aprirci alla speculazione internazionale». Se l’Italia è ancora sospesa nell’anticamera dell’inferno, la micidiale road map di Bruxelles – Atene, poi Lisbona – indica che sta per toccare a noi, perché nessun governo (senza moneta, e quindi senza potere di spesa pubblica) potrà fare nulla di importante per invertire la rotta e opporsi alla catastrofe. Domanda: c’è qualche forza politica che osi porre la questione, in Parlamento?Il Portogallo sprofonda come la Grecia e anticipa quello che potrebbe accadere all’Italia. Uno schema micidiale: gli Stati europei si indebitano, esattamente come tutti gli altri Stati al mondo, ma «non potendo emettere moneta (a differenza del Giappone, degli Usa, dell’Inghilterra e della Svizzera) chiedono aiuto alla Troika». Bce, Fmi e Unione Europea ben volentieri concedono prestiti, ovviamente a condizioni-capestro: indietro non vogliono solo i soldi che prestati (più gli interessi usurai) ma impongono anche un insieme di misure antisociali per “snellire” il welfare. Così, riassume Massimo Ragnedda, lo Stato non più sovrano è costretto a comportarsi come i cittadini «indebitati e disperati», che chiedono “aiuto” agli strozzini. Si accettano i vincoli e i tagli più drammatici alla spesa pubblica, pur sapendo che non faranno che aggravare la crisi. E’ tutto orribilmente semplice: «Gli Stati un tempo sovrani sono così costretti a vendere i gioielli di famiglia (come fanno gli strozzati dagli usurai), licenziare dipendenti pubblici, ridurre la sanità pubblica, tagliare i finanziamenti alla scuola e alla ricerca, ridurre le pensioni».
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Le Pen: no-euro e sfide a viso aperto, Grillo prenda nota
Marine Le Pen come Beppe Grillo? Con una differenza colossale, anzi due. Sull’euro ha una posizione che più chiara non si può: l’uscita dalla moneta unica – pena l’abbandono dell’Unione Europea da parte della Francia – è il suo maggiore cavallo di battaglia, l’ascia di guerra impugnata per imporre all’élite finanziaria una soluzione democratica in alternativa all’agonia infinita della crisi. E a differenza del Beppe nazionale, la battagliera figliola di Jean-Marie Le Pen non si trincera dietro l’incerta esegesi oracolare del blog, sempre fatalmente “interpretabile”, ma si getta nella mischia, senza nessuna paura dell’interdizione operata dalle televisioni in mano all’establishment. Vero, intorno alla Le Pen c’è il nulla: nessun dirigente di rilievo – come del resto intorno a Grillo, che però è “vegliato” dall’ombra di Casaleggio. Identica l’intransigenza contro gli immigrati: ma per affermare la linea dura nel Front National, Marine Le Pen non ha bisogno di diktat. Per questo, a Bruxelles, fa più paura di Grillo.Il “problema”, per i tecno-gestori della cupola politico-finanziaria che ci governa con potere praticamente assoluto, sono i numeri: quelli dei sondaggi che assegnano alla Le Pen il 24% delle intenzioni di voto dei francesi. Più o meno la stessa quota riservata in Italia ai grillini, valutati sopra il 20% e già sottostimati nella precedente tornata elettorale. Milioni di elettori, tra Francia e Italia, che formano una diga potenziale contro lo strapotere della Troika: anche se molto più vago di Marine Le Pen, lo stesso Grillo non può certo essere considerato un docile esecutore della politica di rigore, quella del massacro sociale neoliberista che sta piegando l’Europa grazie alla Bce di Draghi e ai super-commissari di Bruxelles, non eletti da nessuno ma sempre agli ordini di Angela Merkel, e prima ancora delle lobby planetarie che usano la Commissione Europea per far scrivere una dopo l’altra, sotto dettatura, le leggi-capestro buone solo per le multinazionali e i grandi cannibali della finanza mondiale, i Padroni dell’Universo.Proprio grazie alla straordinaria grinta di Marine Le Pen, ora il fronte anti-austerity ha davvero cambiato marcia, rileva il blog “Cobraf” in una nota ripresa da “Come Don Chisciotte”: la grande stampa internazionale bolla ancora il Front National come “fascista” per la chiusura brutale sull’immigrazione, ma la Le Pen si smarca dal passato paterno, rifiuta di considerarsi “destra”. In economia si definisce addirittura “socialista”, e attacca: «L’austerità porta a più deficit e più debito, e la follia fiscale rallenta lo sviluppo. Il commercio anche in Francia è ridotto come nel Sud Europa. Austerità e follia fiscale: ma per cosa? E’ per loro bella faccia che, anche nel 2014, dovremmo continuare a remunerare profumatamente i rapaci mercati finanziari, di cui siamo stati messi alle dipendenze?».Date un’occhiata al sito di Marine Le Pen, consiglia “Cobraf”: anziché di post, è pieno di video-interviste rilasciate alle maggiori testate, dalle tv nazionali ai santuari gauchisti come “Libération”. E attenzione: la leader del Fn si muove ovunque, in tutto il paese, facendosi riprendere anche in mezzo alle porcilaie, pronta a pronunciarsi su chissà quale crisi regionale alimentare. «Una donna di 46 anni, senza trucco, vestita con solo un maglione». Poi non ci si stupisca se fa il pieno di voti tra contadini e operai. Nessuna paura delle telecamere, la leader del Front National non si nasconde mai: «Al contrario, appena la inviti a un dibattito azzanna gli interlocutori con foga su qualunque argomento. E ovviamente tutti i suoi discorsi sono improvvisati: niente teleprompter che la segue come Obama».Marine Le Pen come Beppe Grillo? Con una differenza colossale, anzi tre. Sull’euro ha una posizione che più chiara non si può: l’uscita dalla moneta unica – pena l’abbandono dell’Unione Europea da parte della Francia – è il suo maggiore cavallo di battaglia, l’ascia di guerra impugnata per imporre all’élite finanziaria una soluzione democratica in alternativa all’agonia infinita della crisi. E a differenza del Beppe nazionale, la battagliera figliola di Jean-Marie Le Pen non resta in panchina: si candida. Né si trincera dietro l’incerta esegesi oracolare del blog, sempre fatalmente “interpretabile”, ma si getta nella mischia, senza nessuna paura dell’interdizione operata dalle televisioni in mano all’establishment. Vero, intorno alla Le Pen c’è il nulla: nessun dirigente di rilievo – come del resto intorno a Grillo, che però è “vegliato” dall’ombra di Casaleggio. Identica l’intransigenza contro gli immigrati: ma per affermare la linea dura nel Front National, Marine Le Pen non ha bisogno di diktat. Per questo, a Bruxelles, fa più paura di Grillo.
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Berardi: guerra civile europea, solleviamoci per fermarla
Potremo ritrovare la libertà solo grazie a una «sollevazione europea», partendo dalla grande manifestazione del 19 ottobre a Roma, evitando le fiammate rabbiose, «una trappola cui potrebbe seguire depressione e disgregazione». Energia popolare, da trasformare «in un processo diffuso e permanente di autonomia solidale». Per Franco “Bifo” Berardi, il popolo “ribelle” che ha sfilato a Roma è quello più consapevole, che vuole «sottrarre la società al cappio mortale del finanzismo, il capitalismo finanziario che sta portando l’Europa verso il nazismo». E’ il regime che ha tradito persino le aspettative della tecnologia, la promessa di liberare tempo-lavoro per destinarlo alla cura e all’educazione. Al contrario, la tecnologia globalizzata si traduce in disoccupazione e miseria, ulteriore sfruttamento, con sempre nuovi tagli alle spese per la scuola e la sanità. Attenzione: «Il sistema politico non può nulla contro la devastazione finanzista», perché la nostra democrazia «è stata cancellata»: come dice Draghi, «sommo sacerdote della teologia finanzista», il “patto di stabilità” procede con il pilota automatico, contro di noi.Secondo Berardi, autore di un intervento su “Micromega”, «soltanto una sollevazione generale, che non si limiti a riempire le piazze per un giorno, ma che occupi in maniera permanente la vita quotidiana, può liberare la società dalla trappola del finanzismo». La sollevazione, precisa “Bifo”, non è un’azione militare, e neppure una ribellione momentanea, ma «il dispiegamento della corporeità sociale, il rifiuto permanente di pagare un debito che non abbiamo contratto, l’autonomia delle forme di vita di sapere e di produzione». Niente black-bloc, per intenderci: «Un’evoluzione violenta del movimento anticapitalista oggi sarebbe poco intelligente, perché nessuno crede alla possibilità di sconfiggere le forze armate degli Stati, ultimo residuo del loro potere nazionale». Ci sono state «esplosioni di violenza precaria» come quelle del 2011 in Inghilterra, scatenate dalle giovani generazioni che «si vedono promesse a un futuro di miseria e di schiavismo», seguite dall’“acampada” spagnola, da Occupy Wall Street e dalle rivolte giovanili in Tunisia e in Egitto. L’Italia? E’ rimasta ai margini, «perché molti ingenui credevano che il problema fosse riducibile al potere di un vecchio caimano mafioso». Ma ora che Berlusconi pare al tramonto, «nulla cambia se non in peggio, e la società si trova in una stretta ogni giorno più soffocante».Lo spettacolo che ci assedia è scoraggiante: «Fiaccata dall’attacco finanzista, l’Unione Europea è un morto che cammina. Un sentimento di rancore impotente si esprime in forme di nazionalismo e di razzismo». Il Mediterraneo è «trasformato in una fossa comune», mentre «campi di concentramento razziali» sorgono «in ogni territorio dell’Unione». Sulla Grecia incombe “Alba Dorata”, in Spagna riemerge il conflitto tra nazionalismo e indipendentismo catalano, in Ungheria si affacciano «la dittatura e il razzismo». Quanto alla Francia, Berardi non crede alla sincerità democratica di Marine Le Pen, leader del Front National che ormai si presenta come forza di maggioranza. Per “Bifo”, la Bce «sta consegnando ai nazionalisti il governo del paese senza il quale “Europa” non significa niente». Il patto di pace franco-tedesco «si sta sgretolando, e crollerà quando il Front National sarà partito di maggioranza». A quel punto, «l’agonia dell’Unione lascerà il posto alla guerra civile». Fondamentale, quindi, il ruolo della “sollevazione permanente europea” in nome della democrazia solidale, a partire dal bilancio della manifestazione di Roma.Potremo ritrovare la libertà solo grazie a una «sollevazione europea», partendo dalla grande manifestazione del 19 ottobre a Roma, evitando le fiammate rabbiose, «una trappola cui potrebbe seguire depressione e disgregazione». Energia popolare, da trasformare «in un processo diffuso e permanente di autonomia solidale». Per Franco “Bifo” Berardi, il popolo “ribelle” che ha sfilato a Roma è quello più consapevole, che vuole «sottrarre la società al cappio mortale del finanzismo, il capitalismo finanziario che sta portando l’Europa verso il nazismo». E’ il regime che ha tradito persino le aspettative della tecnologia, la promessa di liberare tempo-lavoro per destinarlo alla cura e all’educazione. Al contrario, la tecnologia globalizzata si traduce in disoccupazione e miseria, ulteriore sfruttamento, con sempre nuovi tagli alle spese per la scuola e la sanità. Attenzione: «Il sistema politico non può nulla contro la devastazione finanzista», perché la nostra democrazia «è stata cancellata»: come dice Draghi, «sommo sacerdote della teologia finanzista», il “patto di stabilità” procede con il pilota automatico, contro di noi.
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Orsi: Napolitano è il garante della scomparsa dell’Italia
Gli storici del futuro probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un paese che, in soli vent’anni, è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale a una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampate terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di un completo caos politico-istituzionale. Lo scenario di un serio crollo delle finanze dello Stato italiano sta crescendo, coi ricavi dalla tassazione diminuiti del 7% in luglio, un rapporto deficit/Pil superiore al 3% e un debito pubblico sopra il 130%, destinato a peggiorare ulteriormente. Ancora dieci anni, e del nostro paese non resterà più nulla. Lo afferma il professor Roberto Orsi della London School of Economics and Political Science. Il declino: una classe politica miope, pronta a imporre tasse in nome della stabilità. Ieri Monti, oggi Letta. Un disastro: «Terribile gestione finanziaria, infrastrutture inadeguate, corruzione onnipresente, burocrazia inefficiente. E il sistema di giustizia più lento e inaffidabile d’Europa».Il governo, scrive Orsi in un’analisi pubblicata da “Affari Italiani”, sa perfettamente che la situazione è insostenibile. Ma per ora è in grado soltanto di ricorrere ad un aumento estremamente miope dell’Iva (22%), che deprime ulteriormente i consumi. «Vacui» i proclami circa la necessità di spostare il carico fiscale dal lavoro e dalle imprese alle rendite finanziarie: tutti sanno che non accadrà. Politici e stampa mainstream annunciano una ripresa imminente? Perfettamente possibile, un trimestre positivo, per un’economia che ha perso l’8% del suo Pil. Ma chiamare “ripresa” un eventuale +0,3% «è una distorsione semantica, considerando il disastro economico degli ultimi cinque anni: più corretto sarebbe parlare di una transizione da una grave recessione a una sorta di stagnazione». Numeri impietosi: il 15% del settore manifatturiero, che in Italia (prima della crisi) era il più grande in Europa dopo quello tedesco, è stato distrutto. E circa 32.000 aziende sono scomparse. «Questo dato, da solo, dimostra l’immensa quantità di danni irreparabili che il paese subisce».Nell’Europa di Maastricht, quella della camicia di forza rappresentata dalla moneta unica, l’Italia è entrata nel peggior modo possibile, con una cultura politica «enormemente degradata». Negli ultimi decenni, osserva Orsi, l’élite italiana «ha negoziato e firmato numerosi accordi e trattati internazionali, senza mai considerare il reale interesse economico del paese e senza alcuna pianificazione significativa del futuro della nazione: l’Italia non avrebbe potuto affrontare l’ultima ondata di globalizzazione in condizioni peggiori». La leadership del paese, continua il professor Orsi, non ha mai riconosciuto che l’apertura indiscriminata di prodotti industriali a basso costo dell’Asia avrebbe distrutto industrie una volta leader nei loro settori. Poi la tagliola dell’Eurozona: l’Italia «ha firmato i trattati sull’euro promettendo ai partner europei riforme mai attuate, ma impegnandosi in politiche di austerità». Non solo: «Ha firmato il regolamento di Dublino sui confini dell’Ue sapendo perfettamente che l’Italia non è neanche lontanamente in grado (come dimostra il continuo afflusso di immigrati clandestini a Lampedusa e gli inevitabili incidenti mortali) di pattugliare e proteggere i suoi confini». Oggi, l’Italia è rinchiusa in una rete di strutture giuridiche che rendono certa «la scomparsa completa della nazione».Da noi, il livello di tassazione sulle imprese è il più alto dell’Ue, e uno dei più elevati al mondo. Questo, insieme alla catastrofe dello Stato, sta spingendo gli imprenditori all’estero – non solo verso destinazioni che offrono lavoratori a basso costo (Oriente, Asia meridionale), ma anche verso la vicina Svizzera e la stessa Austria dove, nonostante i costi relativamente elevati di lavoro, le aziende trovano uno Stato «pronto a collaborare con loro, anziché a sabotarli». Aggiunge Orsi: «La scomparsa dell’Italia in quanto nazione industriale si riflette anche nel livello senza precedenti di fuga di cervelli, con decine di migliaia di giovani ricercatori, scienziati, tecnici che emigrano in Germania, Francia, Gran Bretagna, Scandinavia, così come in Nord America e Asia orientale». Chi è istruito e produce valore pensa solo a emigrare. Così, «l’Italia è diventato un luogo di saccheggio demografico per gli altri paesi più organizzati, che hanno l’opportunità di attrarre facilmente lavoratori altamente addestrati a spese dello Stato italiano, offrendo loro prospettive economiche ragionevoli che non potranno mai avere in Italia».Inoltre, siamo entrati «in un periodo di anomalia costituzionale», dopo che i partiti nel 2011 hanno «portato il paese ad un quasi-collasso», evento che avrebbe avuto gravi conseguenze a livello globale. Chi comanda, oggi? «Il paese è stato essenzialmente governato da tecnocrati provenienti dall’ufficio del presidente Repubblica, i burocrati di diversi ministeri chiave e la Banca d’Italia. Il loro compito è quello di garantire la stabilità in Italia nei confronti dell’Ue e dei mercati finanziari a qualsiasi costo. Questo è stato finora raggiunto emarginando sia i partiti politici sia il Parlamento a livelli senza precedenti, e con un interventismo onnipresente e costituzionalmente discutibile del presidente della Repubblica, che ha esteso i suoi poteri ben oltre i confini dell’ordine repubblicano. L’interventismo del presidente – aggiunge Orsi – è particolarmente evidente nella creazione del governo Monti e del governo Letta, che sono entrambi espressione diretta del Quirinale».Per il professore della London School of Economics, «l’illusione ormai diffusa, che molti italiani coltivano, è credere che il presidente, la Banca d’Italia e la burocrazia sappiano come salvare il Paese». Errore: «Saranno amaramente delusi», perché «l’attuale leadership non ha la capacità, e forse neppure l’intenzione, di salvare il paese dalla rovina». Sarebbe facile, aggiunge Orsi, sostenere che Monti ha aggravato la già pesante recessione. Ma Letta sta seguendo esattamente lo stesso percorso: tutto deve essere sacrificato in nome della stabilità. «I tecnocrati – spiega l’economista – condividono le stesse origini culturali dei partiti politici e, in simbiosi con loro, sono riusciti ad elevarsi alle loro posizioni attuali: è quindi inutile pensare che otterranno risultati migliori, dal momento che non sono neppure in grado di avere una visione a lungo termine per il paese». Letta, Napolitano e le loro coorti di tecnici «sono in realtà i garanti della scomparsa dell’Italia».A sconcertare, è la rapidità del declino: di questo passo, «in meno di una generazione non rimarrà nulla dell’Italia nazione industriale moderna». Entro un decennio, «intere regioni, come la Sardegna o la Liguria, saranno così demograficamente compromesse che non potranno mai più recuperare». Riflette Orsi: «I fondatori dello Stato italiano 152 anni fa avevano combattuto, addirittura fino alla morte, per portare l’Italia a quella posizione centrale di potenza culturale ed economica all’interno del mondo occidentale, che il paese aveva occupato solo nel tardo medioevo e nel Rinascimento. Quel progetto ora è fallito, insieme con l’idea di avere una qualche ambizione politica significativa e il messianico (inutile) intento universalista di salvare il mondo, anche a spese della propria comunità». Per il professor Orsi, «a meno di un miracolo, possono volerci secoli per ricostruire l’Italia».Gli storici del futuro probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un paese che, in soli vent’anni, è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale a una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampate terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di completo caos politico-istituzionale. Lo scenario di un serio crollo delle finanze dello Stato sta crescendo, coi ricavi dalla tassazione diminuiti del 7% in luglio, un rapporto deficit/Pil superiore al 3% e un debito pubblico sopra il 130%, destinato a peggiorare ulteriormente. Ancora dieci anni, e del nostro paese non resterà più nulla. Lo afferma il professor Roberto Orsi della London School of Economics and Political Science. Il declino: una classe politica miope, pronta a imporre tasse in nome della stabilità. Ieri Monti, oggi Letta. Un disastro: «Terribile gestione finanziaria, infrastrutture inadeguate, corruzione onnipresente, burocrazia inefficiente. E il sistema di giustizia più lento e inaffidabile d’Europa».