Archivio del Tag ‘Piero Fassino’
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Travaglio: Sì Tav, le ridicole frottole della Banda del Buco
Dopo aver sorseggiato i fiumi d’inchiostro versati dai “giornaloni” sull’oceanica manifestazione Sì Tav del 3 novembre a Torino, «che ha visto sfilare nientepopodimenoché un torinese su 35 o un piemontese su 177», una domanda sorge spontanea: cosa sapeva tutta questa brava gente del Tav Torino-Lione? «Si spera vivamente che ne sapesse un po’ di più di una delle sette “madamine” organizzatrici dell’evento, Patrizia Ghiazza, cacciatrice di teste all’evidenza sfortunata», che l’altra sera esibiva tutta la sua competenza a “Otto e mezzo”, ammettendo: «Né io né le altre organizzatrici siamo competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera». Sul serio? «Non male – scrive Marco Travaglio – per una manifestazione apolitica e apartitica, ma soltanto tecnica, sul merito del treno merci ad alta velocità (anzi, a bassa, perché le merci di solito viaggiano a non più di 100-120 km l’ ora)». Essendosi “informati” sui giornaloni che hanno sponsorizzato la Lunga Marcia, aggiunge Travaglio sul “Fatto Quotidiano”, «era prevedibile che organizzatori e partecipanti ne sapessero pochino, e che quel pochino fosse falso». Infatti «sventolavano cartelli “Sì alla Tav”, ignorando che è l’acronimo di Treno Alta Velocità, dunque è maschile, con buona pace di “Stampubblica” che ha spacciato l’iniziativa per una “rivolta delle donne” contro non si sa bene cosa, anche se in piazza sfilavano soprattutto maschietti di una certa età».L’acronimo, fra l’altro, è una patacca (femminile), perché per le merci l’espressione giusta è Treno ad Alta Capacità (Tac). «I marciatori, e Salvini a ruota, ripetevano che l’opera va assolutamente “completata”: ma un’opera – sottolinea Travaglio – si completa quando è già iniziata, e qui non è stato costruito nemmeno un millimetro di ferrovia». Il cantiere che tutti vedono da 7 anni è quello del tunnel esplorativo di Chiomonte, che «nulla a che vedere con l’opera vera e propria, il “tunnel di base”, cioè il mega-buco dovrebbe attraversare 57 chilometri di montagna e che fortunatamente non esiste: le gare d’appalto non sono state neppure bandite». Dunque, insiste Travaglio, non c’è nulla da completare. Qualcuno sogna di salire un giorno a bordo del mirabolante supertreno? Escludendo che i Sì Tav si considerino merci, resteranno mestamente a terra anche se l’opera venisse realizzata. «Chi volesse invece raggiungere ad alta velocità Parigi o Lione da Milano o da Torino, può montare sul comodo Tgv, che dalla notte dei tempi percorre rapidamente quella tratta». Ma i nostri eroi «strillano contro “l’isolamento dell’Italia” e per il “collegamento con l’Europa”, evidentemente ignari dell’esistenza del Tgv da e per la Francia, dei treni veloci da e per la Svizzera e così via».Forse, aggiunge Travagalio, pensano che per affacciarsi oltre la cinta daziaria sia necessario scalare le Alpi a piedi? “Monsù e madamine” saranno tutti interessati al trasporto merci? «Benissimo, allora possono stare tranquilli: le loro merci da trasportare ad altissima velocità da Torino a Lione possono depositarle in uno a caso dei container (perlopiù vuoti) che ogni giorno viaggiano sui treni della tratta Torino-Modane-Chambéry-Culoz, che dal 1871 attraversa il Frejus, ci è appena costata 400 milioni per lavori di ammodernamento ed è inutilizzata all’80-90%». Alla marcia torinese c’era pure Paolo Foietta, commissario dell’Osservatorio Tav: qualcuno avrebbe potuto domandargli con che faccia sostenga ancora l’utilità dell’opera, dopo avere scritto un anno fa al governo Gentiloni che «molte previsioni fatte 10 anni fa, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali della Ue, sono state smentite dai fatti». E chissà se quanti invocano “lavoro” sanno che «attualmente nel cantiere lavorano appena 800 persone, che salirebbero a non più di 3-4mila per il tunnel di base, con un costo stratosferico per ogni occupato». La delibera 67 emanata dal Cipe nel 2017 stima il costo complessivo del solo tunnel di base in 9,6 miliardi: il 57,9% lo paga l’Italia e solo il 42,1 la Francia (anche se il tunnel insiste per l’80% in territorio francese e solo per il 20 in territorio italiano: perché?). E chissà se chi si riempie la bocca di paroloni come “futuro”, “sviluppo”, “modernità” è stato informato che, in 17 anni di studi e carotaggi, «abbiamo già buttato 1,6 miliardi, oltre a tenere la val di Susa in stato d’assedio permanente».Ora, continua Travaglio, servono sulla carta un’altra quindicina di miliardi, che poi nella realtà salirebbero a 20-25, dato che «le grandi opere in Italia lievitano in media del 45%». È questa la “decrescita infelice” che ci attenderebbe, per colpa del Tav, e non «quella di chi si oppone a un’opera ad altissima voracità e a bassissima occupazione». E chi vaneggia di “penali da pagare” o di “fondi europei da restituire” o “da non perdere”, secondo Travaglio «ignora che la parola “penale” non compare in alcun contratto o accordo con la Francia, con l’Ue o con ditte private». L’Italia, sul suo tracciato, può fare ciò che vuole. Recita la legge 191 del 2009: “Il contraente o l’affidatario dei lavori deve assumere l’impegno di rinunciare a qualunque pretesa risarcitoria eventualmente sorta in relazione alle opere individuate… nonché ad alcuna pretesa, anche futura, connessa al mancato o ritardato finanziamento dell’intera opera o di lotti successivi”. Quanto all’Ue, assicura Travaglio, «finanzia solo lavori ultimati: se il Tav non si fa più, l’Italia non deve restituire un euro». Ora però le nostre disinformate “madamine” si sono montate la testa: «Chiedono udienza al Quirinale, danno ordini alla sindaca Appendino e al governo Conte», come se 25.000 persone in piazza contassero più dei quasi 11 milioni di italiani che hanno votato per i 5 Stelle (NoTav) nel 2018 e degli oltre 202.000 torinesi che nel 2016 hanno eletto la sindaca NoTav Chiara Appendino contro il Sì Tav Piero Fassino. «Invece i NoTav, che negli anni hanno portato in piazza ora 40 ora 50.000 persone, non se li è mai filati nessuno. A parte, si capisce, i manganelli della polizia».Dopo aver sorseggiato i fiumi d’inchiostro versati dai “giornaloni” sull’oceanica manifestazione Sì Tav del 3 novembre a Torino, «che ha visto sfilare nientepopodimenoché un torinese su 35 o un piemontese su 177», una domanda sorge spontanea: cosa sapeva tutta questa brava gente del Tav Torino-Lione? «Si spera vivamente che ne sapesse un po’ di più di una delle sette “madamine” organizzatrici dell’evento, Patrizia Ghiazza, cacciatrice di teste all’evidenza sfortunata», che l’altra sera esibiva tutta la sua competenza a “Otto e mezzo”, ammettendo: «Né io né le altre organizzatrici siamo competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera». Sul serio? «Non male – scrive Marco Travaglio – per una manifestazione apolitica e apartitica, ma soltanto tecnica, sul merito del treno merci ad alta velocità (anzi, a bassa, perché le merci di solito viaggiano a non più di 100-120 km l’ora)». Essendosi “informati” sui giornaloni che hanno sponsorizzato la Lunga Marcia, aggiunge Travaglio sul “Fatto Quotidiano”, «era prevedibile che organizzatori e partecipanti ne sapessero pochino, e che quel pochino fosse falso». Infatti «sventolavano cartelli “Sì alla Tav”, ignorando che è l’acronimo di Treno Alta Velocità, dunque è maschile, con buona pace di “Stampubblica” che ha spacciato l’iniziativa per una “rivolta delle donne” contro non si sa bene cosa, anche se in piazza sfilavano soprattutto maschietti di una certa età».
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Torino rottama il Tav Torino-Lione, super-bufala ferroviaria
Torino dice no al progetto per il treno ad alta velocità, Tav, tanto discusso che vorrebbe collegare il capoluogo piemontese con la città francese di Lione. È stata, infatti, approvata in Consiglio comunale con 23 voti favorevoli e 2 contrari la proposta di mozione del Movimento Cinquestelle che ha chiesto di fermare i lavori della linea oltre che le dimissioni dei vertici di Telt (l’ente responsabile della realizzazione dell’opera) e del commissario straordinario di governo Paolo Foietta, e la conversione dei fondi a iniziative di mobilità sostenibile. Le critiche non sono mancate né dentro né fuori il palazzo comunale: mentre gli industriali inscenavano una manifestazione a sostegno del “sì” al Tav, in aula venivano espulsi tutti i consiglieri del centrosinistra compreso l’ex sindaco Piero Fassino a seguito delle forti proteste. La città di Torino, che aveva formalizzato la sua contrarietà all’opera già nel 2016, chiede ora al governo di bloccare qualsiasi operazione indirizzata al suo avanzamento, almeno fino al termine delle valutazioni dell’analisi costi-benefici in corso e di cui si attendono i risultati a fine anno.L’analisi costi-benefici è una tecnica di valutazione utilizzata per prevedere gli effetti di un progetto, verificando se dall’impatto della sua realizzazione la società ottenga un beneficio o un costo netto. Viene considerato dagli economisti un supporto alla decisione pubblica poiché, attraverso la monetizzazione dei benefici e dei costi associati alla sua realizzazione, esso evidenzia la proposta migliore fra più alternative progettuali. Quella che si attende sul Tav Torino-Lione a fine anno è la seconda analisi fatta sul progetto. La prima è stata realizzata nel 2012 direttamente dall’osservatorio del collegamento ferroviario Torino-Lione, organo istituito nel 2006 con decreto ministeriale proprio per seguire i lavori di progettazione dell’opera. Non proprio un “ente terzo”, come si direbbe, ma anzi un soggetto che tra le proprie finalità ha quella di «esaminare, valutare e rispondere alle preoccupazioni espresse dalle popolazioni della valle di Susa», come riportato in un documento di sintesi. Diversi comuni della val di Susa però hanno scelto di sfilarsi dall’osservatorio, non condividendo il fatto che la realizzazione dell’opera non fosse messa in discussione. Tra questi anche il Comune di Torino guidato dai Cinque Stelle.L’analisi del 2012, oltre a essere arrivata in fase di progettazione già avviata (sei anni dopo l’istituzione dell’osservatorio), non è riuscita a tenere il passo dell’evoluzione negli anni successivi: alla decisione di ridimensionare il progetto iniziale, cioè a un Tav low cost, non è seguita una revisione dell’analisi costi-benefici le cui previsioni di traffico sono state peraltro largamente smentite dal governo nel 2017: «Non c’è dubbio che molte previsioni fatte quasi dieci anni fa, in assoluta buona fede, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione Europea, siano state smentite dai fatti. Lo scenario attuale è, quindi, molto diverso da quello in cui sono state prese a suo tempo le decisioni», ha scritto nero su bianco il Consiglio dei ministri. Intanto però, sulla base del “vecchio” progetto, sono stati spesi almeno 1,2 miliardi di euro per la fase di progettazione dell’opera e l’avvio dei lavori di scavo. Dopo la fase di progettazione dell’opera, il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica), con delibera pubblicata il 24 gennaio 2018, ha ordinato la realizzazione di due lotti costruttivi del tunnel transfrontaliero di base. Si tratta di un incarico con una spesa di 5,57 miliardi, dalla parte italiana, disposto in assenza di effettiva disponibilità di finanziamento.Infatti, né la Francia né l’Europa hanno ancora stanziato tutti i fondi, nonostante l’accordo tra Italia e Francia del 2012 preveda espressamente che i cantieri per la costruzione del tunnel di base non possano essere avviati senza la disponibilità di tutti i fondi per la realizzazione del progetto. La Francia non solo non ha iscritto nel suo bilancio la previsione di spesa del tunnel di base transfrontaliero ma, come si legge nella mozione presentata in Comune a Torino, «ha rinviato a dopo il 2038 ogni decisione in merito alle opere della tratta di sua competenza da realizzare sul suo territorio (ad esempio i tre tunnel di Belledonne, Glandon, Chartreuse)». Inoltre i lotti costruttivi, come spiegato in un esposto alla Corte dei Conti presentato dal Controsservatorio sulla Torino-Lione, non sono opere funzionali, quindi risultano inutilizzabili fino a opera finita. «Non c’è una definizione giuridica di cosa sia un lotto costruttivo», spiega il Controsservatorio nel suo esposto, «ma in sostanza si tratta, dato un progetto complessivo di un’opera pubblica, di una parte dell’opera che corrisponde allo stanziamento disponibile in quel momento e di per sé non sufficiente a realizzare l’intera opera. Il lotto così costruito non serve di per sé né può essere utilizzato». Quindi l’opera procede ma senza la sicurezza di poter finire i lavori. E il tutto, come già visto, sulla base di un’analisi costi-benefici non aggiornata.I sostenitori del “no” al Tav, considerano “sproporzionata” la ripartizione dei costi: come stabilito dall’accordo tra Italia e Francia del 2012, la tratta transfrontaliera è infatti per il 57,9% a carico dell’Italia – sul cui territorio si trovano 12 chilometri su 57,5 totali, cioè solo il 21% del tracciato – e per il 42,1% a carico della Francia, sul cui territorio insistono gli altri 45,5 chilometri. E qui si arriva alla voce sui cui i sostenitori dell’opera insistono: il rischio di pagare delle penali. Che, secondo il Controsservatorio, si tratta di una bufala. «Non esiste alcun accordo internazionale sottoscritto dall’Italia nei confronti della Francia o dell’Europa che preveda l’esborso di penali in caso di ritiro unilaterale italiano», si legge sul sito dell’associazione. «Gli accordi bilaterali tra Francia e Italia non prevedono alcuna clausola che accolli a una delle parti, in caso di recesso, forme di compensazione per lavori fatti dall’altra parte sul proprio territorio. Pronti a fare ammenda se qualcuno fosse in grado di dimostrare il contrario».Dal lato dei Sì Tav, Sergio Chiamparino, presidente della Regione Piemonte, invoca il referendum, mentre Paolo Foietta, commissario di governo per l’alta velocità, più che di penali parla di costi da sostenere in caso di abbandono: secondo Foietta la stima ammonterebbe a oltre 2 miliardi, oltre al rischio di un contenzioso legale. I costi riguardano, sempre secondo il commissario, la smobilitazione dei cantieri e delle attrezzature, i costi per la messa in sicurezza delle opere fin qui realizzate e la restituzione dei finanziamenti comunitari erogati per mancata realizzazione delle opere a venire. Ma il Controsservatorio ha ribadito che, «al fine di evitare ogni contenzioso con l’Unione Europea e le imprese», è sufficiente che «Telt non lanci gare di appalto e non contragga qualsivoglia impegno con chicchessia fino al momento in cui, nel rispetto dell’articolo 16 dell’Accordo di Roma, i tre soci finanziatori del progetto Torino-Lione (Ue, Francia e Italia) non abbiano garantito con atti formali (leggi dello Stato) tutti i fondi necessari all’intera realizzazione dell’opera». Atti che al momento non sono ancora pervenuti.(Maurizio Bongioanni, “Torino dice no al Tav, cosa vuol dire per il progetto e i fondi stanziati finora”, da “Lifegate” del 31 ottobre 2018).Torino dice no al progetto per il treno ad alta velocità, Tav, tanto discusso che vorrebbe collegare il capoluogo piemontese con la città francese di Lione. È stata, infatti, approvata in Consiglio comunale con 23 voti favorevoli e 2 contrari la proposta di mozione del Movimento Cinquestelle che ha chiesto di fermare i lavori della linea oltre che le dimissioni dei vertici di Telt (l’ente responsabile della realizzazione dell’opera) e del commissario straordinario di governo Paolo Foietta, e la conversione dei fondi a iniziative di mobilità sostenibile. Le critiche non sono mancate né dentro né fuori il palazzo comunale: mentre gli industriali inscenavano una manifestazione a sostegno del “sì” al Tav, in aula venivano espulsi tutti i consiglieri del centrosinistra compreso l’ex sindaco Piero Fassino a seguito delle forti proteste. La città di Torino, che aveva formalizzato la sua contrarietà all’opera già nel 2016, chiede ora al governo di bloccare qualsiasi operazione indirizzata al suo avanzamento, almeno fino al termine delle valutazioni dell’analisi costi-benefici in corso e di cui si attendono i risultati a fine anno.
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Cottarelli e Macron, il vero partito che rema contro l’Italia
Attenti a Carlo Cottarelli: non lavora per l’Italia, ma per il “partito” trasversale (italiano) che vuole mantenere il nostro paese in crisi perenne. Un avvertimento che, sul “Sussiadiario”, Federico Ferraù rilancia, intervistando il professor Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale all’Università Cattolica di Milano. Pur senza essere esplicitamente nominato, l’ex commissario alla spending review del governo Letta – ormai ospite fisso dei maggiori talkshow, incluso il salotto televisivo di Fabio Fazio – è definito “Manciurian candidate”, cioè cavallo di Troia e quinta colonna di poteri esterni al nostro paese. Letteralmente: «Un economista che rilascia interviste da premier in pectore, facendo della riduzione del deficit e del debito il comandamento di una religione secolare». Tutto questo, «in attesa che il patto M5S-Lega si rompa, magari con l’aiuto del Colle», cioè di quel Mattarella che la candidatura Cottarelli l’aveva agitata come minaccia, in alternativa a quella di Conte, subito dopo aver bocciato la proposta di Paolo Savona come ministro dell’economia. Neoliberista, a lungo dirigente del Fmi, Cottarelli è considerato – insieme a Mario Draghi, allora dirigente di Goldman Sachs – uno dei maggiori responsabili della catastrofe abbattuasi sulla Grecia. Da tempo ci prova anche con l’Italia. La sua ricetta? Quella di Monti: deprimere l’economia tagliando il deficit. Agisce da solo, Cottarelli? Niente affatto: si muove in tandem con Emmanuel Macron.Lo stesso Ferraù definisce l’inquilino dell’Eliseo «un antipopulista a vocazione continentale che fa il populista alla bisogna, approfittando del fatto che il suo paese è ancora troppo importante per fallire». Macron e Cottarelli, sottolinea il professor Mangia, fanno parte dello stesso disegno anti-italiano: non ordito “dalla Francia” o “dalla Germania”, bensì da un cartello di poteri economici, che agiscono – inseguendo esclusivamente i propri interessi privatistici – all’insaputa degli stessi francesi e tedeschi. «In realtà – afferma Alessandro Mangia – ad essere vincitore, oggi, in Europa, è soltanto un blocco industriale e finanziario che dall’unificazione europea ha tratto solo vantaggi e ha distribuito gli svantaggi in modo più o meno equo tra i vari paesi d’Europa». Oggi Macron annuncia un’espansione del deficit francese, mentre Cottarelli tuona contro la ventilata (minima) crescita del disavanzo italiano? Niente di strano: quei poteri hanno bisogno che la Francia non crolli, per questo le consentono di sostenere la propria economia con una dose maggiore di debito pubblico. L’Italia, invece, “deve” crollare: a questo servono le prediche a reti unificate di Cottarelli, contro l’aumento della spesa invocato da Di Maio e Salvini per finanziare Flat Tax, pensioni e reddito di cittadinanza. La filosofia di Cottarelli? Quella, fallimentare, del Fmi: se infatti si taglia la spesa produttiva, decresce automaticamente il Pil e l’economia peggiora, aggravando il peso del debito pubblico.Dopo che Macron ha comunicato di voler aumentare il deficit fino al 2,8% per tagliare 25 miliardi di tasse, Di Maio ha detto: «Facciamo anche noi il 2,8% come loro». Domanda: perché l’Italia non può imitare i francesi? «Perché la Francia, nell’assetto attuale d’Europa – spiega Mangia – è un elemento essenziale per la tenuta del sistema di potere che si è instaurato dopo la crisi del 2010-2011». E quindi, chiarisce il professore, le va lasciato margine di manovra. Anche perché, senza la foglia di fico (francese) del famoso “asse franco-tedesco”, sarebbe evidente a tutti chi domina e chi è dominato, in Europa: «E l’Europa si ridurrebbe alla sola Germania e ai suoi sottoposti». In altre parole: in cambio di una parte in commedia, alla Francia viene lasciata maggiore libertà di bilancio. Solo che, «stanti le caratteristiche strutturali della moneta unica», questa maggiore libertà «si traduce in maggior debito e maggior deficit sull’estero». La spesa aggiuntiva francese, argomenta Mangia, viene fatta acquistando beni esteri — cioè tedeschi e italiani — perché costano meno di quelli francesi. Sicché, Macron potrà anche «tirare a campare, politicamente, come ha cercato di fare Hollande con l’esito che sappiamo», ma non farà altro che «aggravare la situazione e accumulare passivi sull’estero».E questo, sottolinea il professore, è esattamente ciò che succede da anni alla Francia, che «dopo sforamenti superiori al 5% (che noi ci sogneremmo) è su una china assai peggiore di quella dell’Italia: solo che non si può dire, se no viene giù tutta la messinscena dell’asse franco-tedesco e non si può più fare la voce grossa con Italia e Spagna». In più, se Bruxelles è di manica larga con Parigi, è anche per sostenere il suo uomo – Macron – ormai inviso al 70% dei francesi. La Francia, ricorda Alessandro Mangia, da oltre 10 anni sfora il tetto del 3% sul rapporto debito-Pil. Il paese è stabilmente in disavanzo commerciale sull’estero. Inoltre «ha un debito pubblico prossimo al 100% con un trend di stabile crescita e un volume superiore a quello italiano». La disoccupazione è stabile al 9% (in Italia è attorno all’11) con una manifattura «ormai secondaria, nel continente». Ancora: la Francia «è in stato d’emergenza dai tempi del Bataclan, e cioè dal novembre 2015, e ne è uscita (a parole) con il trucchetto di trasformare la legislazione d’emergenza in legislazione ordinaria, con quel che ne viene in termini di poteri della polizia su libertà personale e di riunione». Non solo: la Francia «riesce ad avere un governo solo grazie agli artifici di una legge elettorale a doppio turno, fatta apposta per drogare il consenso del vincitore».Come se non bastasse, l’Eliseo «sta cercando di approvare una riforma costituzionale osteggiata persino in quell’Assemblea nazionale dove la maggioranza drogata di “En Marche” dovrebbe essere netta e sicura». A fronte di tutto questo, aggiunge il professor Mancia, come stupirsi del fatto che Macron abbia problemi di popolarità? Tutto sommato, aggiunge, a Macron «sta andando ancora bene», se consideriamo che quel presidente, eletto in quel modo e con quell’esiguo consenso, «si è messo in testa di fare ai lavoratori francesi quello che è stato fatto ai lavoratori italiani dai governi Monti e Renzi in nome di “debito” e “competitività”, senza tener conto del fatto che sciopero generale e resistenza popolare fanno parte del mito repubblicano su cui si regge la Francia». Gli scandaletti come quello che ha coinvolto Macron e la sua guardia del corpo Alexandre Benalla? Un pretesto fisiologico per esprimere la protesta contro le scelte (politiche, non private) del presidente, «in un sistema istituzionale bloccato dalla mancanza di un voto di sfiducia, come è quello presidenziale della V Repubblica», dove «l’unico modo di liberarsi di un presidente è quello di costringerlo alle dimissioni». Mancando la possibilità del voto parlamentare di sfiducia, «poi si finisce con il parlare di stagiste e guardie del corpo come se fossero affari di Stato».Ma la Francia ha comunque due potenti frecce al suo arco: i 500 miliardi di euro che sottrae ogni anno a 14 ex colonie africane, più il fatto di essere rimasta – dopo la Brexit – l’unica potenza nucleare europea. «Nonostante le figuracce rimediate in Siria», afferma Mangia, la Francia è l’unica nazione in Europa a disporre di un deterrente nucleare, Per questo «è essenziale per calciare il barattolo europeo in avanti, parlando di Unione di Difesa, sessant’anni dopo il fallimento della Comunità Europea di Difesa». Tant’è vero che da qualche settimana, in Germania, «si parla di munire la Bundeswehr di armi nucleari tattiche, per non lasciare il monopolio del nucleare alla Francia». Il che, aggiunge Mangia, «dà la misura di quanto le attuali classi politiche europee siano stralunate, fino a diventare visionarie, ipotizzando un futuro indipendente dall’ombrello Usa», come se la Nato non esistesse più. E comunque, «la Francia è l’unico Stato dell’Unione ad avere una proiezione extracontinentale, vuoi per i territori d’oltremare, vuoi per l’aggancio valutario dei paesi subshariani attraverso il sistema del franco Cfa, perfettamente convertibile in euro a condizione che le ex-colonie depositino metà delle loro riserve valutarie in un conto in Francia».E guarda caso, puntualizza il professor Mangia, «stiamo parlando di quegli stessi paesi che da qualche anno ci inondano di profughi che naturalmente scappano da fame e guerra». Che la Francia abbia qualcosa a che fare con quello che viene presentato come un inarrestabile evento naturale che si produce – combinazione – proprio nelle sue ex colonie? «Non possiamo stupirci che, nell’insieme, la Francia abbia ancora un margine di manovra di fronte alla Commissione in tema di bilancio», ribadisce il professore. «A reggere la Francia è la sua proiezione di potenza, non la sua economia, che è messa male almeno quanto la nostra, anche se per ragioni diverse». E che posto ha l’Italia in questo gioco di poteri? «La Francia serve alla Germania, anche se l’unico paese dove può espandersi è ormai soltanto l’Italia, naturalmente con l’attiva collaborazione di buona parte delle nostre élites politiche». Fateci caso, osserva Alessandro Mangia: «Avete mai visto quanti e quali esponenti politici italiani sono stati insigniti della Legion d’onore? E’ impressionante». Tra i nomi più in vista svettano quelli di Massimo D’Alema e Franco Bassanini, Emma Bonino, Piero Fassino e Walter Veltroni, Dario Franceschini, Enrico Letta. E poi il renziano Sandro Gozi, Giovanna Melandri, Roberta Pinotti, Romano Prodi, i sindaci milanesi Giuliano Pisapia e Beppe Sala.«Qualcuno si è mai chiesto – si domanda Mangia – per quali ragioni la Francia dovrebbe conferire quella che, dai tempi di Napoleone, è la massima onorificenza della nazione a una schiera di politici italiani? Solo per spirito europeo?». L’amara verità, aggiunge il professore, è che in questa Europa ci sono paesi «più sovrani degli altri». Il risultato? E’ sotto i nostri occhi: ormai, a votare in massa per i cosiddetti sovranisti, o populisti – in Italia ma anche in Francia, Germania, Austria, Svezia – è quello che fino a dieci anni fa era ancora “ceto medio”, e oggi, «oltre ad essere impoverito, è insultato quotidianamente sui giornali». Viene bollato come “ignorante, incolto e xenofobo”, da quegli stessi media che accolgono come rivelazioni sensazionali le palesi falsità spacciate da Cottarelli, che “vende” come virtù il “risparmio” nei conti pubblici, paragonando il bilancio statale a quello di una famiglia o di un’azienda. «Semplici slogan che non hanno nessun fondamento economico», protesta Alessandro Mangia: «Gli Stati, se sono Stati, non possono essere equiparati a una famiglia per il semplice fatto che, in genere, le famiglie non possono stamparsi il denaro che gli serve per vivere, mantenersi e investire. Gli Stati, se sono davvero Stati, la moneta se la stampano. E il limite è dato da congiuntura economica e andamento generale dell’economia, come è sempre stato in Italia fino al divorzio Tesoro-Bankitalia».Il punto, aggiunge il professore, è che «la moneta unica ha ridotto gli Stati a dover dipendere dai fornitori di moneta, esattamente come le famiglie, e ha trasformato il debito virtuale di uno Stato nel debito reale di una collettività». E’ stato questo il vero passaggio dalla valuta nazionale all’euro: si è ottenuta «la creazione di un debito reale in capo alle collettività nazionali, in cambio di un ribasso temporaneo dei tassi di interesse». Dovremmo “ringraziare” a lungo chi ci ha portati in questa situazione, «che ha ucciso ogni libertà politica». E cioè: ha ucciso «la libertà di scegliere le politiche da praticare con l’esercizio del diritto di voto». Svuotamento della democrazia: «Certo, oggi si può ancora votare – aggiunge Mangia – ma alla fine le scelte possibili sono solo quelle dettate dalle regole europee sul bilancio. E mi sembra che i discorsi di questi giorni sullo “zero virgola” e sulla dialettica Tria-Di Maio ne siano la più perfetta dimostrazione». Ribellarsi a questo falso paradigma, basato sulla mistificazione ideologica del neoliberismo? Facile a dirsi, ma prima bisogna sbarazzarsi del cartello-ombra costituito da potenti connazionali che “remano contro” il nostro paese.«Esiste un partito, che diviene sempre più incalzante – scrive Ferraù, sul “Sussidiario” – per il quale il taglio del debito è divenuta una ricetta trans-economica, un credo, un obbligo morale, un modo di salvare l’Europa e l’Italia attenendosi, senza se e senza ma, alle direttive di Bruxelles e di Berlino». Come potrebbe spuntarla, il governo gialloverde, se il ministro Giovanni Tria appare sempre più nella veste del “pilota automatico”, sulle orme di Mario Draghi? Come ogni ministro del bilancio da Maastricht in poi, cioè dal 1992 – dice il professor Mangia – anche Tria «si trova a dover mediare tra quelle scelte politiche che i cittadini credono ancora di fare, quando vanno a votare, e i vincoli che la Commissione impone al bilancio, interpretando, modulando, calibrando i vincoli formali, dal Patto di Stabilità al Fiscal Compact». Gli interlocutori di Tria? «Non sono solo Di Maio e Salvini, ma la Commissione e gli altri ministri dell’Eurogruppo, che sono lì solo per fare gli interessi dei paesi di provenienza». L’unica domanda è: «Quand’è che noi smetteremo di fare gli interessi degli altri e di produrre – malamente, e con quello che passa il convento, che non è proprio granché – i nostri piccoli “Manchurian candidates”, cui affidare la continuazione di queste politiche? All’orizzonte ne vedo almeno uno», chiosa il professore. Non ne fa il nome, non ce n’è bisogno: per scoprire chi è basta accendere il televisore.Attenti a Carlo Cottarelli: non lavora per l’Italia, ma per il “partito” trasversale (italiano) che vuole mantenere il nostro paese in crisi perenne. Un avvertimento che, sul “Sussiadiario”, Federico Ferraù rilancia, intervistando il professor Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale all’Università Cattolica di Milano. Pur senza essere esplicitamente nominato, l’ex commissario alla spending review del governo Letta – ormai ospite fisso dei maggiori talkshow, incluso il salotto televisivo di Fabio Fazio – è definito “Manciurian candidate”, cioè cavallo di Troia e quinta colonna di poteri esterni al nostro paese. Letteralmente: «Un economista che rilascia interviste da premier in pectore, facendo della riduzione del deficit e del debito il comandamento di una religione secolare». Tutto questo, «in attesa che il patto M5S-Lega si rompa, magari con l’aiuto del Colle», cioè di quel Mattarella che la candidatura Cottarelli l’aveva agitata come minaccia, in alternativa a quella di Conte, subito dopo aver bocciato la proposta di Paolo Savona come ministro dell’economia. Neoliberista, a lungo dirigente del Fmi, Cottarelli è considerato – insieme a Mario Draghi, allora dirigente di Goldman Sachs – uno dei maggiori responsabili della catastrofe abbattutasi sulla Grecia. Da tempo ci prova anche con l’Italia. La sua ricetta? Quella di Monti: deprimere l’economia tagliando il deficit. Agisce da solo, Cottarelli? Niente affatto: si muove in tandem con Emmanuel Macron.
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Da Fassino a Salvini, il sovranismo nato nel 2005 in val Susa
Matteo Salvini si rassegni: dovrà davvero governare, ininterrottamente, per i prossimi trent’anni. Chi lo dice? La statistica. O meglio: la cronometrica precisione (a rovescio) delle famosissime previsioni-auspicio formulate da Piero Fassino. «Trent’anni di Salvini? Vediamo se gli darannoi i voti», ha detto l’ex dirigente del Pci-Pds, quindi ex ministro, ex capo dei Ds ed ex sindaco di Torino. Non gli era bastato, scrive Massimo Mazzucco, il celebre pronostico su Beppe Grillo, messo alla porta quando chiese – provocatoriamente – di partecipare alle inedite primarie del neonato Pd. «Grillo vuole governare? Fondi un suo partito – disse Fassino – e poi vediamo se prenderà i voti». Non pago, in qualità di primo cittadino torinese, lo stesso Fassino concesse una spassosa replica, rivolgendosi a Chiara Appendino, allora all’opposizione, portavoce a Torino della forza politica puntualmente fondata, nel frattempo, da Grillo: «Vuole governare lei? Si candidi come sindaca, e vedremo se la eleggono». La Appendino oggi siede al posto di Fassino, mentre gli uomini di Grillo governano l’Italia insieme a Salvini? C’è il rischio che lo facciano in eterno, dice Mazzucco sul blog “Luogo Comune”, stando all’ormai leggendaria chiaroveggenza fassiniana: «Ora, con il suo nuovo vaticinio – se la ride Mazzucco – Fassino ha appena regalato trent’anni di dominio politico a Matteo Salvini. Che uomo fantastico, questa “punta di diamante” del Pd».Tutto si può imputare, a Fassino, tranne la mancanza di schiettezza. Gran faticatore della politica, vissuta come missione palingenetica ai tempi eroici del Pci berlingueriano, Piero il Lungo – come lo ribattezzò Giampaolo Pansa – incarna bene le luci e le ombre, in versione sabauda, dell’ex sinistra incarnata dall’Elefante Rosso. Una sinistra rivoluzionaria solo a parole, ma in realtà prudentemente riformista, che visse il trauma della caduta del Muro di Berlino come la fine di un universo marmoreo e basato, per settant’anni, sull’indicibile tradimento di una grande promessa. Più di ogni altra città Italia, forse, proprio Torino ha rivelato la natura doppia di quello che fu il partito di Togliatti: orizzonti quasi onirici di riscatto sociale per il Quarto Stato ma, al tempo stesso, estremo pragmatismo nell’azione di governo, attraverso l’inedita alleanza di potere – non dichiarata – con il vertice industriale e finanziario dell’ex capitale Fiat, alle prese col declino operaio e l’incerta riconversione post-industriale. Negli anni più sguaiati del berlusconismo, con Roma e Milano trasformate in trincee mediatiche per scatenare la caccia all’immigrato clandestino presentato come pericoloso criminale, Torino ha brillato per misura, equilibrio e capacità di integrazione, smussando gli spigoli e investendo al meglio nelle strategie di convivenza: la città di Fassino e Chiamparino, che nell’immediato dopoguerra esibiva cartelli-vergogna del tipo “non si affittano case ai meridionali”, è diventata la metropoli italiana probabilmente più tollerante e con meno problemi di micro-criminalità, proprio grazie alle politiche sociali sapientemente messe in atto dagli esponenti del futuro Pd.A cancellare però l’illusione che il consenso politico possa essere eterno, anche quando motivato da solide ragioni come la buona amministrazione di una grande città, ha provveduto un territorio periferico ma contiguo, la valle di Susa, da sempre “seconda casa” dei torinesi che amano la montagna e lo sci. Spaventata dal progetto di una maxi-opera faraonica come la linea Tav Torino-Lione, potenzialmente devastante e classificata come desolatamente inutile dai massimi esperti dell’università italiana, la valle di Susa – una comunità di quasi centomila abitanti, orientata a sinistra anche in virtù della sua tradizione antifascista – si è sentita letteralmente tradita dai suoi storici rappresentanti politici. Gli uomini del centrosinistra rimasero risolutamente sordi di fronte alla protesta popolare esplosa nel 2005 in forma di esemplare rivolta nonviolenta, capitanata dai sindaci in fascia tricolore: una quasi-sommossa, che riuscì a fermare per ben cinque anni l’avvio dei cantieri. Per la valle di Susa, dalla sponda prodiana, si spesero comunisti come Paolo Ferrero e verdi come Edo Ronchi – ma non Sergio Chiamparino, passato disinvoltamente dalla guida di Torino a quella della Compagnia di San Paolo, potente fondazione bancaria, per poi tornare tranquillamente alla politica nei panni di presidente della Regione Piemonte, come se finanza e democrazia oggi non rappresentassero un bionomio stridente.Dalla parte dei valsusini si è invece schierato in modo nettissimo Beppe Grillo, protagonista di interventi decisivi – a livello politico – per rinfrancare la popolazione, con la promessa che non sarebbe più stata abbandonata al suo destino di paura, angoscia e rabbia. E’ come se il Movimento 5 Stelle avesse conquistato Torino partendo proprio dalla negletta valle di Susa, territorio accanitamente emarginato e isolato, infine anche criminalizzato. Con almeno dieci anni di anticipo sul resto del paese, proprio la valle di Susa – nel 2005 – sperimentò sulla propria pelle il crollo della vecchia politica fondata sulla presunta dicotomia destra-sinistra. Fu chiaro, ai valsusini, che si imponeva un’altra visione del mondo: da una parte la democrazia, cioè il rispetto della sovranità popolare, e dall’altra le oscure ragioni di un’oligarchia finanziaria che, in vent’anni, non ha ancora avuto modo di spiegare chiaramente a cosa mai servirebbe, davvero, quell’ipotetico super-treno che forse al Pd è già costato anche la clamorosa perdita di Torino. Inutilmente, i valsusini si erano rivolti – in prima battuta – proprio a Piero Fassino, figlio di un comandante partigiano della valle. Ma quando Fassino salì in montagna a commemorare i caduti, tra cui gli uomini di suo padre, gli esponenti locali del Pd lo rampognarono soltanto per certe alleanze locali con Forza Italia, e non invece per il silenzio assordante – del partito, e dello stesso Fassino – sulla grande opera percepita dalla popolazione come un’autentica calamità. Così oggi il Pd sembra guardare – con gli occhi smarriti di Fassino – all’inspiegabile trionfo di Salvini, emblema di un’Italia che l’ex centrosinistra ha smesso, da molto tempo, di capire.Matteo Salvini si rassegni: dovrà davvero governare, ininterrottamente, per i prossimi trent’anni. Chi lo dice? La statistica. O meglio: la cronometrica precisione (a rovescio) delle famosissime previsioni-auspicio formulate da Piero Fassino. «Trent’anni di Salvini? Vediamo se gli daranno i i voti», ha detto l’ex dirigente del Pci-Pds, quindi ex ministro, ex capo dei Ds ed ex sindaco di Torino. Non gli era bastato, scrive Massimo Mazzucco, il celebre pronostico su Beppe Grillo, messo alla porta quando chiese – provocatoriamente – di partecipare alle inedite primarie del neonato Pd. «Grillo vuole governare? Fondi un suo partito – disse Fassino – e poi vediamo se prenderà i voti». Non pago, in qualità di primo cittadino torinese, lo stesso Fassino concesse una spassosa replica, rivolgendosi a Chiara Appendino, allora all’opposizione, portavoce a Torino della forza politica puntualmente fondata, nel frattempo, da Grillo: «Vuole governare lei? Si candidi come sindaca, e vedremo se la eleggono». La Appendino oggi siede al posto di Fassino, mentre gli uomini di Grillo governano l’Italia insieme a Salvini? C’è il rischio che lo facciano in eterno, dice Mazzucco sul blog “Luogo Comune”, stando all’ormai leggendaria chiaroveggenza fassiniana: «Ora, con il suo nuovo vaticinio – se la ride Mazzucco – Fassino ha appena regalato trent’anni di dominio politico a Matteo Salvini. Che uomo fantastico, questa “punta di diamante” del Pd».
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Dunque la valle di Susa esiste, se il suo fumo soffoca Torino
Irritata dal puzzo del fumo degli incendi, Torino si è accorta che esiste la valle di Susa – o meglio, che la valle di Susa non è fatta solo di piste di sci e non finisce nel ristretto perimetro del grazioso giardino della seconda casa, in montagna, tra i fiori e gli abeti. Se n’è accorta a fine 2017, Torino, dell’esistenza della valle di Susa, e lo ha fatto grazie (per così dire) alla mano criminale dei piromani che hanno dato alle fiamme oltre mille ettari di foresta, sfruttando i venti furosi che storicamente flagellano la vallata, noti a tutti tranne che ai redattori del progetto Tav Torino-Lione, che non menziona il pericolo del vento come fonte inquinante nel momento in cui si stoccassero migliaia di tonnellate di terra di scavo, piena di roccia amiantifera. Torino, stranamente, passa per essere una città ben amministrata, benché sia governata da trent’anni da un unico blocco di potere, simile a quello delle “democrature” ex sovietiche. Vanta un record negativo nell’efficienza della raccolta differenziata: preferisce incenerire i rifiuti e poi bloccare la circolazione delle auto, quando schizzano alle stelle i valori tossici dell’aria, la più inquinata d’Italia. Se l’incendio della val Susa è l’eccezione, la velenosità dell’atmosfera torinese è la regola, così come la sordità della capitale Fiat di fronte all’allarme inutilmente lanciato dai valsusini.Nel saggio “Binario morto”, il giornalista Luca Rastello – citando un alto funzionario pubblico piemontese – spiega che l’eventuale nuova linea ferroviaria italo-francese, cioè il doppione perfettamente inutile dell’attuale Torino-Modane che già attraversa la valle di Susa valicando le Alpi al traforo del Fréjus, non potrebbe bypassare Torino collegandosi alla rete Tav nazionale «se non attraverso un colpo di Stato». Il guaio? Se la nuova ferrovia si aprisse la strada in superficie dovrebbe sbancare interi quartieri periferici. Resterebbe il sottosuolo, il tracciato in galleria a 30 metri di profondità, ma taglierebbe fatalmente la falda idropotabile che rifornisce d’acqua oltre un milione di persone, fra Torino e hinterland. Persone che, peraltro, finora non si sono poste il problema: la stragrande maggioranza dei torinesi – a differenza degli abitanti di tante altre città italiane – ha finora guardato con fredda diffidenza alle esasperate proteste dei valsusini. Tuttora, se venisse svolto un normalissimo sondaggio, emergerebbe che il torinese medio non ha la più pallida idea del colossale bluff rappresentato dalla Torino-Lione, la grande opera più inutile d’Europa, preziosissima solo per la filiera di interessi collegata alla sua realizzazione: interessi politici, bancari e malavitosi.Probabilmente non ricorda, il torinese medio, di quando – a metà degli anni ‘90 – la valle di Susa fu colpita da una decina di strani attentati dinamitardi, firmati “Lupi Grigi” e rimasti senza colpevoli, per i quali furono inizialmente arrestati tre giovani anarchici, di cui due – Soledad Rosas e Edoardo Massari, “Sole e Baleno” – morti durante la detenzione, trovati impiccati a un asciugamano. Probabilmente non ricorda, la maggior parte dei torinesi, che appena prima, in quegli anni, la Procura della Repubblica aveva sequestrato pistole in un’armeria, a Susa, finite a una cosca della ‘ndrangheta grazie alla falsificazione dei registri, controfirmati dall’autorità di polizia. Un’indagine inquietante, dalla quale era emersa l’ombra dei servizi segreti, Sisde e Sismi. In compenso, la città di Torino ha immancabilmente espresso fastidio e irritazione di fronte alle proteste ormai ventennali degli abitanti della valle di Susa, spediti all’ospedale – già nel dicembre 2005 – dai reparti antisommossa mandati a sgomberare i prati di Venaus occupati da famiglie alle prese con un sit-in permanente. Torino è passata dal sindaco Castellani a Chiamparino, da Fassino alla Appendino, con marmorea imperturbabilità sabauda. I torinesi vivono in una città che somiglia sempre di più a una camera a gas, ma non fiatano. E si ricordano dei valsusini solo se il fumo della valle li costringere a sprangare le finestre, turbando il loro beato sonno.Irritata dal puzzo del fumo degli incendi, Torino si è accorta che la valle di Susa esiste – o meglio, che non è fatta solo di piste di sci e non finisce nel ristretto perimetro del grazioso giardino della seconda casa, in montagna, tra i fiori e gli abeti. Se n’è accorta a fine 2017, Torino, dell’esistenza della valle di Susa, e lo ha fatto grazie (per così dire) alla mano criminale dei piromani che hanno dato alle fiamme oltre mille ettari di foresta, sfruttando i venti furosi che storicamente flagellano la vallata, noti a tutti tranne che ai redattori del progetto Tav Torino-Lione, che non menziona il pericolo del vento come fonte inquinante nel momento in cui si stoccassero migliaia di tonnellate di terra di scavo, piena di roccia amiantifera. Torino, stranamente, passa per essere una città ben amministrata, benché governata per decenni da un unico blocco di potere, simile a quello delle “democrature” ex sovietiche. Vanta un record negativo nell’efficienza della raccolta differenziata: preferisce incenerire i rifiuti e poi bloccare la circolazione delle auto, quando schizzano alle stelle i valori tossici dell’aria, la più inquinata d’Italia. Se l’incendio della val Susa è l’eccezione, la velenosità dell’atmosfera torinese è la regola, così come la sordità della capitale Fiat di fronte all’allarme inutilmente lanciato dai valsusini.
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Mediobanca: nessuno peggio di UnipolBanca oggi in Europa
«Questo non è uno scoop», premette Paolo Barnard, che però prende nota di «cosa pensano i nipotini di Enrico Cuccia, a Mediobanca, della banca più marcia d’Europa, per non parlare d’Italia». Tutto questo è «divertente», perché così uno «impara cosa davvero sta dando coliche seriali ai vertici del Pd, e non sono Renzi, Bersani o Grillo: è Unipol Banca, cioè il disastro finanziario più irrimediabile del Belpaese». In premessa, il giornalista fa una precisazione “per la zia Marta”, ricordando che le grandi banche si dividono in due categorie: quelle di tipo A, «pericolose per risparmiatori e correntisti (quasi tutte)», e quelle di tipo B, «definite come pericolo “sistemico”», e cioè «banche talmente grandi che, se falliscono, si portano dietro uno o due continenti». In Italia, aggiunge Barnard, «la banca “sistemica” più fallita è Unicredit, sprofondata all’ultimo posto in Ue dopo Hscb, Bnp, Ing, Swedbank, Ubs, Lloyds, Commerzbank, Deutsche Bank, Intesa, Credit Suisse e tutte le altre». Ma, torniamo alle banche del gruppo A, quelle dove «ci smenano» i piccoli risparmiatori, le famiglie e le piccole e medie aziende, Mediobanca ne cita addirittura 114. E «ci dice che la più rottamata, la più marcia, la più pezzente è appunto Unipol Banca».
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La fine del mondo per il Pd, l’Italia in crisi a sua insaputa
La fine del mondo, ovvero: l’assemblea nazionale del Pd che incorona in trionfo il suo sovrano, Matteo Renzi, già tornato in cabina di regia dopo aver solennemente promesso che avrebbe lasciato la politica, in caso di sconfitta al referendum. Proprio la speranza di cancellarlo dagli schermi, trasversale a vari settori dell’elettorato, cominciando dai giovani, era stata la molla principale, per milioni di elettori, decisi a votare No. Tutto inutile, come da copione: Gentiloni a Palazzo Chigi insieme alla Boschi, e Renzi ancora lì. Soprattutto: è ancora lì il Pd, straordinario autoscatto di quest’Italia in crisi “a sua insaputa”. Dal palco romano dove si alternano i relatori è perfettamente inutile sperare di ascoltare parole utili al paese, a parte le rituali e irrilevanti autocritiche sulle difficoltà del partito come macchina di consenso. Qualche accento sullo stato dell’arte proviene da esponenti come Cuperlo e Damiano, ma l’unico che fornisce una visione prospettica è il dinosauro Piero Fassino: la nostra, dice, è stata una sinistra cresciuta nel ‘900, nel fordismo, e oggi non difende più nessuno, non serve più. Fassino sfiora addirittura la verità dell’euro e dell’Ue, ma solo per ricordare quanto fu brava, la sinistra prodiana, a mobilitare gli italiani per convincerli ad affrontare i sacrifici necessari a entrare nel club della moneta unica.A chi chiede timidamente se sia il caso di celebrare un congresso, creando così lo spazio necessario per sviluppare una riflessione profonda, Renzi risponde che non è ancora tempo di congressi, perché l’agenda richiede altre urgenze, la legge elettorale, le elezioni anticipate. Non è più epoca di congressi, da tempo: Forza Italia ha sempre e solo inscenato assemblee plebliscitarie, celebrative del Capo, e Grillo non è mai andato oltre i Vaffa-Day o le consultazioni online. Niente congressi, niente confronto di idee, nessuna analisi indipendente. Meglio correre, ferocemente divisi, nella stessa direzione: il baratro. Lo dimostra, una volta di più, la mancanza di timonieri alla guida del grosso barcone del Pd, una ciurma di naufraghi spaventati da quello che chiamano populismo, senza però riuscire a spiegarsi l’origine del fenomeno che – riconoscono – sta scuotendo come un brivido l’intero Occidente. Di tutto è lecito di parlare, tranne che di politica. Lo dice lo stesso Renzi, l’unico politico capace di auto-accusarsi di aver “politicizzato” il voto («la mia colpa non è stata la personalizzazione del referendum», dice, «ma la sua politicizzazione»).«Con questi dirigenti non vinceremo mai», sentenziò Nanni Moretti nel 2002, un milione di anni fa, pensando alla sua squadra di brocchi – D’Alema, Veltroni – e alla corazzata da battere, quella del Cavaliere. Ben lungi, Moretti, dall’intuire che il problema non era nemmeno la squadra, ma il campionato. Ci sono voluti anni, ma poi l’allenatore il suo campione l’ha messo in campo: solo che al massimo vince Renzi, non l’Italia. E Renzi è uno che vince comunque, anche quando perde, visto che di fronte non ha più nessuno. Non mantiene mai la parola data? Vero, ma anche questo è secondario: Renzi non ha mai nemmeno lontanamente sfiorato, neppure a parole, la verità nella quale è sprofondata l’Italia dopo che la sua classe dirigente, come ricorda Fassino, l’ha iscritta nel prestigioso campionato europeo del rigore e dell’austerity, dell’agonia del welfare, della morte della sovranità e quindi dell’economia. Nel Renzi-day, il Pd attacca la crisi romana dei grillini, il collasso politico della capitale dove – nessuno lo ricorda – fu proposto l’ingresso in municipio di un economista eretico come Nino Galloni, con in testa (lui sì) una soluzione per uscire dalla grande crisi inutilmente evocata da Fassino, la crisi che sta travolgendo l’Italia “a sua insaputa”, o almeno a insaputa di un partito che ancora acclama Renzi, così come i grillini acclamano Grillo. Il problema è ancora e sempre il leader, la squadra, e non il campionato? Se è così, i sabotatori dell’Italia possono dormire sonni tranquilli.La fine del mondo, ovvero: l’assemblea nazionale del Pd che incorona in trionfo il suo sovrano, Matteo Renzi, già tornato in cabina di regia dopo aver solennemente promesso che avrebbe lasciato la politica, in caso di sconfitta al referendum. Proprio la speranza di cancellarlo dagli schermi, trasversale a vari settori dell’elettorato, cominciando dai giovani, era stata la molla principale, per milioni di elettori, risoltisi a votare No. Tutto inutile, come da copione: Gentiloni a Palazzo Chigi insieme alla Boschi, e Renzi ancora lì. Soprattutto: è ancora lì il Pd, straordinario autoscatto di quest’Italia che sarebbe in crisi “a sua insaputa”. Dal palco romano dove si alternano i relatori è perfettamente inutile sperare di ascoltare parole spendibili per il paese, a parte le rituali e irrilevanti autocritiche sulle difficoltà del partito come macchina di consenso. Qualche accenno allo stato dell’arte proviene da esponenti come Cuperlo e Damiano, ma l’unico che fornisce una visione prospettica è il dinosauro Piero Fassino: la nostra, dice, è stata una sinistra cresciuta nel ‘900, nel fordismo, e oggi non difende più nessuno, non serve più. Fassino sfiora addirittura la verità dell’euro e dell’Ue, ma solo per ricordare quanto fu brava, la sinistra prodiana, a mobilitare gli italiani per convincerli ad affrontare i sacrifici necessari a entrare nel club della moneta unica.
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Se Renzi perde si tiene il Pd, a Palazzo Chigi un altro Monti
Se dovesse perdere il referendum, «Renzi sarebbe ridotto a mal partito, ma non spacciato: per liberarcene occorrerà ancora altro», sostiene Aldo Giannuli, che prova a valutare le mosse del premier in caso di bocciatura, visti i sondaggi che ormai danno vincente il No, nonostante i tanti indecisi. In caso di sconfitta, «è prevedibile che Renzi rassegni le dimissioni del governo già il giorno 5 dicembre e prima che glielo chieda chiunque», perché «in un paese in cui non si dimettono nemmeno i morti e dove nessuno tiene fede alla parola data, un politico che si dimette come aveva promesso ci fa un figurone». Ma attenzione, sarebbe una scelta dovuta a un calcolo molto preciso: «Mantenere la poltrona di segretario del partito e guadagnare tempo». Infatti, «difficilmente gli converrebbe andare alle elezioni subito: dopo la botta del referendum, il Pd probabilmente perderebbe». Anche se la Corte Costituzionale dovesse lasciare immutato l’Italicum, infatti, «la bocciatura del referendum imporrebbe di ripensare la legge elettorale», magari per differenziarla: turno unico al Senato e doppio turno alla Camera. Ci vorrà tempo: e Renzi preferirà cedere temporaneamente Palazzo Chigi a «un altro Monti», dedicandosi nel frattempo alla definitiva “pulizia etnica” nel Pd, divenendone il padrone assoluto.Sempre che, naturalmente, i poteri forti glielo consentano. A decidere, in realtà, sarebbe il Vaticano, scommette l’ex ministro socialista Rino Formica. Il “Financial Times” lascia capire che la finanza anglosassone sta già mollando il Rottamatore: le sue riforme sarebbero «un ponte verso il nulla», scrive il giornale della City. Fin dall’inizio, Renzi è stato sostenuto dall’élite di potere che guida la globalizzazione in senso neo-feudale, predicando il taglio dello Stato a favore delle multinazionali privatizzatrici. La riforma costituzionale sottoposta a referendum sembra recepire alla lettera il “monito” di Jamie Dimon, che dal vertice della Jp Morgan avvertì che la nostra Costituzione è “troppo sensibile” alla tutela dei diritti sociali. Da sempre, Renzi si è affidato a consiglieri strategici non esattamente di sinistra: da Marco Carrai, un uomo con saldi interessi nella finanza di Tel Aviv, a Yoram Gutgeld, economista italo-israeliano e vera “mente” del governo. Per non parlare del consigliere-ombra per la politica estera, il politologo americano Michael Ledeen, esponente dell’ultra-destra atlantista. «Ledeen appartiene alla massoneria internazionale di potere che ha condizionato lungamente la politica italiana», racconta Gianfranco Carpeoro nel libro “Dalla massoneria al terrorismo”: «Ha sponsorizzato prima Craxi, poi Di Pietro, poi Grillo».Stesso schema: sostenere un leader e, al tempo stesso, il suo “demolitore” – ieri Craxi e Di Pietro, oggi Renzi e Grillo. Sempre secondo Carpeoro, il grillino “gestito” da Ledeen sarebbe Luigi Di Maio, ipotetico premier del dopo-Renzi in caso di elezioni. L’evoluzione della crisi italiana preoccupa moltissimo i super-poteri finanziari che governano l’Europa attraverso l’Ue, la Bce e la Germania: il referendum italico segue di poco il terremoto-Brexit e sarà celebrato all’indomani del voto americano, dove il vertice dell’oligarchia teme la vittoria di Trump. Poi, in Europa, seguiranno elezioni delicatissime, a partire da quella di un paese-cardine come la Francia, sempre più ostile all’egemonia di Bruxelles. Se questa è la cornice internazionale nella quale maturano anche gli eventi italiani, per ora Giannuli preferisce concentrarsi sulle mosse del piccolo Renzi: se perdesse il referendum, dice l’analista dell’ateneo milanese, il premier cercherà di evitare lo scioglimento immediato delle Camere (e qui il caos sulla legge elettorale lo soccorrerebbe) e proverà a domare la rivolta nel partito. «Infatti, è più che plausibile che Franceschini, De Luca, Emiliano, e forse i piemontesi (Fassino e Chiamparino) gli si getteranno addosso reclamandone la testa». E, insieme a «quei morti di sonno della minoranza di sinistra», potrebbero «rovesciare il segretario», anche se lo statuto del Pd imporebbe un “regolare processo”, cioè un congresso del partito.«Il disegno di Renzi è facilmente indovinabile: fare un governo di scopo, di larghe intese, proprio perché bisogna rifare la legge elettorale e, di conseguenza, un governo presieduto da un tecnico non iscritto a nessun partito (insomma, un altro Monti)». Questo sia per guadagnare tempo, sia per evitare che su quella poltrona possa andarci Franceschini o un altro esponente Pd che poi, magari, diventerebbe il candidato alla presidenza del Consiglio. «In questo modo, invece – continua Giannuli – la poltrona di Palazzo Chigi sarebbe “sterilizzata” ai fini delle prossime elezioni». Una volta “sistemato” il governo in questo modo, Renzi potrebbe dedicarsi al congresso del partito. Obiettivo: estinguere la minoranza bersaniana, che il segretario non ricandiderebbe più alle elezioni. «Qui l’azione di D’Alema sarebbe perfettamente convergente, perché il Conte Max ragionevolmente userebbe la rete dei comitati per il No come base di un nuovo partito». Ma attenzione, anche qui, ai retroscena: D’Alema, scrive Gioele Magaldi nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”, milita nella galassia delle logge sovra-massoniche internazionali di destra, come la storica “Three Eyes”, che annoverebbe tra i suoi autorevoli esponenti personalità come Henry Kissinger e Giorgio Napolitano. Un giurista vicinissimo all’ex capo dello Stato, Valerio Onida, ex presidente della Consulta, sta tentando di far bloccare (per eccesso di quesiti) un referendum che Renzi rischia di perdere. Come dire: il gioco è grande, molto più di Renzi.Se dovesse perdere il referendum, «Renzi sarebbe ridotto a mal partito, ma non spacciato: per liberarcene occorrerà ancora altro», sostiene Aldo Giannuli, che prova a valutare le mosse del premier in caso di bocciatura, visti i sondaggi che ormai danno vincente il No, nonostante i tanti indecisi. In caso di sconfitta, «è prevedibile che Renzi rassegni le dimissioni del governo già il giorno 5 dicembre e prima che glielo chieda chiunque», perché «in un paese in cui non si dimettono nemmeno i morti e dove nessuno tiene fede alla parola data, un politico che si dimette come aveva promesso ci fa un figurone». Ma attenzione, sarebbe una scelta dovuta a un calcolo molto preciso: «Mantenere la poltrona di segretario del partito e guadagnare tempo». Infatti, «difficilmente gli converrebbe andare alle elezioni subito: dopo la botta del referendum, il Pd probabilmente perderebbe». Anche se la Corte Costituzionale dovesse lasciare immutato l’Italicum, infatti, «la bocciatura del referendum imporrebbe di ripensare la legge elettorale», magari per differenziarla: turno unico al Senato e doppio turno alla Camera. Ci vorrà tempo: e Renzi preferirà cedere temporaneamente Palazzo Chigi a «un altro Monti», dedicandosi nel frattempo alla definitiva “pulizia etnica” nel Pd, divenendone il padrone assoluto.
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Paolo Barnard, l’appestato. E’ l’uomo più scomodo d’Italia
Ho iniziato a fare il giornalista ‘alla vecchia’ (piccoli pezzi x piccolo ma ottimo giornale, “La Gazzetta di Parma”) mentre vivevo a Londra sotto il ‘Nazismo’ Neoliberista di Margaret Thatcher. Anni ’80. Lavoravo con schiavi sociali in un tunnel a sgrassare auto, in nero. Ho vissuto come vivono gli schiavi delle ‘riforme’ del lavoro. Mi sono specializzato in politica estera vivendo anche negli Usa. Lì ho visto di peggio parlando di sadismo sociale Neoliberista, cose che in Italia arriveranno fra 20 anni. Di certo. Nel 1988 approdo alla stampa italiana importante, Mondadori, perché ho l’idea di essere il primo giornalista al mondo che intervista Roger Waters, Pink Floyd, unicamente sulle tematiche sociali di “The Wall”. Waters aveva appena rifiutato una richiesta di “Rolling Stone Magazine”. Accetta me perché nessuno si era mai interessato alle sue idee politiche. Nel 1991 inizio una collaborazione con “Samarcanda” di Michele Santoro, dove, con l’aiuto della compianta Jill Tweedy, faccio lo scoop del testimone americano che, all’insaputa del mondo intero, era rinchiuso all’Al-Rasheed hotel di Baghdad durante la I Guerra del Golfo, e che aveva smentito con foto tutta la versione della Cnn/Pentagono su bombardamenti di civili.Vengo minacciato di arresto dal deputato Giuliano Ferrara e salvato da Andreotti che, col Papa, si opponeva alla guerra. Mai incontrato Andreotti, la cosa mi fu rivelata dopo da Paolo Liguori. 1993, vengo minacciato di morte da un agente Cia a Roma, che mi dice: «Se ti offriamo 5 milioni di lire al mese per andare a fare il giornalista all’ufficio turistico del Trentino, tu accetta. Mi stai capendo?». Offerta mai giunta, perché fui allontanato dalla Rai immediatamente, quindi non ero più un pericolo. Nel 1993 scopro per primo le torture dei soldati italiani in Somalia nell’operazione “Restore Hope”, le pubblico su “La Stampa” di Torino. Silenzio generale (anni dopo, “Panorama” fece lo ‘scoop’). Nel frattempo lavoro per quasi tutte le testate nazionali di stampa, inclusi il “Corriere della Sera” e la “Voce” di Indro Montanelli, poi per Paolo Flores D’Arcais a “Micromega”, e per il “Golem” del “Sole 24 Ore” con l’ex Pm di Mani Pulite Gherardo Colombo. Sempre da esterno. Nel 1994, Roberto Quagliano, Milena Gabanelli ed io, con 4 altri, fondiamo “Report”, sotto la direzione di Giovanni Minoli (allora si chiamava “Effetto Video8”).Nello stesso anno sono in Africa a lavorare sulla guerra in Angola e soprattutto in Sudafrica, dove Mandela rischia di non poter essere eletto per via delle violenze. Vedo stragi, corpi dilaniati, rischio due volte di morire. La seconda volta ero sdraiato sul fondo di una cabina del telefono x mandare una corrispondenza, mentre dei proiettili Ak 47 mi volavano sopra la testa. Dall’altra parte del telefono un idiota mi dice: «Richiama, c’è Berlusconi in diretta». Lì decisi che l’Italia… stocazzo. All’elezione di Mandela sputtano Henry Kissinger di fronte a tutta la stampa mondiale. Nessun italiano presente. Pensai di non lasciare il paese vivo. Alla fine del 1995 intervisto in esclusiva il leader serbo-bosniaco Radovan Karadzic, che faccio infuriare quando gli dico che Milosevic ha tendenze suicide e sta portando tutto il paese alla morte. Al tempo non eravamo al corrente degli accordi segreti Usa-Israele per fomentare la guerra, rivelati poi. Nel 1998 faccio un’inchiesta (“Report”, Rai3) sull’assistenza ai morenti (Hospice) del tutto inesistente allora in Italia. Sono il primo in Italia a fare un’inchiesta (“Report”, Rai3) sul debito dei paesi poveri che li sta ammazzando per il sadismo del Fondo Monetario Internazionale, che insiste nei pagamenti da parte di gente disperata. Vedo la fame, cosa sono i poveri davvero, l’orrore dell’Africa fuori dai club vacanze.Sono il primo in Italia nel 1999 a fare un’inchiesta (“Report”, Rai3) sulla globalizzazione e sugli Istituti Sovranazionali padroni del mondo, che comandano i Parlamenti di chiunque (oggi tutti lo sanno…). Da lì inizio la mia indagine sul Vero Potere, intuisco cioè che la vita di tutti noi non è comandata dai singoli governi. Sono il primo in Italia a fare un’inchiesta (“Report”, Rai3) dove denuncio Usa, Iraele e Gran Bretagna come i maggiori terroristi del mondo. Tratto il caso Palestina senza peli sulla lingua per Israele. Ricevo il plauso di Noam Chomsky, Ilan Pappe, John Pilger, fra gli altri. Sono il primo in Italia a fare un’inchiesta (“Report”, Rai3) sullo sfruttamento degli ammalati da parte delle multinazionali del farmaco, che costa alla Rai la prima querela in civile mai ricevuta, e a me l’abbandono da parte di Milena Gabanelli, “l’eroina del giornalismo libero”. Mi abbandonarono perché non si creasse un precedente in Rai dove un giornalista viene difeso e gli viene pagata l’eventuale condanna pecuniaria. In tribunale, Rai e Gabanelli chiedono la mia condanna in esclusiva, come se l’inchiesta l’avessi messa in onda io da solo! Perdo il lavoro e il reddito e non ho fondi per difendermi.Sono il primo in Italia a fare un’inchiesta (Rai Educational di Minoli) su come una Commissione di Grandi Clinici ammalati gravi, che quindi hanno conosciuto la sofferenza e la paura, saprebbe rifare la sanità in senso più umano e più efficiente. Fondiamo la Commissione, arriviamo fino al ministro della sanità Livia Turco, ma il suo governo cade poche settimane dopo. Sono il primo in Italia a scrivere un libro di altissima documentazione internazionale (archivi segreti Usa e Gb et al.) sul terrorismo occidentale nel mondo povero, sull’orrore neo-nazista d’Israele in Palestina, e di come questo nostro terrorismo in un secolo di violenze immani ha poi portato a Bin Laden e ad altri gruppi armati di resistenza nel mondo. Il libro è edito da Rizzoli Bur, col titolo “Perché ci odiano”. Scrivo altri 5 libri, ma non voglio che li compriate, perché gli editori sono delle merde e non meritano soldi. Giovanni Minoli mi chiede di tornare in Rai. Gli dico no. Prima Rai e Gabanelli devono chiedermi scusa in pubblico (sì, certo). Scrivo due saggi, fra altri, intitolati “Per un mondo migliore” e “L’informazione è noi” dove parlo di concetti che forse verranno capiti fra 90 anni.Nel 2009 intuisco che tutta l’Eurozona è un immenso crimine sociale guidato da poteri forti, cioè il Vero Potere. Studio un’economia alternativa e di altissimo interesse pubblico, la Mosler Economics-Mmt (Me-Mmt), dal nome dell’economista americano Warren Mosler (un genio). La porto in Italia per primo, e nel 2010 pubblico la storia, la denuncia, e i rimedi (la Me-Mmt) del crimine chiamato Eurozona in “Il Più Grande Crimine” (online). Vengo deriso per anni da tutti, specialmente dagli economisti di ‘sinistra’. Oggi tutti ’sti pezzenti mi copiano parola per parola senza citarmi. Racconto per anni cosa sia il Vero Potere, come funziona, dico cose che appaiono alla gente e ai ‘colleghi’ come follie, ma sono io avanti 50 anni su questo perché ho vissuto fra Il Vero Potere, e infatti tutto ciò che dissi si sta avverando. Nel 2012, al palazzo dello sport di Rimini, io e altri attivisti organizziamo la più grande conferenza di economia della storia, con oltre 2.000 partecipanti paganti. Portiamo la Me-Mmt in Italia in grande stile. Nessun media, neppure quelli di quartiere ci coprono. Santoro manda una ragazzina a filmare, che poi dirà che le cassette furono… rubate.La Me-Mmt diventa un fenomeno nazionale organizzato per gruppi regionali. Facciamo migliaia di conferenze. Io vengo chiamato da “L’ultima parola”, Rai2, diverse volte, da TgCom24, da “La Zanzara”, da Radio3, e poi divengo editorialista economico di punta di “La Gabbia” a La7. Verrò cacciato per motivi, non pretestuosi ma ridicoli, da Gian Luigi Paragone di “La Gabbia” ben 3 volte. La verità la sa solo lui (e Berlusconi). Creo quindi ciò che lo stesso Warren Mosler chiama “il più grande fenomeno Me-Mmt” del mondo. Purtroppo pochi anni dopo Mosler mi accoltella alle spalle, col beneplacido del 99% dei miei collaboratori. Oplà. Divento un ‘appestato’, il primo giornalista-Ebola d’Italia. Una carriera, la mia, che va dal top nazionale al non essere più chiamato neppure da una radio di parrocchia. Sono il primo in Italia a inventarsi “La crisi economica spiegata alla nonna”, dove racconto il crimine epocale dell’Eurozona con termini comprensibili alle nonne. Oggi gentaglia economica di ogni sorta, e i miei stessi ex collaboratori, mi stanno copiando tutto senza citarmi. Sono il primo in Italia a inventarsi “La storia dell’economia (che ti dà da mangiare) spiegara al bar”. Idem come sopra, copioni inclusi. Sono il primo in Italia a inventarsi “L’economia criminale spiegata ai ragazzi attraverso i testi delle canzoni pop”. Questa non me l’hanno ancora copiata, ma fra un poco vedrete…Nella mia vita professionale ho mandato al diavolo ogni singola occasione di divenire famoso. Ho criticato aspramente (mandato a fanc…) per senso di giustizia ed etica: Minoli (disse: «Se vedo Barnard gli tiro un armadio», ma Minoli rimane un ‘grande’) – la Gabanelli (che rimane una m…) – Flores D’Arcais – Gherardo Colombo – Marco Travaglio – Beppe Grillo (che mi chiamò a Quarrata “un grande”) – Lorenzo Fazio che è il boss di Chiarelettere e del “Fatto Quotidiano” – Giuliano Amato (che mi chiamò a casa) – Vittorio Sgarbi che mi voleva in una sua trasmissione – il ministro Tremonti che mi chiamò per capire ‘la moneta’… – Cruciani e Parenzo in diverse puntate – Gianluigi Paragone – e ho rifiutato ogni singola offerta di candidatura politica, fra cui quella di Berlusconi per voce di Marcello Fiori (con testimoni). Ho ignorato un migliaio di paraculi più o meno noti che mi volevano come volto pubblico. Ho detto a Maroni in diretta Tv che è un deficiente, ho chiamato “criminali” Mario Monti, Prodi, Napolitano e molti altri, sempre in diretta Tv, mi feci cacciare dal ministero dell’industria dal ministro Piero Fassino, ho sputtanato Romano Prodi alla Commissione Europea, ho detto a Peter Gomez che è un falsario (con Travaglio) che ha ignorato la distruzione del paese per far soldi coi libri su Berlusconi. Infatti sono l’unico italiano che non ha un blog sul “Fatto Quotidiano”.Quando compresi che il 99% dei miei collaboratori nel Movimento Me-Mmt erano dei fagiani che non capiscono il Vero Potere per nulla, parecchio vigliacchini, o che erano perfidi carrieristi, li ho tutti buttati al cesso. E… ho ignorato un tal Roberto Mancini che si è alzato da un tavolo per stringermi la mano. Non sapevo che è una star del calcio… ( Ho fatto volontariato per decenni in aiuto a gente che voi neppure immaginate, ho messo le mani nel dolore, nella devastazione sociale, nella morte. E forse sarà l’unica cosa che mi ricorderò quando crepo. Oggi nel panorama giornalistico e intellettuale non mi considera più nessuno. Dicono, alcuni critici, che è a causa delle mie folli provocazioni sociali che ho reso pubbliche, ma ciò è falso: il problema non erano le mie provocazioni, ma che il 99,9% del pubblico è troppo scemo per capirle. Nella realtà, e siamo seri, se un reporter da 30 anni attacca Usa, Israele, e soprattutto il Vero Potere come ho fatto io, be’, è normale essere sepolto vivo. Curiosità: piaccio alle donne, ragazzine incluse, come se fossi Johnny Depp, ma so che è solo perché sono un ‘personaggio’, e non ci vado a letto (sono vecchio e brutto come un c…). So fare le pizze e il filetto al pepe verde come un Dio. Ho un carattere micidiale, quando mi parte la furia o la rabbia sociale non mi fermo (inclusi gli 8 poliziotti che chiamavo ‘assassini’ di Cucchi e Aldrovandi, e che mi hanno spaccato un braccio, denunciato, ecc.). Ma sono un genio che ha scritto e fatto cose 100 anni avanti a tutti. Amo indossare i gioielli come le donne, e di più. Adoro la donne. Vostro PB.(Paolo Barnard, “Obbligatorio leggere chi sono, prima di leggermi”, post in evidenzia nel blog di Barnard, i cui agiornamenti sono sospesi, per protesta, dall’inizio di agosto 2016, per sfiducia nel pubblico italiano).Ho iniziato a fare il giornalista ‘alla vecchia’ (piccoli pezzi x piccolo ma ottimo giornale, “La Gazzetta di Parma”) mentre vivevo a Londra sotto il ‘Nazismo’ Neoliberista di Margaret Thatcher. Anni ’80. Lavoravo con schiavi sociali in un tunnel a sgrassare auto, in nero. Ho vissuto come vivono gli schiavi delle ‘riforme’ del lavoro. Mi sono specializzato in politica estera vivendo anche negli Usa. Lì ho visto di peggio parlando di sadismo sociale Neoliberista, cose che in Italia arriveranno fra 20 anni. Di certo. Nel 1988 approdo alla stampa italiana importante, Mondadori, perché ho l’idea di essere il primo giornalista al mondo che intervista Roger Waters, Pink Floyd, unicamente sulle tematiche sociali di “The Wall”. Waters aveva appena rifiutato una richiesta di “Rolling Stone Magazine”. Accetta me perché nessuno si era mai interessato alle sue idee politiche. Nel 1991 inizio una collaborazione con “Samarcanda” di Michele Santoro, dove, con l’aiuto della compianta Jill Tweedy, faccio lo scoop del testimone americano che, all’insaputa del mondo intero, era rinchiuso all’Al-Rasheed hotel di Baghdad durante la I Guerra del Golfo, e che aveva smentito con foto tutta la versione della Cnn/Pentagono su bombardamenti di civili.
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Panico referendum, Stiglitz: italiani, se votate crolla l’euro
Joseph Stiglitz, già Premio Nobel per l’economia, dichiara che teme una catastrofe per l’Europa, in particolare per quanto riguarda l’Italia: se vincesse il No nel referendum, potrebbe seguirne il crollo dell’euro. Di conseguenza, invita Renzi a “rinunciare al referendum” disdicendo la consultazione popolare. Stiglitz non è un giurista, dice Aldo Giannuli, ma almeno potrebbe informarsi prima di aprir bocca. Il referendum? Non dipende dalla volontà di Renzi, ma dalla Costituzione: che prevede norme precise in caso di revisioni costituzionali. Referendum confermativo obbligatorio, se la riforma della Carta non è approvata dai 2/3 di ciascuna camera, oppure se ne facciano richiesta 500.000 elettori o il 20% dei parlamentari. «E non è scritto da nessuna parte che possa essere revocato, rinviato o anche solo sospeso», tantomeno dal presidente del Consiglio: «Si chiamerebbe colpo di Stato». Se desse retta a Stiglitz, Renzi «potrebbe essere arrestato per attentato alla Costituzione». Ad allarmare però non è l’ignoranza del Nobel americano, ma il pensiero retrostante: «Se c’è pericolo per gli assetti di potere esistenti, e in particolare quelli monetari, si sospendono le garanzie costituzionali e si toglie la parola all’elettorato».Così, infatti, avevano già detto «quei due gioielli del pensiero democratico che rispondono ai nomi di Giorgio Napolitano e Mario Monti». Il popolo «non può esprimersi su cose così complesse per le quali non ha le conoscenze necessarie», perché queste cose «le devono decidere le élite, quelli che sanno». E la sovranità popolare sancita dalla Costituzione? «Be’, è un bell’ornamento che fa la sua figura, ma non è che ci dobbiamo proprio credere!». Per Giannuli, «qui sta venendo a galla il carattere elitario, oligarchico e antidemocratico dell’ideologia liberista, e non c’è più neppure il pudore di far finta di dirsi democratici». Certo, l’uscita di Stiglitz rivela il timore della vittoria del No, che ormai «inizia a diventare panico nei salotti buoni di politica e finanza». Renzi sa di rischiare grosso: in caso di vittoria del No, «a “dimetterlo” ci penserebbe il suo partito (e non penso all’inutile Bersani e al decorativo Cuperlo, ma ai ben più fattivi Franceschini, De Luca, Fassino, Rossi) che cercherebbe di mettere insieme i cocci e non trasformare la sconfitta referendaria in una irrimediabile débacle elettorale», scrive Giannuli.La legislatura potrebbe anche continuare grazie a Mattarella, Franceschini e Berlusconi, che potrebbero dar vita ad un “governo di scopo”. E il peggioramento della situazione economica, insieme a una «opportunissima bocciatura dell’Italicum da parte della Consulta» darebbero uno strepitoso alibi per farlo. Il “verdetto” della Corte Costituzionale è atteso per il 4 ottobre, ma i giudici potrebbero anche prendere tempo sospendere la decisione: «Se conferma l’Italicum, lo scontro sul referendum si radicalizzerebbe diventando l’ultima spiaggia contro il progetto di regime in atto. Se lo bocciasse, anche solo parzialmente, ci sarebbe un effetto di riflesso sul referendum, delegittimando il progetto renziano». Secondo Giannuli, Renzi «tradisce quella stessa paura che leggiamo nelle parole di Stigliz: non sappiamo se per un qualche sondaggio riservato, se per la previsione di una pronuncia sfavorevole della Corte o se per notizie che fanno temere un disastro bancario in ottobre, ma quello che si capisce è che Renzi cerca (invano, direi) di disinnescare la bomba, ritenendo più probabile la vittoria del No». Intanto, «ringraziamo Stiglitz per averci fornito questa ulteriore riprova sulla natura di questo referendum: uno scontro fra democrazia e oligarchia, senza mediazioni possibili: chi vincerà, chiunque esso sia, non farà prigionieri».Joseph Stiglitz, già Premio Nobel per l’economia, dichiara che teme una catastrofe per l’Europa, in particolare per quanto riguarda l’Italia: se vincesse il No nel referendum, potrebbe seguirne il crollo dell’euro. Di conseguenza, invita Renzi a “rinunciare al referendum” disdicendo la consultazione popolare. Stiglitz non è un giurista, dice Aldo Giannuli, ma almeno potrebbe informarsi prima di aprir bocca. Il referendum? Non dipende dalla volontà di Renzi, ma dalla Costituzione: che prevede norme precise in caso di revisioni costituzionali. Referendum confermativo obbligatorio, se la riforma della Carta non è approvata dai 2/3 di ciascuna camera, oppure se ne facciano richiesta 500.000 elettori o il 20% dei parlamentari. «E non è scritto da nessuna parte che possa essere revocato, rinviato o anche solo sospeso», tantomeno dal presidente del Consiglio: «Si chiamerebbe colpo di Stato». Se desse retta a Stiglitz, Renzi «potrebbe essere arrestato per attentato alla Costituzione». Ad allarmare però non è l’ignoranza del Nobel americano, ma il pensiero retrostante: «Se c’è pericolo per gli assetti di potere esistenti, e in particolare quelli monetari, si sospendono le garanzie costituzionali e si toglie la parola all’elettorato».
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Cacciari: ma il M5S non farà guerra a Renzi sul referendum
Il voto politicamente decisivo, per Renzi, era Milano. S’è salvato, a Milano, e adesso può continuare a raccontare che il voto non è politicamente significativo. Ma, a questo punto, la sfida di ottobre diventa per lui assolutamente decisiva. E, con i risultati di queste elezioni, se il Movimento 5 Stelle si dovesse impegnare davvero “pancia a terra” per il referendum, per il No, rischia la pelle. Ma non ne sono convinto: non sono affatto convinto che il Movimento 5 Stelle condurrà una battaglia all’ultimo respiro su questo tema, perché ormai è evidente che al Movimento 5 Stelle la riforma Renzi conviene, è molto semplice – a meno che Renzi non decida di cambiare la legge elettorale. Come vado ripetendo dall’inizio della sua avventura, quello dei 5 Stelle non è un movimento di destra, assolutamente, e quindi anche una certa riforma istituzionale molti dei militanti l’avrebbero appoggiata. Metà dell’elettorato e dei militanti 5 Stelle hanno una storia che è Ulivo, è centrosinistra; sono persone che la sciagurata direzione del centrosinistra, dell’Ulivo prima e del Pd dopo, ha perso per strada. Non hanno nulla a che fare, antropologicamente, col Fronte Nazionale e Lega, sono molto più simili agli Tsipras, ai Podemos. Quindi, perché dovrebbero schierarsi “usque ad mortem” contro Renzi sul referendum? Non credo che lo faranno, e non solo per ragioni tattiche.L’affermazione del Movimento 5 Stelle viene da lontano, e viene soprattutto dalle strutturali debolezze del Partito Democratico, che non dipendono tanto dalle lacerazioni interne, come si continua a blaterare, ma da una radicale debolezza del mondo in cui questo partito è stato organizzato fin dall’inizio, dimenticando totalmente il “problemino” di un suo radicamento territoriale, la valorizzazione delle energie locali. Sono scelte sciagurate, che dimostrano come la dirigenza ex socialdemocratico-comunista ed ex democristiana che hanno dato vita al Pd non comprendessero nulla, negli anni ‘90 e nel primo decennio del nuovo millennio, delle trasformazioni sociali e strutturali che erano in atto. Questo non è il senno di poi. Si chieda a Fassino delle decine di riunioni, anche con lui, e allora anche con Chiamparino, per vedere di organizzare un Partito Democratico federalistico, che puntasse sul radicamento territoriale nelle periferie. Le energie c’erano, basti pensare all’andamento del voto amministrativo nel ventennio berlusconiano: sempre vi era un’affermazione maggiore del centrosinistra, dell’Ulivo, rispetto al centrodestra.Tutto ciò è stato sradicato, è stato dimenticato, ed è da lì che nasce il successo dei grillini – da lì e poi, certo, anche da un movimento generale anti-sistema che è comune in tutta Europa. Ma la specificità del caso italiano va compresa lì. E non è che sia scomparsa la classe operaia, non è scomparso il lavoro dipendente. E cosa votano costoro, soprattutto i giovani? Votano 5 Stelle massicciamente, o stanno a casa. L’astensionismo? Impressionante, ma ormai è fisiologico: centrodestra e centrosinistra dovrebbero cambiare radicalmente (ma non c’è alcuna prospettiva), e diventare nuovamente attrattivi di settori dell’elettorato “ragionante”. Perché comunque questa non è l’astensione dell’indifferenza, è l’astensione del “non ne possiamo più”: non ne possiamo più di andare a scegliere in quale demagogia identificarci. Metà di quest’astensione è un’astensione matura, consapevole: non possiamo continuare a votare tra chi promette di più e chi è più incompetente. Questi dati non cambieranno fino a quando non ci sarà un’offerta politica più intelligente e più adeguata alle tragedie che viviamo.(Massimo Cacciari, “Risultato Torino sintomatico disastro Pd”, dichiarazioni rilasciate ad Anna Zippel per “Repubblica Tv” il 20 giugno 2016).Il voto politicamente decisivo, per Renzi, era Milano. S’è salvato, a Milano, e adesso può continuare a raccontare che il voto non è politicamente significativo. Ma, a questo punto, la sfida di ottobre diventa per lui assolutamente decisiva. E, con i risultati di queste elezioni, se il Movimento 5 Stelle si dovesse impegnare davvero “pancia a terra” per il referendum, per il No, rischia la pelle. Ma non ne sono convinto: non sono affatto convinto che il Movimento 5 Stelle condurrà una battaglia all’ultimo respiro su questo tema, perché ormai è evidente che al Movimento 5 Stelle la riforma Renzi conviene, è molto semplice – a meno che Renzi non decida di cambiare la legge elettorale. Come vado ripetendo dall’inizio della sua avventura, quello dei 5 Stelle non è un movimento di destra, assolutamente, e quindi anche una certa riforma istituzionale molti dei militanti l’avrebbero appoggiata. Metà dell’elettorato e dei militanti 5 Stelle hanno una storia che è Ulivo, è centrosinistra; sono persone che la sciagurata direzione del centrosinistra, dell’Ulivo prima e del Pd dopo, ha perso per strada. Non hanno nulla a che fare, antropologicamente, col Fronte Nazionale e Lega, sono molto più simili agli Tsipras, ai Podemos. Quindi, perché dovrebbero schierarsi “usque ad mortem” contro Renzi sul referendum? Non credo che lo faranno, e non solo per ragioni tattiche.
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Banche, Fiat, ex-Pci: la strana alleanza che reggeva Torino
È caduto il Muro di Torino, proclama Aldo Cazzullo sul “Corriere”: ha scelto Grillo l’unica metropoli del nord ininterrottamente in mano al centrosinistra da quando esiste l’elezione diretta dei sindaci. E’ la fine di un ventennio anomalo, fondato sull’alleanza «tra quel che resta delle due grandi forze che si sono combattute per tutto il 900: la Fiat e il partito comunista». Torino era un campo di battaglia, un laboratorio nazionale: «Non a caso quasi tutti i leader comunisti erano torinesi di nascita o di formazione: Gramsci, Togliatti, Secchia, Terracini, Pajetta, Pecchioli, Occhetto, sino appunto a Fassino», che era accanto a Berlinguer ai cancelli di Mirafiori nel 1980. Tramontata la parentesi delle Olimpiadi Invernali 2006, la città si è arenata: la crisi sociale morde, «e questo rende i torinesi diffidenti verso l’ottimismo professato da Renzi». Il sistema che finora ha governato Torino, ricorda Cazzullo, nacque nel 1993 a casa del filosofo Gianni Vattimo, «poi pentitissimo». Architetto del nuovo sistema di potere fu Enrico Salza, presidente della banca San Paolo.D’intesa con Chiamparino, continua Cazzullo, il super-banchiere Salza mise in campo il rettore del Politecnico, Valentino Castellani, contro la Lega e contro il “veterocomunista” Novelli. Il 20 giugno Castellani fu eletto sindaco. Ma alle politiche di nove mesi dopo, Chiamparino veniva umiliato nel sacro collegio di Mirafiori dal candidato di Forza Italia: il leggendario Alessandro Meluzzi, poi cossighiano, diniano, verde, mastelliano e ora primate di un ramo scissionista della chiesa ortodossa, con il nome di Alessandro I. «Chiamparino ebbe la sua rivincita come sindaco delle Olimpiadi: le sue partite a scopone con Marchionne suggellarono l’intesa tra i poteri egemoni». Andò poi a presiedere la Compagnia di San Paolo, prima di lasciare il posto a Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico, per poi essere eletto presidente della Regione Piemonte. «Torino è in mano ai soliti noti», dice la Appendino. E un po’ ha ragione, ammette Cazzullo: «La direttrice del Circolo dei lettori diventa assessore regionale alla cultura, il capo del personale di Mirafiori diviene presidente dell’Aeroporto, la presidente del Teatro stabile passa al museo Egizio».Secondo la difesa d’ufficio, il sistema-Torino “funzionava”: una città più vivace rispetto a un tempo; una cultura industriale che avrebbe prodotto ricerca e tecnologia, cui si è affiancato il turismo spinto da Slow Food e Eataly. «Ma Torino non ha più il peso demografico, economico e quindi politico che aveva nell’era fordista. La disoccupazione giovanile è drammatica, il peso dell’immigrazione grava sulle classi popolari». Chiara Appendino, bocconiana, con un’esperienza alla Juventus, ora al controllo di gestione nell’azienda del marito, «ha raccolto i voti dei ragazzi che dal sistema si sentono esclusi, e della Torino piccoloborghese da sempre diffidente della Fiat: calamita per i piemontesi del contado e gli immigrati del Sud, incubatrice di scioperi e violenze». Torino è stanca, insiste Cazzullo, e resta refrattaria anche al renzismo: «La città che ha fatto l’Italia due volte, nella politica e nell’industria, attende risposte urgenti su almeno tre punti: il lavoro per i giovani; le tasse; l’immigrazione».È caduto il Muro di Torino, proclama Aldo Cazzullo sul “Corriere”: ha scelto Grillo l’unica metropoli del nord ininterrottamente in mano al centrosinistra da quando esiste l’elezione diretta dei sindaci. E’ la fine di un ventennio anomalo, fondato sull’alleanza «tra quel che resta delle due grandi forze che si sono combattute per tutto il 900: la Fiat e il partito comunista». Torino era un campo di battaglia, un laboratorio nazionale: «Non a caso quasi tutti i leader comunisti erano torinesi di nascita o di formazione: Gramsci, Togliatti, Secchia, Terracini, Pajetta, Pecchioli, Occhetto, sino appunto a Fassino», che era accanto a Berlinguer ai cancelli di Mirafiori nel 1980. Tramontata la parentesi delle Olimpiadi Invernali 2006, la città si è arenata: la crisi sociale morde, «e questo rende i torinesi diffidenti verso l’ottimismo professato da Renzi». Il sistema che finora ha governato Torino, ricorda Cazzullo, nacque nel 1993 a casa del filosofo Gianni Vattimo, «poi pentitissimo». Architetto del nuovo sistema di potere fu Enrico Salza, presidente della banca San Paolo.