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Ttip, fuorilegge Stati e diritti: vogliono ucciderci così
«Negoziato in segreto, questo progetto fortemente sostenuto dalle multinazionali permetterebbe loro di citare in giudizio gli Stati che non si piegano alle leggi del liberismo». Si chiama Trattato Transatlantico ed è l’uragano devastante che minaccia il futuro degli europei, o quel che ne resta. All’allarme – da più parti lanciato nei mesi scorsi – si associa ora anche Lori Wallach, direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch, prestigioso osservatorio indipendente di Washington. «Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per quanto inverosimile possa apparire, questo scenario non risale a ieri».Le fondamenta di questo trattato clamorosamente eversivo – il grande business che emana i propri diktat non più di nascosto, attraverso le lobby e i politici compiacenti, ma ormai alla luce del sole, e addirittura per legge – comparivano già a chiare lettere nel progetto di accordo multilaterale sugli investimenti (Mai) negoziato segretamente tra il 1995 e il 1997 dai 29 stati membri dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, come ricorda la Wallach in un intervento su “Le Monde Diplomatique”, il giornale che divulgò la notizia in extremis, sollevando un’ondata di proteste senza precedenti, fino a costringere i suoi promotori ad accantonare il progetto. Quindici anni più tardi, scrive oggi Lori Wallach sempre sul giornale francese, in un intervento ripreso da “Micromega”, la grande “trappola” fa il suo ritorno in pompa magna, sotto nuove sembianze.L’accordo di partenariato transatlantico (Ttip), negoziato a partire dal luglio 2013 tra Usa e Ue – accordo che dovrebbe concludersi entro due anni – non è che una versione aggiornata del Mai. Prevede infatti che «le legislazioni in vigore sulle due coste dell’Atlantico si pieghino alle regole del libero scambio» stabilite dalle corporations, «sotto pena di sanzioni commerciali per il paese trasgressore, o di una riparazione di diversi milioni di euro a favore dei querelanti». Se dovesse entrare in vigore, aggiunge Lori Wallach, «i privilegi delle multinazionali avrebbero forza di legge e legherebbero completamente le mani dei governanti». Impermeabile alle alternanze politiche e alle mobilitazioni popolari, il trattato «si applicherebbe per amore o per forza, poiché le sue disposizioni potrebbero essere emendate solo con il consenso unanime di tutti i paesi firmatari». Ciò riprodurrebbe in Europa «lo spirito e le modalità del suo modello asiatico», ovvero l’Accordo di Partenariato Transpacifico (Trans-pacific partnership, Tpp), attualmente in corso di adozione in 12 paesi dopo essere stato fortemente promosso dagli ambienti d’affari.«In virtù di numerosi accordi commerciali firmati da Washington, 400 milioni di dollari sono passati dalle tasche del contribuente a quelle delle multinazionali a causa del divieto di prodotti tossici, delle normative sull’utilizzo dell’acqua, del suolo o del legname». Sotto l’egida di questi stessi trattati, le procedure attualmente in corso – nelle questioni di interesse generale come i brevetti medici, la lotta all’inquinamento e le leggi sul clima e sulle energie fossili – fanno schizzare le richieste di danni e interessi a 14 miliardi di dollari. Il Ttip «aggraverebbe ulteriormente il peso di questa estorsione legalizzata». Basta osservare gli attori sul terreno: negli Usa sono presenti 3.300 aziende europee con 24.000 filiali, ciascuna delle quali può ritenere di avere buone ragioni per chiedere, un giorno o l’altro, riparazione per un “pregiudizio commerciale”. Dal canto loro, i paesi dell’Unione Europea si vedrebbero esposti a un rischio finanziario ancora più grande, sapendo che 14.400 compagnie statunitensi dispongono in Europa di una rete di 50.800 filiali. In totale, sono 75.000 le società che potrebbero gettarsi nella caccia ai tesori pubblici.Gli accordi-capestro per Atlantico e Pacifico «formerebbero un impero economico capace di dettare le proprie condizioni al di fuori delle sue frontiere: qualunque paese cercasse di tessere relazioni commerciali con gli Stati uniti e l’Unione Europea si troverebbe costretto ad adottare tali e quali le regole vigenti all’interno del loro mercato comune». E dato che i proponenti «mirano a liquidare interi compartimenti del settore non mercantile», i negoziati si svolgono a porte chiuse. Le delegazioni statunitensi contano più di 600 consulenti delegati dalle multinazionali, che dispongono di un accesso illimitato ai documenti preparatori. «Nulla deve sfuggire. Sono state date istruzioni di lasciare giornalisti e cittadini ai margini delle discussioni: essi saranno informati in tempo utile, alla firma del trattato, quando sarà troppo tardi per reagire». Vana la protesta della senatrice Elizabeth Warren, secondo cui «un accordo negoziato senza alcun esame democratico non dovrebbe mai essere firmato».L’imperiosa volontà di sottrarre il cantiere del trattato all’attenzione del pubblico si comprende facilmente, aggiunge la Lori Wallach: «Meglio prendere tempo prima di annunciare al paese gli effetti che esso produrrà a tutti i livelli: dal vertice dello Stato federale fino ai consigli municipali passando per i governatorati e le assemblee locali, gli eletti dovranno ridefinire da cima a fondo le loro politiche pubbliche per soddisfare gli appetiti del privato nei settori che in parte gli sfuggono ancora». Nulla sfugge alle fauci dei super-privatizzatori: sicurezza degli alimenti, norme sulla tossicità, assicurazione sanitaria, prezzo dei medicinali, libertà della rete, protezione della privacy, energia, cultura, diritti d’autore, risorse naturali, formazione professionale, strutture pubbliche, immigrazione. «Non c’è una sfera di interesse generale che non passerà sotto le forche caudine del libero scambio istituzionalizzato». Fine della democrazia: «L’azione politica degli eletti si limiterà a negoziare presso le aziende o i loro mandatari locali le briciole di sovranità che questi vorranno concedere loro».È già stipulato che i paesi firmatari assicureranno la «messa in conformità delle loro leggi, dei loro regolamenti e delle loro procedure» con le disposizioni del trattato. Non vi è dubbio che essi vigileranno scrupolosamente per onorare tale impegno. In caso contrario, potranno essere l’oggetto di denunce davanti a uno dei tribunali appositamente creati per arbitrare i litigi tra investitori e Stati, e dotati del potere di emettere sanzioni commerciali contro questi ultimi. «L’idea può sembrare inverosimile: si inscrive tuttavia nella filosofia dei trattati commerciali già in vigore». Lo scorso anno, l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), ha condannato gli Stati Uniti per le loro scatole di tonno etichettate “senza pericolo per i delfini”, per l’indicazione del paese d’origine sulle carni importate, e ancora per il divieto del tabacco aromatizzato alla caramella, dal momento che tali misure di tutela sono state considerate degli ostacoli al libero scambio. Il Wto ha inflitto anche all’Unione Europea delle penalità di diverse centinaia di milioni di euro per il suo rifiuto di importare Ogm come quelli della Monsanto, che finanziò l’elezione di Obama.«La novità introdotta dal Ttip e dal Tpp – osserva Lori Wallach – consiste nel permettere alle multinazionali di denunciare a loro nome un paese firmatario la cui politica avrebbe un effetto restrittivo sulla loro vitalità commerciale». Sotto un tale regime, «le aziende sarebbero in grado di opporsi alle politiche sanitarie, di protezione dell’ambiente e di regolamentazione della finanza», reclamando danni e interessi davanti a tribunali extragiudiziari. «Composte da tre avvocati d’affari, queste corti speciali rispondenti alle leggi della Banca Mondiale e dell’Onu «sarebbero abilitate a condannare il contribuente a pesanti riparazioni qualora la sua legislazione riducesse i “futuri profitti sperati” di una società». Questo sistema, che oppone le industrie agli Stati, sembrava essere stato cancellato dopo l’abbandono del Mai nel 1998, ma è stato «restaurato di soppiatto» nel corso degli anni. Di fatto, l’adozione del super-trattato riduce in schiavitù le istituzioni pubbliche, per le quali i cittadini votano, affidando ad esse il compito di governare il proprio paese. Con le mostruose norme in via di approvazione semi-clandestina, i poteri pubblici dovranno mettere mano al portafoglio se la loro legislazione ha per effetto la riduzione del valore di un investimento, anche quando questa stessa legislazione si applica alle aziende locali. In altre parole: la civiltà democratica finisce qui.«Negoziato in segreto, questo progetto fortemente sostenuto dalle multinazionali permetterebbe loro di citare in giudizio gli Stati che non si piegano alle leggi del liberismo». Si chiama Trattato Transatlantico ed è l’uragano devastante che minaccia il futuro degli europei, o quel che ne resta. All’allarme – da più parti lanciato nei mesi scorsi – si associa ora anche Lori Wallach, direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch, prestigioso osservatorio indipendente di Washington. «Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per quanto inverosimile possa apparire, questo scenario non risale a ieri».
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La Marina Usa: estate 2016, Artico senza più ghiacci
Il pack polare in dissoluzione libera enormi quantitativi di metano ed entro l’estate del 2016 scomparirà il ghiaccio dell’Artico: con l’attuale tasso di riduzione della banchisa, lo scioglimento avverrà con 84 anni di anticipo su tutte le previsioni precedenti. Lo sostiene il professor Wieslaw Maslowski, ricercatore della Marina Usa coinvolto in un progetto del ministero americano per l’energia. Sostenuto dal dipartimento di oceanografia della scuola post-universitaria della Us Navy, il progetto utilizza modelli all’avanguardia, che offrono proiezioni allarmanti. «L’Artico si sta riscaldando più velocemente del resto del pianeta», rivela lo stesso Maslowki, e quindi «i processi e le ricadute di un tale aumento sono una priorità non secondaria». Per la precisione, «si calcola che nei prossimi decenni i ghiacciai dell’Artico e del Greenland Ice Sheet cambieranno significativamente e contribuiranno all’innalzamento globale delle acque». Questo avrà «ricadute significative sull’innalzamento del livello marino globale, sulle grandi correnti oceaniche e sul livello di riscaldamento, sulle comunità autoctone, sull’esplorazione delle risorse naturali e sui trasporti commerciali».Si tratta di anticipazioni che Maslowski ha pubblicato sulla rivista scientifica “Annual Review of Earth and Planetary Sciences”, come riferisce Nageez Ahmed in un servizio del “Guardian” ripreso da “Come Don Chisciotte”. L’articolo critica fortemente i modelli climatici globali, che ignorerebbero la reale evoluzione dello scioglimento della calotta artica. Non stupisce il ruolo del Dipartimento americano per l’energia nel sostenere la ricerca, alla luce della strategia nazionale per l’Artico, lanciata a maggio dal presidente Obama e focalizzata sulla protezione degli interessi commerciali e delle corporation. Obiettivo, il controllo dei grandi giacimenti ancora non sfruttati di petrolio, gas e minerali pregiati. L’allarmante aggiornamento fornito da Maslowksi, continua il “Guardian”, si riallaccia alle previsioni di numerosi studiosi come Peter Wadhams, capo del dipartimento di fisica polare oceanica presso la Cambridge University. Secondo Wadhams, potremmo dover fronteggiare il costo economico di un cambiamento climatico basato su uno scenario apocalittico: 50 giga-tonnellate di metano rilasciate in questo secolo nello scioglimento del permagelo del Bassopiano della Siberia Orientale.Questo scenario fu ipotizzato per la prima volta da Natalia Shakhova e Igor Semiletov, del Centro Internazionale di Ricerca Artica (Iarc) dell’Università dell’Alaska a Fairbanks. Nel 2010 il gruppo della Shakhova rese noti i risultati, che rivelavano come annualmente, in quella regione, traboccavano 7 tera-grammi di metano dalla superficie. Dati confermati da recenti misurazioni, effettuate con l’impiego di sottomarini. La scoperta: la temperatura dell’acqua più in profondità è aumentata negli ultimi 14 anni, correlata ad una perdita di 17 tera-grammi (17 milioni di tonnellate) di metano all’anno, accentuati dalle tempeste. «Questa stima prudenziale è oltre il doppio della precedente valutazione», sottolinea il “Guardian”. «Dunque, la sorgente di queste emissioni di metano rimane sconosciuta». La comunità scientifica è divisa: si tratta della perdita improvvisa di un grande deposito sommerso o una lenta fuoriuscita che dura da centinaia di anni? Secondo il Centro nazionale americano per la neve e il ghiaccio (Nsidc), le osservazioni eseguite dalle navi rivelano che le concentrazioni anomale di metano nell’area artica sono quasi il doppio della media mondiale: il metano emerso con lo scioglimento dei ghiacci «ha un potenziale nel surriscaldamento globale pari a 86 volte quello del biossido di carbonio».Molti scienziati, aggiunge Ahmed, concordano nel ritenere che ci sia bisogno di ulteriori ricerche per localizzare con precisione la sorgente di queste pericolose emissioni di metano, sapendo comunque che un Artico senza ghiacci in estate «porterebbe a serie conseguenze per il clima globale». Inoltre, alcune ricerche associano il riscaldamento dell’Artico ai cambiamenti delle correnti, che hanno già portato negli ultimi anni a mutamenti ambientali senza precedenti: fenomeni “estremi”, che «hanno colpito in maniera forte il paniere produttivo delle nazioni». Lo confermano recenti ricerche pubblicate da “Nature Climate Change”: lo scioglimento del ghiaccio marino negli ultimi 30 anni ad un ritmo dell’8% ogni dieci anni è direttamente correlato con estati estremamente calde, che non solo negli Usa si sono presentate sotto forma di siccità e ondate di calore. Identiche conclusioni dal capo-ricercatore (scienze geografiche e risorse naturali) di Pechino, Quihang Tang: «Come le alte latitudini si riscaldano più velocemente delle medie latitudini, per via dell’effetto amplificato dello scioglimento dei ghiacci, così il vento delle correnti a getto che partono da Ovest verso Est si è attenuato. Di conseguenza, il cambio di circolazione atmosferica tende a favorire sistemi climatici persistenti e stagioni estive estreme».Gli approfondimenti al nuovo studio pubblicato sul “Geophysical Research Letters” hanno dimostrato un collegamento tra la diminuzione dei ghiacci nel mare Artico e le stagioni estreme, in particolare l’estate e l’inverno, che includono prolungati periodi di “siccità, inondazioni, ondate di freddo e di caldo”. Secondo il professor Carlos Duarte, direttore dell’Ocean Institute all’Università della Western Australia, ci stiamo avvicinando ad un «punto critico» che potrebbe portare ad un «effetto domino», una volta che sarà finito il ghiaccio estivo. Per Duarte, «se il movimento prende avvio, può generare profondi cambiamenti climatici, che mettono l’Artico al centro e non alla periferia del sistema-Terra. E’ evidente che queste forze stanno per mettersi in moto. Ciò ha maggiori conseguenze sul futuro del genere umano, man mano che avanzano i cambiamenti climatici».Il pack polare in dissoluzione libera enormi quantitativi di metano ed entro l’estate del 2016 scomparirà il ghiaccio dell’Artico: con l’attuale tasso di riduzione della banchisa, lo scioglimento avverrà con 84 anni di anticipo su tutte le previsioni precedenti. Lo sostiene il professor Wieslaw Maslowski, ricercatore della Marina Usa coinvolto in un progetto del ministero americano per l’energia. Sostenuto dal dipartimento di oceanografia della scuola post-universitaria della Us Navy, il progetto utilizza modelli all’avanguardia, che offrono proiezioni allarmanti. «L’Artico si sta riscaldando più velocemente del resto del pianeta», rivela lo stesso Maslowki, e quindi «i processi e le ricadute di un tale aumento sono una priorità non secondaria». Per la precisione, «si calcola che nei prossimi decenni i ghiacciai dell’Artico e del Greenland Ice Sheet cambieranno significativamente e contribuiranno all’innalzamento globale delle acque». Questo avrà «ricadute significative sull’innalzamento del livello marino globale, sulle grandi correnti oceaniche e sul livello di riscaldamento, sulle comunità autoctone, sull’esplorazione delle risorse naturali e sui trasporti commerciali».
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Rampini: il grande ritorno dei Padroni dell’Universo
C’é un fondo d’investimento che si compra un’intera città della California in bancarotta, c’è quello che controlla da solo il 7% di tutta la ricchezza mondiale, 15.000 miliardi di dollari, e c’è il finanziere d’assalto che sfida Apple. I “Masters of the Universe” sono tornati, osserva Federico Rampini: i giganti della finanza americana rinascono più forti che mai. «Il crac sistemico del 2008, che sembrava averli spezzati, è ormai un ricordo lontano: se ne accorge anche Hollywood, con il duo Martin Scorsese-Leonardo Di Caprio» che proprio a loro dedica a “The Wolf, il Lupo di Wall Street”, alla fine di un 2013 che ha visto Wall Street polverizzare ogni record, con l’indice Standard & Poor’s in rialzo del 30%. rispetto al primo gennaio. L’“Economist” dedica una copertina a Blackrock, il fondo d’investimento più grande del mondo, il primo azionista in metà delle 30 maggiori multinazionali del pianeta. E lo raffigura come una roccia nera che incombe su sfondo di cielo azzurro, «un’immagine che evoca Magritte oppure il monolito di Stanley Kubrick».“Time Magazine” invece sulla copertina di dicembre mette Carl Icahn, un nome che rievoca le prime grandi scalate degli anni Ottanta: «L’epoca in cui il romanziere Tom Wolfe coniò, nel “Falò delle vanità”, quel termine arrogante e superbo, inquietante e gonfio di hubris: i Padroni dell’Universo, appunto», scrive Rampini su “Repubblica” in un’analisi ripresa da “Micromega”. Il fondo che possiede una città si chiama Marathon Asset Management, non è neppure uno dei maggiori colossi, amministra “solo” 11 miliardi di dollari. Ha rilevato l’intera Scotia, città californiana a 250 km a nord di San Francisco, dopo la bancarotta municipale. «È un precedente che potrebbe far scuola per metropoli ben più grandi come Detroit, dove il liquidatore dei beni comunali sta mettendo all’asta fallimentare anche i musei cittadini». Intanto, “Time” saluta il ritorno di Icahn, 77 anni e un patrimonio di 20 miliardi che lo colloca al 18esimo posto della classifica “Forbes” dei Paperoni d’America, con questa presentazione: «È il singolo investitore più ricco di Wall Street, e il più temuto raider di grandi imperi industriali».La sua carriera, ricorda Rampini, cominciò con la scalata alla compagnia aerea Twa nel 1985, un anno prima che i rivali di Kkr lo battessero nella conquista alla Nabisco (raccontata in un altro celebre romanzo-realtà sulla finanza Usa, “Barbari alle porte”). Oggi Icahn fa notizia soprattutto per il braccio di ferro che lo oppone a Tim Cook, il chief executive di Apple nel dopo-Steve Jobs. «E qui viene la sorpresa: invece di assalire Apple con una delle solite scorribande finanziarie mordi-e-fuggi, Icahn si fa il paladino di interessi generali», perché «Apple non è una banca». Icahn vuole che la regina degli iPhone e iPad la smetta di accumulare cash inutilizzato (ben 150 miliardi di dollari, una montagna di liquidità tanto impressionante quanto assurda) e lo distribuisca a tutti gli azionisti – lui incluso, ovviamente, che nel capitale di Apple ha investito due miliardi. Ma l’operazione che Icahn pretende da Apple distribuirebbe benefici anche ai piccoli risparmiatori. «I Padroni dell’Universo si sono convertiti come dei Robin Hood? Tutt’altro. Ma almeno il loro è un capitalismo vero, un’economia di mercato non ingessata».Blackrock è un campione che gioca in una categoria a parte: la sua. «È il King Kong dell’investimento moderno, nessun altro può competere per dimensioni». Fondata nel 1988, oggi Blackrock amministra direttamente 4.100 miliardi di dollari dei suoi clienti. Inoltre fornisce piattaforme tecnologiche e software per la gestione di altri 11.000 miliardi. E quei fondi sotto la sua influenza crescono al ritmo frenetico di 1.000 miliardi all’anno. «Naturalmente compra anche bond, materie prime, immobili. La sua vera specialità però resta l’investimento azionario. Ritrovi Blackrock come primo azionista delle tre regine hi-tech americane: Apple, Google, Microsoft. È il primo azionista anche di due colossi petroliferi (Exxon, Chevron), di due tra le maggiori banche Usa (Jp Morgan Chase, Wells Fargo), sempre primo azionista anche in conglomerati industriali come General Electric, Procter & Gamble». Una peculiarità di Blackrock la distingue da altri protagonisti di epoche precedenti nella storia di Wall Street: «Questo maxi-fondo investe soprattutto attraverso strumenti detti “passivi” come gli exchangetraded funds (Etf) che riproducono esattamente l’andamento di indici di Borsa». Soprattutto, Blackrock investe capitali che le vengono affidati anche dai piccoli risparmiatori, per esempio attraverso fondi pensione. «Dunque, a differenza della famigerata e defunta Lehman Brothers o di altre banche d’affari che si rivelarono fragilissime, un investitore istituzionale come Blackrock ha poco “rischio sistemico”».In un certo senso, continua Rampini, la Blackrock ha obbedito anticipatamente alla nuova regola varata solo da poche settimane dall’amministrazione Obama, quella Volcker Rule che vieta ai banchieri di fare speculazioni rischiose coi propri capitali. «È un altro caso di Padrone dell’Universo che può aiutare l’economia di mercato a evitare catastrofi come quella del 2008? Di certo l’universo capitalistico in cui si muove Blackrock dista anni-luce dalla realtà italiana. Per quanto sia un colosso, e grosso azionista di gruppi come Apple, Google, Shell e Nestlè, Toyota e Novartis, in nessuna di queste aziende la sua quota configura una “minoranza di blocco”. Né fa parte di patti di sindacato, che generalmente non esistono a Wall Street e nei mercati più evoluti. Blackrock può usare la frusta verso un management che giudica inefficiente, ma non ha poteri di veto né si può permettere di paralizzare una grande azienda».Il ritorno dei Padroni dell’Universo, aggiunge Rampini, è un fenomeno dalle molte facce. «L’aspetto negativo lo sottolinea chi teme che la crescita americana sia ripartita su basi vecchie, cioé con gli stessi squilibri che generarono la grande crisi del 2008», in particolare «la finanziarizzazione dell’economia e la dilatazione delle diseguaglianze sociali che le è strettamente legata». Larry Summers, ex consigliere economico di Obama, in un importante discorso al Fmi ha evocato il rischio di una «stagnazione secolare», tra i cui sintomi vi sarebbe la deflazione. Uno studio della Washington University lancia l’allarme sulle disparità nel risparmio: il 5% delle famiglie più ricche sta accumulando troppi risparmi e in questo modo deprime i consumi; mentre il 95% rimanente è costretto a dilapidare lentamente i propri patrimoni per contrastare il peggioramento del tenore di vita.Il “lato positivo” di Wall Street, se esiste, forse lo vedono meglio di tutti gli italiani: per contrasto con la loro realtà nazionale. Il ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni, in una recente visita a New York in cui ha incontrato proprio i dirigenti di Blackrock, oltre agli uomini di Citigroup e George Soros, ha potuto misurare i benefici della loro intraprendenza: «Diversi attori della finanza Usa si sono offerti di liquidare in fretta le sofferenze e i crediti incagliati delle banche italiane, un’operazione che consentirebbe alle aziende di credito di tornare a prestare fondi all’economia reale». Dietro un’economia americana che cresce del 3% e genera 200.000 nuovi posti di lavoro al mese, c’è anche questa finanza “flessibile”, che «ha liquidato in tempi record le scorie tossiche della crisi del 2008, ed è tornata a fare il suo mestiere». La storia di come le banche americane si sono rimesse in piedi, nel corso degli ultimi quattro anni, è lo specchio riflesso — all’incontrario — di tutto quel che non accade nel sistema bancario italiano. «Quando le banche Usa sembravano stremate, al tracollo, sul punto di affondare sotto il peso di investimenti sbagliati e crediti inesigibili, la prima mossa è stata la svendita a prezzi di liquidazione di tutta la “monnezza” che poteva impedire la riemersione».In seguito o in parallelo, ci sono state le grandi ricapitalizzazioni. Le banche hanno cercato capitali freschi sul mercato aperto. Una delle prime operazioni la fece un personaggio emblematico del capitalismo Usa, Warren Buffett, con il suo investimento “salvifico” in Goldman Sachs, fatto in un’epoca in cui sui mercati ancora regnava una sfiducia quasi disperata. Una volta ricapitalizzate, anche con l’intervento dei Padroni dell’Universo, le banche hanno riguadagnato la fiducia dei mercati, sono apparse sufficientemente solide da superare gli “stress test” degli organi di vigilanza. E hanno ripreso a fare credito all’economia reale, famiglie e imprese, alimentando la ripresa attuale. Niente blindature degli assetti azionari, niente “foreste pietrificate” dei soliti noti. Questo è il capitalismo americano, conclude Rampini: è la “macchina del mercato” che, negli Usa, «ha ripreso a girare a pieno ritmo».C’è un fondo d’investimento che si compra un’intera città della California in bancarotta, c’è quello che controlla da solo il 7% di tutta la ricchezza mondiale, 15.000 miliardi di dollari, e c’è il finanziere d’assalto che sfida Apple. I “Masters of the Universe” sono tornati, osserva Federico Rampini: i giganti della finanza americana rinascono più forti che mai. «Il crac sistemico del 2008, che sembrava averli spezzati, è ormai un ricordo lontano: se ne accorge anche Hollywood, con il duo Martin Scorsese-Leonardo Di Caprio» che proprio a loro dedica a “The Wolf, il Lupo di Wall Street”, alla fine di un 2013 che ha visto Wall Street polverizzare ogni record, con l’indice Standard & Poor’s in rialzo del 30%. rispetto al primo gennaio. L’“Economist” dedica una copertina a Blackrock, il fondo d’investimento più grande del mondo, il primo azionista in metà delle 30 maggiori multinazionali del pianeta. E lo raffigura come una roccia nera che incombe su sfondo di cielo azzurro, «un’immagine che evoca Magritte oppure il monolito di Stanley Kubrick».
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Via i parassiti della finanza, e avremo ancora un futuro
Il principale processo storico che sta segnando il nuovo secolo, cioè lo spostamento del baricentro geopolitico dall’Atlantico al Pacifico, condanna l’Europa a diventare sempre più periferica. La crescente proiezione internazionale di una Cina punta chiaramente a diventare potenza navale oltreché commerciale, in Estremo Oriente ma anche in direzione dell’Africa e del Medio Oriente. Questo impegnerà direttamente gli Usa e li obbligherà ad una scelta fondamentale: Cina o ancora Giappone, come alleati strategici? Certo, Russia e India non staranno a guardare. E’ questo lo scenario nel quale Gaetano Colonna invita ad analizzare la grande crisi che sta travolgendo l’Eurozona. Se il vecchio continente perde terreno nel forziere petrolifero mediorientale, l’influenza cinese continua a crescere in teatri strategici per gli Stati Uniti, dall’Iran al Pakistan fino al continente nero, che rappresenta un’enorme riserva di materie prime e terre coltivabili.Di conseguenza, osserva Colonna su “Clarissa”, torna alla ribalta il ruolo del Mediterraneo: decisivo snodo geografico e culturale tra Africa, Vicino Oriente ed Europa, il “mare nostrum” «diverrà, se possibile, ancora più rilevante di quanto non lo sia già stato dalla fine del XIX secolo, quale linea di comunicazione vitale per gli imperi anglosassoni, oltreché frontiera fra il Nord ed il Sud del mondo». Di recente, il protagonismo neo-coloniale della Francia (appoggiato da Usa e Israele) ha relegato l’Italia a «alla semplice condizione di piattaforma logistica dei grandi alleati occidentali». Ma se l’Occidente deve comunque fare il conti con la Cina, questo influisce anche sul nuovo ruolo della Russia di Putin, la cui condizione ricorda quella dell’impero zarista di cent’anni fa, schiacciato a oriente dalla potenza giapponese e ad occidente dall’impero germanico.Oggi, riconosce Colonna, la politica estera russa ha costruito un asse preferenziale con la Cina, dato che in Occidente la pressione della Nato e degli Usa non si è minimamente allentata, né l’Unione Europea ha saputo smarcarsi dalla vecchia politica atlantica ereditata dalla guerra fredda. Smaltita la «passeggera ubriacatura filo-occidentale» del disastroso governatorato di Eltsin, «pur non perseguendo più una politica da superpotenza» la Russia post-sovietica «non rinuncia al suo ruolo di grande potenza sullo scenario mondiale», e per questo non rinuncia «ad una propria forte capacità militare, in grado di tutelare i propri fondamentali interessi strategici». Ora, alla luce della nuova gravitazione del mondo sull’Oceano Pacifico, si tratta di vedere se la Russia di Putin «seguirà la propria vocazione asiatica oppure quella europea».E’ davvero singolare, osserva Colonna, che l’Europa «continui a seguire pedissequamente i desiderata americani, rivolti ad isolare la Russia sul piano internazionale, invece di perseguire una propria assai più realistica politica di avvicinamento ed integrazione con il grande paese che costituisce la sola efficace copertura del nostro continente rispetto a qualsiasi ambizione cinese». Ma il peggio è in assoluto l’Italia: ancora una volta, il nostro paese si “scopre” collocato – dalla geografia e dalla storia – al crocevia delle forze da cui dipende il futuro del pianeta, ma le classi dirigenti italiane non se ne sono accorte. In loro c’è una «evidente mancanza di coscienza» dell’importanza geopolitica dello Stivale. E questo è «uno dei fattori più gravi e preoccupanti della nostra attuale condizione storica». Colonna la definisce «devastante pochezza» di uomini «privi di un sentire vivamente operante e non retorico per la patria». Mezzi uomini, «colpevolmente ignari delle prove che anche l’Italia si troverà presto a dover affrontare».Là fuori, infatti, impazza la grande crisi: ci si muove tra macerie economiche, provocate dall’oligarchia finanziaria che ha devastato la “democrazia del lavoro”. «La lezione del 2007-2008 non è stata compresa: basterebbe questa affermazione per definire lo scenario dell’economia mondiale dei prossimi mesi e anni», sostiene Colonna. «I grandi centri finanziari mondiali, che elaborano le strategie sistemiche dell’economia mondiale, dimostrano di non volere e di non potere rinunciare all’orientamento speculativo che è insieme all’origine della crisi che ha investito il sistema-mondo nell’ultimo quinquennio». Questa avidità cieca è anche «il fondamento stesso del potere dei “padroni dell’universo”, come questi oligarchi amano definirsi». Lo dimostra il fatto che «nessuna delle regolamentazioni statunitensi o europee ha affrontato le tre questioni che avrebbero dovuto essere preliminari all’adozione di qualsiasi modalità di risoluzione della crisi». Ovvero: paradisi fiscali, finanza speculativa fuori controllo e agenzie di rating che si fingono soggetti terzi, ma sono in realtà pilotati e pienamente complici dei grandi speculatori.L’Occidente ha risposto in un solo modo, cioè tutelando i monopolisti del crimine finanziario: negli Usa coi salvataggi delle banche “troppo grandi per fallire”, tenute in piedi coi dollari della Fed, e in Europa spremendo senza pietà paesi interi, con super-tasse e tagli selvaggi alla spesa vitale, cioè “fiscalizzando” le rovinose perdite del sistema finanziario internazionale, il cui conto viene fatto pagare ai lavoratori. Nessuna alternativa in campo, finora, «per il semplice fatto che, da oltre mezzo secolo, sono i centri finanziari mondiali a condizionare gli Stati-nazione dell’Occidente, grazie alla formazione di una vera e propria classe dirigente internazionale che occupa con continuità le posizioni chiave, indipendentemente dalle alternanze di governo e dalle competizioni elettorali». Classe dirigente «cui viene affidata la puntuale esecuzione di strategie economiche, monetarie e legislative costruite a livello globale». Si tratta di «una vera e propria oligarchia economico-politica internazionale, che ha progressivamente svuotato di significato la democrazia parlamentare occidentale», visto che il popolo è stato privato della sua prerogativa essenziale (la sovranità) e anche della sua principale forza politica (il lavoro).La finanziarizzazione dell’economia ha infatti trasformato i sistemi industriali, togliendo al lavoro ogni potere contrattuale: dagli anni ’80 la finanza controlla le aziende, i cui pacchetti azionari sono diventati “merce” sui mercati finanziari mondiali, distogliendo il management dall’economia reale, cioè strategie produttive e commerciali. Conseguenza: progetti dalla vita sempre più breve, anziché investimenti, ricerca e sviluppo. Da parte della proprietà industriale, si è così «accentuata la tendenza a servirsi degli utili per entrare nel grande gioco finanziario, piuttosto che reinvestire nel futuro delle imprese». Per questo, oggi, i grandi gruppi bancari «preferiscono investire i generosi aiuti ottenuti a spese della collettività nell’acquisto di titoli di Stato piuttosto che nel credito alle Pmi». E il peggio è che tutto questo è avvenuto nel silenzio generale della politica, incapace di elaborare un’alternativa «ai dogmi dell’economia speculativa».Risultato: «Si è persa l’occasione per prendere coraggiosamente atto della crisi come di un evento globale e non contingente, esigendo quindi, da parte delle classi dirigenti, un radicale mutamento di rotta». Pre-condizione: l’emancipazione dell’economia reale. «Imprenditori, lavoratori e consumatori» dovrebbero cioè liberarsi «dal controllo dell’oligarchia finanziaria e dalla strumentalizzazione politica dei partiti», prendendo il mano «istituzioni autonome dell’economia reale», in grado di «esigere il controllo, per esempio, della moneta e del credito». Inoltre, la crescente consapevolezza dei “limiti allo sviluppo” «impone anch’essa che le forze dell’economia reale, piuttosto che rincorrere le asticelle statistiche della “ripresa”, si impegnino a riorganizzare la produzione», in tutti i campi: energia, tecnologia, servizi, beni di largo consumo. Servono «prodotti a basso impatto, recuperabili, di elevata qualità e durata». In sostanza, per Colonna, serve una nuova alleanza strategica: imprenditori, lavoratori e consumatori devono accordarsi per sconfiggere la finanza parassitaria, e quindi «liberare l’economia dal peso congiunto del debito e della speculazione, realizzando quella democrazia del lavoro senza la quale la democrazia politica è ormai divenuta un guscio vuoto».Il principale processo storico che sta segnando il nuovo secolo, cioè lo spostamento del baricentro geopolitico dall’Atlantico al Pacifico, condanna l’Europa a diventare sempre più periferica. La crescente proiezione internazionale di una Cina punta chiaramente a diventare potenza navale oltreché commerciale, in Estremo Oriente ma anche in direzione dell’Africa e del Medio Oriente. Questo impegnerà direttamente gli Usa e li obbligherà ad una scelta fondamentale: Cina o ancora Giappone, come alleati strategici? Certo, Russia e India non staranno a guardare. E’ questo lo scenario nel quale Gaetano Colonna invita ad analizzare la grande crisi che sta travolgendo l’Eurozona. Se il vecchio continente perde terreno nel forziere petrolifero mediorientale, l’influenza cinese continua a crescere in teatri strategici per gli Stati Uniti, dall’Iran al Pakistan fino al continente nero, che rappresenta un’enorme riserva di materie prime e terre coltivabili.
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Energia, iniziata la grande corsa ai forzieri dell’Artico
Mentre molte riserve di gas e di petrolio in diverse aree del mondo stanno vivendo il loro rapido declino, si ritiene che l’Artico possegga enormi giacimenti ancora inesplorati. Secondo la “United States Geological Survey” (Indagine geologica degli Stati Uniti), circa il 13% delle riserve mondiali di petrolio e il 30% di quelle di gas ancora non sfruttate si trovano al di sopra del Circolo Polare Artico. Ansiosi di affondare le mani in quella fortuna, la Russia e i paesi artici confinanti – Canada, Norvegia, Stati Uniti, Islanda e Danimarca (quest’ultima in virtù della sua autorità sulla Groenlandia) – hanno spronato le compagnie energetiche a trivellare nell’area. Specialmente per la Russia – che recentemente ha preso il controllo di una nave di Greenpeace e ha denunciato trenta attivisti per assalto ad una sua piattaforma petrolifera – è molto forte la tentazione di sfruttare l’Oceano Artico.L’economia della Russia è fortemente dipendente dalle esportazioni di petrolio e gas, e il governo conta molto su queste vendite per il reddito nazionale. Fino a poco tempo fa, per soddisfare le loro esigenze energetiche, i russi potevano attingere dai giacimenti nella Siberia occidentale, ma ora, considerato il declino di molti di questi depositi, fanno molto affidamento alle riserve artiche per mantenere gli attuali livelli di produzione. «Il nostro compito principale è di rendere l’Artico la prima risorsa per la Russia del 21° secolo», dichiarò nel 2008 l’allora presidente Dmitrij Medvedev. I russi hanno esplorato le varie opzioni di trivellazione in diverse aree offshore dell’Artico. Nel Mare Pechora, a nord della Siberia nordoccidentale, il gigante dell’energia russo Gazprom ha installato la sua piattaforma Prirazlomnaya — proprio quella che gli attivisti di Greenpeace hanno preso d’assalto. Più a est, nel Mar Kara, il gruppo statale Rosneft sta collaborando con la Exxon Mobil per lo sviluppo di giacimenti molto promettenti.Rosneft si è anche associata alla Statoil norvegese e all’Eni Italiana per esplorare il potenziale di sfruttamento nel Mar di Barents. Ma è molto difficile che sia solo la Russia a tentare di aprire i forzieri dell’Artico. La Norvegia, come la Russia, trae gran parte delle sue entrate proprio dalle esportazioni di gas e petrolio, e punta molto sullo sfruttamento delle riserve del Mar di Barents per compensare la forte contrazione produttiva rilevata nei suoi giacimenti nei Mari del Nord e della Norvegia. Ci sono anche altre zone dell’Artico nel mirino di altri paesi: la Cairn Energy di Edimburgo ha appena aperto dei pozzi di esplorazione nelle acque a largo della Groenlandia, ad esempio, mentre la Royal Dutch Shell sta tentando l’esplorazione di campi a largo dell’Alaska.Nonostante tutte le sue promesse, l’Artico non cederà facilmente le sue ricchezze. In inverno, il ghiaccio copre costantemente le superfici marine e tempeste violente e frequenti sono un continuo pericolo. Il riscaldamento globale potrebbe, in qualche modo, contribuire a ridurre il ghiaccio nei periodi estivi e autunnali, permettendo così trivellazioni più prolungate, ma allo stesso tempo potrebbe causare condizioni meteorologiche inusuali e incontrollate ed altri pericoli correlati. Altro rischio che si aggiunge: molte delle linee di confine nella regione artica, sono ancora da demarcare e alcuni paesi artici hanno già minacciato di ricorrere alla forza militare nel caso in cui le compagnie energetiche occupino aree che considerate di loro sovranità.Le ardue sfide che l’Artico pone al suo sfruttamento hanno già intimorito la Shell, che ha speso 4,5 miliardi di $ per l’esplorazione offshore in Alaska, ma che ancora non è riuscita a trivellare un solo pozzo. Alcune di queste sfide sono perfettamente legali – comunità indigene e ambientalisti, nel timore di contaminazioni delle loro acque e danni alla natura, hanno già diffidato le compagnie dal trivellare. Inoltre, l’Artico in sé ha già dato prova di essere un avversario formidabile. Nell’estate del 2012, durante il primo tentativo della Royal Dutch Shell di sondare i depositi artici, le operazioni di trivellazione furono interrotte da venti battenti e placche di ghiaccio galleggianti. Diversi mesi dopo, quando una delle teste dei pozzi franò al suolo durante una violenta tempesta, la Shell annunciò che avrebbe sospeso le operazioni offshore in Alaska e che, prima di procedere ulteriormente, avrebbe rafforzato le proprie capacità operative nella zona.Le disavventure della Shell hanno anche consolidato il timore che trivellare nell’Artico ponga alla regione una minaccia considerevole. Nell’evento di una importante fuoriuscita petrolifera, il danno conseguente sarebbe molto più grave e distruttivo di quello causato nel Golfo del Messico dalla Deepwater Horizon nell’aprile 2010, sia per la mancanza di adeguate capacità di risposte operative, sia per la probabilità che il ghiaccio impedisca seriamente le operazione di bonifica. Mentre sempre più compagnie si spingeranno nell’Artico accelerando le loro attività esplorative, aumenteranno di conseguenza le probabilità di incidenti e fuoriuscite. Il fatto che la Shell – una delle compagnie petrolifere tecnologicamente più avanzate – si sia finora dimostrata incapace di superare questi rischi, accresce la preoccupazione che in quelle acque pericolose si trovino presto ad operare altre compagnie meno preparate ed efficienti.Cresce anche il rischio di conflitti sulla proprietà di territori contesi. Cinque paesi artici hanno già rivendicato diritti esclusivi di trivellazione su aree di confine rivendicate anche da altri paesi, mentre resta ancora controverso il controllo sulla regione polare in generale. In un’area «con un potenziale energetico che rappresenta un quarto delle riserve mondiali inesplorate di gas e petrolio», ha detto recentemente il ministro della difesa statunitense Chuck Hagel, «è prevedibile che l’ondata di interesse nell’esplorazione energetica nell’area possa aumentare le tensioni su altri argomenti controversi». Fino ad oggi nessuna di queste dispute ha provocato una risposta di tipo militare, e gli Stati artici si sono impegnati ad astenersi dal farlo in futuro. Tuttavia, quasi tutti i paesi artici hanno anche affermato il loro diritto di difesa dei propri territori offshore con la forza, e hanno anche preso le necessarie misure per rafforzarsi in questo senso. La Russia, ad esempio, ha recentemente annunciato dei programmi definiti “di infrastruttura militare di punta” nell’Artico.Niente, comunque, potrebbe scoraggiare altri paesi interessati. Considerando l’altissima richiesta mondiale di petrolio e l’incapacità dei pozzi esistenti di soddisfarla, le maggiori compagnie energetiche tenteranno ogni possibile strada per aumentare la produzione. E’ quindi essenziale che siano posti subito dei limiti chiari e rigorosi alle operazioni di trivellazione nell’Artico, in modo da ridurre le tensioni esistenti nell’area. Sono stati fatti dei progressi nell’ambito del Consiglio Artico, un foro di consultazione delle nazioni artiche. Ma resta ancora molto da risolvere. Un modo per stabilire formalmente delle regole precise potrebbe essere l’adozione di un Trattato Artico, sulla falsariga del Trattato Antartico del 1959. Come avvenne per quest’ultimo, un accordo siglato dai paesi artici stabilirebbe dei precisi confini marittimi e dei limiti alle attività militari. Potrebbe anche imporre delle regole ambientali e garantire un passaggio sicuro alle imbarcazioni civili che navigano sui mari artici. E infine, diciamolo: nessun gas e nessun petrolio potrà mai giustificare la distruzione della natura locale o una corsa agli armamenti nell’Artico.(Michael T. Klare, “E’ iniziata la corsa ai forzieri dell’Artico”, dal “New York Times” dell’8 dicembre 2013, ripreso da “Come Don Chisciotte”).Mentre molte riserve di gas e di petrolio in diverse aree del mondo stanno vivendo il loro rapido declino, si ritiene che l’Artico possegga enormi giacimenti ancora inesplorati. Secondo la “United States Geological Survey” (Indagine geologica degli Stati Uniti), circa il 13% delle riserve mondiali di petrolio e il 30% di quelle di gas ancora non sfruttate si trovano al di sopra del Circolo Polare Artico. Ansiosi di affondare le mani in quella fortuna, la Russia e i paesi artici confinanti – Canada, Norvegia, Stati Uniti, Islanda e Danimarca (quest’ultima in virtù della sua autorità sulla Groenlandia) – hanno spronato le compagnie energetiche a trivellare nell’area. Specialmente per la Russia – che recentemente ha preso il controllo di una nave di Greenpeace e ha denunciato trenta attivisti per assalto ad una sua piattaforma petrolifera – è molto forte la tentazione di sfruttare l’Oceano Artico.
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Brutte notizie: i complottisti hanno ragione, è provato
Oggi è di moda l’accusa di “complottismo”. D’altra parte come possiamo pensare che chi stia al potere non dica il vero? Visto che viviamo nel regno della libertà e della trasparenza, come possiamo criticare le nostre fonti informative? Come possiamo pensare che qualcosa di essenziale non ci sia stato detto? In tempi di mobilitazione strategica lo stesso fatto di pensare criticamente è di per sé eversivo. Il culmine della nostra libertà personale sembra sia accettare che i mezzi di comunicazione ci liberino dal fardello della critica. Nel marzo del 2010, Bashar al-Assad, il futuro tiranno siriano, fu decorato ufficialmente da Napolitano, il nostro Presidente della Repubblica. Per la precisione il figlio di suo padre, che all’epoca era buono, meritava il nostro elogio ed ebbe effettivamente la più alta decorazione del nostro paese. L’evento fu realmente memorabile. Assad entrava ufficialmente nel palco dei nostri migliori alleati, assieme al beneamato colonnello Gheddafi.Il presidente siriano venne dunque insignito col più importante titolo onorifico italiano, quello di “Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran cordone al merito della Repubblica italiana”. Il titolo sanciva l’inizio di un’alleanza talmente “profonda” che sarebbe finita, di lì a pochi mesi, con l’accusa di essere a capo di uno ‘Stato canaglia’. Pochi anni prima, nel 2007, il comandante supremo delle forze Nato in Europa dal 1997 al 2000, generale Wesley Clark, aveva letteralmente sbigottito il suo uditorio in un incontro pubblico a San Francisco. Rendeva di pubblico dominio un breafing avuto poco dopo l’11 settembre 2001. Sosteneva di essere stato messo al corrente dal vice-presidente Cheney e dal ministro della Difesa Rumsfeld dell’intenzione dell’amministrazione di scatenare una serie di guerre contro Siria, Iraq, Libano, Libia, Somalia, Sudan e Iran.L’obiettivo era trasformare il “volto” del Medio Oriente prima di essere costretti ad accettare la sfida strategica della prossima superpotenza emergente. Il generale Clark sosteneva che, per costoro, l’esercito americano doveva servire per scatenare guerre e per far cadere governi e non per rafforzare la pace e la stabilità. La sua opinione era che un gruppo di persone avesse preso il controllo del paese con un colpo di Stato politico. Si trattava di inventarsi nemici per destabilizzare intere aree geografiche e dare così vita a nuovi scenari geopolitici. La strategia americana era sostanzialmente quella di produrre caos: seminare vento per raccogliere tempesta. Il punto chiave non è la menzogna in quanto tale. Altre volte nella storia l’alleato è diventato il nemico, l’aggressore ha vestito i panni della vittima e la menzogna ha assunto le parvenze della verità. Le bugie sono sempre esistite, ma oggi sembrano molto più credibili che in passato. Adesso, se una campagna informativa è svolta con un’adeguata potenza di fuoco, qualsiasi cosa può essere creduta vera.Da sempre ci vengono fornite informazioni “sicure” che non possiamo verificare; però ora lo stesso fatto di porsi in modo critico appare come un elemento di lesa maestà. In tempi teologici l’uso critico della ragione si chiamava “eresia”; oggi, invece, l’accusa è quella di “complottismo”. In un mondo in cui le cose apparentemente sembrano andare bene, chi afferma il contrario può essere solo un malato, un debole di spirito, un paranoico. Come si può criticare la bontà e la lungimiranza dell’Impero del bene? Il libro di Paolo Sensini, “Divide et impera. Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente”, è un rigoroso tentativo di andare oltre la mostruosa cortina del “politicamente corretto”. L’apparato di note del testo è assolutamente notevole e le chiavi di lettura che il testo permette sono molto variegate.Ciò che balza subito agli occhi è il gigantesco lavoro di scavo fatto dall’autore fra i documenti a disposizione. La quantità di dati circolanti è effettivamente molto ampia nelle pubblicazioni in lingua inglese e francese (meno in italiano). La cosa è molto interessante perché anche all’interno del mainstream si trovano autentiche perle che illuminano parecchi degli eventi recenti. Troviamo le dichiarazioni pubbliche del generale Clark sulla politica estera di Bush riportate poche righe sopra; quelle del generale Fabio Mini, che afferma che la politica estera statunitense nel Mediterraneo è asservita agli interessi israeliani; troviamo chiarimenti relativi all’inquietante rapporto fra sunniti e wahhabiti – per inciso, senza il petrolio e l’aiuto statunitense, i wahhabiti sarebbero solo una setta semiereticale di beduini analfabeti che si è impadronita con la forza della Mecca; e troviamo anche molte ragioni del perché una parte dei siriani stia ancora sostenendo, malgrado tutto, Assad.Fra tutti i documenti risalta di gran lunga la dichiarazione, sicuramente fatta a braccio, di Karl Rove, l’anima nera dell’entourage di Bush che, in un attimo di vera autenticità esistenziale, dice chiaramente: «Ora noi siamo un Impero e quando agiamo creiamo la nostra realtà. E mentre voi state giudiziosamente analizzando quella realtà, noi agiremo di nuovo e ne creeremo un’altra e poi un’altra ancora che voi potrete studiare. È così che andranno le cose. Noi facciamo la storia e a voi, a tutti voi, non resterà altro da fare che studiare ciò che facciamo». I vertici americani sanno dunque di “scrivere la storia” e non si curano affatto della verità, della giustizia e anche degli eventuali danni collaterali. Sull’argomento vi sono un’infinità di problemi aperti: dalla quantità enorme di stranezze dell’11 settembre 2001, all’influenza della lobby israeliana nelle politiche mediorientali degli Stati Uniti. La cosa interessante è che esiste, e Sensini se ne da conto, un’ampia documentazione. In tale contesto, più che l’informazione puntuale, manca la capacità di formulare i quesiti giusti e di seguire le piste più interessanti.Per esempio, perché nessuno si chiede come sia possibile che l’Arabia Saudita, un paese che non permette il voto e la guida alle donne, sia riuscito a diventare, assieme a Israele, nazione che pratica l’apartheid, il difensore della democrazia e dei diritti umani nel mondo arabo? Come è stato possibile che le petromonarchie più integraliste, come gli Stati sunniti del Golfo Persico, abbiano come peggior nemico l’Iran, un altro petrostato integralista musulmano, e non Israele, il loro declamato nemico assoluto? I petrostati sciiti e sunniti non dovrebbero essere, come da teologia islamica, alleati per respingere l’influenza di americani e israeliani? Perché a sua volta Israele, apparentemente uno Stato moderno, “l’unica democrazia del Medio Oriente”, è alleato di queste monarchie medievali? E ancora: perché Assad, che certamente non è un santo, ha sempre avuto dalla sua una parte della popolazione siriana? Perché in tanti anni non è stata raggiunta nell’area neppure una limitata forma di quieto vivere? Che senso storico ha il tentativo, iniziato un decennio fa dal precedente presidente degli Stati Uniti, di cambiare il volto del Medio Oriente?Le tesi del libro sono molte e non vorrei togliere al lettore il piacere della lettura. Tuttavia, fra tutti i capitoli, segnalo il gustoso “I precedenti storici dell’11 settembre” nella politica estera statunitense. Si tratta di un capitolo delizioso per brevità e concisione. In queste pagine l’autore mostra alcune costellazioni di eventi che hanno spinto più volte gli Stati Uniti ad agire per “autodifesa”. La trama elementare è quella di un “nemico traditore” che agisce nell’ombra per pugnalare alle spalle l’ingenuo ma coraggioso campione della democrazia; un canovaccio che si ripropone più volte nella storia americana con poche e lievi varianti. La prima guerra provocata da un nemico traditore, fu quella contro la Spagna del 1898. Essa venne dichiarata dopo l’esplosione dell’Uss Maine, una nave da guerra alla fonda nel porto dell’Avana. La colpa dell’esplosione fu attribuita d’ufficio agli spagnoli, venne impedita ogni perizia sulle cause del disastro; poco dopo il Maine fu affondato in alto mare, appena in tempo per iniziare una guerra che la Spagna non aveva alcun interesse a fare.Un altro caso molto noto fu quello del Lusitania, un transatlantico civile britannico pieno di materiale bellico (fra l’altro esplosivi ad alto potenziale che esplodono a contatto con l’acqua), che viaggiava a pieno carico di passeggeri in zone dove si sapeva battevano sommergibili tedeschi. Pearl Harbour è un altro esempio paradigmatico. Nel dicembre 1941, la marina americana venne attaccata apparentemente di sorpresa dalla flotta giapponese nelle Hawaii. All’epoca i servizi segreti statunitensi avevano decrittato il cifrario segreto giapponese e seppero con anticipo dell’imminente attacco. Il presidente Roosevelt aveva bisogno di una scusa per entrare in guerra senza problemi. Alla fine della giornata gli unici veramente sorpresi dal bombardamento furono i marinai americani usati come carne da macello. Anche gli incidenti del Golfo del Tonchino dell’agosto 1964, quelli che provocarono l’intervento in forze degli Stati Uniti in Vietnam, erano una bugia. La vicenda finì talmente male, con l’inglorioso ritiro americano di dieci anni dopo, che gli stessi diretti responsabili politici statunitensi furono costretti ad ammettere pubblicamente la loro colossale frode.Per brevità tralascio tutta la propaganda che diede inizio alla prima e seconda guerra irachena, come la penosa vicenda delle fotografie dei cormorani incatramati, o la serie di false dichiarazioni fatte al Congresso da testimoni compiacenti istruiti per l’occasione dai servizi segreti statunitensi. Quello che a me interessa è fare notare che gli Stati Uniti sono un paese come gli altri. Il Destino Manifesto non impedisce a questo paese di fare tutte quelle brutte figure che sono così consuete nei paesi in cui abitano i comuni mortali. Certo loro producono telegiornali per tutto il mondo e questo migliora la loro immagine. Per esempio nei pacchetti informativi è implicito chi sia il buono e chi sia il cattivo, così com’è ovvio che loro, che sono buoni, stiano aiutando i buoni. Vorrei solo far notare che anch’io, pur avendo ritenuto certa l’esistenza di Babbo Natale, dopo qualche anno ho smesso di crederci.(Alfio Neri, “Breve elogio del complottismo”, recensione del saggio “Divide et impera”, di Sensini, pubblicata da “Carmilla” il 21 dicembre 2013. Il libro: Paolo Sensini, “Divide et impera. Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente”, Mimesis, 322 pagine, 24 euro).Oggi è di moda l’accusa di “complottismo”. D’altra parte come possiamo pensare che chi stia al potere non dica il vero? Visto che viviamo nel regno della libertà e della trasparenza, come possiamo criticare le nostre fonti informative? Come possiamo pensare che qualcosa di essenziale non ci sia stato detto? In tempi di mobilitazione strategica lo stesso fatto di pensare criticamente è di per sé eversivo. Il culmine della nostra libertà personale sembra sia accettare che i mezzi di comunicazione ci liberino dal fardello della critica. Nel marzo del 2010, Bashar al-Assad, il futuro tiranno siriano, fu decorato ufficialmente da Napolitano, il nostro Presidente della Repubblica. Per la precisione il figlio di suo padre, che all’epoca era buono, meritava il nostro elogio ed ebbe effettivamente la più alta decorazione del nostro paese. L’evento fu realmente memorabile. Assad entrava ufficialmente nel palco dei nostri migliori alleati, assieme al beneamato colonnello Gheddafi.
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Il generale Mini: la guerra climatica è già cominciata
La guerra ambientale non è più solo un’ipotesi: è già in atto. Ma guai a dirlo: si passa per pazzi. Eppure, «negare l’informazione è già un atto di guerra fondamentale», denuncia il generale Fabio Mini, che conferma tutto: la “bomba climatica” è la nuova arma di distruzione di massa a cui si sta lavorando, in gran segreto, per acquisire vantaggi inimmaginabili su scala planetaria. Alluvioni, terremoti, tsunami, siccità, cataclismi. Uno scenario che, purtroppo, non è più fantascienza. E da parecchi anni. Era il lontano 1946 quando Thomas Leech, scienziato e professore israeliano-neozelandese, lavorò in Australia per conto dell’Università di Auckland con fondi americani e inglesi per provocare piccoli tsunami. Il successo del “Progetto Seal” spaventò Leech spingendolo a fermarsi dopo i primi test. Ma chi ci dice che la manipolazione del clima non sia stata portata avanti? Oggi, con la robotizzazione, per molte “operazioni” bastano poche persone. «Non ci sono vincoli, non ci sono regole, se c’è la possibilità di farlo ‘qualcuno’ lo farà». Non i governi, ma ristrette élite.Ne ha parlato di recente, in un convegno a Firenze largamente disertato dai media, l’ex comandante delle forze Nato in Kosovo. Mini rivendica la responsabilità di aver posto in Italia l’attenzione su questo tema quando nel 2007 scrisse l’articolo “Owning the weather: la guerra ambientale è già cominciata”, ufficializzando uno scenario nuovo e inquietante: le forze della natura sono adoperate e piegate come strumento ed arma. Può accadere, sottolinea Mini, perché – come di fronte a qualsiasi altra aberrazione di carattere mostruoso – l’opinione pubblica è innanzitutto incredula: «La maggior parte delle persone ritiene inconcepibili certi scenari, in quanto non è al corrente delle progettazioni in materia di tecnologie militari e quindi delle conseguenti implicazioni». Da un lato c’è la rassicurante convenzione Onu del 1977, che proibisce espressamente «l’uso militare, o di altra ostile natura, di tecniche di modificazione ambientale con effetti a larga diffusione, di lunga durata o di violenta intensità». In realtà, al 90% le prescrizioni Onu vengono regolarmente disattese, in particolare dai militari. I quali «hanno già la capacità di condizionare l’ambiente: tornado, uragani, terremoti e tsunami alterati o addirittura provocati dall’uomo sono una possibilità concreta».I militari, riassume Mini – citato nel report del blog “No Geoingegneria” – prediligono la tecnologia. E le loro richieste alla scienza non sono per programmi attuabili a breve termine, ma sono progetti con sviluppi nel medio e lunghissimo termine. Attenzione: «Non esiste una moralità che possa impedire di oltrepassare un certo punto. Basti pensare allo sviluppo e le applicazioni degli ordigni atomici. Non esiste vincolo morale, ciò che si può fare si fa». Inoltre, la nuova tecnologia viene applicata anche a livello immaturo: «La voglia di conseguire un vantaggio spinge ad usare le tecnologie senza fare test a sufficienza. Una possibilità viene messa in atto per verificarne il funzionamento, sperimentandone direttamente sul campo gli effetti». Già nel 1995, uno studio dell’aeronautica militare statunitense (“Weather as a Force Multiplier: Owning the Weather in 2025”) delineava i piani da sviluppare per conseguire nell’arco di 30 anni il controllo del meteo a livello globale. Secondo Mini, non si parlava ancora di “possedere il clima”, ma di controllare il meteo e lo spazio atmosferico per condurre operazioni belliche, «per esempio irrorando le nubi con ioduro d’argento, altre sostanze chimiche o polimeri, per dissolverle oppure spostarle».Si tratta della possibilità di destabilizzare una regione o paese, in qualsiasi parte del mondo. Oggi, a 17 anni dalla pubblicazione di quello studio, secondo il generale Mini «siamo piuttosto vicini al traguardo del 2025». Secondo il meteorologo statunitense Edward Norton Lorenz, padre della “teoria del caos”, mai e poi mai avremo conoscenze sufficienti a verificare le effettive conseguenze di una modificazione climatica. Se qualcuno trae un vantaggio da una modificazione climatica, dall’altra ci sarà qualcun altro che ne subisce un danno, e non è detto che lo paghi in termini lineari, con conseguenze anche catastrofiche, che Lorenz chiama “effetto farfalla”. Proprio in quegli anni si comincia a pensare non solo di cambiare il meteo, ma di creare una situazione permanente e quindi di trasformare il clima. «Così qualcuno inizia a pensare: cosa rende l’Europa prospera e le garantisce un clima favorevole? La corrente del Golfo del Messico. Bene, allora qualcuno si è messo a studiare come modificare questa corrente. Non solo, ma qualcuno ha iniziato a chiedersi: possiamo provocare un terremoto? Qualcuno ha risposto ‘si può fare’». Qualcuno chi?La domanda, infatti, è particolarmente inquietante: da chi scaturisce quella volontà politica che sta alla base della catena di comando? Brutte notizie, dice Mini: gli Stati stanno perdendo il controllo della situazione, che è monopolizzata da ristrettissimi gruppi di potere. Il generale le chiama “bande”. Sono costituite da «persone, associazioni e corporazioni, coaguli di potere che non hanno nessun interesse istituzionale, ma conseguono solamente il proprio interesse, e nel nome di esso sono disposte a mandare in crisi un sistema per modificarlo a proprio vantaggio, utilizzando mezzi illegali e legali». L’enorme potere di questo super-clan è confermato dalla situazione mondiale di massima emergenza, come confermato dalle analisi di carattere strategico a livello militare. In sintesi: la demografia del pianeta è in aumento esponenziale, le risorse della Terra sono in netta diminuzione, l’economia globale è in recessione. Insomma, la coperta è sempre più corta. E il ruolo degli Stati nella definizione della minaccia è ormai ridotto a zero.Non sono più gli Stati a decidere, a individuare o prevedere le minacce, sottolinea Mini. Sono “altri” che fanno le analisi. E fare le valutazioni della minaccia «vuol dire fornire le indicazioni per la politica». Bene, «questa prerogativa non è più nelle mani degli Stati, neanche di quelli forti». George W. Bush, quando ha avviato la “guerra infinita” innescata dagli attentati dell’11 Settembre, non è stato indirizzato da fonti istituzionali, ma da «qualcuno che lavora fuori dalle istituzioni, contro le istituzioni». La situazione è veramente critica: molti Stati hanno l’acqua alla gola, colpiti dalla crisi e ricattati dalla cupola finanziaria mondiale. La criminalità è in netto aumento, il contrasto verso le mafie si è indebolito e la percezione dell’insicurezza è cresciuta. Ogni problema viene estremizzato: la favola dello “scontro di civiltà” tra cultura giudaico-cristiana e cultura musulmana resta «il faro politico di tutte le relazioni internazionali». Così, non fa che cresce la militarizzazione del pianeta: «Le cose che venivano fatte con strumenti civili oggi vengono fatte quasi esclusivamente con strumenti militari, inducendo gli ambienti militari ad essere sempre più proiettati verso il controllo e il possesso di strumenti tecnologici per attuarlo».La dualità, lo scontro, si manifesta in maniera preponderante nello spazio, con il controllo delle telecomunicazioni e dei sistemi di difesa, e ora anche nell’ambiente, «che non è più il luogo ove la guerra si manifesta, ma è l’arma», e negli agglomerati urbani, «che sono i luoghi dove si prevede il maggior intervento in termini di militarizzazione». Lo spazio è definito un “bene comune” e come tale dovrebbe essere salvaguardato. «Ma non succede, e la percezione di scarsa sicurezza alimenta un incremento della militarizzazione». Come si sfrutta l’ambiente come arma? «Non solo con le modifiche meteorologiche, ma anche tramite la negazione delle informazioni. Non c’è solo la disinformazione sull’ambiente, ma c’è una pratica militare che si chiama “denial of service”». Ovvero: «Si stabilisce che è necessario non solo negare la realtà o l’evidenza, ma negare l’informazione». E questo, ribadisce Mini, è già un vero e proprio atto di guerra. «Determinate persone o paesi non devono venire a conoscenza delle informazioni», anche se questo può causare catastrofi di proporzioni bibliche, come il devastante tsunami abbattutosi sulle coste dell’Indonesia. «Lo tsunami indonesiano è ancora uno scandalo: l’informazione sul suo arrivo era disponibile, ma interruzioni nella trasmissione dati a causa di anelli malfunzionanti, o volutamente non funzionanti, ne hanno impedito la comunicazione».Un altro aspetto è emblematicamente rappresentato dal sistema Haarp. Invece di influire sull’ambiente a carattere solo locale, dice Mini, ormai si può incidere globalmente. Come? «Andando a creare, artificialmente, dei punti più caldi o più freddi, e quindi modificando il clima interferendo anche sulle correnti». Lo stesso dicasi per le alterazioni che provocano i terremoti, anche se il generale nega che il recente terremoto in Emilia sia stato “indotto”. Ma attenzione: «Nessuno può negare che ci siano state più di 2.000 esplosioni nucleari nel sottosuolo terrestre, nella profondità degli oceani e persino nello spazio». Già negli anni ’90, per colpire obiettivi di interesse militare in Cina, «fu pianificato di indurre un terremoto con delle esplosioni dalla zona di Okinawa». La dismissione di migliaia di ordigni nucleari, dopo la fine della guerra fredda, ha creato un mercato dei materiali fissili da innesco. «Le grandi compagnie petrolifere si offrirono di reimpiegarli e sappiamo che è possibile agire sulle faglie inducendo terremoti tramite ordigni nucleari o micro-nucleari».La guerra ambientale non è più solo un’ipotesi: è già in atto. Ma guai a dirlo: si passa per pazzi. Eppure, «negare l’informazione è già un atto di guerra fondamentale», denuncia il generale Fabio Mini, che conferma tutto: la “bomba climatica” è la nuova arma di distruzione di massa a cui si sta lavorando, in gran segreto, per acquisire vantaggi inimmaginabili su scala planetaria. Alluvioni, terremoti, tsunami, siccità, cataclismi. Uno scenario che, purtroppo, non è più fantascienza. E da parecchi anni. Era il lontano 1946 quando Thomas Leech, scienziato e professore israeliano-neozelandese, lavorò in Australia per conto dell’Università di Auckland con fondi americani e inglesi per provocare piccoli tsunami. Il successo del “Progetto Seal” spaventò Leech spingendolo a fermarsi dopo i primi test. Ma chi ci dice che la manipolazione del clima non sia stata portata avanti? Oggi, con la robotizzazione, per molte “operazioni” bastano poche persone. «Non ci sono vincoli, non ci sono regole, se c’è la possibilità di farlo ‘qualcuno’ lo farà». Non i governi, ma ristrette élite.
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La geopolitica della menzogna: come distorcere la storia
Nel suo “Invece della catastrofe”, Giulietto Chiesa afferma senza giri di parole che la lotta di classe è stata storicamente neutralizzata: attraverso il sistema dei media, il “nemico” è riuscito a far credere agli sfruttati di essere soci del club fortuna. Così, il grande capitale ha scatenato l’offensiva finale, prendendosi tutto. «Si poteva evitare questa capitolazione, l’onta di essere assaliti alle spalle quasi senza colpo ferire?». Forse, sostiene Alberto Melotto, «a patto di riconoscere che la cognizione degli uomini, la loro capacità di discernere la realtà esterna, passa attraverso l’abbeverarsi a quella fontana generosa, multicolore e mai spenta che è la società dello spettacolo: chi controlla quei canali di immissione di contenuti fittizi può formare come morbida argilla la coscienza di interi popoli». Disinformazione e consenso attraverso i media, ovvero: la geopolitica della menzogna. E’ il tema di un saggio di Paolo Borgognone, deciso a smascherare l’inganno quotidiano su cui si basano le strategie di dominio.Nella prefazione di Giulietto Chiesa, è in primo piano la strage messa in atto alla maratona di Boston. Mostri da sbattere in prima pagina, i fratelli Dzhokar e Tamerlan Tsarnaev, ceceni, dunque islamici, “quindi” terroristi. Cronache improbabili sull’uccisione di Tamerlan, lungo strade affollate di misteriosi addetti alla sicurezza. «Già Edgar Allan Poe, nel racconto “La lettera rubata” ci diceva che spesso la verità va messa in primo piano per poterla meglio nascondere, e in questo i media americani (ed europei) sono davvero maestri», scrive Melotto su “Megachip”. «Ci troviamo di fronte a un altro tassello di quella strategia della tensione su scala planetaria, in versione “bigger than life” per restare all’idioma yankee, che predispone l’uditorio ad una supina passività, ad una studiata altalena di acquiescenza e di smodata partecipazione emotiva, fatta di paura e di aggressività». Dalla orwelliana “settimana dell’odio” siamo giunti a questo lungo, interminabile decennio post 11 Settembre, dove si induce l’essere umano a «rifugiarsi nel già pensato».Il capitolo Siria? Ci ha portati a un passo dalla guerra mondiale. E alcuni fattori, come «il tardivo orgoglio del Parlamento britannico, scottato dalla sacra alleanza Bush-Blair (“We won’t get fooled again”, cantavano gli Who)» ci hanno evitato gli scenari peggiori, ma intanto «la ruota dell’intrattenimento globale ha ripreso a girare, e non ci sarà tempo per risolvere le cause di questo e del prossimo conflitto». Borgognone smaschera «molti farisei del politicamente corretto», denunciando la disinformazione costruita nel ‘900 contro l’Urss: «L’Occidente ha demonizzato l’esperienza d’oltrecortina non soltanto per scongiurare le nefaste (a suo modo di vedere) inclinazioni verso la società degli uguali, ma anche per allontanare il pericolo di un modo di intendere l’esistente che non poteva essere “normalizzato” e ridotto agli standard di questa parte di mondo». La stampa occidentale, scrive, «non ha mai indagato le origini e i fondamenti culturali, sociali e di integrazione comunitaria della tradizione russa. Ha preferito insistere sul tema della russofobia, della slavofobia».Borgognone, impegnato da anni nel Civs (Centro iniziative verità e giustizia), analizza da vicino il caso di un quotidiano come l’Economist”, rappresentante di quell’alta borghesia atlantica che, dall’alto del suo “prestigio”, riesce a condizionare le politiche di parlamenti e di Stati sovrani. Né sorprende che sia tenero verso “Occupy Wall Street”, movimento che considera innocuo, sostanzialmente giovanilista e “liberal”. Idem per gli Indignados, dove le particelle anarco-libertarie convivono coi «bravi ragazzi di buona famiglia, che vogliono solo allargare le maglie del sistema per entrare a farne parte in pianta organica». Ma se il pubblico occidentale è totalmente indifeso di fronte ai “produttori di falsità”, le cose cambiano in Sudamerica, dove il popolo non si fida del mainstream e dispone ancora di anticorpi difensivi, contro lo strapotere delle televisioni legate alle grandi corporations. Sono proprio i cittadini del Venezuela, nel 2002, a respingere il golpe contro Hugo Chàvez, deposto per aver democratizzato l’economia nei settori-chiave dell’agricoltura, della pesca e degli idrocarburi, tradizionale appannaggio dell’élite. Mentre Bush e Aznar salutano il “ritorno della democrazia” nell’insediamento dell’industriale golpista Pedro Carmona Estanga, è proprio il popolo a gonfiare per protesta le vie di Caracas, nel nome di Chàvez, reclamando verità e giustizia fino a convincere l’esercito a rimettere in sella il presidente legittimo. Ma, mentre i cecchini sparavano sulla folla facendo 200 morti tra i manifestanti, le reti televisive trasmettevano a tambur battente cartoni animati e filmetti come “Pretty woman”.Il caso di Cuba, che occupa la parte finale del volume di Borgognone, secondo Melotto «mostra in modo ancor più evidente – e più imbarazzante per noi occidentali – quanto il racconto di parte sappia tacere, svilire, nascondere fatti che saprebbero destare, questo sì, genuino scandalo, se solo qualcuno si prendesse la pena di renderli noti». Il 6 ottobre 1976 muoiono 73 passeggeri su un volo di linea cubano, appena decollato dalle Barbados. A capo del commando terroristico, il pediatra Orlando Bosch, stretto collaboratore della Cia e leader degli anti-castristi di Miami. «E ancora, epidemie procurate ad hoc» che fecero strage di animali ed esseri umani. «Tutto questo per ripristinare un’olimpica condizione di signoraggio che aveva luogo ai tempi di Fulgenzio Batista». Dall’analisi di Borgognone esce male anche una campionessa del dissenso come Yoani Sanchez, in realtà riempita di dollari per fare propaganda contro Cuba. Molto denaro, annota Melotto: ogni mese, l’equivalente di due anni di salario cubano. E’ così che «la classe dei dissidenti va in paradiso».(Il libro: Paolo Borgognone, “La disinformazione e la formazione del consenso attraverso i media”, Zambon editore, 240 pagine, 12 euro. Volume I: “La disinformazione strategica. Caratteri peculiari del fenomeno e analisi del caso latinoamericano”).Nel suo “Invece della catastrofe”, Giulietto Chiesa afferma senza giri di parole che la lotta di classe è stata storicamente neutralizzata: attraverso il sistema dei media, il “nemico” è riuscito a far credere agli sfruttati di essere soci del club della cuccagna. Così, il grande capitale ha scatenato l’offensiva finale, prendendosi tutto. «Si poteva evitare questa capitolazione, l’onta di essere assaliti alle spalle quasi senza colpo ferire?». Forse, sostiene Alberto Melotto, «a patto di riconoscere che la cognizione degli uomini, la loro capacità di discernere la realtà esterna, passa attraverso l’abbeverarsi a quella fontana generosa, multicolore e mai spenta che è la società dello spettacolo: chi controlla quei canali di immissione di contenuti fittizi può formare come morbida argilla la coscienza di interi popoli». Disinformazione e consenso attraverso i media, ovvero: la geopolitica della menzogna. E’ il tema di un saggio di Paolo Borgognone, deciso a smascherare l’inganno quotidiano su cui si basano le strategie di dominio.
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Contro Usa e Israele: il Mandela che non osano citare
«Se c’è un paese che ha commesso atrocità indicibili nel mondo, questi sono gli Stati Uniti d’America. A loro non importano gli esseri umani». Parola di Nelson Mandela. Mentre il mondo ricorda l’eredità di “Madiba” in veste di primo presidente nero del Sudafrica e icona anti-apartheid, va ricordato che fu anche profondamente scettico nei confronti della potenza americana, criticata all’epoca dell’invasione dell’Iraq. Inoltre, Mandela era un sostenitore cruciale dell’Olp di Arafat. «Qui di seguito», annuncia “Rt” in un servizio ripreso da “Megachip”, «potrete leggere le sette citazioni del leader che hanno meno probabilità di essere pubblicate, anche laddove si sta rendendo onore alla sua vita e si commemora la sua morte nei media mainstream». Prima dell’invasione Usa dell’Iraq, Mandela sferzò duramente gli Stati Uniti: al Forum Internazionale delle Donne a Johannesburg, dichiarò che il movente principale dell’allora presidente Bush era «il petrolio». Rincarò la dose intervistato da “Newsweek”: «L’atteggiamento degli Stati Uniti d’America è una minaccia per la pace nel mondo».Mandela è stato da lungo tempo sostenitore dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, offrendosi come mediatore politico tra Israele e i suoi vicini. «Israele dovrebbe ritirarsi da tutte le aree che ha conquistato a danno degli arabi nel 1967, e in particolare dovrebbe ritirarsi completamente dalle Alture del Golan, dal sud del Libano e dalla Cisgiordania», dichiarò Mandela, come riferì Suzanne Belling dell’agenzia “Jewish Telegraph”. Storico l’incontro con Fidel Castro nel 1991, insieme a cui tenne un discorso intitolato “Quanto lontano siamo andati noi schiavi”. Il paese stava commemorando il 38° anniversario della presa della caserma Moncada da parte dei castristi, e Mandela salutò il «posto speciale» di Cuba nel cuore della gente dell’Africa. «Fin dai suoi primi giorni, la rivoluzione cubana è stata anche una fonte di ispirazione per tutte le persone che amano la libertà. Ammiriamo i sacrifici del popolo cubano nel mantenere la propria indipendenza e sovranità di fronte alla malvagia campagna imperialista orchestrata per distruggere l’impressionante miglioramento realizzato nel corso della rivoluzione cubana».Sempre il leader sudafricano invitò a porre fine alle dure sanzioni imposte dall’Onu alla Libia nel 1997, e promise il suo sostegno a Gheddafi, a sua volta un suo sostenitore di lunga data. «È nostro dovere dare sostegno al leader fratello, soprattutto per quanto riguarda le sanzioni, che non stanno colpendo solo lui ma stanno colpendo la massa della gente qualunque, i nostri fratelli e sorelle africani», dichiarò Mandela. In occasione della Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese, il 4 dicembre 1997, Mandela assemblò un gruppo «in qualità di sudafricani, di palestinesi nostri ospiti e di umanisti, per esprimere la nostra solidarietà nei confronti del popolo della Palestina». Nel discorso, fece appello affinché le fiamme metaforiche della solidarietà, della giustizia e della libertà fossero tenute accese. «L’Onu ha preso una posizione forte contro l’apartheid, e nel corso degli anni è stato costruito un consenso internazionale, che ha contribuito a porre fine a questo sistema iniquo. Ma sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi».«Se c’è un paese che ha commesso atrocità indicibili nel mondo, questi sono gli Stati Uniti d’America. A loro non importano gli esseri umani». Parola di Nelson Mandela. Mentre il mondo ricorda l’eredità di “Madiba” in veste di primo presidente nero del Sudafrica e icona anti-apartheid, va ricordato che fu anche profondamente scettico nei confronti della potenza americana, criticata all’epoca dell’invasione dell’Iraq. Inoltre, Mandela era un sostenitore cruciale dell’Olp di Arafat. «Qui di seguito», annuncia “Rt” in un servizio ripreso da “Megachip”, «potrete leggere le sette citazioni del leader che hanno meno probabilità di essere pubblicate, anche laddove si sta rendendo onore alla sua vita e si commemora la sua morte nei media mainstream». Prima dell’invasione Usa dell’Iraq, Mandela sferzò duramente gli Stati Uniti: al Forum Internazionale delle Donne a Johannesburg, dichiarò che il movente principale dell’allora presidente Bush era «il petrolio». Rincarò la dose intervistato da “Newsweek”: «L’atteggiamento degli Stati Uniti d’America è una minaccia per la pace nel mondo».
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Della Luna: di Ue si muore, spiegatelo a Laura Boldrini
Il senso dell’Europa per Laura Boldrini? Un dogma ultraterreno, forse. Un super-potere intoccabile, sacro e inviolabile come la monarchia medievale. Ortodossia granitica, che per Marco Della Luna è sintomo di «totalitarismo ideologico». Scandalizzato, l’analista indipendente, di fronte all’intervista che la presidente della Camera – portata in Parlamento da Nichi Vendola – ha rilasciato a “Tgcom 24” a fine novembre. La Boldrini «si è espressa in termini emotivi, etici, generici, spaziando tra l’ovvio e il celebrativo, sempre però evitando di parlare in concreto delle cause tecniche accertabili dei problemi e delle soluzioni tecniche possibili». Il passaggio più sconcertante? Quello in cui Laura Boldrini affronta il tema della disaffezione verso l’infame regime europeo: gli euroscettici sono innanzitutto un male, un problema, forse addirittura un pericolo di stampo neonazista. Non una parola sulle contestazioni ormai universali riguardo alla palese insostenibilità sia dell’euro, sia di un governo non democratico (non eletto) come quello di Bruxelles.A irritare l’avvocato Della Luna, l’artificio «strumentale» in base al quale si identifica l’Unione Europea con l’Europa stessa, «per poter così dire che chi è contrario o critico verso l’apparato Ue è contrario all’Europa», cioè alla culla della storia e della civiltà occidentale. Doppia operazione illiberale: non solo si preferisce delegittimare l’avversario per evitare di discutervi, ma si insiste anche nel negare l’evidenza della catastrofe provocata dall’ordinamento Ue-euro. «Dogmatismo pericoloso», annota Della Luna, prima di inoltrarsi tra le sorprese del Boldrini-pensiero: «E’ grazie all’Europa che non abbiamo più le discariche (ma gli inceneritori), è grazie all’Europa che vi sono limiti al livello di inquinamento delle città, è grazie all’Europa che gli studenti universitari hanno l’Erasmus». Attenzione: a parlare così non è una passante distratta, disinformata e disastrosamente qualunquista, ma la presidente della Camera.«Begli argomenti a difesa dell’Unione Europea ha trovato questa protagonista della politica, tanto portata a giudicare tutto e tutti, appassionatamente e con grande sicurezza di sé, forte anche di un innegabile carisma verso moltissime persone, anche in posizioni di rilievo, che guardano a lei con speranza. Argomenti patetici, di una pochezza e di una puerilità inammissibili, adatti a persuadere chi? I bambini?». Della Luna è costernato: «Riflettiamo su quale dovrebbe essere il livello di competenza, di preparazione e di comunicazione al pubblico della terza carica dello Stato». Imbarazzante. Perché rivolgersi al pubblico in questo modo? I casi sono due: «O vive dentro un suo mondo dorato sconnesso dalle realtà, oppure pensa che l’opinione pubblica abbia un’età mentale e una capacità critica da quinta elementare».Il senso dell’Europa per Laura Boldrini? Un dogma ultraterreno, forse. Un super-potere intoccabile, sacro e inviolabile come la monarchia medievale. Ortodossia granitica, che per Marco Della Luna è sintomo di «totalitarismo ideologico». Scandalizzato, l’analista indipendente, di fronte all’intervista che la presidente della Camera – portata in Parlamento da Nichi Vendola – ha rilasciato a “Tgcom 24” a fine novembre. La Boldrini «si è espressa in termini emotivi, etici, generici, spaziando tra l’ovvio e il celebrativo, sempre però evitando di parlare in concreto delle cause tecniche accertabili dei problemi e delle soluzioni tecniche possibili». Il passaggio più sconcertante? Quello in cui Laura Boldrini affronta il tema della disaffezione verso l’infame regime europeo: gli euroscettici sono innanzitutto un male, un problema, forse addirittura un pericolo di stampo neonazista. Non una parola sulle contestazioni ormai universali riguardo alla palese insostenibilità sia dell’euro, sia di un governo non democratico (non eletto) come quello di Bruxelles.
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Allarme rosso, anzi giallo: la Cina abbandona il dollaro
«Con una scelta sovrana, la banca centrale cinese ha dichiarato senza mezzi termini che “accumulare riserve in valute estere non raccoglie più i favori della Cina”». Tutte le valute, naturalmente, «ma in modo particolare, e certamente preoccupante per gli Stati Uniti, a essere oggetto di questa decisione è il biglietto verde». Per Valerio Lo Monaco si tratta della notizia più importante, a livello macroeconomico e geopolitico, delle ultime settimane. «La stampa internazionale non le ha dato grande risalto, quella interna italiana non ne ha parlato proprio: tutta presa, come è da mesi e mesi, a commentare le quisquilie interne. Ivi inclusa la grottesca battaglia attorno ai 2 miliardi di euro per abolire la seconda rata dell’Imu nello stesso momento in cui l’Italia ne spende 1.600 all’anno e ne dovrà trovare ulteriori 50 nel corso del 2014 per rispettare il Fiscal Compact sottoscritto a suo tempo».Quella cinese, al contrario, è una vera bomba da 3,66 trilioni di dollari: a tanto ammontano le riserve cinesi in moneta statunitense, «operazione messa in piedi per tenere alto il livello del dollaro e allo stesso tempo basso quello dello yuan, onde rendere quest’ultimo estremamente competitivo per le esportazioni cinesi». Ma la musica sta cambiando. Con questa storica decisione, Pechino «imprime una nuova accelerazione alla strategia già in atto da tempo di dismissione delle riserve in valuta statunitense», scrive Lo Monaco su “La Voce del Ribelle”. La Cina smette di comprare dollari? «Gli Usa dovrebbero tremare». Se finora la politica economica cinese ha favorito il proprio export mettendo fuori gioco le nostre aziende, ora lo “smarcamento” dal dollaro significa che «lo yuan è pronto a invadere il mondo», sostituendo gradualmente il dollaro come valuta internazionale di scambio.«Dal punto di vista prettamente statunitense, la cosa è di portata enorme», insiste Lo Monaco, perché «per avere dei prestiti, gli Usa dipendono fortemente da chi ne acquista i titoli di Stato». Ma se questi iniziano a non essere più graditi, «il dollaro, di fatto, inizia a non valere più nulla». Già ora, tutto si regge quasi esclusivamente sulla “promessa” del valore del biglietto verde. Se il gigante asiatico lo “ripudia”, è facile immaginare i contraccolpi negli Usa ma anche in Europa. «Cresceranno probabilmente i tassi di interesse che gli Usa dovranno concedere per vendere i propri titoli», mentre lo yuan insidierà il dollaro come moneta di scambio per la materia più importante di tutte, il petrolio: secondo la Reuters, alla Borsa di Shangai si inizierà prestissimo a quotare i diritti di acquisto (futures) sul greggio in yuan.A cosa servirà più, dunque, il dollaro? E a cosa “serviranno” più gli Usa? Come si terranno in piedi? Dalle sconfitte internazionali delle politiche neocon di Iraq e Afghanistan alla crisi dei subprime agli schiaffi presi giorno per giorno dalla Russia sul caso Siria e Iran sino a questo ulteriore pugno in pieno volto proveniente da Shanghai: l’Impero sta per cadere in ginocchio, dice Lo Monaco. «Allora, molto chiaramente: la Cina è pronta per diventare il punto di riferimento per tutta l’Asia, in sostituzione degli Stati Uniti». E, complice anche la decadenza costante dell’euro, «a questo punto non si vede altra moneta mondiale, e altra potenza commerciale, in grado di contrastarla». In tempi non brevissimi, naturalmente.«Questa della dismissione di dollari è politica in atto ormai da anni, e la tappa relativa al commercio di petrolio in yuan necessita di passaggi successivi». Ma la direzione è ormai tracciata. Conseguenze: «Le merci acquistate dagli statunitensi, dopo la caduta del dollaro, costeranno molto di più. E il tenore di vita tenuto artificiosamente alto, o almeno a galla, dopo lo scoppio dell’ultima crisi, è destinato a crollare sensibilmente». Morale: «La falsa – e cieca – prosperità degli Stati Uniti appare arrivata al termine e a presentare i conti». Accettabile? No, ovviamente. «A una azione di questo calibro della Cina non potrà che esserci una reazione Usa». Ammonivano Bush e Cheney ancora prima del 2.000: «Il tenore di vita degli americani non è negoziabile». Almeno fino a quando gli Usa conserveranno l’attuale supremazia: quella delle portaerei.«Con una scelta sovrana, la banca centrale cinese ha dichiarato senza mezzi termini che “accumulare riserve in valute estere non raccoglie più i favori della Cina”». Tutte le valute, naturalmente, «ma in modo particolare, e certamente preoccupante per gli Stati Uniti, a essere oggetto di questa decisione è il biglietto verde». Per Valerio Lo Monaco si tratta della notizia più importante, a livello macroeconomico e geopolitico, delle ultime settimane. «La stampa internazionale non le ha dato grande risalto, quella interna italiana non ne ha parlato proprio: tutta presa, come è da mesi e mesi, a commentare le quisquilie interne. Ivi inclusa la grottesca battaglia attorno ai 2 miliardi di euro per abolire la seconda rata dell’Imu nello stesso momento in cui l’Italia ne spende 1.600 all’anno e ne dovrà trovare ulteriori 50 nel corso del 2014 per rispettare il Fiscal Compact sottoscritto a suo tempo».
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Sapelli: Letta svende il paese perché non osa difenderlo
La privatizzazione di Eni è stata concepita fin dall’inizio in modo sbagliato. Eni non ha bisogno di essere privatizzata in modo classico, ma di avere un aumento del suo capitale attraverso gli investimenti dei soci stranieri. La società deve accrescere le sue dimensioni per affrontare le nuove sfide che si aprono a livello globale nel campo della ricerca “oil & gas”. Il governo dovrebbe favorire l’investimento di grandi gruppi, merger o fondi d’investimento, per aumentare il volume di Eni e farla diventare più grande. Il problema non è cambiare la forma di proprietà privatizzando, ma aumentarne le dimensioni. Eni ha un ruolo fondamentale perché rifornisce di petrolio e di gas l’intera nazione e varrebbe quindi la pena attuare un aumento della partecipazione statale, anche se purtroppo non è possibile. Gas ed elettricità sono strategici per il paese, e le liberalizzazioni dell’energia negli ultimi dieci anni hanno prodotto effetti disastrosi. Il prezzo del gas è aumentato, abbiamo un’over-supply, abbiamo avuto consolidamenti di piccole imprese che sono diventate grandi e sono ancora più dominate dalla politica di quanto non fosse un tempo.Privatizzare la rete ferroviaria è impossibile, si potrebbero piuttosto vendere le Grandi Stazioni. Per quanto riguarda Poste Italiane, avrebbe senso privatizzarle a condizione di trasformarle in un grande gruppo di logistica. In questo momento però manca un disegno industriale, e lo documenta il fatto che sono un’entità ibrida a metà tra le poste e una banca. Quindi, parlare di privatizzazioni in questo momento è soltanto una concessione al pensiero dominante che ha distrutto la crescita del nostro paese. Gli effetti delle privatizzazioni negli anni ‘90 sono stati la spartizione di un bottino e l’indebolimento del nostro settore industriale. Le privatizzazioni attuate dal governo Letta per “ridurre il debito pubblico”? Cercare di fare passare un’idea di questo tipo è soltanto una presa in giro. L’Italia ha un debito pubblico da 2.000 miliardi, e 12 miliardi non sono certo sufficienti a cambiare le cose.I dividendi di queste imprese partecipate dallo Stato sono molto più utili a ridurre gli squilibri di bilancio. Mi domando come si possa credere a una manovra illusionistica come quella che sta facendo il governo. Enrico Letta ha delle pesanti responsabilità storiche, perché è stato lui, insieme a Pier Luigi Bersani, ad attuare la liberalizzazione dell’energia elettrica e del gas, in modo errato anche dal punto di vista tecnico. Il premier ora si trova costretto a privatizzare perché da un lato è messo sotto pressione da parte di Saccomanni, che non risponde agli interessi dell’Italia ma a quelli della tecnocrazia europea. Letta non ha la forza né il coraggio di battersi per cambiare la linea europea in politica economica, che sta producendo effetti suicidi. Non a caso Francia e Germania, che si rifiutano di applicare i diktat europei, stanno subendo una decrescita meno pesante rispetto al nostro paese.(Giulio Sapelli, dichiarazioni rilasciate a Pietro Vernizzi per l’intervista “La tecnocrazia europea vuole svenderci”, apparsa su “Il Sussidiario” il 23 novembre 2013).La privatizzazione di Eni è stata concepita fin dall’inizio in modo sbagliato. Eni non ha bisogno di essere privatizzata in modo classico, ma di avere un aumento del suo capitale attraverso gli investimenti dei soci stranieri. La società deve accrescere le sue dimensioni per affrontare le nuove sfide che si aprono a livello globale nel campo della ricerca “oil & gas”. Il governo dovrebbe favorire l’investimento di grandi gruppi, merger o fondi d’investimento, per aumentare il volume di Eni e farla diventare più grande. Il problema non è cambiare la forma di proprietà privatizzando, ma aumentarne le dimensioni. Eni ha un ruolo fondamentale perché rifornisce di petrolio e di gas l’intera nazione e varrebbe quindi la pena attuare un aumento della partecipazione statale, anche se purtroppo non è possibile. Gas ed elettricità sono strategici per il paese, e le liberalizzazioni dell’energia negli ultimi dieci anni hanno prodotto effetti disastrosi. Il prezzo del gas è aumentato, abbiamo un’over-supply, abbiamo avuto consolidamenti di piccole imprese che sono diventate grandi e sono ancora più dominate dalla politica di quanto non fosse un tempo.