Archivio del Tag ‘pil’
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Ma gli italiani stanno con Salvini: pensano di essere capiti
A chi vive da decenni tra i sindaci leghisti, nel mitico Nordest, fa sempre una certa impressione vedere gente commossa e che si spella le mani in quel di Viterbo per applaudire il leader della Lega Matteo Salvini. La scena del ministro degli interni che fatica a farsi largo tra uomini e donne che vogliono stringergli la mano è diventata virale sul “tubo”. Sia bene inteso: io vado matto per il vino “est est est” e ora come ora vorrei sguazzare tra le calde acque delle terme viterbesi piuttosto che trovarmi tra le zanzare del Prosecco, e dunque so bene che Viterbo non è il profondo sud. Ma fidatevi: le scene di giubilo in Lazio per un politico nell’Italia 2018 fanno sgranare gli occhi e alzare le orecchie. Neanche Churchill dopo aver vinto la seconda guerra mondiale era stato accolto così. Sul web le cose stanno diversamente. Tra le fila degli euroscettici e simpatizzanti del governo gialloverde ora c’è molta rabbia sui social, o almeno sarcasmo: il Def, cioè il documento che programma gli investimenti e le spese per il prossimo anno manterrà un deficit attorno al 2 per cento. Più o meno quel che faceva l’ex ministro delle finanze Padoan quando sedeva sullo scranno più alto di Via XX Settembre.Sotto il profilo degli investimenti e della redistribuzione della ricchezza, Padoan è come Tria. Conte è come Renzi. Lasciamo per carità da parte gli zero virgola: la felpa con la scritta “basta euro” di Salvini ce la ricordiamo tutti, e molti avevano trattenuto il fiato alla nascita del governo pur consapevoli che non si sarebbe fatta cadere la Ue (mancava un piano B), ma che con lo sforamento del deficit… forse, forse, qualche vantaggio per noi e una bella botta a Juncker sarebbero arrivati. E invece niente. Come mai allora Salvini viene accolto trionfante, ovunque vada? E, soprattutto, come mai il consenso ai gialloverdi non calerà affatto nei prosssimi mesi, nonostante una politica d’intervento economico piuttosto piatta? Qualche aficionado dice “perchè la strategia è di lungo respiro”, qualcun altro pensa con il cuore palpitante alla nomina tattica dell’antieuro Alberto Bagnai. Invece, i motivi del consenso sono ben altri. E che siano da lezione a tutti quelli che aspirano a prendere decisioni in questo paese, siano essi i postcomunisti alla Rizzo, Giulietto Chiesa con i filorussi, i piddini con le tette rifatte, quelli di CasaPound o i sovranisti dell’Fsi.Un paese si conquista solo se ne viene conquistato prima il cuore, il senso di appartenenza e di identità. Se la mettano in tasca gli avventisti del marxismo 3.0: Fidel Castro ha vinto la sua battaglia perchè urlava “o patria o muerte”, e non perchè aveva previsto la caduta tendenziale del saggio di profitto. Ma non lo sto dicendo in senso tattico, dispregiativo, o proccupato. Anzi: il senso di appartenenza e di indentità – i simboli – sono tra le cose più importanti della vita di un uomo. Non riesco a pensare ad una evoluzione dell’umanità senza i simboli (posta la sussistenza materiale alla base, ovviamente). Salvini sta fornendo i simboli che gli italiani cercavano. Ogni pensiero che formuliamo dentro di noi ha un aspetto cognitivo, ma anche e regolarmente un aspetto affettivo ed emotivo. Ogni idea è anche una rappresentazione. Le idee di una persona possono essere giuste o sbagliate, vere o false, confortevoli per noi oppure no, ma sono le idee di quella persona, e gli “servono” per sopravvivere. Sono i chiodi ai quali egli è attaccato, come l’alpinista in montagna quando percorre l’alta via con le corde ed i ramponi. Senza quei chiodi, cade.Certe volte, quelle idee ci danneggiano, e allora è giusto che proviamo a sradicarle con tutte le nostre forze. Come nel mito della caverna di Platone, le cose che contemplavano gli uomini erano immagini false, e giustamente il filosofo tentava di mostrare la verità contro la menzogna e le false illusioni. Però c’è anche il caso che le idee, i chiodi degli uomini, non ci danneggino affatto, che siano un dono per noi e costituiscano quella che viene chiamata tradizione. Le tradizioni non vanno sempre cancellate, ad esse vanno semmai aggiunte altre “cose” e altre “idee”, ma non vanno sempre e comunque buttate via. Le tradizioni sono, in fondo, il dono che ci hanno lasciato quelli che sono venuti prima di noi. Dunque, prima di buttare via le tradizioni (cosa senz’altro necesssaria, talvolta) occorre riflettere bene se è il caso di farlo: magari sono un’eredità ben più ricca di quanto noi stessi abbiamo saputo accumulare.Nel caso italiano, una parte interessante della tradizione che abbiamo ereditato consiste nella lingua, nella varietà impressionante di manufatti ed espressioni artistiche, cibi e architetture. Inoltre, c’è lo spirito inventivo, dato dalla fantasia. Una fantasia ed un’inventiva che gli stranieri ci hanno sempre riconosciuto e che ci invidiano. La lista sarebbe lunga. Anche la religione cattolica compare nella lista delle cose a cui gli italiani tengono, anche se atei, ed anche se non è in cima alla lista. Si può camminare per una strada di una città come Roma, o Palermo, o Venezia, o persino Gallarate, senza capire nulla di cristianità occidentale? Si che si può, ma allora non sei un italiano. Essere italiani è una condizione che esiste e che capiamo cosa significa quando usciamo al di fuori dei confini nazionali. C’è poco da fare. E’ così anche se non sappiamo spiegare che cos’è. Ma alla fin fine si tratta di simboli. Appartenenza e identità sono gli assi portanti della psiche umana.Le idee che abbiamo, noi le facciamo nostre, cioè le interiorizziamo, anche e soprattutto per appartenenza. E appartenenza significa affetto e sicurezza. Appartenenza significa famiglia; comunità. Siccome aveva ragione Aristotele, nel senso che gli uomini sono esseri per natura socievoli, appartenere a qualcosa significa restare vivi e dotati di senso. Non appartenere a nulla significa invece essere esclusi, cioè morti. Il fallimento del progetto Ue è dovuto proprio alla mancanza di questa creazione di simboli e l’assenza di tradizioni da ereditare. Che piaccia o no, Salvini (molto più di Gigetto Di Maio) questa cosa l’ha capita bene. Possono gli italiani cambiare idea per l’economia? Ma certo che si! L’ho detto prima: nell’uomo la materia non può che accompagnare lo spirito. Dobbiamo infatti sopravvivere per avere idee. Ma in economia oggi noi italiani non stiamo subendo evidenti scossoni. Qualche anno cresciamo, altri no: siamo un paese dallo zero virgola e faremo – economicamente – la fine della rana bollita. E’ troppo poco per un repentino cambio di consenso contro chi sa usare molto bene identità e appartenenza, come Matteo Salvini.(Massimo Bordin, “Salvini nella Tuscia: ecco perchè il suo consenso non calerà nonostante l’economia sia la stessa di Renzi”, dal blog “Micidial” del 6 settembre 2018).A chi vive da decenni tra i sindaci leghisti, nel mitico Nordest, fa sempre una certa impressione vedere gente commossa e che si spella le mani in quel di Viterbo per applaudire il leader della Lega Matteo Salvini. La scena del ministro degli interni che fatica a farsi largo tra uomini e donne che vogliono stringergli la mano è diventata virale sul “tubo”. Sia bene inteso: io vado matto per il vino “est est est” e ora come ora vorrei sguazzare tra le calde acque delle terme viterbesi piuttosto che trovarmi tra le zanzare del Prosecco, e dunque so bene che Viterbo non è il profondo sud. Ma fidatevi: le scene di giubilo in Lazio per un politico nell’Italia 2018 fanno sgranare gli occhi e alzare le orecchie. Neanche Churchill dopo aver vinto la seconda guerra mondiale era stato accolto così. Sul web le cose stanno diversamente. Tra le fila degli euroscettici e simpatizzanti del governo gialloverde ora c’è molta rabbia sui social, o almeno sarcasmo: il Def, cioè il documento che programma gli investimenti e le spese per il prossimo anno manterrà un deficit attorno al 2 per cento. Più o meno quel che faceva l’ex ministro delle finanze Padoan quando sedeva sullo scranno più alto di Via XX Settembre.
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Varoufakis: Grecia in agonia, meglio Schaeuble che Tsipras
La Grecia è fallita 10 anni fa. Dove è la Grecia ora, dopo tre programmi di salvataggio, 270 miliardi di euro in prestiti e due tagli del debito? Allo stesso punto di prima, nello stesso buco nero, e affondiamo sempre di più ogni giorno. Una ragione fra le altre è che le richieste per il taglio del debito stanno impedendo investimenti e consumi. Ora la Troika ha ufficialmente terminato il commissariamento del paese, ma cosa è cambiato in realtà ? I debiti pubblici non si sono ridotti, ma innalzati. Abbiamo solo più tempo per ripagare il debito cresciuto: lo Stato è tuttora fallito, i cittadini sono diventati più poveri, le società ancora falliscono e il nostro Pil è calato del 25%. Tsipras, la Troika, il governo tedesco e la Ue puntano tutti a un avanzo di bilancio? Il surplus è reale, non è una bugia. Ma è stampato nella carne e nel sangue che lo Stato estrae da un settore privato morente. Appare chiaro che sia un crimine contro la logica, non un salvataggio o un successo. Mostrano statistiche di miseria più che di successo. Hanno cambiato le regole, così possono dire che il salvataggio della Grecia è un successo. “Se non funziona, prova con il martello più grande”. Non è solo contro la logica: è un crimine contro il popolo degli Stati Ue, dal Portogallo alla Germania.Chi ha mentito? Tutti loro! Il governo greco, il Fmi, la Bce, tutti. E voi tedeschi siete stati ingannati dalla signora Merkel, due volte. La prima volta quando è entrata nel Bundestag per il primo pacchetto di salvataggio e ha detto che era un atto di solidarietà verso la Grecia, quando i soldi erano destinati alle banche francesi e tedesche che, contro ogni logica, avevano prestato i soldi alla nostra oligarchia. Prima del 2002 la Grecia aveva mentito per entrare nell’euro con statistiche falsate, e ora – dopo tutti questi anni di “salvataggio” – dovrebbe finalmente rispettare i criteri dell’euro? Sicuramente no! Prima di tutto, pensate veramente che la Ue e Berlino siano stati ingannati dalle statistiche greche? Lo hanno sempre saputo. Erano conniventi già nella manipolazione statistica dell’Italia, perchè i politici avevano realmente bisogno che l’Italia entrasse nell’Ue. La Grecia entrò sulla base della stessa manipolazione intenzionale delle regole. Regole che non potevano essere rispettate e che sono impossibili da rispettare ora. Chiudere un occhio fu una concessione che l’allora cancelliere Kohl fece a al presidente francese Mitterrand per il suo via libera alla riunificazione della Germania. Wolfgang Schaeuble era presente, e lui e la Bundesbank sapevano che non avrebbe funzionato. Ed è rimasto sulle sue posizioni.Schaeuble appoggiava l’uscita con miliardi in aiuti, cosicché la Grecia potesse riadattarsi all’euro e, a un certo punto, rientrare o andare avanti per la sua strada. Col senno di poi, aveva ragione? Per lo meno non aveva completamente torto, ma quello che voleva veramente dire era: andatevene via dall’euro. Lui ci voleva fuori per sempre. E se non ha funzionato è perchè vide che, con l’Italia, si avvicinava una catastrofe molto più grande. Che senso ha cacciare qualcuno pagando una grande quantità di denaro, per un breve periodo di tempo? Non ci sarebbe stata poi nessuna ragione per tornare ad un euro mal costruito e che sarebbe costoso per la Grecia. Se potessi scegliere, in quale governo entrerei: quello del mio vecchio amico Alexis Tsipras o di Schaeuble? In nessuno dei due. Ma, se mi chiedete di chi mi fidi di più, la mia risposta è chiara: Wolfgang Schaeuble. Perché? In tutto questo tempo, lui è stato l’unico che ha detto almeno una parte della verità. Io credo alle cose che mi ha detto privatamente, anche se non era sempre la stessa cosa che diceva in pubblico ai tedeschi. Ha sempre mantenuto la sua parola, con me. E la signora Merkel? Mai: mi è sempre sembrata senza aspirazioni e visione. Lei passerà alla storia come il politico che ha avuto quasi tutte le possibilità per unire l’Europa, portarci nel futuro e implementare le riforme, ma poi ha fallito nell’approfittare dell’occasione storica.(Yanis Varoufakis, dichiarazioni rilasciate al “Bild” per una recente intervista sulla situazione greca, ripesa da “Scenari Economici”. Paolo Barnard ricorda che Varoufakis, quand’era ministro con Tsipras, ignorò l’offerta sovranista avanzata da Warren Mosler per salvare il paese; con Tsipras, Varoufakis gli preferì Jamie Galbraith, che predispose la Grecia a subire le devastanti imposizioni della Troika che hanno trasformato la Grecia “risanata” in un paese del terzo mondo. Il problema, alla radice? Il debito greco, come gli altri in Eurozona, è chiamato “pubblico” ma in realtà è denominato in euro e detenuto da banche private, anziché dalla banca centrale controllata dal governo, come avviene nel resto del mondo, dove il potere di spesa è virtualmente illimitato e quindi non condizionato dal rischio-spread).La Grecia è fallita 10 anni fa. Dove è la Grecia ora, dopo tre programmi di salvataggio, 270 miliardi di euro in prestiti e due tagli del debito? Allo stesso punto di prima, nello stesso buco nero, e affondiamo sempre di più ogni giorno. Una ragione fra le altre è che le richieste per il taglio del debito stanno impedendo investimenti e consumi. Ora la Troika ha ufficialmente terminato il commissariamento del paese, ma cosa è cambiato in realtà ? I debiti pubblici non si sono ridotti, ma innalzati. Abbiamo solo più tempo per ripagare il debito cresciuto: lo Stato è tuttora fallito, i cittadini sono diventati più poveri, le società ancora falliscono e il nostro Pil è calato del 25%. Tsipras, la Troika, il governo tedesco e la Ue puntano tutti a un avanzo di bilancio? Il surplus è reale, non è una bugia. Ma è stampato nella carne e nel sangue che lo Stato estrae da un settore privato morente. Appare chiaro che sia un crimine contro la logica, non un salvataggio o un successo. Mostrano statistiche di miseria più che di successo. Hanno cambiato le regole, così possono dire che il salvataggio della Grecia è un successo. “Se non funziona, prova con il martello più grande”. Non è solo contro la logica: è un crimine contro il popolo degli Stati Ue, dal Portogallo alla Germania.
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Ecco i nomi dei massoni golpisti che hanno creato la crisi
Puoi chiamarli neoliberisti. Monopolisti. Privatizzatori. C’è chi li ha definiti, anche, golpisti bianchi. Ma sono essenzialmente massoni. Attenzione: le obbedienze nazionali non c’entrano. Si tratta di supermassoni in quota alle Ur-Lodes, le oscure superlogge sovranazionali. Precisamente: quelle di segno neo-aristocratico, che detestano la democrazia e confiscano il potere dei cittadini, rimettendolo nelle mani di un’élite pre-moderna, pre-sindacale, ultra-padronale. E’ così che hanno costruito il nuovo medioevo in cui viviamo, il neo-feudalesimo regolato dall’Ue e dalla sua Commissione di non-eletti. Giochi di specchi: laddove si parla di finanza e geopolitica, citando banche centrali e governi, si omette sempre di scoprire chi c’è dietro. Sempre gli stessi, sempre loro: un club ristrettissimo di padreterni, di “contro-iniziati” che si credono onnipotenti e autorizzati, come per diritto divino, a manipolare in eterno il popolo bue, ridotto a bestiame umano. Lo ricorda Patrizia Scanu, segretaria del Movimento Roosevelt, sodalizio fondato dal massone progressista Gioele Magaldi proprio con l’intento di smascherare l’attuale governance europea finto-democratica, dopo la clamorosa denuncia contenuta nel saggio “Massoni”, edito nel 2014 da Chiarelettere. Una rivelazione: dietro ai principali tornanti della nostra storia recente ci sono sempre gli stessi personaggi, i medesimi circoli occulti: grazie a loro, in fondo, poi in Italia crollano anche i viadotti autostradali.
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Occhio ai “custodi” della democrazia non eletti da nessuno
Dopo il summit Salvini-Orbán (e gli scontri etnici in Germania), Paolo Mieli ha ripetuto sul “Corriere della Sera” che i partiti populisti a caccia di leadership definitiva in Europa sono nulla più che sovversivi «barbari alle porte». Sulle stesse colonne, Sabino Cassese continua a vedere la coalizione di governo italiana come uno scivolo verso la «democrazia illiberale». L’immagine di fondo, cioè la sintesi storico-politica degli argomenti, rimanda puntualmente agli anni Venti e Trenta del secolo scorso in Italia, Germania, Ungheria e Austria, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”. La dittatura (“fascista” e prodromica alla guerra) è sempre in agguato, e si può fare strada senza difficoltà anche fra le urne: ogni suo simulacro più o meno presunto va quindi respinto e combattuto in via pregiudiziale, assoluta, dalla “democrazia legittima”. «E’ lo stesso atteggiamento dei politici, intellettuali e media Usa che da due anni osteggiano “a prescindere” la presidenza di Donald Trump», osserva Berti: l’establishment la dipinge infatti «come un incidente della storia, un pericolo mortale per la democrazia americana», un “mostro” «da annientare al più presto con ogni mezzo (a cominciare dalla via giudiziaria, rispolverando esplicitamente il modello italiano di Mani Pulite)».Salvini e Orbán, nondimeno, hanno dato ennesima sintesi alla loro polemica sull’Europa, incarnandola in un “barbaro” da combattere, anzi da espellere: si tratta del supermassone neo-aristocratico George Soros, finanziere di origine ungherese, noto fra l’altro per il devastante attacco speculativo alla lira italiana del 1992. E’ lui, scrive Berti, ad apparire un attendibile “cosmocrate” dei nostri tempi: un europeo trapiantato a Wall Street per lanciare dalla trincea americana la “guerra mondiale” della globalizzazione finanziaria, «quella che avrebbe brutalmente sostituito – principalmente in Europa – la politica con la tecnocrazia, finendo con l’assegnare all’oligopolio bancario apolide (travestito da “libero mercato”) le leve ultime sui destini degli ex Stati nazionali». Gestore di mega-hedge fund, nonché filosofo e mecenate di fondazioni politico-culturali mondialuste, rivestirebbe dunque con speciale verosimiglianza i panni del “dittatore” contemporaneo: il Grande Fratello di un capitalismo finanziario globalizzato «che non avrebbe più bisogno, come cent’anni fa, di un Hitler o di un Mussolini», dal momento che gli bastano un Obama truccato da progressista e l’ideologia politically correct «per preservare la propria egemonia dopo “l’incidente” del 2008 sui mercati finanziari».Chi è il vero barbaro? E chi può dare veramente del “barbaro” a chi? «Nell’Italia, nell’Europa, negli Usa del 2018 – scrive Berti – il solo porre la questione offre ormai il fianco ad accuse di connivenza con la “barbarie”». Ma la questione sostanziale, aggiunge l’analista, è questa: se il richiamo al primo dopoguerra mondiale è lecito, il rischio massimo risiede nel rifiuto di affrontare i nodi reali posti dalla storia. «Esattamente cent’anni fa l’Europa – dopo che tutti i contendenti continentali avevano più o meno perso la guerra – perse anche la pace, e in molti paesi la libertà, preparando un nuovo e più distruttivo conflitto. Questo – aggiunge Berti – avvenne perché governi ed establishment nazionali gestirono con categorie ottocentesche il dopoguerra, che segnava invece l’inizio del Novecento: sia all’interno dei sistemi-paese che nelle relazioni internazionali». Solo gli Stati Uniti, rileva l’analista, riuscirono ad attraversare il vero momento di passaggio, cioè la Grande Depressione del 1929, «senza stravolgere il loro sistema, e ridisegnando un archetipo di successo della democrazia mista di mercato».Il cambio di paradigma politico-economico del New Deal, sottolinea sempre Berti nella sua analisi, fu comunque drastico almeno quanto brutale fu la Grande Recessione: e sarebbe interessante rivedere chi, in quegli anni, dava del “barbaro” a chi, in America (al Congresso, sui media e nelle università). «Quarant’anni dopo, comunque, il paradigma fu di nuovo rovesciato su scala globale dal thatcherismo-reaganismo: e molti difensori odierni del “legittimismo democratico-liberista” erano fra i supporter del “sano sovversivismo” portato dalla nascente finanza di mercato (l’etichetta mediatica “barbarian at the gates” fu coniata in occasione dell’Opa Nabisco, il primo assalto riuscito da parte di hedge fund e junk bond all’industria tradizionale, alla fine degli anni Ottanta)». E’ in quella transizione “magnifica e progressiva”, continua Berti, che, fra l’altro, tre piccole agenzie private si affermano come decisori sovranazionali del rating, del merito finanziario di chiunque sul pianeta. «Dieci anni dopo il crack Lehman – il suo più clamoroso fallimento tecnico-politico – il rating detta ancora letteralmente legge: i voti delle tre agenzie di Wall Street, le stesse di allora, rimangono parte integrante della regolamentazione bancaria nell’Eurozona». Ma sono sempre più numerosi coloro che, per usare la terminologia di Cassese, denunciano come “mercato illiberale” quello creato dalla globalizzazione e oggi tenacemente difeso dai istituzioni finanziarie “too big” per essere controllabili dalle democrazie.«Roosevelt, il salvatore dell’Europa democratica – ricorda Berti – è stato l’unico presidente Usa ad essere stato eletto quattro volte: una “dittatura democratica” lunga 13 anni, successivamente vietata dalla legge». Gli succedette Eisenhower, che da militare aveva condotto la guerra di liberazione in Europa, e da presidente «governò con la guerra fredda e il terrore nucleare, tollerando inizialmente una “caccia alle streghe” nella politica interna». Kennedy? «Fu assassinato perché lottava per i diritti civili e l’integrazione razziale, ma aveva deciso anche la guerra in Vietnam». La “democrazia (sociale) di mercato” non è mai stata un “tipo ideale” neppure in quella che è considerata la sua patria, dice Berti. «E se deve guardarsi da scivolamenti e corruzioni non può neppure trasformarsi in ideologia né essere tutelata nella presunta ortodossia da custodi autonominati, né divenire arma di scontro politico». Ineccepibile, il ministro degli esteri Enzo Moavero Milanesi, nel ricordare – al meeting di Rimini – che l’Italia deve rispettare lo “Stato di diritto europeo”, partecipando al bilancio Ue. Gli fa eco il ministro dell’economia Giovanni Tria, sul rispetto dei parametri Ue per l’adesione all’Eurozona. Ma, aggiunge Berti, «non ha torto neppure chi sostiene che – proprio in democrazia – ogni norma è riformabile, anzi: è fatta per essere riformata. E non può essere imposto, dogmaticamente, un coefficiente numerico fissato un quarto di secolo prima». Il rapporto al 3% fra deficit e Pil? «Non è equivalente al 51% del principio democratico universale scolpito ad Atene 2.500 anni fa». Conmclude Berti: «La democrazia, fortunatamente, è antichissima. E, come sosteneva il “dittatore” britannico Winston Churchill, resta “il peggiore sistema politico, salvo tutti gli altri”».Dopo il summit Salvini-Orbán (e gli scontri etnici in Germania), Paolo Mieli ha ripetuto sul “Corriere della Sera” che i partiti populisti a caccia di leadership definitiva in Europa sono nulla più che sovversivi «barbari alle porte». Sulle stesse colonne, Sabino Cassese continua a vedere la coalizione di governo italiana come uno scivolo verso la «democrazia illiberale». L’immagine di fondo, cioè la sintesi storico-politica degli argomenti, rimanda puntualmente agli anni Venti e Trenta del secolo scorso in Italia, Germania, Ungheria e Austria, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”. La dittatura (“fascista” e prodromica alla guerra) è sempre in agguato, e si può fare strada senza difficoltà anche fra le urne: ogni suo simulacro più o meno presunto va quindi respinto e combattuto in via pregiudiziale, assoluta, dalla “democrazia legittima”. «E’ lo stesso atteggiamento dei politici, intellettuali e media Usa che da due anni osteggiano “a prescindere” la presidenza di Donald Trump», osserva Berti: l’establishment la dipinge infatti «come un incidente della storia, un pericolo mortale per la democrazia americana», un “mostro” «da annientare al più presto con ogni mezzo (a cominciare dalla via giudiziaria, rispolverando esplicitamente il modello italiano di Mani Pulite)».
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Brexit e Trump: gli anglosassoni volano, anziché crollare
«La catastrofe oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente». Cita il mitico Giorgio Gaber, il blogger Massimo Bordin, per ricordare – su “Micidial” – che nella Gran Bretagna “scappata” dall’Unione Europea la disoccupazione è al 4%, cioè il minimo storico dal lontanissimo 1975. «Il numero degli occupati nel Regno Unito è salito di 42.000 unità nel trimestre terminato a giugno», a dispetto degli economisti anti-Brexit, i soliti veggenti, che «si aspettavano un calo di 3.800 unità nel solo mese di giugno». E per Bordin, gli squillanti traguardi del sovranismo inglese sono soltanto l’antipasto: il piatto forte è l’America. «Quando l’impresentabile Donald Trump fece l’azzardo di presentarsi alle elezioni, gli analisti si scatenarono», ricorda l’autore di “Micidial”: «C’è chi giurava sui propri figli che, in virtù di statistiche precise al millimetro, il biondo non poteva vincere; altri scommettevano nel crollo dell’economia planetaria. I più severi furono i neocon europei, per i quali, dopo qualche sventagliata populista, sotto Trump la “Pravda” rappresentata dalla finanza globale avrebbe decretato un verdetto di fallimento». I dazi – secondo questi soloni dell’economia – avrebbero «costretto i capitali a fuggirsene dall’America, con la conseguente fine del monopolio di Wall Street».Da quando Trump è stato eletto, a fine 2016, la Borsa americana – da sempre quella con i maggiori capitali al mondo – è aumentata in valore di altri 6.000 miliardi, annota Bordin. «Questa cifra – che ricorda molto i fantastiliardi di Paperopoli, di Uncle Scrooge e del suo mitico deposito – è in pratica il Pil di Italia, Francia e Regno Unito messi assieme: lo ripeto per i Boldrin, gli Scacciavillani, i “noisefromamerika” e tutti gli incompetenti ideologizzati ed i trader iperliberisti che infestano questo declinante paese». Fatti, non parole: da quand Trump è alla Casa Bianca, sul piatto ci sono 6.000 miliardi in più. Nessun mistero: di fronte a segnali di evidente ripresa, anziché tagliare la spesa pubblica come avrebbe fatto qualsiasi governo dell’Eurozona, gli Stati Uniti hanno rilanciato, moltiplicando il deficit per investire sul sistema paese. Risultato: crescita esponenziale del Pil. «Continuerà? Ecchennesò, magari sì, probabilmente no», scrive Bordin, «ma certamente i soloni economisti europei si sono sbagliati, e si sono sbagliati per due anni – che per un investitore è la rovina (eppoi insegnano all’università, eppoi commentano)».I dati più importanti sull’America «riguardano occupazione e salari, visto che la finanza potrebbe benissimo essere in bolla». Il tempo ce lo dirà, aggiunge Bordin, «ma al momento Trump non è stato affatto una catastrofe per la finanza. Fu disastro con il liberista Bush junior, invece, sotto il cui mandato ci fu la più grande ecatombe borsistica dopo il 1929» Tornando a The Donald: la performance a New York durante questi due anni scarsi è stata del 34%. Com’è stato possibile? «Le Borse, da che mondo è mondo, basano le loro performance sulla fiducia e sul ruolo dei regolatori, la Fed in questo caso. Se ci concentriamo sul primo aspetto – scrive Bordin – a pompare fiducia è stata la politica fiscale. Con la riforma fiscale, le imprese in Usa si sono viste tagliare le tasse dal 35 al 20%. Se questa iniziativa viene sommata alla protezione sui prodotti americani, ecco che il mistero si svela». Non solo: grazie all’abbattimento delle tasse, «le aziende quotate hanno potuto comprarsi le proprie azioni, che in termini tecnici si chiama BuyBack: è superfluo aggiungere che questo sistema fa esplodere i titoli all’insù». Durerà? «E’ impossibile saperlo, ma ci sono almeno due elementi che potrebbero indicare una drastica inversione: una guerra monetaria con l’euro e l’impeachement al presidente», dopo le elezioni di medio termine. «Due ipotesi affatto improbabili».«La catastrofe oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente». Cita il mitico Giorgio Gaber, il blogger Massimo Bordin, per ricordare – su “Micidial” – che nella Gran Bretagna “scappata” dall’Unione Europea la disoccupazione è al 4%, cioè il minimo storico dal lontanissimo 1975. «Il numero degli occupati nel Regno Unito è salito di 42.000 unità nel trimestre terminato a giugno», a dispetto degli economisti anti-Brexit, i soliti veggenti, che «si aspettavano un calo di 3.800 unità nel solo mese di giugno». E per Bordin, gli squillanti traguardi del sovranismo inglese sono soltanto l’antipasto: il piatto forte è l’America. «Quando l’impresentabile Donald Trump fece l’azzardo di presentarsi alle elezioni, gli analisti si scatenarono», ricorda l’autore di “Micidial”: «C’è chi giurava sui propri figli che, in virtù di statistiche precise al millimetro, il biondo non poteva vincere; altri scommettevano nel crollo dell’economia planetaria. I più severi furono i neocon europei, per i quali, dopo qualche sventagliata populista, sotto Trump la “Pravda” rappresentata dalla finanza globale avrebbe decretato un verdetto di fallimento». I dazi – secondo questi soloni dell’economia – avrebbero «costretto i capitali a fuggirsene dall’America, con la conseguente fine del monopolio di Wall Street».
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Migranti? Salvini ci distrae dal Mostro: il pareggio di bilancio
Se c’è qualcosa di “vomitevole”, nella politica italiana – per usare un’espressione cara al soave Macron – è l’ipocrita cinismo con cui la sinistra (politica, stampa, establishment) azzanna Salvini in materia di migranti. L’altro problema? Enorme: facendo tutto quel rumore solo sul problema degli sbarchi, non così importante nei numeri, il leader della Lega – messi da parte gli economisti sovranisti Claudio Borghi e Alberto Bagnai – sta letteralmente oscurando il vero dramma nel quale si dibatte il paese. Ovvero: il rigore finanziario imposto da Bruxelles fino al pareggio di bilancio, inserito nella Costituzione dal governo Monti con la complicità di Berlusconi e Bersani. Lo afferma Paolo Barnard, giornalista scomodo e acuminato polemista, il primo a denunciare “l’economicidio” del paese pianificato dalle élite europee neo-aristocratiche. Oligarchi, padroni della finanza e delle multinazionali: sono stati loro a progettare la catastrofe di questa Eurozona, allo scopo di amputare la spesa pubblica per privatizzare tutto e far crollare il sistema economico delle piccole e medie imprese, soffocate dalle tasse. Sempre meno, per tutti noi: “pareggio di bilancio” significa che lo Stato recupera, sotto forma di imposte, tutto quello che ha speso per i cittadini. Peggio ancora, il “surplus di bilancio”: lo Stato anticipa 100, ma poi riscuote 120 (non solo non lascia nulla, ma addirittura impoverisce attivamente il paese). Riuscirà a parlarne, Salvini, quando avrà finito di sbraitare a reti unificare contro “l’invasione” degli africani?Senza una drastica inversione di tendenza, scrive Barnard nel suo blog, l’Italia farà la fine della Svezia: pur essendo dotato di moneta sovrana, il paese scandinavo (patria storica del welfare avanzato) per reggere l’accoglienza dei migranti – tantissimi, 600.000 negli ultimi 5 anni, in un paese di 10 milioni di abitanti, «che in proporzione è come se l’Italia ne avesse avuti 3.600.000» – il governo di Stoccolma, socialdemocratico ma plagiato dal dogma neoliberista dell’Ue, ha letteralmente massacrando la popolazione svedese a suon di tasse. Risultato: le imminenti elezioni rischiano di vincerle a mani basse i populisti Democratici Svedesi, feroci sui migranti ma letteralmente muti sul vero dramma, il pareggio di bilancio. Proprio come Salvini, accusa Barnard, che di fronte all’esodo africano sembra «il vigile tonto che con la paletta pensa di fermare lo tsunami in spiaggia». La sinistra? «Fa venir da vomitare, usa i neri con un cinismo da impiccagione sul posto: non sanno proporre una soluzione sistemica al motivo per cui migrano, e predicano invece la loro accoglienza (a casa e a spese degli italiani sfigati, non certo a casa loro). Questo insulto alla geopolitica gli lava l’anima, ma poi lascia 389 milioni di africani nella disperazione e non risolve un cazzo da 26 anni». Sono almeno 500 milioni, scrive Barnard, gli esseri umani a rischio di migrazione: per ogni sorta di motivo, dal neo-colonialismo europeo all’emergenza climatica, «e non li fermerai mai coi divieti di Salvini». La soluzione? «Deve essere un accordo economico sistemico internazionale».In ogni caso, sottolinea Barnard, i migranti sono il problema numero 300 del nostro “portafoglio”: prima vengono sanità, pensioni, scuola e lavoro. Ben prima dei migranti ci cadono addosso le “chemiotasse” imposte dall’euro, il credito che le banche non concedono, l’Italia che non cresce più da vent’anni. Il problema numero uno è lui: il pareggio di bilancio, «cioè la dittatura Ue che dice che lo Stato deve darti 100 e poi tassarteli tutti e 100, cioè lasciarti nulla nel portafoglio – sanità, pensione, scuola, crescita». Eppure, fateci caso: «La lotta della Lega al nero che sbarca è diventata una tempesta solare», mentre l’opposizione leghista al vero nemico – il pareggio di bilancio – ormai «assomiglia sempre più a un petardo». Salvini? «Sta facendo sbiadire la mostruosità del pareggio di bilancio, che è la prima causa delle pene degli italiani, e li incoraggia a cercare da un’altra parte un capro espiatorio per la loro rabbia da crescente povertà e insicurezza: nell’immigrazione». Per Barnard «è un bypass velenoso, che Salvini alimenta ogni minuto». Il meccanismo «ha una presa micidiale sulla gente» ma è anche «distruttivo», come sta accadendo in Svezia, cioè il paese in crisi verso cui ci starebbe spingendo la Lega, con la sua miopia. Il paradosso, aggiunge Barnard, è che la Lega sulla carta doveva fare l’esatto contrario: mantenerci tutti concentrati sul pericolo numero 1, il pareggio appunto, non distrarci da esso con l’ossessione del pericolo numero 300, cioè gli sbarchi dei migranti.In Svezia ne hanno accolti una quota enorme, sopra il 5% della popolazione nazionale. Tutti assorbiti nel sistema produttivo: industria, sanità, servizi sociali. Economia in crescita, quindi: il Pil è salito del 3,3%, contro la media europea del 2%. Ottimo? No, niente affatto, spiega Barnard: perché poi, dati alla mano, nelle zone meno popolate (il 90% del paese) stanno chiudendo ospedali e consultori. «Ne soffrono le donne, a cui ora le autorità stanno insegnando come partorire in auto perché spesso la maternità più vicina è a oltre 100 km di distanza. Non solo: a volte le partorienti svedesi vengono respinte dai consultori perché sono stipati di pazienti, fra cui anche migranti». Le liste d’attesa in sanità sono letteralmente esplose: non per colpa dei migranti, però, ma per via dei tagli decisi – a monte – dal governo, preoccupato in modo demenziale di raggiungere ogni anno il pareggio di bilancio imposto dall’Ue. Ormai, «quello che viene vantato nel mondo come un sistema di welfare che assiste “dalla culla alla tomba” e che mantiene chi perde il lavoro in relativo agio, oggi fa acqua da tutte le parti». Idem il lavoro: «La disoccupazione svedese, che dovrebbe essere inesistente, è al 7%, e questo nonostante la già citata crescita». Un dato che «fa vergognare la nazione scandinava a confronto con la spietata America, dove i disoccupati sono al 3,9%».Crisi da rigore di bilancio, in salsa nordica: «Gli svedesi non trovano abbastanza case, e se le trovano costano una fortuna. In parte il problema è dovuto al fatto che i 600.000 migranti hanno assorbito alloggi, ma molto di più è dovuto a un mercato immobiliare selvaggio causato da politiche di governo e banca centrale che hanno permesso liquidità a costo quasi zero, quindi incentivato acquisti sempre più frenetici che hanno alzato i prezzi alle stelle, che a loro volta hanno costretto gli svedesi a indebitarsi con le banche da pazzi per avere una casa. Nel frattempo lo Stato non è affatto intervenuto con edilizia popolare per aiutare gli esclusi». Ecco allora il vero motivo del disastro che sta esasperando gli svedesi: e cioè «l’ossessione da parte del governo, persino in una nazione sovrana nella moneta, di pareggiare i bilanci, e addirittura di fare il surplus di bilancio». Per cosa, poi? «Solo poter vantare nelle casse dello Stato un assurdo bottino che contabilmente non ha senso, ma soddisfa i “numerini degli economisti europei”. Ecco come agiscono i pareggi e surplus di bilanci, cioè la macchina d’impoverimento peggiore della storia, in Svezia». E questa, aggiunge Barnard, è «la vera fucina dell’esasperazione dei cittadini, che poi sbagliano clamorosamente target e se la prendono coi migranti (come da noi)».Follia: il governo svedese «non solo pareggia i bilanci da anni, ma ora addirittura fa surplus di bilancio da 4 anni, e intende insistere in questa strage delle tasche dei cittadini fino al 2021 almeno». Questo, sottolinea Barnard, «è il motivo dei drastici tagli governativi a sanità, alloggi pubblici per gli ultra-indebitati, sicurezza e persino welfare. I fondi ai migranti, qui, sono irrilevanti». Altra follia: «Mentre il governo spende 100 per gli svedesi e li tassa 120, ha avuto la buona idea di aumentare le tasse, con l’aliquota massima oltre il 70%, e di tagliare a raffica una serie di sconti fiscali». Chi sta quindi sta assassinando i redditi svedesi? «Risposta: svedesi con pelle bianchissima seduti a Stoccolma, non stranieri di pelle scura (per noi italiani invece è il contrario: gli assassini economici sono in effetti stranieri, ma sempre di pelle bianca, e stanno a Bruxelles)». Terza follia: «Questa idrovora di tassazione e tagli di spesa pubblica nel portafoglio di aziende e famiglie svedesi accade mentre, secondo i dati del ministero delle finanze, il costo per ogni nativo svedese per l’accoglienza dei migranti è di 6.800 euro all’anno in ulteriori tasse. E questo grida vendetta, perché la Svezia è paese a moneta sovrana, e per definizione non necessita di tasse per spendere per qualsiasi cosa, inclusi i migranti. Quindi, se i migranti pesano in parte sui portafogli degli svedesi, la colpa è tutta e solo della scelta di governo di ubbidire ai diktat imperanti in Europa».Ed ecco che scatta il micidiale bypass delle colpe, conclude Barnard: un numero sempre maggiore di svedesi «mica se la prendono col loro demenziale governo e con le sue devastanti politiche fiscali». Al contrario, «se la prendono coi migranti». In pole position, nei sondaggi per le vicinissime elezioni, c’è il partito «di estrema desta e rabbiosamente anti-immigrazione», i Democratici Svedesi, dato addirittura vincente. E qui sta il dramma: se si osserva la piattaforma politica dei Democratici Svedesi, si scopre che il nazionalismo, la patria, l’identità e la xenofobia sono il 98%, mentre il resto «è un’accozzaglia di belle intenzioni su lavoro, anziani, sanità, commercio, ma nulla di specifico sulla vitale necessità di demolire ciò che davvero sta devastando famiglie e aziende svedesi, che è il pareggio (o surplus) di bilancio». Nel loro programma non esiste la voce “abolizione pareggi e surplus di bilancio”. «Strombazzano solo contro le politiche troppo generose sui migranti». Risultato? «Il dramma nordico rimarrà inalterato, esattamente come rimarrà inalterato il dramma italiano se Matteo Salvini, come i Democratici Svedesi, continua a gonfiare l’ipertrofica bolla delle navi nei porti, mentre pacatamente sta costruendo un nulla di fatto su “no euro”, “no pareggio di bilancio”, e su Italexit». E siatene certi, chiosa Barnard: «Dopo le roboanti boutade “macho” dell’uomo forte italiano, nel vostro portafoglio, nella sanità, nelle pensioni, nelle scuole, nel lavoro tuo e dei figli, nelle ‘chemiotasse’, nei crediti che non ti danno, e nell’Italia che non cresce da 20 anni non ci sarà un nero. Ci sarà Salvini».Se c’è qualcosa di “vomitevole”, nella politica italiana – per usare un’espressione cara al soave Macron – è l’ipocrita cinismo con cui la sinistra (politica, stampa, establishment) azzanna Salvini in materia di migranti. L’altro problema? Enorme: facendo tutto quel rumore solo sul problema degli sbarchi, non così importante nei numeri, il leader della Lega – messi da parte gli economisti sovranisti Claudio Borghi e Alberto Bagnai – sta letteralmente oscurando il vero dramma nel quale si dibatte il paese. Ovvero: il rigore finanziario imposto da Bruxelles fino al pareggio di bilancio, inserito nella Costituzione dal governo Monti con la complicità di Berlusconi e Bersani. Lo afferma Paolo Barnard, giornalista scomodo e acuminato polemista, il primo a denunciare “l’economicidio” del paese pianificato dalle élite europee neo-aristocratiche. Oligarchi, padroni della finanza e delle multinazionali: sono stati loro a progettare la catastrofe di questa Eurozona, allo scopo di amputare la spesa pubblica per privatizzare tutto e far crollare il sistema economico delle piccole e medie imprese, soffocate dalle tasse. Sempre meno, per tutti noi: “pareggio di bilancio” significa che lo Stato recupera, sotto forma di imposte, tutto quello che ha speso per i cittadini. Peggio ancora, il “surplus di bilancio”: lo Stato anticipa 100, ma poi riscuote 120 (non solo non lascia nulla, ma addirittura impoverisce attivamente il paese). Riuscirà a parlarne, Salvini, quando avrà finito di sbraitare a reti unificare contro “l’invasione” degli africani?
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Genova e i complottisti che non vedono l’agguato all’Italia
E’ già stata programmata la prossima aggressione americana alla Siria? Se lo domanda “The Saker”, pensando all’imperialismo yankee oggi più che mai ostile all’Iran, mentre a Washington l’impeccabile Barack Obama e l’assai meno impeccabile George W. Bush piangono la dipartita del vecchio leone John McMcain, presentato come eroe di guerra – quella del Vietnam, però (non quella siriana, dove celebri fotografie immortalano lo stesso McCain, dalle parti di Damasco, a colloquio con un’illustre congrega di tagliagole, tra cui l’oscuro Abu Bakr Al-Baghdadi, nome d’arte del futuro capo-macelleria del sedicente Isis). Si fa presto a dire “l’America”, quando è palese che neppure un americano su cento ha idea di come siano andate davvero le cose, in Siria, cioè nel paese dei bombardamenti immaginari con gas nervino sulla popolazione inerme, disposti dal feroce regime di Assad sul quale proprio l’elegantissimo Obama stava per scatenare l’Armageddon missilistico. Lo schema è classico, ormai datato ma sempre formidabile: la fanfara mediatica suona la sua canzone, che poi a casa – davanti al televisore – fischiettano tutti. E quelli che si rifiutano (non più così pochi, ormai) spesso cadono nel tranello del festival opposto, che poi è l’altra faccia della stessa medaglia. Complottismo militante: caccia al Colpevole Unico, al reprobo di turno. Uno sport che, secondo Gianfranco Carpeoro, finisce sempre per assolvere il solo, vero responsabile: il sistema.Lo spiega benissimo anche uno specialista come Massimo Mazzucco, in diretta web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”, addentrandosi nel presunto giallo del viadotto Morandi a Genova, che si vocifera sia stato segretamente minato per scatenare la strage di ferragosto. L’ingegnere veneto che rilancia la testi del complotto, adombrando l’ipotesi dell’attentato, ordito magari per colpire Autostrade per l’Italia, che ormai è un gestore internazionale di infrastrutture viarie? Sfortunatamente, quel tecnico è stato ingaggiato proprio da Atlantia, la società dei Benetton: cioè i soggetti che più trarrebbero vantaggio dall’accreditare il sospetto dell’ipotetico attentato, visto che metterebbe in ombra le loro eventuali responsabilità sul mancato controllo della sicurezza del ponte genovese. Piuttosto, dice Mazzucco nella sua attenta ricostruzione, l’unica cosa che non torna è la decisione degli inquirenti di non rendere pubblici alcuni filmati-chiave sul crollo. Forse rivelano indizi sulla grave incuria che, alla fine, ha determinato il collasso del viadotto? Quelle immagini, si dice, restano riservate per non condizionare i testimoni oculari che gli inquirenti devono ancora ascoltare. Ma non ha senso, protesta Mazzucco: se già si dispone di immagini incontrovertibili, infatti, a cosa serve il racconto (fatalmente frammentario e impreciso) di semplici testimoni? Ovvero: qualcuno sta esercitando pressioni “mostruose”, sui magistrati di Genova, per tentare di nascondere le evidenze dell’omessa manutenzione dell’infrastruttura?Citando il saggio “Massoni” di Gioele Magaldi, e attingendo al proprio patrimonio personale di contatti e informazioni, l’avvocato e saggista Carpeoro, autore di scomode pagine sul terrorismo targato Isis ma in realtà “fatto in casa” da servizi segreti agli ordini dei peggiori network supermassonici, sul caso genovese è illuminante: non scordate, dice, che i Benetton fanno parte di una cerchia paramassonica internazionale vicina ai Clinton e a Obama. Un club più che esclusivo, dominato dalla celeberrima superloggia “Three Eyes”, a lungo ispirata dai massimi strateghi del potere politico statunitense, a cominciare da Kissinger. Non solo: nella composizione azionaria di Atlantia figura anche il maggiore “hedge fund” del pianeta, quel BlackRock a cui – a proposito di privatizzazioni “ad personam” – il giovane Matteo Renzi regalò una bella fetta di Poste Italiane, azienda in ottima salute che fruttava allo Stato, ogni anno, quasi mezzo miliardo di euro. Il patron di BlackRock, cioè la star della finanza americana Larry Fink, secondo Magaldi avrebbe gravitato nell’orbita di un’altra Ur-Lodge, quasi “sorella” della “Three Eyes” ma se possile molto peggiore, avendo reclutato tra i suoi affiliati un certo Osama Bin Laden (l’autore del film “11 Settembre”) e lo stesso Al-Baghdadi (aiuto-regista dell’ultimo kolossal horror, quello siglato Isis).Che crolli un ponte in Italia o franino grattacieli negli Usa – minati, quelli sì – il risultato è lo stesso: l’uomo della strada ci rimette la pelle, oltre che un sacco di soldi, mentre i responsabili non pagano mai, prevedibilmente protetti da tonnellate di menzogne, depistaggi e insabbiamenti. Colpa loro, si domanda Carpeoro, o piuttosto di un sistema incapace di giustizia? L’avvocato ricorre a un esempio: «E’ stata sgominata, la mafia, dopo l’arresto di Riina? Ma no, c’era Provenzano. Preso anche lui, ecco Matteo Messina Denaro. Il giorno che arrestassero pure quello, qualcuno dubita che, nel giro di una notte, i boss troverebbero un nuovo capo?». Beninteso: spesso i criminali poi finiscono, giustamente, in galera. Ma il potere giudiziario non è in grado di fare davvero giustizia: può solo limitare i danni. Infatti, per statuto, interviene soltanto a cose fatte, quando cioè il reato è già stato commesso. Perché il sistema cambi, nel senso della vera giustizia, è necessario che, a monte, certi reati non si commettano più. Solo così sarebbe possibile evitare disastri, stragi, truffe e rapine colossali. Migliorare il sistema, dunque. Già, ma come?Missione impossibile, se restiamo quasi sempre al buio: troppo spesso, infatti, non disponiamo delle informazioni-chiave. Nessuno sa, davvero, ciò che sta accadendo. A proposito: quanti italiani sapevano che le loro autostrade, pagate con provvidenziale debito pubblico strategico negli anni d’oro, erano state interamente privatizzate? Quanti sapevano che la famiglia Benetton è poco più che il paravento italiano di un mega-affare, essenzialmente internazionale, pensato lontano dall’Italia e dato in gestione, per la sua esecuzione formale, a Massimo D’Alema? E dov’erano, gli elettori italiani, mentre tutto questo accadeva? Tutti a fare il tifo: pro o contro il Cavaliere di Arcore, “domato” da Romano Prodi e poi, appunto, da D’Alema. Idem i giornalisti italiani: tutti presi anche loro dall’insignificante derby politico, anziché dall’anomalia – sostanziale – che consiste nel regalare a colossi privati un pezzo di paese come la rete autostradale, che oggi frutta profitti per 6 miliardi di euro all’anno, cioè 12.000 miliardi di lire. La scusa, storica? C’era il debito pubblico da “risanare”.Era la fiaba degli italiani spreconi e spendaccioni, che ha fatto la fortuna politica di personaggi come Antonio Di Pietro. Poi è arrivato il Risanatore, quello vero: Mario Monti, paracadutato a Palazzo Chigi da Mario Draghi e Giorgio Napolitano. E tutti hanno cominciato a capire cosa indendono, uomini come quelli, con la parola “risanamento”. In un attimo l’Italia ha visto crollare il Pil, ha perso il 25% del suo potenziale industriale e ha accusato la peggior crisi dal dopoguerra, con una disoccupazione record. Ora qualcuno ha imparato che il debito pubblico, per definizione, non è da “risanare” come quello di una famiglia o di un’azienda, perché lo Stato (se è sovrano nella moneta) non deve restituire a nessuno il denaro emesso direttamente dal governo, attraverso la banca centrale. In tanti, ormai, sanno che dal 1980 – prima ancora dell’euro – la banca centrale ha cessato di emettere denaro in modo illimitato, a disposizione del governo: è da allora, infatti, che il debito pubblico è diventato una tragedia nazionale (fino a trasformarsi, con l’euro, in un dramma internazionale).Chi ha messo il dito nella piaga, durante l’ultima campagna elettorale? Matteo Salvini. Chi ha candidato, al Senato? Alberto Bagnai, eminente economista di scuola sovranista. E dov’è, adesso, Salvini? Nel mirino: tutti i poteri forti (stampa, finanza, industria) gli sparano addosso, col pretesto della sua ruvida intransigenza sui migranti. Gli spara addosso Macron, a capo di un paese che ogni anno, in virtù dell’eredità coloniale, “rapina” 500 miliardi di euro a 14 paesi africani. E a Salvini spara a man salva persino l’ormai disperato Pd, cioè il partito che – fin che è vissuto – non ha fatto altro che eseguire gli ordini dei poteri forti, così come il decano D’Alema all’epoca dei maxi-regali, le autostrade poi lasciate crollare, fino al novello Renzi, il “regalatore” di Poste Italiane. Tutta colpa del Pd, dunque, come suggerisce il tifo odierno che vede nel governo gialloverde la prima, vera speranza, per un paese dominato per 25 anni da poteri stranieri? Stando al ragionamento di Carpeoro su Cosa Nostra, la risposta è scontata: puoi anche sanzionare un manovale del crimine, persino un boss, ma dai guai non esci fino a quando vivi in un sistema che prevede l’impunità sostanziale per certi reati.La parte dal cattivo travestito da buono – ormai si sa – è toccata, storicamente, al centrosinistra. Ovvio: mai l’elettorato di sinistra avrebbe tollerato le stesse leggi, se a promulgarle fosse stato Berlusconi. Non hanno fatto una piega, i sindacati, quando invece a contrarre i diritti del lavoro è stato il centrosinistra. Ma, tralasciando gli attori in commedia, sarebbe cambiato qualcosa che se questa storia fosse stata recitata da tutt’altro cast? Dov’è il problema, negli attori o piuttosto nel copione? E’ irrilevante che oggi gli zombie del Pd fingano ancora di esistere: e sanno che, se non fosse comparso il provvidenziale “mostro” Salvini, non saprebbero neppure cosa dire, di fronte alle telecamere. Intanto i ponti crollano, insieme al resto del paese. E c’è chi pensa agli immancabili, fantomatici bombaroli, come se non bastasse lo spettacolo dell’auto-sabotaggio realizzato da un intero paese, a cui i maghi dell’informazione hanno raccontato, indisturbati, che tutto va bene, e che il padrone ha sempre ragione. Quello, semmai, era il vero complotto. E sta venendo alla luce oggi, lentamente, attraverso l’inaudita violenza verbale che l’establishment riserva all’attuale governo: il primo, dopo 25 anni, non partorito direttamente dal potere “complottista”. L’unico governo, per ora, largamente sostenuto dagli elettori.E’ già stata programmata la prossima aggressione americana alla Siria? Se lo domanda “The Saker”, pensando all’imperialismo yankee oggi più che mai ostile all’Iran, mentre a Washington l’impeccabile Barack Obama e l’assai meno impeccabile George W. Bush piangono la dipartita del vecchio leone John McMcain, presentato come eroe di guerra – quella del Vietnam, però (non quella siriana, dove celebri fotografie immortalano lo stesso McCain, dalle parti di Damasco, a colloquio con un’illustre congrega di tagliagole, tra cui l’oscuro Abu Bakr Al-Baghdadi, nome d’arte del futuro capo della premiata macelleria mediorientale, il sedicente Isis). Si fa presto a dire “l’America”, quando è palese che neppure un americano su cento ha idea di come siano andate davvero le cose, in Siria, cioè nel paese dei bombardamenti immaginari con gas nervino sulla popolazione inerme, disposti dal feroce regime di Assad sul quale proprio l’elegantissimo Obama stava per scatenare l’Armageddon missilistico. Lo schema è classico, ormai datato ma sempre formidabile: la fanfara mediatica suona la sua canzone, che poi a casa – davanti al televisore – fischiettano tutti. E quelli che si rifiutano (non più così pochi, ormai) spesso cadono nel tranello del festival opposto, che poi è l’altra faccia della stessa medaglia. Complottismo militante: caccia al Colpevole Unico, al reprobo di turno. Uno sport che, secondo Gianfranco Carpeoro, finisce sempre per assolvere il solo, vero responsabile: il sistema.
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Tutti più poveri, grazie alle privatizzazioni imposte all’Italia
La tragedia di Genova ha contribuito a spostare l’agenda del dibattito pubblico sull’alternativa fra privatizzazione e nazionalizzazione. In premessa: nel caso italiano, appare difficile negare che le privatizzazioni abbiano prodotto più danni che benefici. Si sono realizzate essenzialmente attraverso la cessione di monopoli pubblici a monopoli privati, con conseguente aumento delle tariffe e, molto spesso, con peggioramento della qualità dei servizi erogati. A partire dagli anni Novanta si è assistito a un rilevante passo indietro dell’intervento pubblico in economica. Ovviamente si è trattato di un fenomeno globale, che, come spesso accade, l’Italia ha sperimentato più tardi (la prima ondata di privatizzazioni in Europa si ha nell’Inghilterra della signora Thatcher negli anni Ottanta) e, quando lo ha sperimentato, lo ha fatto con la massima accelerazione. Il ritiro dello Stato si registra in un notevole dimagrimento del settore pubblico italiano, in particolare per numero di addetti. L’intero settore pubblico italiano nelle due diverse ramificazioni è nei fatti il più sottodimensionato d’Europa.L’ultima rilevazione Ocse ci informa che, mentre nel nostro paese la pubblica amministrazione assorbe circa 3.400 lavoratori, in Francia e nel Regno Unito, paesi con una popolazione e un Pil pro-capite di entità simile alla nostra, se ne contano rispettivamente 6.200 e 5800. Negli Stati Uniti – paese tradizionalmente guardato come una vera economia di mercato – il numero di dipendenti pubblici è di circa il 25% superiore al nostro. Si può aggiungere che, in Italia, l’occupazione nel settore pubblico riguarda prevalentemente individui con elevata scolarizzazione. In più, la convinzione che i dipendenti pubblici siano ben retribuiti e godano di eccesso di protezioni è palesemente smentita sul piano empirico. L’Istat registra un aumento della retribuzione oraria netta del 21% su base annua per i lavoratori del settore privato, a fronte di incrementi pressoché nulli nel settore pubblico. E si calcola che la gran parte dei contratti a tempo determinato sono somministrati dalla pubblica amministrazione. Dunque, i dipendenti pubblici, in media, guadagnano meno dei loro colleghi del settore privato e sono più frequentemente assunti con contratti precari.Per quanto riguarda la produttività del lavoro nel settore pubblico, pure a fronte delle rilevanti difficoltà di misurazione, e pur volendo accettare la tesi che questa è più bassa rispetto al settore privato, occorre ricordare che l’operatore pubblico svolge, di norma, le proprie funzioni in quelle che William Baumol definiva “attività stagnanti”, ovvero attività nelle quali (si pensi ai servizi alla persona) risulta impossibile generare avanzamento tecnico e, dunque, incrementi di produttività. In tal senso, se anche si ritiene che il ‘merito’ del singolo lavoratore sia misurabile e che lo sia anche nei servizi nel settore pubblico, da ciò non si può immediatamente dedurre che questa conclusione discende dal basso rendimento degli occupati, potendo più realisticamente dipendere dalla bassa accumulazione di capitale. Si calcola anche che il tasso di assenteismo dei lavoratori del settore pubblico italiano è in linea con la media europea. I fautori delle privatizzazioni sostengono che l’operatore privato è sempre più efficiente dell’operatore pubblico. Lo Stato deve limitarsi a creare le condizioni necessarie affinché l’esercizio della libertà d’impresa avvenga nel rispetto delle norme e dei contratti vigenti.Nella fattispecie della società Autostrade, si propone (così Confindustria) l’istituzione di una commissione che esamini le concessioni e vigili sullo svolgimento del servizio. Non si ammette quello che si considera il ritorno ai “carrozzoni di Stato”. Per contro, i fautori delle nazionalizzazioni ritengono che possa essere solo lo Stato a svolgere funzioni di interesse generale e, nel caso della società Autostrade, propongono (in linea con il governo) la revoca della concessione. Quest’ultima posizione è condivisibile, se non altro per come è stato gestito il processo di privatizzazione in Italia, con una puntualizzazione, che riguarda la selezione dei nostri manager pubblici. Si tratta di una questione pressoché ignorata, ma rilevante. Su fonte ministero dell’economia e delle finanze, risulta che l’Italia ha pochi dirigenti pubblici, molto meno dei principali paesi europei. Risulta anche che sono mediamente più anziani. Soprattutto risulta assente una scuola di alta formazione, come esiste in altri paesi europei (si pensi al caso francese).Vi è di più. La lunga stagione delle privatizzazioni – durata almeno un ventennio in Italia, nella sostanziale assenza di voci critiche – coincise con la cosiddetta svolta neoliberista e con la convinzione che oltre a generare maggiore efficienza, la cessione di asset pubblici a privati fosse necessaria per aumentare il gettito fiscale e generare avanzi primari. Le privatizzazioni – intenzionalmente o meno – servivano anche ad accrescere le diseguaglianze distributive, sia per l’aumento delle tariffe, sia perché – e per conseguenza – l’accesso a servizi privati è più difficile per i percettori di redditi bassi. Si riteneva che l’aumento delle diseguaglianze fosse un motore di crescita attraverso i cosiddetti effetti di sgocciolamento: i ricchi, in quanto più produttivi (per ipotesi), contribuiscono maggiormente alla crescita economica, rendendo successivamente possibili misure di trasferimento a vantaggio dei più poveri. La redistribuzione a vantaggio dei più ricchi si è verificata, lo sgocciolamento no.La convinzione per la quale le privatizzazioni servono ad aumentare le entrate fiscali e a generare crescita è molto problematica e, nei fatti, sembra essere falsa. Ciò a ragione del fatto che, per definizione, esse implicano – come si è verificato in Italia – una riduzione delle dimensioni del settore pubblico. Come certificato dall’Inps, il primo effetto (ovvio e prevedibile) derivante dalla riduzione del numero di dipendenti pubblici è proprio la riduzione delle entrate fiscali. Il privato può più facilmente evadere o eludere. Il secondo (altrettanto prevedibile) risultato consiste nell’accentuazione della caduta della domanda interna, per il tramite dei minori consumi derivanti dalla decurtazione dei redditi nel pubblico impiego. Il terzo risultato è il peggioramento della qualità dei servizi offerti, come conseguenza (anch’essa ovvia) della riduzione del numero di occupati.(Guglielmo Forges Davanzati, “Alcuni effetti indesiderati delle privatizzazioni in Italia”, da “Megachip” del 21 agosto 2018).La tragedia di Genova ha contribuito a spostare l’agenda del dibattito pubblico sull’alternativa fra privatizzazione e nazionalizzazione. In premessa: nel caso italiano, appare difficile negare che le privatizzazioni abbiano prodotto più danni che benefici. Si sono realizzate essenzialmente attraverso la cessione di monopoli pubblici a monopoli privati, con conseguente aumento delle tariffe e, molto spesso, con peggioramento della qualità dei servizi erogati. A partire dagli anni Novanta si è assistito a un rilevante passo indietro dell’intervento pubblico in economica. Ovviamente si è trattato di un fenomeno globale, che, come spesso accade, l’Italia ha sperimentato più tardi (la prima ondata di privatizzazioni in Europa si ha nell’Inghilterra della signora Thatcher negli anni Ottanta) e, quando lo ha sperimentato, lo ha fatto con la massima accelerazione. Il ritiro dello Stato si registra in un notevole dimagrimento del settore pubblico italiano, in particolare per numero di addetti. L’intero settore pubblico italiano nelle due diverse ramificazioni è nei fatti il più sottodimensionato d’Europa.
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Progressisti, smettete di votare il fascismo bianco del Pd
Conosco molte persone che votano Pd, +Europa e LeU. Conosco ancora piú persone che questi partiti hanno smesso di votarli. Quello che quasi tutti questi amici hanno in comune è che sono mossi da valori sinceramente progressisti; valori di libertà, giustizia sociale e democrazia. La differenza tra coloro che votano ancora i partiti della sedicente sinistra e coloro che hanno deciso di non votarli, è che questi ultimi si sono resi conto che i partiti della sedicente sinistra non perseguono più, nei fatti, quei valori di cui continuano a pretendere di essere i portavoce. I partiti della sedicente sinistra continuano a sostenere di volere fare l’interesse del popolo ma, al di là della narrativa e dei discorsi, si sono piegati ad una visione dell’economia (quella neoliberista) che è sostanzialmente incompatibile con la democrazia liberale in quanto mette gli interessi di poche corporazioni private davanti all’interesse ed al volere della collettività. La dittatura, nel mondo occidentale, esiste: è la dittatura del capitale finanziario. Il “fascismo bianco” (come lo chiama Tremonti – il fascismo perpetuato tramite debito pubblico, spread, rapporto deficit-Pil, etc…) limita libertà e diritti e sovverte il volere popolare, svuotando le istituzioni di democrazia quanto una qualunque dittatura militare – per quando certamente in modo diverso.Questa Unione Europea è un fulgido esempio di come il Fascismo Bianco – l’Econocrazia – possa mantenere le apparenze di una democrazia liberale nonostante le istituzioni democratiche ne vengano quotidianamente svuotate. L’Europa unita – che doveva essere l’Europa dei Popoli – è un infatti esempio di come le istituzioni democratiche possano essere controllate ed usate per perseguire interessi finanziari particolari piuttosto che il volere ed il benessere della collettivitá; non a caso il Parlamento Europeo è l’unico Parlamento al mondo a non avere il potere legislativo. La condizione politica in cui viviamo si concretizza in un paradosso che è ancora difficile da affrontare e capire per molti: chi si definisce progressista non può che combattere i partiti della sedicente sinistra; chi si dice sinceramente europeista non può non criticare queste istituzioni europee… Per ritornare a lottare per la realizzazione di un modello di società basato su libertà, pari opportunità e giustizia sociale, bisogna combattere una dittatura che usa l’economia, e gli indicatori economici, per svuotare di democrazia sostanziale le democrazie liberali.Noi europei non siamo più abituati alla dittatura e, al momento, i nostri bisogni primari (sicurezza, cibo) ci sono garantiti (il diritto alla salute e quello all’istruzione sono i primi ad essere sotto attacco). Ma c’è chi, essendo abituato alla dittatura, aveva uno sguardo più smaliziato e attento alla sostanza delle cose, e capì benissimo che ruolo aveva il cosiddetto “debito pubblico” (che altri chiamano “ricchezza pubblica”) nel limitare il potere delle democrazie. Sankara, personaggio politico sconosciuto a molti (non era un fulgido liberale, come avrei preferito io, ma piuttosto aveva tendenze marxiste), è morto per difendere il proprio popolo dallo strumento principe di controllo della dittatura bianca: il debito. A coloro che si considerano europeisti, democratici, e liberali, consiglio vivamente di vedere questo video del discorso di Sankara alle Nazioni Unite. Oggi, la strategia del debito che veniva usata per controllare l’Africa, viene usata per controllare le democrazie europee. A tutti coloro che sono animati da sentimenti davvero progressisti, umanitari, libertari e sociali, consiglio davvero di considerare cosa si cela dietro la narrativa che compara il debito pubblico al debito privato.A tutti coloro che continuano a votare la sedicente sinistra consiglio di chiedersi se le persone cui fanno riferimento, esperti di politica da anni, davvero non siano consapevoli di come le attuali (mancate) politiche economiche siano strumentali a guidare una involuzione antidemocratica. Anche nel ‘32, quando Roosevelt vinse le elezioni, il mondo della finanza premeva affinché “il popolo” pensasse al benessere delle generazioni future, evitando politiche di carattere espansivo. Roosevelt vinse le elezioni e, attraverso politiche economiche liberali di carattere fortemente espansivo (la celebre frase «dobbiamo solo avere paura della paura stessa», si riferiva proprio al debito) rilanciò l’economia americana. Quanta confusione c’è tra i sostenitori di +Europa tra liberalismo e neoliberismo… Anche l’Europa che conosciamo e tanto vogliamo difendere – quella liberale, dello stato sociale e delle pari opportunitá – è stata costruita su politiche economiche di carattere espansivo: si chiamava Piano Marshall. Nella storia recente, tutte le “crisi” economiche si sono superate con politiche economiche di carattere espansivo (o invasioni militari), non certo con misure di austerità volte a permettere il drenaggio di capitali e la conservazione del loro valore assoluto.Coloro che oggi sostengono questa Unione Europea, le sue istituzioni e le sue politiche economiche – considerando l’Ue come un fine e non come un mezzo per la difesa e la diffusione di libertà, giustizia sociale e democrazia – non sono europeisti, non sono liberali e non sono progressisti. Sono piuttosto persone manipolate dalla narrativa del mondo della finanza che mette Cbas (cost benefit analysis) davanti al benessere della collettività. Sono la finta intelligentija del fascismo bianco, usata dall’Econocrazia per fare propaganda. Pensando alle molte persone che ancora supportano i partiti della sedicente sinistra, mi domando come mai non riescano più a distinguere la narrativa dai fatti e a capire che sono stati raggirati: su tutti i temi politici sostanziali. È davvero incredibile come gli elettori del Pd e di +Europa, persone spesso di grande sensibilità social-liberale e progressista, siano completamente confuse. Anche quando si parla di immigrazione, oramai queste persone sembrano solo abituate a reagire con il loro grande cuore, senza però ricorrere alla mente e alla strategia.Certo, il cuore ci dice che bisogna aiutare e accogliere chi proviene da territori di guerra (anche se Roosevelt insegna che per aiutate gli altri bisogna prima combattere gli oppressori “interni”: povertà e mancanza di democrazia). Non potrei mai chiudere le porte a coloro che scappano da guerra e morte. Ma non si può aiutare il viandante che chiede copertura dal freddo se questo è l’unico, nel suo villaggio, ad essere riuscito a raggiungerci. Bisogna piuttosto dargli ago e filo e insegnarli a cucire, di modo che questo possa insegnare a cucire coperte a tutto il suo villaggio. Invece di coprire un uomo solo, un fortunato, avremo coperto tutti coloro che avevano freddo, ed avranno deciso di rimboccarsi le maniche. Spesso, i cosiddetti immigrati “economici” (definizione che odio, ma che userò) sono le persone piú avvantaggiate, colte e indignate; sono coloro che piú potrebbero aiutare il loro paese a rialzarsi. Invece di fare loro l’elemosina (con il solito senso di superiorità che caratterizza il “buonismo”) sarebbe meglio considerare quelle persone capaci di guidare una rivoluzione democratica e armarle di danaro, risorse e sponde politiche.Guardo oggi con simpatia e amarezza a coloro che, animati da un sentire progressista, social-liberale e democratico, votano partiti che di progressista non hanno nulla, e che criticano persino il principio della sovranità del popolo – cosí bene espresso nella nostra Costituzione. Guardo con simpatia e amarezza quegli amici che continuano a votare i partiti della sedicente sinistra. In fondo, anche loro come gli “immigrati economici”, preferiscono avere “fede” e chiedere aiuto all’alto (politica, religione) piuttosto che usare il loro senso critico e la loro iniziativa per rimboccarsi le maniche e combattere coloro che li raggirano quotidianamente, sfruttando la loro moralità e “insegnando” loro che bisogna obbedire al debito… Cari amici, usate il vostro senso critico; distinguete la narrativa dai fatti e mettetevi in gioco in prima persona. Decidete di tornare a lottare per democrazia, libertà e giustizia sociale – questo sì, per le generazioni future.(Marco Moiso, “Un pensiero per gli amici di Pd, +Europa e LeU”, dal blog del Movimento Roosevelt del 17 agosto 2018. Già coordinatore nazionale del movimento, Moiso è supervisore MR per il Regno Unito).Conosco molte persone che votano Pd, +Europa e LeU. Conosco ancora piú persone che questi partiti hanno smesso di votarli. Quello che quasi tutti questi amici hanno in comune è che sono mossi da valori sinceramente progressisti; valori di libertà, giustizia sociale e democrazia. La differenza tra coloro che votano ancora i partiti della sedicente sinistra e coloro che hanno deciso di non votarli, è che questi ultimi si sono resi conto che i partiti della sedicente sinistra non perseguono più, nei fatti, quei valori di cui continuano a pretendere di essere i portavoce. I partiti della sedicente sinistra continuano a sostenere di volere fare l’interesse del popolo ma, al di là della narrativa e dei discorsi, si sono piegati ad una visione dell’economia (quella neoliberista) che è sostanzialmente incompatibile con la democrazia liberale in quanto mette gli interessi di poche corporazioni private davanti all’interesse ed al volere della collettività. La dittatura, nel mondo occidentale, esiste: è la dittatura del capitale finanziario. Il “fascismo bianco” (come lo chiama Tremonti – il fascismo perpetuato tramite debito pubblico, spread, rapporto deficit-Pil, etc…) limita libertà e diritti e sovverte il volere popolare, svuotando le istituzioni di democrazia quanto una qualunque dittatura militare – per quando certamente in modo diverso.
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Galloni: erano soldi nostri, Genova sia l’inizio di una svolta
Poco meno di quarant’anni fa, il paese iniziò un percorso nuovo che l’avrebbe portato in un vicolo cieco, l’attuale vicolo cieco. Nel gennaio del 1981, infatti, facendo seguito a pressioni americane e mitteleuropee, il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta scrisse una semplice lettera all’allora governatore Carlo Azeglio Ciampi per informarlo che, da quel momento, la Banca d’Italia non era più obbligata ad acquistare i titoli del debito pubblico a bassissimi tassi di interesse che lo Stato non riusciva a vendere direttamente al mercato. Si voleva così sottrarre, senza passare per un voto parlamentare, alla classe politica corrotta e clientelare, lo strumento più importante, quello degli investimenti e della spesa pubblica produttiva. Da quel momento, in un colpo solo, lo Stato si vide equiparato a qualsiasi disgraziato che debba implorare soldi dalle banche, alle condizioni decise dal mercato cioè dalle banche stesse; il Tesoro non poté più decidere il tasso di interesse e, infatti, da allora il debito pubblico cominciò a schizzare dal 60% del Pil (1980) al 120% (1989).La spesa pubblica produttiva e per investimenti si contrasse, ma quella ordinaria e vincolata no, sicchè si ottenne esattamente l’opposto di quello che si auspicava: la qualità della spesa peggiorò; il paese si trovò in difficoltà; e la classe politica, sollevata dal compito di decidere le grandi strategie, si concentrò solo su clientelismo, corruzione e poltrone. Dopo il 1981 è stato un crescendo di misure volte a contenere la spesa pubblica e i disavanzi, accrescere la pressione fiscale, governare con l’assillo dei conti, legarsi sempre più mani e piedi per accettare quanto chiesto dall’Europa e ottenere un posto nell’euro in prima fila. Ma in questi quasi quarant’anni il mondo è cambiato radicalmente (sono aumentati esigenze, reti informatiche e telematiche, meccanizzazione delle infrastrutture, cambiamenti nell’edilizia civile e industriale, sensibilità per l’ambiente, la sicurezza e la salute); ma non si sono registrati sufficienti progressi sul fronte della cultura economica e politica. Si è accettata l’idea che le risorse pubbliche siano scarse e che i privati possano gestire tutte le attività meglio dello Stato.Quindi si è dimenticato che se talune attività è bene che vengano gestite con la logica del profitto, molti altri servizi (sanità, trasporti collettivi, infrastrutture) richiedono standard di sicurezza che per lo Stato sono investimenti e per i privati sono costi (da minimizzare). Ma se lo strumento delle privatizzazioni e l’obiettivo del profitto non risultano in certi casi adeguati perché gli operatori di Borsa guardano al livello del profitto e quest’ultimo è concorrente al costo della sicurezza, rimangono solo 4 strade. L’aumento delle tasse; ma nessuno lo vuole. L’aumento dei disavanzi pubblici, ma essi sono stati – a torto – demonizzati (invece si doveva continuare a finanziarli a bassi tassi di interesse). La moneta pubblica sovrana non a debito, ma quasi nessuno sa cos’è. Le partecipazioni statali che hanno vincolo di bilancio, ma non devono necessariamente massimizzare il profitto.Se non si accetta almeno uno dei 4 strumenti appena accennati è inutile ed ipocrita piangere i morti di Genova. Bisogna accettarli come le vittime di una guerra; una guerra che gli italiani stanno perdendo, come altri popoli, ma che – ora – debbono dimostrare di non volere. Non volete pagare troppe tasse o veder aumentare il debito pubblico? Benissimo, allora delle due l’una: o accettate le vittime derivanti da insufficiente manutenzione del territorio e delle infrastrutture o vi decidete a pensare in termini di sovranità monetaria e di ritorno alla spesa pubblica produttiva. Ogni Stato dell’Eurozona può emettere mezzi monetari a sola circolazione nazionale con cui pagare gli investimenti necessari: gli Stati e le banche centrali diversi dalla Bce non possono emettere banconote e moneta a corso legale in tutta l’Eurozona (articolo 128 del Trattato di Lisbona), ma nulla vieta la emissione di Statonote, monete di pezzatura non standard o biglietti di Stato a sola circolazione nazionale… Pensiamoci!(Nino Galloni, “Perché Genova sia l’inizio di una svolta”, da “Scenari Economici” del 19 agosto 2018. Autorevole economista neo-keynesiano, già allievo del professor Federico Caffè, Galloni è vicepresidente del Movimento Roosevelt).Poco meno di quarant’anni fa, il paese iniziò un percorso nuovo che l’avrebbe portato in un vicolo cieco, l’attuale vicolo cieco. Nel gennaio del 1981, infatti, facendo seguito a pressioni americane e mitteleuropee, il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta scrisse una semplice lettera all’allora governatore Carlo Azeglio Ciampi per informarlo che, da quel momento, la Banca d’Italia non era più obbligata ad acquistare i titoli del debito pubblico a bassissimi tassi di interesse che lo Stato non riusciva a vendere direttamente al mercato. Si voleva così sottrarre, senza passare per un voto parlamentare, alla classe politica corrotta e clientelare, lo strumento più importante, quello degli investimenti e della spesa pubblica produttiva. Da quel momento, in un colpo solo, lo Stato si vide equiparato a qualsiasi disgraziato che debba implorare soldi dalle banche, alle condizioni decise dal mercato cioè dalle banche stesse; il Tesoro non poté più decidere il tasso di interesse e, infatti, da allora il debito pubblico cominciò a schizzare dal 60% del Pil (1980) al 120% (1989).
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Altro che Torino-Lione, c’è da salvare un’Italia a pezzi
Quando un viadotto autostradale si sbriciola in un secondo seppellendo morti e feriti, tutte le parole sono inutili. Ma quelle di chi incolpa la pioggia, il fulmine, il cedimento strutturale, la tragica fatalità imprevedibile, il destino più cinico e più baro della “costante manutenzione”, sono offensive. Se l’ennesima catastrofe da cemento disarmato si potesse prevedere, lo accerteranno i tecnici e i giudici. Ma che si potesse prevenire già lo sappiamo, visto che il ponte Morandi aveva due gemelli italiani, di cui uno già a pezzi e l’altro in manutenzione: per tenere sotto osservazione il terzo non occorreva uno scienziato, bastava il proverbio “non c’è il 2 senza il 3”. Se “il monitoraggio era costante”, allora faceva schifo. Se non c’erano “avvisaglie”, è perché non erano state rilevate. Ora, come dopo ogni terremoto o alluvione di media entità e di enorme tragicità, rieccoci a far la conta dei morti e dei danni, mentre le “autorità” giocano allo scaricabarile. E i palazzinari e i macroeconomisti si fregano le mani per gli affari e gli effetti sul Pil della ricostruzione.Se il “governo del cambiamento” vuole cambiare qualcosa, deve partire proprio di qui. Cioè da zero. Con scelte di drastica discontinuità col passato: rivedere le concessioni ai privati che lucrano sui continui aumenti delle tariffe in cambio di manutenzioni finte o deficitarie; e annullare le grandi opere inutili, dal Tav Torino-Lione in giù, per dirottare le enormi risorse (anche ridiscutendone la destinazione con l’Ue) su piccole e medie opere di manutenzione, prevenzione e ammodernamento delle infrastrutture esistenti (finora ignorate perché la grandezza dei lavori e delle spese è direttamente proporzionale a quella delle mazzette). Da quando i partiti che hanno sgovernato finora hanno perso le elezioni e il potere, non fanno che esortare i successori a non disperdere il grande patrimonio ereditato. Invece proprio questo un “governo del cambiamento” deve fare: buttare a mare la pseudocultura dello “sviluppo” gigantista e della “crescita” faraonica; e invertire la scala dei valori e delle priorità.Il crollo di ieri ci dice che un ponte pericolante, figlio di un sistema marcio e corrotto, fa più danni di tutti i terroristi islamici, i migranti clandestini, le epidemie di morbillo e le altre “emergenze” farlocche o gonfiate che occupano l’agenda industrial-politico-mediatica. Se vuole cambiare seriamente, il governo si occupi di cose serie con politiche serie. Confindustria, Confcommercio, Confquesta, Confquellaltra e i loro giornaloni si metteranno a strillare? Buon segno: è a furia di dar retta a lorsignori che siamo finiti tutti sotto quel ponte.(Marco Travaglio, estratto dall’editoriale “Sotto i ponti” pubblicato dal “Fatto Quotidiano” il 15 agosto 2018 e ripreso da “Il Bene Comune Newsletter”).Quando un viadotto autostradale si sbriciola in un secondo seppellendo morti e feriti, tutte le parole sono inutili. Ma quelle di chi incolpa la pioggia, il fulmine, il cedimento strutturale, la tragica fatalità imprevedibile, il destino più cinico e più baro della “costante manutenzione”, sono offensive. Se l’ennesima catastrofe da cemento disarmato si potesse prevedere, lo accerteranno i tecnici e i giudici. Ma che si potesse prevenire già lo sappiamo, visto che il ponte Morandi aveva due gemelli italiani, di cui uno già a pezzi e l’altro in manutenzione: per tenere sotto osservazione il terzo non occorreva uno scienziato, bastava il proverbio “non c’è il 2 senza il 3”. Se “il monitoraggio era costante”, allora faceva schifo. Se non c’erano “avvisaglie”, è perché non erano state rilevate. Ora, come dopo ogni terremoto o alluvione di media entità e di enorme tragicità, rieccoci a far la conta dei morti e dei danni, mentre le “autorità” giocano allo scaricabarile. E i palazzinari e i macroeconomisti si fregano le mani per gli affari e gli effetti sul Pil della ricostruzione.
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Salvini: Bruxelles ha sulla coscienza i morti di Genova
«Salvini fa solo demagogia», proclama da Parigi il solito Macron, pensando all’ennesima crisi-migranti (la nave Aquarius “rimbalzata” nel Mediterraneo) poco prima che l’Italia letteralmente si fermi, alla vigilia di ferragosto, di fronte al disastro di Genova: almeno 37 morti sotto le macerie del viadotto Morandi, collassato – pare – per il cedimento (non inatteso) degli “stralli”, i tiranti d’acciaio che reggevano la gigantesca infrastruttura sospesa sul capoluogo ligure. Terrore, caos, emergenza nazionale: il governo Conte, tramite Salvini e Di Maio, annuncia la revoca della concessione ad Autostrade e una multa da 150 milioni, mentre il ministro Toninelli si aspetta le dimissioni dei vertici della società. Emergono notizie purtroppo risapute: l’allarme per la tenuta del viadotto era stato rilanciato più volte, negli ultimi anni. Il problema? Soldi non disponibili per le riparazioni. «Buona parte d’Italia è da mettere in sicurezza», dichiara Salvini, a caldo, davanti alle telecamere. «C’è da metter mano a strade e ponti, autostrade, scuole, argini». Chi ce lo vieta? Ovvio: il rigore di bilancio imposto da Bruxelles. «Se ci sono vincoli esterni che ci impediscono di spendere soldi (che avremmo) per mettere in sicurezza le scuole dove vanno i nostri figli o le autostrade dove viaggiano i nostri lavoratori, sarà il caso di porsi il dubbio se continuare a rispettare questi vincoli o se mettere, davanti a tutto e a tutti, la sicurezza degli italiani».Bingo: il leader della Lega ha centrato il punto. Se ne accorge anche “Bloomberg News”, che sottolinea: «Salvini punta il dito contro l’Ue per i morti a Genova». Commenta Paolo Barnard: «Concordo, ma sono silenti Tria, Conte e soprattutto Giulia Grillo, con oltre 60.000 italiani che muoiono, ogni anno, per le medesime ristrettezze economiche imposte dalla Ue». Ristrettezze «che hanno ucciso anche a Genova». E quindi, aggiunge Barnard, «Matteo Salvini mandi a Bruxelles quei conigli di Conte e Tria con 60.035 morti, non 37». Le dimensioni della catastrofe di Genova sono scioccanti: è crollato uno dei simboli dell’Italia del boom, risalente a mezzo secolo fa. Grandi opere (utili: non come il Tav Torino-Lione) che spinsero il “miracolo italiano”, sostenuto da poderosi investimenti pubblici sotto forma di deficit. Poi l’avvento nel neoliberismo, la fine della Prima Repubblica sotto i colpi di Mani Pulite e la grande stagnazione avviata con la nascita dell’Unione Europea e l’ingresso nell’Eurozona, che ha trasformato il debito pubblico: da leva stragegica per lo sviluppo a vera e propria tragedia nazionale, sotto il ricatto dello spread (la speculazione finanziaria sui titoli di Stato, non più sorretti dalla banca centrale come “prestatore di ultima istanza”).Uno schema evidenziato, in modo spettrale, dal martirio socio-economico della Grecia non più sovrana: prima la sovraesposizione debitoria incoraggiata dagli “stregoni” della Goldman Sachs, tra cui Mario Draghi, e poi – di fronte all’impossibilità di sostenere un maxi-debito non denominato in moneta nazionale, la condanna a ripagarlo per intero, imposta dal Fmi grazie a super-tecnocrati come Carlo Cottarelli. Il crollo del mastodontico viadotto genovese avvicina pericolosamente l’Italia alla Grecia: è un cedimento altamente simbolico, una sinistra premonizione. Certo, la situazione dovrà essere chiarita nei dettagli. Lo stesso Salvini pretende innanzitutto giustizia per i familiari delle vittime e chiede che l’inchiesta avviata dalla magistratura possa fornire indicazioni chiare su chi sono i responsabili di quanto accaduto: «Serve chiarezza, non può esserci un’altra strage senza colpevoli e qui hanno nomi e cognomi ben precisi: qualcuno deve finire in galera», dichiara il ministro dell’interno ai microfoni del Tg4. Ma è meglio risparmiarsi le speculazioni politiche spicciole: «Da ore in rete girano interrogazioni a questa o quella persona, ma non me la prendo con Delrio, perché non fa l’ingegnere nemmeno lui», aggiunge Salvini, evitando di “sparare” sul precedessore di Toninelli.Salvini punta giustamente al bersaglio grosso, Bruxelles: cioè il gran consiglio di tecnocrati non-eletti ai quali il governo gialloverde intende strappare larghe concessioni ai vincoli di bilancio, per poter finanziare Flat Tax e reddito di cittadinanza. Il leader della Lega sembra pronto a far pesare anche i morti di Genova: con più soldi da spendere a deficit, la tragedia si sarebbe evitata. L’inizio della fine, per noi? L’austerity varata da Monti e l’obbligo “criminale” del pareggio di bilancio inserito addirittura nella Costituzione, con il placet di Berlusconi e Bersani. Tra le macerie genovesi crolla anche la “teologia” neoliberista che predica la necessità dei tagli pubblici: l’economista post-keynesiano Nino Galloni ricorda che ogni atto di spesa produce un ritorno, in termini di Pil, anche del 300%. Impugnando lo sfacelo di Genova, l’Italia potrebbe rilanciare la sua sfida, da cui – ormai l’hanno capito tutti – può dipendere il futuro assetto politico dell’intera Europa. Per questo la Merkel tace, e il supermassone filo-vaticano Macron continua a latrare, in modo inaudito, contro il governo per il quale oltre il 60% degli italiani fa apertamente il tifo.«Salvini fa solo demagogia», proclama da Parigi il solito Macron, pensando all’ennesima crisi-migranti (la nave Aquarius “rimbalzata” nel Mediterraneo) poco prima che l’Italia letteralmente si fermi, alla vigilia di ferragosto, di fronte al disastro di Genova: almeno 37 morti sotto le macerie del viadotto Morandi, collassato – pare – per il cedimento (non inatteso) degli “stralli”, i tiranti che reggevano la gigantesca infrastruttura sospesa sul capoluogo ligure. Terrore, caos, emergenza nazionale: il governo Conte, tramite Salvini e Di Maio, annuncia la revoca della concessione ad Autostrade e una multa da 150 milioni, mentre il ministro Toninelli si aspetta le dimissioni dei vertici della società. Emergono notizie purtroppo risapute: l’allarme per la tenuta del viadotto era stato rilanciato più volte, negli ultimi anni. Il problema? Soldi non disponibili per le riparazioni. «Buona parte d’Italia è da mettere in sicurezza», dichiara Salvini, a caldo, davanti alle telecamere. «C’è da metter mano a strade e ponti, autostrade, scuole, argini». Chi ce lo vieta? Ovvio: il rigore di bilancio imposto da Bruxelles. «Se ci sono vincoli esterni che ci impediscono di spendere soldi (che avremmo) per mettere in sicurezza le scuole dove vanno i nostri figli o le autostrade dove viaggiano i nostri lavoratori, sarà il caso di porsi il dubbio se continuare a rispettare questi vincoli o se mettere, davanti a tutto e a tutti, la sicurezza degli italiani».