Archivio del Tag ‘politica’
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Renzi, il tradimento al potere: impossibile credergli
È fatale: una volta che hai scelto Tony Blair come modello, per forza approdi al tradimento. Tradimento della sinistra e dell’Europa che pretendi risuscitare, tradimento di promesse fatte nelle primarie o nei congressi. Non dimentichiamo il nomignolo che fu dato al leader laburista, negli anni della guerra in Iraq: lo chiamarono il “poodle di Bush jr”, il barboncino-lacchè sempre scodinzolante davanti alla finte vittorie annunciate dal boss d’oltre Atlantico. Non dimentichiamo, noi che ci siamo imbarcati nel bastimento della Lista Tsipras, come Blair lavorò, di lena, per distruggere il poco di unione europea che esisteva e il poco che si voleva cambiare. Fu lui a non volere che i Trattato di Lisbona divenisse una vera Costituzione, di quelle che cominciano, come la Carta degli Stati Uniti, con le parole: «Noi, il popolo….». Fu lui che si oppose a ogni piano di maggiore solidarietà dell’Unione, e rifiutò ogni progetto di un’Europa politica, che controbilanciasse il potere solo economico esercitato dai mercati e in modo speciale dalla city.Renzi è consapevole di queste cose, o parla di Blair tanto per parlare? E il ministro degli esteri Mogherini in che cosa è meglio di Emma Bonino, che al federalismo europeo ha dedicato una vita e possiede una vera competenza? Federica Mogherini ha concentrato i suoi interessi sulla Nato innanzitutto, e poi sull’Europa. Chissà se è consapevole della degradazione dell’Alleanza atlantica, nei catastrofici dodici anni di guerra antiterrorista. Ma ancor più inquietante è la rinuncia, in extremis, a Nicola Gratteri ministro della giustizia. Questo sì sarebbe stato un segnale di svolta. La sua battaglia contro il malcostume politico e le mafie è la risposta più seria che l’Italia possa dare ai rapporti dell’Unione che ci definiscono il paese più corrotto d’Europa.Non è ancora chiaro chi abbia lavorato contro la nomina di Gratteri. Forse il Quirinale, per fedeltà alle larghe intese; di certo le destre di Alfano e Berlusconi, con il quale Renzi vuol negoziare le riforme della Costituzione. È stato detto che non è bene che un pm diventi guardasigilli. Anche qui, la rimozione e l’oblio regnano indisturbati: nel 2011, il Quirinale firmò la nomina del magistrato di Forza Italia Nitto Palma, vicino al premier Berlusconi e Cosentino. Evidentemente quel che valeva per Nitto Palma è tabù per Gratteri. Il veto al suo nome è ad personam, e accoglie la richiesta della destra di avere un ministro “garantista” (garantista degli imputati di corruzione, di voto di scambio, di frode fiscale, ecc). Al suo posto è stato scelto un uomo di apparato, Andrea Orlando, che solo da poco tempo si occupa di giustizia, che ha fatto la sua scalata prima nel Pci, poi nel Pds, poi nei Ds, poi nel Pd. Nel governo Letta era ministro dell’ambiente. Auspica – in profonda sintonia con Berlusconi – la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale e la separazione delle carriere dei magistrati.Infine il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan. Recentemente ha preconizzato l’allentamento delle politiche di austerità, che aveva difeso per anni. Non ha neppure escluso l’utilità di una patrimoniale. Ma di questi tempi tutti, a parole, sono contro l’austerità. Vedremo cosa Padoan proporrà in Europa: come passerà – se passerà – dalle parole agli atti. Al momento non vedo discontinuità tra lui e Fabrizio Saccomanni. Naturalmente può darsi che Renzi farà qualcosa di utile per l’Italia: prima di tutto su lavoro e fisco. Non mi aspetto niente di speciale sull’Europa, per i motivi che ho citato prima. Non credo nemmeno che creda in quel che è andato dicendo per mesi: «Niente più larghe intese!», o «Mai a Palazzo Chigi senza un passaggio elettorale». Altrimenti non avrebbe guastato tante parole nel giro di poche ore, giusto per andare a Palazzo Chigi e presentarsi – terzo premier nominato – in un Parlamento di nominati.(Barbara Spinelli, “Renzi, il potere e il tradimento”, dal sito “Lista Tsipras” del 23 febbraio 2014).È fatale: una volta che hai scelto Tony Blair come modello, per forza approdi al tradimento. Tradimento della sinistra e dell’Europa che pretendi risuscitare, tradimento di promesse fatte nelle primarie o nei congressi. Non dimentichiamo il nomignolo che fu dato al leader laburista, negli anni della guerra in Iraq: lo chiamarono il “poodle di Bush jr”, il barboncino-lacchè sempre scodinzolante davanti alla finte vittorie annunciate dal boss d’oltre Atlantico. Non dimentichiamo, noi che ci siamo imbarcati nel bastimento della Lista Tsipras, come Blair lavorò, di lena, per distruggere il poco di unione europea che esisteva e il poco che si voleva cambiare. Fu lui a non volere che i Trattato di Lisbona divenisse una vera Costituzione, di quelle che cominciano, come la Carta degli Stati Uniti, con le parole: «Noi, il popolo….». Fu lui che si oppose a ogni piano di maggiore solidarietà dell’Unione, e rifiutò ogni progetto di un’Europa politica, che controbilanciasse il potere solo economico esercitato dai mercati e in modo speciale dalla city.
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Senza moneta siamo in agonia? Toseranno i risparmi
Non fate l’errore, cari lettori, di credere davvero che quella di Graziano Delrio sia stata la classica scivolata su una buccia di banana frutto dell’inesperienza. Non è così. Perché il sottosegretario alla presidenza del Consiglio è tutto tranne che un politico inesperto: è furbo, preparato, e naviga a vari livelli nei marosi della politica attiva da qualche decennio. Se parla, sa cosa dice. E quando ha parlato di aumentare la tassazione sui Bot dall’attuale 12,5% – sottolinea Mauro Bottarelli – non ha dato fiato a una voce dal sen sfuggita: ha testato la piazza, su preciso mandato. «È come nel rugby: la prima mischia ordinata della partita serve a testare la consistenza del pacchetto avversario. Chi vince la prima, impone le regole tutta la partita. Magari non fisicamente, ma sicuramente psicologicamente».Non a caso, aggiunge Bottarelli su “Il Sussidiario”, il comunicato con cui Palazzo Chigi ha tentato di tamponare l’incidente diplomatico alla vigilia del voto di fiducia è la classica toppa peggio del buco: si dice infatti sì che l’intenzione non è quella di imporre nuove tasse bensì di abbassare quelle attuali, ma si parla anche di rimodulazione delle aliquote per finanziare l’abbattimento del cuneo fiscale. Quindi, non si esclude affatto che quel 12,5% possa diventare 15%. O magari 20%. Tanto, come ha detto Delrio, la vecchietta con i suoi Bot non starà male per questo. Tanto più che servirà a qualcosa di importante, ovvero l’abbattimento del costo del lavoro per aiutare i giovani a essere assunti e gli imprenditori ad assumere. «Un bel ricatto morale, fatto alla perfezione. Ce lo chiede l’Europa, mancava nel comunicato. Ma non tarderà a saltare fuori questa formula».Questo, insiste Bottarelli, è il governo dei curatori fallimentari, in missione per conto della Commissione Europea. Lo si capisce benissimo fin dalle prime battute, «al netto del nulla cosmico in cui si è sostanziato il discorso di Matteo Renzi al Senato, tra bambini che meritano scuole sicure e investimenti esteri mischiati insieme come in un frullato zuccheroso di buone intenzioni senza nemmeno una cifra o un provvedimento concreto». Per capire l’aria che tira, continua l’analista del “Sussidiario”, basta dare un’occhiata a quello che sta succedendo all’estero. Nel silenzio più assoluto, il governo austriaco ha appena reso noto che i detentori di bond di Hypo-Alde-Adria-Bank, nazionalizzata nel 2009, potrebbero non vedersi ripagato il capitale: questo avviene in Austria, non a Cipro o in Grecia.La decisione del governo toccherà solo i bond con garanzia della provincia della Carinzia, mentre quelli con garanzia federale pagheranno secondo le regole. Ma un nuovo modello, dopo quello cipriota del bail-in, sembra giunto in Europa a mostrare la via. «Ora, se il governo di un paese sano come l’Austria arriva a questo nei riguardi di un istituto nazionalizzato, a cosa potrà arrivare quello italiano, paese dove le banche hanno oltre il 12% di sofferenze sul totale dei prestiti e Monte dei Paschi dovrà essere nazionalizzata entro la fine dell’anno?». D’altronde, il governo Renzi «ha una genealogia lunga e tutta compresa nel documento segreto redatto dalla Commissione Europea, che la Reueters ha intercettato e letto». Eccone il punto fondamentale: «I risparmi dei 500 milioni di cittadini dell’Unione Europea saranno usati per finanziare investimenti a lungo termine per stimolare l’economia e contribuire a riempire il vuoto lasciato dalle banche dall’inizio della crisi finanziaria».Ufficialmente, la Commissione vuole “svezzare” le economie dei 28 paesi sudditi «dalla loro pesante dipendenza dai prestiti bancari, e trovare altri mezzi di finanziare le piccole imprese, i progetti infrastrutturali e altri investimenti». Tutto questo, in una situazione in cui – in previsione dell’unione bancaria – le banche temono gli stress test «che, se venissero condotti in maniera seria, vedrebbero una serie di bocciature capace gli spedire gli spread reali sulla luna». C’è poi la ricetta di Davide Serra, il guru finanziario di Renzi. Secondo Serra, «il primo problema è il debito sbilanciato: troppo debito pubblico, poco privato e poco delle aziende. Questo blocca la crescita». Serra, inoltre, propone anche l’abolizione del contante e il ricalcolo di tutte le pensioni, oggi modulate col sistema retributivo, per rimetterle al magrissimo sistema contributivo: «Il tutto – conclude Bottarelli – per dare i soldi in surplus ricavati alle imprese, sgravando le banche dal loro compito. In qualche modo, una redistribuzione forzosa dai vecchi ai giovani: tu chiamala, se vuoi, rottamazione».Da quando hanno preso i soldi dalla aste Ltro della Bce, le banche «stanno comprando debito pubblico come se non ci fosse un domani». Chiedere agli istituti di credito di finanziarie anche le imprese? «E’ troppo. Ci pensino i cittadini-contribuenti: attraverso le pensioni, la tassazione sui Bot, i tagli sulle detenzioni obbligazionarie e magari domani un bel prelievo forzoso sui conti correnti, come suggerito poco tempo fa dal Fmi». Certo, aggiunge l’analista, l’aver tenuto in piedi l’euro come moneta, agendo sul debito sovrano, ha comportato un prezzo alto da pagare, e non solo per la banche: si è fatto grippare del tutto il motore di creazione di credito in Europa. Il quale oggi è creato dalle banche, che lo fanno indebitandoci: così, la massa monetaria s’è ridotta all’1,5% annuo, ben sotto al target del 4,5% a cui fa riferimento la stessa Bce per mantenere l’inflazione al 2%, come detta il suo mandato.C’è però un problemino, reso noto da Eurostat: inflazione stabile a gennaio per l’Eurozona. Ovvero: la deflazione è dietro l’angolo. «Se non aumenta la massa monetaria, non sale l’inflazione: e Draghi non solo non è stato in grado di mantenere il suo target del 4,5% ma lo ha dimezzato, facendo scendere il tasso inflattivo sotto la metà dell’obiettivo prefissato del 2%». Avverte Bottarelli: «In queste condizioni, l’Italia muore. E i soldi vanno presi dove ci sono, ovvero nel risparmio dei cittadini, visto che le banche non prestano ad aziende non finanziarie, come mostra questo grafico. Preparatevi alla grande tosatura, cari lettori, il governo dei curatori fallimentari è qui per questo. E Delrio non è affatto lo sprovveduto che vogliono dipingere: ha tastato il polso, su mandato. Ora basterà uno scossone, un’emergenza a livello europeo, uno spavento sullo spread e tutto sarà possibile. Perché ce lo chiede l’Europa e lo farà con la faccia giovane, fresca e rassicurante di Matteo».Non fate l’errore, cari lettori, di credere davvero che quella di Graziano Delrio sia stata la classica scivolata su una buccia di banana frutto dell’inesperienza. Non è così. Perché il sottosegretario alla presidenza del Consiglio è tutto tranne che un politico inesperto: è furbo, preparato, e naviga a vari livelli nei marosi della politica attiva da qualche decennio. Se parla, sa cosa dice. E quando ha parlato di aumentare la tassazione sui Bot dall’attuale 12,5% – sottolinea Mauro Bottarelli – non ha dato fiato a una voce dal sen sfuggita: ha testato la piazza, su preciso mandato. «È come nel rugby: la prima mischia ordinata della partita serve a testare la consistenza del pacchetto avversario. Chi vince la prima, impone le regole tutta la partita. Magari non fisicamente, ma sicuramente psicologicamente».
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Padoan, il pasdaran dell’euro che negava il disastro
Pier Carlo Padoan, neo ministro dell’economia, fu uno dei miei professori durante i corsi del master in Economia del Coripe Piemonte, presso il Collegio Carlo Alberto. Sebbene fosse un master rigorosamente “mainstream”, ricordo che le lezioni di alcuni docenti, come Luigi Montrucchio e Giancarlo Gandolfo, suscitavano il nostro vivo interesse e alimentavano le discussioni. Tra i docenti c’era pure Elsa Fornero, che nel ruolo di professoressa rendeva indubbiamente molto meglio che in quello successivo di ministra. Rammento che invece non eravamo particolarmente entusiasti delle lezioni di Padoan. Forse a causa degli alti incarichi che all’epoca già ricopriva, in aula appariva un po’ distratto, vagamente annoiato, non particolarmente persuaso dai grafici che egli stesso tracciava sulla lavagna.Di una cosa tuttavia il nostro pareva convinto: la sostenibilità futura della nascente moneta unica europea era da ritenersi un fatto ovvio, fuori discussione. Era il 1999, data di nascita dell’euro, e Padoan guarda caso teneva il corso di Economia dell’Unione Europea. Una volta gli chiesi cosa pensasse delle tesi di quegli economisti, tra cui Augusto Graziani, che esprimevano dubbi sulla tenuta dell’Eurozona; domandai, in particolare, quale fosse la sua valutazione di quegli studi che già all’epoca criticavano l’idea che gli squilibri tra i paesi membri dell’Unione potessero essere risolti a colpi di austerità fiscale e ribassi salariali. A quella domanda Padoan non rispose: si limitò a scrollare le spalle e a sorridere, con un po’ di sufficienza.All’epoca in effetti l’atteggiamento di Padoan era piuttosto diffuso. L’euro veniva considerato un fatto definitivo, discutere di una sua possibile implosione era pura eresia. Ben pochi, inoltre, si azzardavano a dubitare delle virtù taumaturgiche dell’austerità. Da allora evidentemente molte cose sono cambiate. Sulla capacità delle politiche di austerity di rimettere in equilibrio la zona euro, in accademia lo scetticismo sembra ormai prevalente. Come segnalato anche dal “monito degli economisti” pubblicato sul “Financial Times” nel settembre scorso, esponenti delle più diverse scuole di pensiero concordano nel ritenere che le attuali politiche stiano in realtà pregiudicando la sopravvivenza dell’Unione. Persino il Fondo Monetario Internazionale critica la pretesa di riequilibrare l’Eurozona puntando tutto su pesanti dosi di austerity a carico dei paesi debitori. Insomma, la dura realtà dei fatti costringe i più a rivedere i vecchi pregiudizi.Ma Padoan, che oggi si accinge a lasciare l’Ocse e ad assumere l’incarico di ministro dell’economia, ha cambiato la sua opinione? Non direi. In un’intervista rilasciata poco tempo fa al “Wall Street Journal”, il nostro ha affermato che la crescente sfiducia verso l’austerity è solo «un problema di comunicazione», visto che a suo avviso «stiamo ottenendo risultati». E ha aggiunto: «Il risanamento fiscale è efficace, il dolore è efficace». Ci sono due modi per interpretare questa affermazione. Il primo è che Padoan stia cinicamente interpretando l’austerity come fattore di disciplinamento sociale. Dal punto di vista dei rapporti di forza tra le classi sociali ci sarebbe del vero in questa idea. Mettendola in questi termini, tuttavia, Padoan sottovaluterebbe il fatto che l’austerity sta anche contribuendo alla cancellazione di ogni residua istanza di coesione tra i popoli europei.Il secondo modo di interpretare Padoan è che egli ritenga tuttora che le attuali politiche aiuteranno il rilancio dell’economia. In questo caso avanzerei il sospetto che Padoan sia stato sedotto dai risultati di un suo ardimentoso studio recente, secondo il quale i paesi che passano da una situazione di indebitamento ad una di avanzo estero, e che immediatamente attivano politiche di austerity in grado di abbattere il rapporto tra debito e Pil, hanno maggiori probabilità di aumentare la crescita della produzione. Ora, anche volendo trascurare gli enormi limiti di significatività di questo studio, il problema è che esso entra in contraddizione con le evidenze oggi disponibili: non ultimo il fatto che l’austerity non sta affatto determinando una riduzione del rapporto tra debito e Pil. In un caso o nell’altro, non deve meravigliare che Paul Krugman abbia tratto spunto dalla improvvida dichiarazione di Padoan per commentare che «certe volte gli economisti che occupano cariche pubbliche danno cattivi consigli; altre volte danno pessimi consigli; altre ancora lavorano all’Ocse». E altre volte ancora, aggiungiamo noi, diventano ministri dell’economia di un governo che anziché fare uscire il paese dalla crisi rischia di affondarlo definitivamente.(Emiliano Brancaccio, “Una nota sul mio ex professore Pier Carlo Padoan”, dal blog di Brancaccio del 21 febbraio 2014).Pier Carlo Padoan, neo ministro dell’economia, fu uno dei miei professori durante i corsi del master in Economia del Coripe Piemonte, presso il Collegio Carlo Alberto. Sebbene fosse un master rigorosamente “mainstream”, ricordo che le lezioni di alcuni docenti, come Luigi Montrucchio e Giancarlo Gandolfo, suscitavano il nostro vivo interesse e alimentavano le discussioni. Tra i docenti c’era pure Elsa Fornero, che nel ruolo di professoressa rendeva indubbiamente molto meglio che in quello successivo di ministra. Rammento che invece non eravamo particolarmente entusiasti delle lezioni di Padoan. Forse a causa degli alti incarichi che all’epoca già ricopriva, in aula appariva un po’ distratto, vagamente annoiato, non particolarmente persuaso dai grafici che egli stesso tracciava sulla lavagna.
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Chi votare? Nessuno dichiara guerra all’oligarchia Ue
Rifiutare il Fiscal Compact e proporre lo strumento finanziario degli eurobond per sostenere investimenti strategici. Intervistato dal programma di Michele Santoro, mentre Grillo procede con la “purga” a cascata contro i dissidenti veri o presunti, Alessandro Di Battista vede così il possibile piano-B per uscire dalla tagliola dell’austerity imposta dalla Troika europea, nel giorno in cui Matteo Renzi a Bruxelles se la cava dicendo che “l’Italia sa cosa fare”, rifiutando la consuetudine dei “compiti a casa” per compiacere i signori dell’Ue. Tradotto: il governo si appresta a spostare voci di spesa, senza però sfondare il tetto del 3% fissato come un dogma dalla tecnocrazia europea, quella che – con la camicia di forza dell’Eurozona – impedisce agli Stati di esercitare le loro funzioni sovrane di investimento pubblico. Niente da segnalare, su questo fronte, nemmeno da Moni Ovadia, candidato con la lista Tsipras: l’artista, tra i più importanti intellettuali italiani, è contrario all’uscita dall’euro, interpretata come la perdita (pericolosa) di un orizzonte comunitario europeo.L’euro, dice Moni Ovadia, dovrebbe (dovrà) essere la moneta comune del futuro Stato federale unitario europeo: a quel punto, l’attuale valuta che la Bce destina alle sole banche – non agli Stati – diverrebbe pienamente legittima, in un futuro indefinito, che la lista Tsipras spera di “avvicinare” con l’elezione di un euro-Parlamento “costituente”, per cambiare le attuali regole oligarchiche dell’Unione Europea, retta da un governo – la Commissione – non eletto dai cittadini e pilotato dalle lobby d’affari. Né il M5S, né Tsipras (né tantomeno Renzi) osano ventilare misure di interdizione per “ridurre alla ragione” gli oligarchi di Bruxelles e Francoforte, disposti finora ad ascoltare solo la Bundesbank, che impone condizioni-capestro per sabotare la concorrenza dell’export tedesco e creare un mercato del lavoro a bassissimo costo, adatto cioè a consentire alla Germania di competere sui mercati mondiali globalizzati.Ad oggi – esclusi gli slogan della Lega Nord – l’offerta politica italiana in vista delle europee di maggio non presenta nessuna forza disposta ad affrontare in modo frontale l’impegno di un’opposizione radicale all’attuale sistema europeo, impugnando cioè l’arma regina della sovranità finanziaria statale, senza cui non è praticabile alcuna reale riconversione dell’economia. Sulla francese Marine Le Pen pesa la macchia della xenofobia, ancora agitata per non perdere l’antico elettorato ultra-nazionalista di Jean-Marie Le Pen, ma è evidente che il boom dei sondaggi che accreditano il Front National come prima forza politica di Francia non dipende certo dalla “guerra agli immigrati”, ma dalla determinazione con cui la signora Le Pen dichiara di voler risolvere la questione: se Bruxelles continuasse ad imporre moneta non sovrana, la Francia minaccerebbe direttamente di uscire dall’Unione Europea. In Italia, per ora, parole di questo tipo non le ha pronunciate nessun leader.Rifiutare il Fiscal Compact e proporre lo strumento finanziario degli eurobond per sostenere investimenti strategici. Intervistato dal programma di Michele Santoro, mentre Grillo procede con la “purga” a cascata contro i dissidenti veri o presunti, Alessandro Di Battista vede così il possibile piano-B per uscire dalla tagliola dell’austerity imposta dalla Troika europea, nel giorno in cui Matteo Renzi a Bruxelles se la cava dicendo che “l’Italia sa cosa fare”, rifiutando la consuetudine dei “compiti a casa” per compiacere i signori dell’Ue. Tradotto: il governo si appresta a spostare voci di spesa, senza però sfondare il tetto del 3% fissato come un dogma dalla tecnocrazia europea, quella che – con la camicia di forza dell’Eurozona – impedisce agli Stati di esercitare le loro funzioni sovrane di investimento pubblico. Niente da segnalare, su questo fronte, nemmeno da Moni Ovadia, candidato con la lista Tsipras: l’artista, tra i più importanti intellettuali italiani, è contrario all’uscita dall’euro, interpretata come la perdita (pericolosa) di un orizzonte comunitario europeo.
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Scanzi: il governo antani del gattopardo Matteo Letta
E menomale che Renzi era quello coraggioso, quello furbo: quello del cambiamento. Macché: nient’altro che un democristiano 2.0, un Enrico Renzi, un Matteo Letta. Un serial bugiardo che mira a cambiare affinché nulla cambi. Un Gattopardo ibridato con Peppa Pig. Un rottamatore, sì, ma intenzionato a desertificare non il “vecchio” quanto la buona politica, la credibilità e la competenza. Parafrasando due delle sue poetesse preferite, Jo Squillo e Sabrina Salerno, “oltre l’ambizione non c’è di più”. Il suo governo è uno strazio così evidente che non ha senso infierire. C’è la Mogherini, quella che a “L’aria che tira” si vantava che loro (il Pd) mai e poi mai avrebbero ridato i soldi pubblici del finanziamento-rimborso ai partiti. C’è la Madia, nota inesperta di tutto. C’è la Boschi, nota (ma poco) e basta. Ci sono Alfano, Lupi e Lorenzin, giustamente felicissimi (solo Renzi poteva allungargli la vita) e vicini al “cambiamento” come Povia a Jimi Hendrix. C’è Franceschini, uno che c’è sempre, e la sua sola presenza inamovibile rende pressoché impossibile votare Pd (a meno che non si sia intrisi di un masochismo bulimico).Ci sono le lobby: Confindustria, Coop, Cl. C’è un dalemiano nel ruolo chiave dell’economia. C’è la Pinotti, che un anno fa votava Bersani, come tutti gli attuali ministri piddini (tranne Boschi). C’è la civatiana Lanzetta buttata là senza preavviso, giusto per isolare Civati e applicare alla perfezione il Manuale Cencelli, garantendosi quindi i voti di tutte le 812 correnti Pd. E c’è soprattutto Orlando, il carismatico e guizzante Andrea Orlando, uno che vorrebbe abolire ergastolo e 41 bis, uno che ha un’idea di giustizia al cui confronto Ghedini è antiberlusconiano. Uno che non ci doveva essere, perché Renzi (in una delle sue 2 o 3 idee di pregio avute negli ultimi mesi) voleva il “magistrato in servizio” Gratteri, ma con coraggio di Don Abbondio ha poi obbedito pure lui a Re Giorgio.Renzi, renziani (verso cui siamo sempre più solidali) e stampa folgorata sulla via di San Matteo da Rignano la meneranno nei prossimi giorni con il 50% di quota rosa, l’esiguo numero dei ministeri che “una roba così solo De Gasperi nel secolo scorso” e l’età mediapiù bassa nella storia della Repubblica Italiana. Tutte cose buone per glorificare le pagliuzze e nascondere le travi. La verità è che Renzi era e rimane un restauratore, un gattopardo: un Craxi-Berlusconi senza avere la bravura – anche maligna – di entrambi. Più che un Renzi I, questo è un Letta 2 o un Napolitano 3. Un rimpasto alla democristiana con supercazzola annessa, scappellamento a destra e qualche antani prematurato per indorare la pillola a un elettorato sempre più vilipeso (che pare accettare tutto o quasi). Renzi voleva essere il nuovo Blair, ma sembra più che altro il vecchio Rumor. Meno preparato, però.(Andrea Scanzi, “Il governo antani del gattopardo Renzi”, da “Il Fatto Quotidiano” del 22 febbraio 2014, ripreso da “Micromega”).E menomale che Renzi era quello coraggioso, quello furbo: quello del cambiamento. Macché: nient’altro che un democristiano 2.0, un Enrico Renzi, un Matteo Letta. Un serial bugiardo che mira a cambiare affinché nulla cambi. Un Gattopardo ibridato con Peppa Pig. Un rottamatore, sì, ma intenzionato a desertificare non il “vecchio” quanto la buona politica, la credibilità e la competenza. Parafrasando due delle sue poetesse preferite, Jo Squillo e Sabrina Salerno, “oltre l’ambizione non c’è di più”. Il suo governo è uno strazio così evidente che non ha senso infierire. C’è la Mogherini, quella che a “L’aria che tira” si vantava che loro (il Pd) mai e poi mai avrebbero ridato i soldi pubblici del finanziamento-rimborso ai partiti. C’è la Madia, nota inesperta di tutto. C’è la Boschi, nota (ma poco) e basta. Ci sono Alfano, Lupi e Lorenzin, giustamente felicissimi (solo Renzi poteva allungargli la vita) e vicini al “cambiamento” come Povia a Jimi Hendrix. C’è Franceschini, uno che c’è sempre, e la sua sola presenza inamovibile rende pressoché impossibile votare Pd (a meno che non si sia intrisi di un masochismo bulimico).
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Spinelli: per cambiare l’Europa bisogna rompere col Pd
Barbara Spinelli, come gli altri promotori della lista Tsipras, spera davvero che bastino le prossime elezioni europee ad abbattere il regime del rigore che sta letteralmente devastando il Sud Europa: in caso di successo delle forze anti-austerity, un Parlamento Europeo “costituente” potrebbe cioè mettere fine all’attuale dittatura finanziaria della Troika, trasformando l’euro in moneta sovrana e la Bce in “prestatrice di ultima istanza”. Più prudente un economista come Emiliano Brancaccio, secondo cui è improbabile riuscire a strappare concessioni all’asse Berlino-Bruxelles senza prima mettere sul tavolo della vertenza argomenti decisivi e convincenti, come ad esempio l’uscita dell’Italia dal mercato comune europeo, a danno dell’export tedesco. Un’idea che ricorda la posizione bellicosa di Marine Le Pen: più che proporre un cambio di linea, il Front National – primo partito francese, secondo i sondaggi – minaccia addirittura l’uscita della Francia dall’Ue, cosa che metterebbe fine all’unione stessa.Sul “Manifesto”, la Spinelli prende nota degli auspici formulati da Stefano Fassina, che si augura un’inversione radicale di rotta sulla politica europea, ma poi non osa rompere col Pd, cioè il partito che ha sorretto il governo Monti, varato la riforma Fornero e votato il Fiscal Compact con l’inserimento (“consigliato”, ma non obbligatorio) del pareggio di bilancio in Costituzione – inserimento evitato dalla stessa Francia di Hollande. Il Pd – nel quale Fassina ancora milita – punta sul tedesco Martin Schulz per la presidenza della Commissione Europea? Male: Schulz si è appiattito sulle idee della Merkel e ha rifiutato gli eurobond per una politica europea più solidale. «Se c’è una certezza che anima oggi Schulz è la seguente: è da una Grande Coalizione social-conservatrice che dipende la sua aspirazione a essere eletto presidente dell’esecutivo europeo, o anche solo commissario». Inoltre, Fassina (e Civati) restano nel Pd di Renzi, un politico che si ispira apertamente a Tony Blair, cioè l’uomo che più di ogni altro ha «polverizzato» i valori identitari della sinistra, cioè l’uguaglianza e il bene pubblico.«Sostiene Stefano Fassina, e con ottime ragioni, che l’Eurozona è sulla rotta del Titanic: l’iceberg è sempre più vicino, l’Unione già è fratturata in più punti. Ma non nascondiamoci che a costruire una nave così malfatta, e a imboccare una rotta così rovinosa, c’è purtroppo la sinistra classica europea, e in prima fila il Pd», scrive Barbara Spinelli. «A partire dalla metà degli anni ‘90, la loro rotta è stata precisamente quella che ci ha portato a sbattere contro l’iceberg». Se dall’epoca Blair ha sinistra ha tradito i suoi elettori, «è all’elettorato in rivolta contro quest’involuzione che si rivolge la Lista Tsipras, oltre che a tutti gli europeisti insubordinati che – lo dicono i sondaggi – sono in Italia una grande maggioranza, presente in varie formazioni politiche, in iniziative e comitati cittadini, in gran parte dell’astensionismo». Con Renzi, «l’involuzione del Pd non subisce battute d’arresto». Che senso ha, dunque, restare in quel partito? Barbara Spinelli vede una possibile alleanza trasversale, a Strasburgo, tra sinistra radicale, Verdi, socialisti «contrari al patto con la destra», eurodeputati grillini e persino liberaldemocratici come Guy Verhofstadt.Fino a quando i Fassina resteranno nel partito renziano, sostiene Spinelli, sarà difficile sperare che dalle parole si possa passare ai fatti, specie «nel momento in cui assistiamo all’ennesimo fratricidio avvenuto dentro il Pd», ovvero «un fratricidio che ci riconsegna la formula delle Grande Intese, e un semplice cambio di maschera al vertice (la maschera di Renzi al posto di quella di Letta)». Conclusione: «Se da questo sconquasso e da questi sotterranei tradimenti nascerà a Strasburgo un accordo sulle linee prospettate da Fassina, sarà una di quelle “divine sorprese” di cui prenderemo atto, senza smettere di vigilare sulla coerenza tra parole e azioni». Per contro, Spinelli sembra davvero credere che basterà il nuovo Parlamento Europeo ad imporre la democratizzazione dell’Unione Europea. Scelte essenziali: la conversione dell’euro in moneta sovrana, la Bce costretta a fare da prestatrice agli Stati, la fine delle politiche di austerità, l’abbandono del Fiscal Compact e dello strapotere della Troika costituita da Commissione, Bce e Fmi. «No all’Europa delle Costituzioni violate e dei cittadini inascoltati, sì a un bilancio europeo in crescita, da utilizzare per piani di comuni investimenti in una ripresa economica ecosostenibile». Non ultimo, il no al Ttip, il Trattato Transatlantico in via di elaborazione, se in nome dell’interesse delle multinazionali Usa dovesse scavalcare «le norme e gli standard di qualità che l’Europa impone al commercio di prodotti nocivi alla salute e al clima, e la cura di servizi pubblici come acqua o energia».Barbara Spinelli, come gli altri promotori della lista Tsipras, spera davvero che bastino le prossime elezioni europee ad abbattere il regime del rigore che sta letteralmente devastando il Sud Europa: in caso di successo delle forze anti-austerity, un Parlamento Europeo “costituente” potrebbe cioè mettere fine all’attuale dittatura finanziaria della Troika, trasformando l’euro in moneta sovrana e la Bce in “prestatrice di ultima istanza”. Più prudente un economista come Emiliano Brancaccio, secondo cui è improbabile riuscire a strappare concessioni all’asse Berlino-Bruxelles senza prima mettere sul tavolo della vertenza argomenti decisivi e convincenti, come ad esempio l’uscita dell’Italia dal mercato comune europeo, a danno dell’export tedesco. Un’idea che ricorda la posizione bellicosa di Marine Le Pen: più che proporre un cambio di linea, il Front National – primo partito francese, secondo i sondaggi – minaccia addirittura l’uscita della Francia dall’Ue, cosa che metterebbe fine all’unione stessa. -
La Grande Ipocrisia del nostro cinema marcio: i partiti
Il film è stato prodotto da un importante rampollo della dinastia Letta, il cugino dell’ex premier. Si chiama Giampaolo Letta, è uno dei quattro baroni del cinema italiano (lui è il più importante, non a caso è un altro dei nipotini) il cui compito principale consiste nell’impedire che in Italia esista e si manifesti il libero mercato multimediale, mantenendo un capillare controllo partitico dittatoriale sull’industria cinematografica. E’ l’amministratore delegato della Medusa film, il cui 100% delle azioni appartiene a Mediaset. Il vero oscar, quindi (in Usa conta il produttore, essendo il padre del film) lo ha vinto Silvio Berlusconi, al quale va tutto il merito per aver condotto in porto questo business nostrano. Ma nessuno in Italia lo ha detto. E’ un prodotto Pdl-Pd-Lega Nord tutti insieme appassionatamente.In teoria (ma soltanto in teoria) è stato prodotto da Nicola Giuliano e Francesca Cima (quota Pd di stretta marca burocratica di scuola veltroniana) per conto della Indigo Film, i quali – senza Berlusconi – non sarebbero stati in grado neppure di pagarsi le spese dell’ufficio, dato che su 9 milioni di euro di budget, il buon Berluska ne ha messi 6,5. E’ stata buttata dentro anche la Lega Nord, che ha partecipato con la Banca Popolare di Vicenza (500 mila euro come favore amicale) e con la sponsorizzazione del Biscottificio Verona (in tutto il film non si vede neppure una volta qualcuno mangiare uno dei suoi biscotti), entrambe le aziende vogliose di entrare nel grande giro (sono bastate due telefonate per convincerli).Grazie alla malleverie politiche, attraverso fondazioni di partito hanno ottenuto altri 2 milioni di euro incrociati: il Pd se li è fatti dare grazie al solerte lavoro di relazioni europee attraverso il “programma Media Europa” (650 mila euro) mentre Renata Polverini ha partecipato alla produzione dando 500 mila euro per conto della presidenza della Regione Lazio attraverso il “fondo per il cinema e audiovisivi per il rilancio delle attività cinematografiche dei giovani” (soldi che ha dato a Giampaolo Letta, sulla carta lui sarebbe “il giovane” che andava aiutato).Nicola Giuliano ha messo su la squadra partitica. In teoria fa il produttore, ma fa anche il docente, il consulente.Ha la cattedra al corso di produzione della Scuola nazionale di cinema di Roma, ma allo stesso tempo ha anche la cattedra di docente di produzione cinematografica presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, oltre che docente di “low cost production” a San Antonio De los Banos nell’isola di Cuba e consulente per la Rai. E’ un funzionario tuttofare che mette su pacchetti partitici, il che poco ha a che fare con il cinema, ma molto ha a che vedere con l’idea italiana di come si fa il cinema. O meglio: molto ha a che fare con l’idea di come si uccide e si annienta una cinematografia.Secondo gli esaltatori di questo “prodotto Italia”, il film vincente aprirebbe la strada a investimenti, stimolando i giovani autori e lanciando il nuovo cinema italiano; mentre, invece, l’unico risultato che otterrà sarà quello di far capire a tutti, come severo ammonimento, che “o prendete la tessera di Forza Italia/Pd oppure non lavorate”, chiarendo a chiunque intenda investire anche 1 euro nel cinema che bisogna però passare attraverso la griglia dell’italianità partitica, il che metterà in fuga chi di cinema si occupa e attirerà invece squali di diversa natura il cui unico obiettivo consiste nel fare affari lucrosi in Italia con Berlusconi e il Pd, in tutt’altri lidi.I giovani autori, i cineasti italiani in erba, le giovani produzioni speranzose, il cinema indipendente, ricevono da questo premio un danno colossale perchè il segnale che viene dato loro è quella della contundente italianità, quella della Grande Ipocrisia, la vera cifra di questo paese che si rifiuta di aprire il mercato ai meritevoli, ai competenti, a quelli senza tessera. Il film ha vinto esattamente nello stesso modo in cui aveva vinto “Nuovo cinema Paradiso” nel 1990.Due parole tecniche per spiegarvi come funziona il meccanismo di votazione dell’oscar. Per votare bisogna essere iscritti al Mpaa (Motion Pictures Academy of Art) e bisogna essere sindacalizzati; dal 1960 vale anche il principio per cui chi è disoccupato non vota, nel senso che bisogna dimostrare con documenti alla mano che “si sta lavorando” da almeno gli ultimi 24 mesi ininterrottamente, garantendosi in tal modo il voto di chi sta veramente dentro al mercato. Perchè per gli americani l’unica cosa che conta per davvero è il mercato, per questo Woody Allen (autore indipendente) detesta Hollywood e non ci va mai, la considera una truffa. I votanti sono all’incirca 6.000 e sono presenti tutte le categorie dei lavoratori (si chiamano industry workers): produttori, registi, sceneggiatori, direttori di fotografia, macchinisti, tecnici del suono, delle luci, scenografi, sarti, guardarobiere, guardie di sicurezza, perfino i gestori degli appalti per gestire i catering sul set, ecc. Ogni voto vale uno, il che vuol dire che il voto di Steven Spielberg vale quanto quello di un ragazzino il cui lavoro consiste nel tenere l’asta del microfono in direzione della bocca del divo di turno nel corso delle riprese, purchè lo faccia da almeno due anni e paghi i contributi.Quando si avvicina il giorno della votazione scattano i cosiddetti “pacchetti” e a Los Angeles la lotta è furibonda e comincia la caccia già verso i primi di novembre, con i responsabili marketing degli “studios” (sarebbero le grandi majors) che minacciano, ricattano, assumono, licenziano, per convincere chi ha bisogno di lavorare a votare per chi dicono loro. Per ciò che riguarda i film stranieri la procedura è la stessa ma su un altro binario: vale il cosiddetto “principio Hoover” lanciato dal capo del Fbi alla fine degli anni ‘50: vince la nazione che più di ogni altra in assoluto farà fare affari alle sei grosse produzioni che contano, acquistando i suoi prodotti. E’ il motivo per cui l’Italia è la nazione al mondo che ha collezionato più oscar di tutti (la più serva e deferente) e la Russia e il Giappone quelle che ne hanno presi di meno.Quando l’Italia, per motivi politici (o di affari) ha bisogno dell’oscar, allora costruisce un poderoso business (per la serie: vi compro questi quattro telefilm che nessuno al mondo vuole e ve li pago tre volte il suo valore) e lo va a proporre a società di intermediazione di Los Angeles collegate ai due sindacati più potenti californiani, da 40 anni gestiti da famiglie calabresi e siciliane, quelli che danno lavoro alla manovalanza tecnica e gestiscono i pacchetti, dato che controllano il 65% dei voti complessivi. Per i film stranieri bisogna avere un forte “endorsement”, ovvero un sostegno di persona nota nell’industria che garantisce a nome dei sindacati, come è avvenuto quest’anno con Martin Scorsese che si è fatto il giro presso la comunità di amici degli amici a Brooklyn.Nel 1989 accadde la stessa cosa: Berlusconi doveva entrare nel mercato americano per mettere su un gigantesco business (quello per il quale è stato definitivamente condannato dalla Cassazione, il cosiddetto “processo media-trade”); doveva entrare a Hollywood dalla porta principale con la Pentafilm. Ma non c’erano film italiani che valessero, era già piombata la mannaia dei partiti, tanto è vero che perfino il compianto Fellini girava a vuoto da un produttore all’altro ed era disoccupato, motivo per cui finì per ammalarsi. Alla fine, l’abile Berlusconi riuscì a convincere il più intelligente e bravo produttore di quei tempi (che se la passava maluccio) Franco Cristaldi, a dargli un prodotto perchè lui doveva vincere comunque. Cristaldi era disperato e non sapeva che cosa fare perchè non poteva fare delle figuracce con gli americani che conoscono il buon cinema e non è facile ingannarli, ma si fece venire in mente un’idea geniale. Aveva fatto una marchetta con RaiTre e aveva prodotto un film, “Nuovo Cinema Paradiso”, che era stato un flop clamoroso, sia alla tivvù, con indici di ascolto minimi, che al cinema, dove era uscito e dopo dieci giorni era stato ritirato per mancanza di pubblico. Il film durava 155 minuti ed era francamente inguardabile, di una noia mortale. Senza dire nulla al regista, Cristaldi ci lavorò da solo – letteralmente – per tre mesi. Rimontò totalmente il film, tagliò e buttò via 72 minuti e usando dei filtri cambiò anche le luci, riuscendo anche a modificare dei dialoghi. Lo fece uscire in Usa dove ottenne un buon successo di critica, sufficiente per passare.Berlusconi fu contento ma non gli diede ciò che era stato pattuito. Il giorno in cui Tornatore prese l’oscar, nel 1990, accadde un fatto inaudito per la comunità hollywoodiana. La statuetta venne data al regista e all’improvviso Franco Cristaldi fece un salto sul palco, si avvicinò, strappò di mano la statuetta a Tornatore, prese il microfono in mano e disse «questo oscar è mio, questo premio l’ho vinto io, questo è il mio film, questo è un film del produttore». Fu l’inizio della fine della sua carriera in Italia, perchè il giorno dopo l’intera critica statunitense (in Italia non venne mai fatta neppure menzione degli eventi) lo volle intervistare e lui raccontò come i partiti stessero distruggendo quella che un tempo era stata una delle più importanti industrie cinematografiche del mondo. Lo scaricarono tutti in Italia e finì per lavorare all’estero. Di lì a qualche anno morì.Fu in quell’occasione che Tornatore, in una intervista, spiegò come si faceva il regista in Italia: «Bisogna occuparsi di politica, quella è la strada. Io mi sono iscritto al Pci e poi sono riuscito a farmi eleggere alle elezioni comunali in un piccolo paesino della Calabria dove sono diventato assessore. Mi davano da firmare delle carte e io firmavo senza neppure leggerle, dovevo fare soltanto quello. Dopo un po’ di tempo mi hanno detto che potevo anche dimettermi e andare a Roma a fare i film». Aveva ragione lui: in Italia funziona così;24 anni dopo è la stessa cosa, con l’aggravante del tempo trascorso. “La Grande Bellezza” appartiene a questo filone dell’italianità e il solo fatto di accostarlo a Fellini o a De Sica è un insulto all’intelligenza collettiva della nazione: è una marchetta politica.E si vede, si sente, lo si capisce; nell’arte non si riesce a mentire perchè l’arte è basata su uno squisito paradosso: poichè è finzione totale – e quindi menzogna pura – chi la produce non può darla ad intendere perchè la verità sottostante salta sempre fuori. E’ la cartolina di un piccolo-borghese costruita (a tavolino) per venire incontro agli stereotipi degli americani votanti, attraverso un’operazione intellettualistica che non regala emozioni, ma soltanto suggestioni di provenienza pubblicitaria marketing negativa. In maniera ingegnosa e diabolicamente perversa propone delle maschere in un paese dove la verità artistica passa, invece, nella necessità dello smascheramento, cioè nel suo opposto. E’ la quintessenza del paradosso italiano trasformato nel consueto ossimoro: un brutto film che si pone e si qualifica come la Grande Bellezza; proprio come Mario Monti che lanciò il decreto “salva Italia” che ha affondato il paese e Letta (Enrico) che lanciò il “governo del fare” licenziato dopo pochi mesi perchè non è riuscito a fare nulla.Il film, davvero noioso e privo di spessore, è un prodotto subliminare, promosso dai partiti politici italiani al governo solo e soltanto dopo che i due protagonisti, Toni Servillo e Paolo Sorrentino, si sono messi pubblicamente a disposizione della famiglia Letta. Il film, infatti, doveva uscire a settembre del 2013, ma hanno anticipato l’uscita a giugno perchè era il momento in cui era assolutamente necessario usare ogni mezzo per poter azzannare l’opposizione. Il 7 giugno del 2013, Servillo e Sorrentino vengono invitati da Lilli Gruber nella sua trasmissione “8 e 1/2” per l’emittente La7. L’intervista dura 32 minuti. I primi 20 minuti sono noiosi e si parla del film che, si capisce da come andava l’intervista, nessuno avrebbe mai visto. Dal 21esimo minuto in poi, avviene la svolta, fino alla fine. L’attore e il regista, ben imboccati dalla Gruber, si lanciano in un attacco politico personale contro Beppe Grillo e il M5s. Un fatto che non aveva alcun senso, dato che si trattava di un film che nulla – per nessun motivo – aveva a che fare con la vita politica italiana e con il dibattito in corso.Servillo fu durissimo nel sostenere a un certo punto che «mi faccio dei nemici ma me li faccio volentieri», spiegando ai telespettatori (che pensavano di ascoltare un attore che parlava di cinema) come «Grillo ripropone un’immagine di leader vecchio che passa da Masaniello a Berlusconi» – cioè il suo produttore – «e usa un linguaggio violento…. ». Sorrentino gli andò dietro e insieme, per dei motivi incomprensibili a chiunque si occupi di cinema in qualunque parte del mondo (tranne che in Italia) spiegavano che il M5s «è un movimento che vuole togliere la sovranità al Parlamento». Da quel momento i due sono andati in giro a promuovere il loro film in ambito politico nazionale allertando la popolazione sul pericolo rappresentato dal M5s, e così l’establishment nazionale l’ha imposto come moda propagandandolo in maniera esorbitante. Riguardando quell’intervista, ho scoperto, pertanto, che Toni Servillo ha stabilito che io sono un suo nemico. Non lo sapevo. Ieri sera, la Gruber, sempre attenta nel rispettare i codici della rappresentanza che conta, ha dedicato un’altra intervista al film, ma in questo caso ha invitato Walter Veltroni. Forse c’è stato qualche telespettatore che si sarà chiesto «ma che cosa c’entra con questo film?». Appunto.(Sergio Di Cori Modigliani, “La Grande Ipocrisia, trionfano le larghe intese consociative spacciandole per prodotto Italia”, dal blog di Modigliani del 4 marzo 2013).Il film è stato prodotto da un importante rampollo della dinastia Letta, il cugino dell’ex premier. Si chiama Giampaolo Letta, è uno dei quattro baroni del cinema italiano (lui è il più importante, non a caso è un altro dei nipotini) il cui compito principale consiste nell’impedire che in Italia esista e si manifesti il libero mercato multimediale, mantenendo un capillare controllo partitico dittatoriale sull’industria cinematografica. E’ l’amministratore delegato della Medusa film, il cui 100% delle azioni appartiene a Mediaset. Il vero oscar, quindi (in Usa conta il produttore, essendo il padre del film) lo ha vinto Silvio Berlusconi, al quale va tutto il merito per aver condotto in porto questo business nostrano. Ma nessuno in Italia lo ha detto. E’ un prodotto Pdl-Pd-Lega Nord tutti insieme appassionatamente.
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Gallino: elezioni europee per stracciare i trattati-capestro
Oltre all’Unione bancaria e al micidiale Ttip, il Trattato Transatlanco che “asfalterebbe” le residue tutele europee sul lavoro a unico vantaggio delle multinazionali, una delle maggiori minacce che da Bruxelles incombono sull’Italia è il Patto fiscale, avverte Luciano Gallino. Da quest’anno, il Fiscal Compact obbliga gli Stati contraenti a ridurre il debito pubblico al 60% del Pil o meno, al ritmo di un ventesimo l’anno. Il Pil italiano 2013 è stato di 1.560 miliardi. Il debito si aggira sui 2.060 miliardi, pari al 132% del Pil. Gli interessi sul debito superano i 90 miliardi l’anno, con tendenza a crescere, di cui 80 pagati con l’avanzo primario, cioè la differenza tra le tasse che lo Stato incassa e quello che spende in stipendi, beni e servizi. Per scendere alla quota richiesta dal Patto, che varrebbe 940 miliardi, bisognerebbe quindi recuperare 1.120 miliardi. Divisi per venti, fanno 56 miliardi l’anno. «Dove li prende tanti soldi, per quasi una generazione, uno Stato che ha incontrato gravi difficoltà al fine di trovare due o tre miliardi una tantum per eliminare l’Imu?».Per i neoliberisti, ciò che conta non è il valore assoluto del debito da scalare, bensì il rapporto debito-Pil. Ovvio: se il Pil italiano crescesse del 4% l’anno, cioè con un incremento di oltre 60 miliardi, il Fiscal Compact farebbe meno paura. Peccato però che – stando alle previsioni più ottimistiche – non si vada oltre l’1%. «Con questo tasso di crescita, risulta impossibile far fronte all’impegno assunto», scrive Gallino su “Micromega”, illustrando un possibile Piano-B. Per esempio: «Chiedere alla Ue di ridiscutere il trattato escludendo dal rapporto debito-Pil la colossale spesa per interessi». L’idea sbagliata è che, «a forza di contrarre la spesa pubblica, si arrivi a ripagare il debito». Attenzione: «Grazie a tale idea perversa, lo Stato italiano sottrae all’economia 80 miliardi l’anno, a causa di un iugulatorio avanzo primario usato solo per pagare gli interessi (e non tutti), facendo così precipitare il paese in una spirale inarrestabile di deflazione».In altre parole, «l’austerità imposta da Bruxelles sta soffocando l’economia italiana, dopo la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna». Tema decisivo, «da sottoporre al più presto a una discussione pubblica». Luogo perfetto, per parlarne: il Parlamento Europeo, «a condizione, ovviamente, di mandarci qualcuno il quale non pensi che l’austerità e il resto siano una cura mentre sono il malanno». La situazione è infatti palesemente insostenibile, e sarà ulteriormente aggravata dai nuovi trattati che la Ue si accinge a varare o che sono appena entrati in vigore. Trattati che «riguardano i salari pubblici e privati, i diritti del lavoro, le politiche sociali, lo stato della sanità pubblica, il sistema previdenziale, la sicurezza alimentare». Risultato: «La possibilità di una crisi economica ancora più grave dell’attuale». Le prossime elezioni europee? Fondamentali, per fermare almeno tre di questi trattati: oltre al Fiscal Compact, anche l’Unione bancaria e il Trattato Transatlanco.Sull’Unione bancaria, progettata per impedire che il costo di eventuali fallimenti ricada ancora sugli Stati, secondo Gallino la bozza approvata a dicembre è difettosa: da un lato affida troppo potere alla Bce, e dall’altro – con la scusa che non fa parte dell’Eurozona – esclude la Gran Bretagna, cioè «la maggior area finanzia del continente», con tre banche tra le prime 20 al mondo: Hsbc, Barclays e Royal Bank of Scotland totalizzano un attivo di 7.000 miliardi di dollari. Inoltre, il Regno Unito è il paese in cui, nella primavera 2008 (prima ancora che negli Usa), si verificarono i maggiori disastri bancari. Il meccanismo dell’Unione bancaria «è complicatissimo e può richiedere mesi per venire attivato, mentre una banca può entrare di crisi in un paio di giorni, e in altrettanti deve essere salvata o lasciata fallire». Il capitale che le banche stesse dovrebbero accantonare — con calma, entro il 2026 — per salvare le consorelle in crisi è di 55 miliardi: «Somma ridicola, se si pensa che il solo crollo della Hypo Real Estate nel 2009 costò al governo tedesco 142 miliardi». Il difetto peggiore? Secondo i teorici dell’Unione bancaria, la crisi apertasi nel 2008 è stata innescata da «difetti di regolazione del sistema bancario», piuttosto che da «un modello d’affari fondato sulla creazione esponenziale di debito».Sulla strada dell’Unione bancaria, per ora, sorge l’ostacolo del Parlamento Europeo: al disegno della Troika si oppone il presidente dell’Europarlamento, Martin Schulz. «Ma di certo il suo compatriota-avversario Schäuble insisterà per ripresentarlo dopo le elezioni». Periodo in cui «sulla testa degli europei» comincerà a incombere il Ttip, cioè il “Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti”, un piano che procede da circa un anno, in modo super-riservato. Lo stanno sviluppando 600 super-lobbysti, a nome delle maggiori multinazionali del pianeta, “dialogando” con Washington e Bruxelles. L’accordo, sintetizza Gallino, «offre alle corporations Usa mano libera nella Ue, scavalcando qualsiasi legge che ostacoli le loro attività in Europa». Basti pensare che gli Usa «non hanno mai sottoscritto le convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro concernenti la libertà di associazione sindacale, il diritto a contratti collettivi in tema di salari, la parità di retribuzione uomo-donna, il divieto di discriminazione sul lavoro a causa di differenze di etnia, religione, genere, opinione politica».Se il Ttip fosse approvato, conclude Gallino, «le migliaia di sussidiarie americane operanti in Europa potrebbero rifiutarsi di applicare tali convenzioni». Le multinazionali «potrebbero anche ignorare la legislazione europea in tema di ambiente, controlli sui generi alimentari, divieto di usare Ogm, sostanze nocive negli ambienti di lavoro», smantellando così l’attuale legislazione europea, «che nell’insieme è assai più avanzata di quella americana». Per questo, il Ttip è accusato da numerose Ong di essere «un progetto politico inteso ad asservire ancor più i lavoratori ai piani delle corporations, privatizzare il sistema sanitario e sopraffare qualsiasi autorità nazionale che volesse ostacolare il loro modo di agire». Contro questa minaccia potrebbe alzare la voce il nuovo Parlamento Europeo, anche in base a come andranno le elezioni di maggio, in collaborazione con lo stesso Congresso Usa: il leader della maggioranza democratica al Senato, Harry Reid, ha appena ha respinto la richiesta di Obama di adottare una “pista veloce” (fast track), rallentando così la discussione sul Ttip. Che resta sul piatto del nostro immediato futuro, insieme all’insostenibile Fiscal Compact e al progetto di di Unione bancaria. Domanda: la strada del nostro declino civile è già segnata o sarà possibile invertire la rotta?Oltre all’Unione bancaria e al micidiale Ttip, il Trattato Transatlanco che “asfalterebbe” le residue tutele europee sul lavoro a unico vantaggio delle multinazionali, una delle maggiori minacce che da Bruxelles incombono sull’Italia è il Patto fiscale, avverte Luciano Gallino. Da quest’anno, il Fiscal Compact obbliga gli Stati contraenti a ridurre il debito pubblico al 60% del Pil o meno, al ritmo di un ventesimo l’anno. Il Pil italiano 2013 è stato di 1.560 miliardi. Il debito si aggira sui 2.060 miliardi, pari al 132% del Pil. Gli interessi sul debito superano i 90 miliardi l’anno, con tendenza a crescere, di cui 80 pagati con l’avanzo primario, cioè la differenza tra le tasse che lo Stato incassa e quello che spende in stipendi, beni e servizi. Per scendere alla quota richiesta dal Patto, che varrebbe 940 miliardi, bisognerebbe quindi recuperare 1.120 miliardi. Divisi per venti, fanno 56 miliardi l’anno. «Dove li prende tanti soldi, per quasi una generazione, uno Stato che ha incontrato gravi difficoltà al fine di trovare due o tre miliardi una tantum per eliminare l’Imu?».
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Giù il cuneo fiscale? Un affare solo per Confindustria
Non aspettiamoci miracoli dalla riduzione del cuneo fiscale, che peraltro in Italia è inferiore a quella di Francia e Germania. Se per ridurre il costo del lavoro di 8-10 miliardi si pensa di tagliare la spesa pubblica, la manovra sarà un vantaggio solo per le aziende vocate all’export, mentre costituirà un handicap per quelle che si rivolgono al mercato interno, perché il taglio del budget statale colpirà ulteriormente i consumi, sostiene Guglielmo Forges Davanzati. Dato che la spesa pubblica «accresce i mercati di sbocco delle imprese che producono per mercati interni – prevalentemente imprese meridionali», il provvedimento «ha effetti redistributivi fra imprese e fra territori nelle quali operano». Chi esporta teme l’aumento della spesa pubblica, perché accresce l’occupazione e rafforza il potere contrattuale dei lavoratori. Al contrario, le imprese che producono per mercati locali «hanno interesse a un aumento della domanda interna, dal momento che ciò consente loro di acquisire più ampi mercati di sbocco».Inoltre, aggiunge Davanzati in un’analisi di “Micromega”, non c’è da aspettarsi che la riduzione dello “spread” tra salario netto e salario lordo possa controbilanciare gli effetti recessivi derivanti da ulteriori tagli della spesa pubblica: «L’affetto espansivo sui consumi si avrebbe solo se si riducessero significativamente le imposte pagate dai lavoratori, non quelle pagate dalle imprese». Se l’importo mensile netto aggiuntivo nelle tasche di un lavoratore che percepisce 1.600 euro sarà di 50 euro, «non solo non c’è da attendersi una significativa ripresa dei consumi, ma soprattutto – per l’ulteriore dimagrimento del residuo di welfare rimasto in Italia – vi è semmai ragionevolmente da aspettarsi che i salari reali degli occupati non aumentino». In più, «una ripresa significativa dei consumi si avrebbe semmai se la riduzione del cuneo fiscale fosse attuata in una condizione di elevata occupazione (a ragione dell’ampia platea di beneficiari): il che, con ogni evidenza, non è la condizione attuale».E neppure c’è da aspettarsi un aumento degli investimenti derivante da una riduzione dell’Irap, continua Davanzati, sia perché gli investimenti dipendono essenzialmente dalle aspettative di profitto, sia perché – come ampiamente sperimentato negli ultimi anni – nessun provvedimento di detassazione degli utili è in grado di stimolarli. Inoltre, «il cuneo fiscale non rappresenta un fattore rilevante per le decisioni di delocalizzazione delle imprese». In pratica, «non dovrebbe avere impatti significativi sull’attrazione di investimenti in Italia, né sulle delocalizzazioni di imprese italiane». Una causa rilevante della recessione italiana risiede semmai nella continua riduzione della produttività e nella sua “desertificazione produttiva”. «A fronte dei molti fattori che hanno prodotto questi esiti (che datano ben prima dell’adozione della moneta unica), è da evidenziare il fatto che la rinuncia all’attuazione di politiche industriali ha posto le imprese italiane nella condizione di poter vendere solo mediante strategie di competitività di prezzo, ovvero in assenza di innovazioni».Problema: «La competitività di prezzo, in un paese importatore di materie prime e di macchinari, si traduce esclusivamente in compressioni salariali (e, più in generale, nel peggioramento delle condizioni di lavoro), il cui effetto è il calo della domanda interna e dell’occupazione». Nell’Eurozona, è nei paesi periferici (Italia inclusa) che i lavoratori occupati lavorano più ore: il primato spetta alla Grecia, ovvero al paese con i più bassi tassi di crescita. Paradossale: ci si aspetterebbe più crescita dove è più elevata l’intensità del lavoro, e più occupazione dove è minore il cuneo fiscale. «In Francia e Germania, un’ora di lavoro genera un incremento di produzione circa pari al 20% in più rispetto a un’ora lavorata in Italia e il tasso di occupazione è maggiore, nonostante questi paesi abbiano un cuneo fiscale e contributivo più elevato». Conclusione: ridurre il costo del lavoro non basta, né per accrescere l’occupazione né per migliorare la competitività delle imprese. E in una situazione in cui è inammissibile contrarre ulteriormente i salari, «la riduzione del cuneo fiscale è l’unica strategia percorribile per consentire alle nostre imprese di poter sperare di far profitti comprimendo i costi. Il che, in ultima analisi, significa che ridurre il cuneo fiscale costituisce un potente incentivo a indurle a perpetuare una modalità di competizione basata sulla compressione dei costi, ovvero un potente disincentivo a innovare».Non aspettiamoci miracoli dalla riduzione del cuneo fiscale, che peraltro in Italia è inferiore a quella di Francia e Germania. Se per ridurre il costo del lavoro di 8-10 miliardi si pensa di tagliare la spesa pubblica, la manovra sarà un vantaggio solo per le aziende vocate all’export, mentre costituirà un handicap per quelle che si rivolgono al mercato interno, perché il taglio del budget statale colpirà ulteriormente i consumi, sostiene Guglielmo Forges Davanzati. Dato che la spesa pubblica «accresce i mercati di sbocco delle imprese che producono per mercati interni – prevalentemente imprese meridionali», il provvedimento «ha effetti redistributivi fra imprese e fra territori nelle quali operano». Chi esporta teme l’aumento della spesa pubblica, perché accresce l’occupazione e rafforza il potere contrattuale dei lavoratori. Al contrario, le imprese che producono per mercati locali «hanno interesse a un aumento della domanda interna, dal momento che ciò consente loro di acquisire più ampi mercati di sbocco».
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I fallimenti di Padoan? Sono strepitose vittorie dell’élite
I giornali, tolti alcuni più fedeli a Renzi e alla Merkel, si diffondono in esempi di clamorosi fallimenti del nuovo ministro dell’economia come economista. Citano le sue marcatamente erronee previsioni, ripetute, sulla fine della crisi. Citano la sua fedeltà al principio della austerità fiscale e quello bella alta pressione tributaria, fedeltà che resiste all’evidenza del fallimento di questi due principi che stanno, nel mondo reale, producendo effetti contrari a quelli che dovevano produrre. Cioè più indebitamento, più deficit, più recessione. Citano Paul Krugman, che di lui dice che la sua regola è: bisogna colpire l’economia finché non si riprende. Lo dipingono, insomma, come un dogmatico ottuso che rifiuta di vedere i fatti, cioè come un perfetto cretino. Io però non credo che Padoan sia un cretino. Non credo nemmeno che sia un economista fallito, perché si può parlare di fallimento dei principi che egli propugna e difende soltanto se si guarda ai loro effetti dal punto di vista dell’interesse della popolazione generale, non dal punto di vista dell’interesse dell’élite.È vero che la loro applicazione ha prodotto un impoverimento generale, ma è anche vero che ha prodotto un arricchimento dei vertici della società. Un arricchimento in termini sia di ricchezza economica che di potere politico sulla popolazione generale. Un gigantesco trasferimento economico dal basso verso la punta della piramide. Ha consentito una profonda ristrutturazione dei rapporti giuridici e sociali in favore delle classi dominanti a livello globale. Ma ha anche fatto gli interessi della classe dominante italiana, della cosiddetta casta, una classe parassitaria che deriva sia il suo benessere economico che la sua capacità di mantenere la poltrona dalla quantità di risorse che riesce a prendere al resto della popolazione. E le prende attraverso le tasse, perlopiù. I principi economici portati avanti da Padoan aumentano la pressione tributaria, aumentano le risorse che tale classe riesce a prendere per sé. Quindi vanno bene per la casta.Vorrei evidenziare, inoltre, che la pressione tributaria, in una società dominata da questo tipo di casta “estrattiva”, parassitaria, che non si sa se sia più delinquente o più deficiente, non può mai ridursi, perché la casta non può logicamente rinunciare a quote di reddito e ricchezza nazionale che ha fatte già proprie, anche perché le servono per comprare i consensi. Può solo aumentare con l’aumento delle aliquote, con l’introduzione di nuove tasse, con l’introduzione o l’inasprimento delle presunzioni di reddito o di valore dei patrimoni, con l’aumento della cosiddetta lotta all’evasione fiscale. Quindi ognuna di queste mosse peggiora strutturalmente e funzionalmente l’economia perché distoglie stabilmente e definitivamente reddito e risorse dall’economia produttiva in favore del parassitismo. E le distoglie in via irreversibile.Riprendere quelle risorse alla casta per riportarle all’economia produttiva quindi alla possibile ripresa economica, può avvenire solamente attraverso un’azione violenta e rivoluzionaria nei confronti della casta. Violenta, perché si tratta di togliere la carne di bocca ai cani. E perché la casta comprende i vertici dei poteri giudiziario, militare e poliziesco. Al punto di rottura del sistema, l’appoggio e la spinta dei potentati esteri ed europei saranno decisivi in un senso o nell’altro, anche se io rimango dell’opinione che una rivoluzione sia impossibile in Italia (altrimenti sarebbe avvenuta tempo fa) e che la soluzione pragmatica stia nell’emigrazione-delocalizzazione. Sarà decisivo anche il fattore comprensione. Esiste una concezione liberale dello Stato, secondo la quale lo Stato è un apparato erogatore di servizi, un fornitore: economicamente parlando la gente paga tasse a esso, e deve ricevere in cambio servizi corrispondenti alle tasse; se i servizi non corrispondono alle tasse, lo Stato va cambiato e in mancanza di correzione bisogna rifiutare il pagamento delle tasse.Questa concezione è ingenua se non tiene conto del fatto che vi è una classe sociale o casta che ha in mano le leve di poteri dello Stato, e per la quale lo Stato è uno strumento per arricchirsi e per mantenere ed aumentare il proprio potere sulla popolazione generale. Per essa, l’erogazione dei servizi alla popolazione generale è un costo, un costo aziendale, mentre è un utile, un utile aziendale, tutto quello che essa riesce a prendere attraverso lo Stato dalla popolazione generale e a trattenere a proprio vantaggio. Come per il pastore la lana lasciata indosso alle pecore è lana persa, così per questa classe sociale, per la casta italiana, il gettito fiscale è, aziendalmente, il ricavo; la spesa per servizi al corpo sociale è un costo; la differenza, tolti degli oneri finanziari, è il suo profitto.Perciò essa tende ad aumentare il prelievo fiscale indipendentemente dai bisogni effettivi del paese, e gestire la spesa pubblica clientelarmente, inefficacemente, e non verso i bisogni effettivi del paese, ma verso i suoi propri. Col che si spiega come mai in Italia abbiamo tasse altissime e servizi pessimi. Non è vero “più tasse, più servizi”. Non è vero che se si eliminasse l’evasione fiscale le tasse calerebbero: la casta tratterrebbe tutto. Stiamo già pagando tasse più che sufficienti, se non le pagassimo ai ladri. Padoan è il ministro giusto per questa gestione. Non è affatto un cretino o un economista fallito. È l’economista vincente, al contrario. Se lo ha scelto lui, Renzi ha scelto saggiamente: ha scelto un uomo che unisce gli interessi della casta italiana con gli interessi dell’élite capitalista finanziaria globale. Il suo governo è in linea perfetta coi precedenti.(Marco Della Luna, “Padoan, un economista fallito alla guida dell’economia italiana”, dal blog di Della Luna del 22 febbraio 2014).I giornali, tolti alcuni più fedeli a Renzi e alla Merkel, si diffondono in esempi di clamorosi fallimenti del nuovo ministro dell’economia come economista. Citano le sue marcatamente erronee previsioni, ripetute, sulla fine della crisi. Citano la sua fedeltà al principio della austerità fiscale e quello bella alta pressione tributaria, fedeltà che resiste all’evidenza del fallimento di questi due principi che stanno, nel mondo reale, producendo effetti contrari a quelli che dovevano produrre. Cioè più indebitamento, più deficit, più recessione. Citano Paul Krugman, che di lui dice che la sua regola è: bisogna colpire l’economia finché non si riprende. Lo dipingono, insomma, come un dogmatico ottuso che rifiuta di vedere i fatti, cioè come un perfetto cretino. Io però non credo che Padoan sia un cretino. Non credo nemmeno che sia un economista fallito, perché si può parlare di fallimento dei principi che egli propugna e difende soltanto se si guarda ai loro effetti dal punto di vista dell’interesse della popolazione generale, non dal punto di vista dell’interesse dell’élite.
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Il blitz contro di noi, per il quale hanno scelto Renzi
Ora la lista la conosciamo si può fare qualche previsione. Il primo 50% dei ministeri è “senza portafoglio”, così come il restante 50%. Il portafoglio ce l’ha solo chi comanda, ovvero Piercarlo “il dolore è efficace” Padoan, che non ha neanche giurato subito assieme agli altri ministri. È rimasto in Australia, dove stava lavorando al G20 per l’Ocse, caso mai qualcuno non avesse chiaro quali siano le priorità. Giurerà più tardi con comodo, quando deciderà lui. Comunque tutto questo è coreografia, quello che conta è che Padoan è lì per fare quello che lui sa che deve esser fatto, come dicono anche Rehn e Visco (e Draghi).Cosa accadrà ora? La pressione fiscale probabilmente è arrivata al limite, non si può spremere oltre. Certamente c’è da mettere in conto che preparino una qualche forma di patrimoniale, ma il bersaglio grosso ora dovrebbe essere la legislazione del lavoro.Questo è un punto fondamentale, perchè disarticolare completamente i brandelli di diritto del lavoro residui realizzerà uno scenario che anche nel caso di evoluzioni future ora imprevedibili renderà disponibili per molti anni grossi volumi di mano d’opera a buon mercato utilizzabile quasi senza vincoli, con dei costi molto più convenienti anche rispetto alla schiavitù, come spiegava qui “Gz” qualche giorno fa. C’è da aspettarsi qualcosa di simile a un blitz, un po’ come hanno fatto per l’operazione BdI. Renzi non ha nemici interni e ha le spalle coperte dalla cosca finanziaria internazionale e dai media (ogni giorno intervistano Davide Serra su quotidiani o radio, stamattina su Radio1 alle 7.30, ad esempio). Non appena si è ripreso dal brutto quarto d’ora che ha passato, lo stesso Bersani ha rilasciato un’intervista in cui raccomanda a tutti di votare la fiducia al governo, per sgombrare il campo da equivoci. Sa che mettersi di traverso è pericoloso, vedendo come “loro” hanno condotto la “guerra dei sei giorni”: hanno fatto a pezzi Letta e messo in un angolo Napolitano (che sembrava un semidio fino a un mese fa) senza il minimo tentennamento.L’“operazione Friedman” ha come obiettivo dichiarato quello di obbligare l’Italia a “fare le riforme”, e in Italia si appoggia a grossi pezzi di Confindustria che lavorano per l’export e hanno necessità di poter pagare salari da Cina in modo finalmente legale qui in Italia. Questo distruggerà ancora di più il mercato interno ma è un problema nostro, non loro.Nel proteggere l’operazione hanno un ruolo chiave i militanti Pd. Quelli rimasti, ormai, sono dei fedelissimi che difendono il Verbo delle riforme strutturali fino alla morte, e come Gondrano lavorano sodo per difendere il progetto, contro ogni evidenza di devastazione in corso in Europa e in Italia. Questo non è uno scherzo ma è un sistema ottimamente organizzato che eredita il modello leninista, presidia il territorio con centinaia di sedi in tutta Italia e si mobilita come un piccolo esercito che si muove compatto ed efficace quando necessario.Fingono malessere e scrupoli di coscienza, ogni tanto, ma poi rientrano nei ranghi, e silenzio. Qui è il grande succcesso del principio per cui “il partito epurandosi si rafforza”: quanto minore è la partecipazione complessiva al voto, tanto più aumenta il peso relativo e l’efficacia, sullo scenario, di questa minoranza organizzata. Per chi vuole contrastare il progetto totalitario dell’Eurozona c’è molto da imparare di fronte alla disciplina marziale con cui si muovono i pretoriani eurofili; il punto principale è che nel momento cruciale non si scannano tra loro, ma si chiudono come una falange oplitica. Non è politica nè economia: è strategia militare.(Daniele Basciu, “Il blitz”, da “EconoMmt” del 24 febbraio 2014).Ora la lista la conosciamo si può fare qualche previsione. Il primo 50% dei ministeri è “senza portafoglio”, così come il restante 50%. Il portafoglio ce l’ha solo chi comanda, ovvero Piercarlo “il dolore è efficace” Padoan, che non ha neanche giurato subito assieme agli altri ministri. È rimasto in Australia, dove stava lavorando al G20 per l’Ocse, caso mai qualcuno non avesse chiaro quali siano le priorità. Giurerà più tardi con comodo, quando deciderà lui. Comunque tutto questo è coreografia, quello che conta è che Padoan è lì per fare quello che lui sa che deve esser fatto, come dicono anche Rehn e Visco (e Draghi). Cosa accadrà ora? La pressione fiscale probabilmente è arrivata al limite, non si può spremere oltre. Certamente c’è da mettere in conto che preparino una qualche forma di patrimoniale, ma il bersaglio grosso ora dovrebbe essere la legislazione del lavoro.
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Cari epuratori 5 Stelle, i prossimi epurati sarete voi
A Beppe Grillo e a tutti i parlamentari e iscritti del Movimento 5 Stelle che hanno votato l’espulsione dei quattro senatori considerati dissidenti va consigliata la lettura di “La Democrazia in America” di Alexis de Toqueville. Le pagine che il filoso francese dedica al problema della dittatura della maggioranza sono esemplari. E anche se si riferiscono al governo degli Stati, indicano bene la strada che una parte del movimento rischia di imboccare. Fino a qualche tempo fa la libertà di parola e il diritto di critica erano temi centrali per l’intero M5s. Molti cittadini avevano anzi deciso di sostenere l’ex comico alle elezioni dopo aver visto il suo blog e i Meetup battersi anche per questo. Nel novembre del 2010, per esempio, in uno dei tanti post di Grillo si poteva leggere: «La nostra lingua, la libertà di parola, è minacciata, castrata da un neo puritanesimo, da un ‘politically correct’ asfissiante che annulla la verità e uccide qualunque confronto».Oggi invece dobbiamo constatare che la libertà di parola nel Movimento 5 Stelle è minacciata e offesa da una brutta voglia di unanimismo. Dalla decisione di far votare gli aderenti 5 Stelle non sulla violazione di una norma del non-statuto o del codice di comportamento parlamentare, ma su una critica al Capo, o se preferite al Megafono. Discutere se i senatori avessero ragione o torto nel prendere posizione contro le modalità con cui Grillo ha deciso di strapazzare Matteo Renzi in diretta streaming – sbattendogli peraltro in faccia molte verità difficili da contestare – non ha infatti senso. Il dato importante è uno solo: non esisteva alcuna regola che impedisse ai senatori di farlo.Certo, per qualsiasi movimento è fondamentale e giusto apparire unito, evitare, come scrive Alessandro Di Battista, che escano «sistematicamente» e per mesi dichiarazioni pronte «a coprire i messaggi del gruppo» o in contrasto con la linea stabilita. Ma anche se le cose sono andate così – tanto che i quattro senatori avrebbero dimostrato maggior dignità andandosene da soli da un movimento del quale non condividevano più gli obbiettivi – la questione non cambia di una virgola. Punire qualcuno per dei comportamenti per i quali non sono state previste esplicitamente sanzioni non è solo liberticida. Rappresenta un rischio per tutti: anche per coloro i quali oggi votano a favore dell’espulsione dei dissidenti. Domani, e per un motivo qualsiasi, una nuova maggioranza potrebbe infatti votare la loro.Consolarsi col fatto che le espulsioni (vedi il caso degli amministratori locali del Pd in val Susa fatti fuori perché anti-Tav) sono spesso la regola in altri partiti, non serve. Il M5S dice infatti (e quasi sempre lo è) di essere diverso dagli altri movimenti politici. Per questo molti elettori, almeno a giudicare dai commenti e dalle mail che arrivano a questo giornale online, avrebbero trovato più intelligente e democratico che il Movimento, già in occasione del brutto e analogo caso di Adele Gambaro, avesse riformato il regolamento e il non-statuto stabilendo con chiarezza cristallina diritti e doveri degli eletti. Non averlo fatto lascia spazio all’arbitrio, alla legge più forte e alle espulsioni di massa. Oltretutto votate online in blocco senza che agli iscritti fosse permesso esprimere valutazioni diverse su ogni singola posizione. Pensare, come fa il Movimento 5 stelle, di rivoluzionare (con il voto) il paese è perfettamente legittimo. Credere che sia possibile farlo rinunciando a dimostrare che, sempre e in ogni caso, si è meglio di ciò che si vuole combattere e abbattere non è solo sbagliato. È stupido.(Peter Gomez, “Espulsioni M5s, stupidità e dittatura della maggioranza”, da “Il Fatto Quotidiano” del 27 febbraio 2013).A Beppe Grillo e a tutti i parlamentari e iscritti del Movimento 5 Stelle che hanno votato l’espulsione dei quattro senatori considerati dissidenti va consigliata la lettura di “La Democrazia in America” di Alexis de Toqueville. Le pagine che il filoso francese dedica al problema della dittatura della maggioranza sono esemplari. E anche se si riferiscono al governo degli Stati, indicano bene la strada che una parte del movimento rischia di imboccare. Fino a qualche tempo fa la libertà di parola e il diritto di critica erano temi centrali per l’intero M5s. Molti cittadini avevano anzi deciso di sostenere l’ex comico alle elezioni dopo aver visto il suo blog e i Meetup battersi anche per questo. Nel novembre del 2010, per esempio, in uno dei tanti post di Grillo si poteva leggere: «La nostra lingua, la libertà di parola, è minacciata, castrata da un neo puritanesimo, da un ‘politically correct’ asfissiante che annulla la verità e uccide qualunque confronto».