Archivio del Tag ‘petrolio’
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Anche Tsipras al soldo dell’euro-terrorismo che ci devasta
Tsipras bifronte, eroe della liberazione greca o subdolo agente dei banchieri europei? Il debito pubblico greco è piccolo, circa 323 miliardi; perciò, vi dicono, non è grave se la Grecia lascia l’euro e se esso viene svalutato o ridenominato in dracme. Questa rassicurazione è menzognera perché i titoli di questo debito, in sé piccolo, sono usati come base per una moltiplicazione finanziaria di molte volte; inoltre, vi è una grossa massa di contratti derivati, indicizzati al titolo greco; il totale potrebbe superare i 2.000 miliardi. Perciò una svalutazione di quei titoli o una loro ridenominazione in dracme avrebbe un impatto molto forte, forse catastrofico, o destabilizzante per il business finanziario globale. E tutto questo vale per il Btp italiano molto più che per il debito greco, dato il rapporto quantitativo. Ho spiegato più approfonditamente queste cose nel mio recente, breve saggio “Sottomissione Finanziaria”, in questo blog. Ecco spiegata una buona ragione per trattenere nell’euro paesi che avrebbero bisogno ad uscirne. Una ragione che non viene resa nota all’opinione pubblica, ma che determina le scelte politiche dei suoi governanti, burattini del potere bancario.Negli anni ’70, i nostri governanti ci imposero le targhe alterne, cioè ci fecero provare il disagio della privazione dell’automobile, la paura di perdere un sistema di vita basato su di essa, per indurci ad accettare forti rincari dei prezzi dei carburanti a beneficio dei petrolieri – il tutto dietro il pretesto del risparmio energetico, che non ci fu. E anche quella veniva chiamata “austerity”! Analogamente, Tsipras forse sta usando la stessa tecnica psicopolitica per far accettare ai greci le condizioni dei padroni-beneficiari dell’euro: indice il plebiscito per lasciare al popolo la responsabilità della scelta se accettarle o no, ma condiziona per il sì questa scelta facendo provare alla gente la paura e il disagio della chiusura bancaria e della privazione dei soldi: se voteranno sì, la buona Europa concederà gli aiuti e tutto tornerà normale. Normale per un po’, perché gli effetti macroeconomici e strutturali dell’euro, cioè la divaricazione progressiva delle economie, in un anno circa riproporrebbero il problema.Sussiste un preciso elemento indiziario che suggerisce che Tsipras in realtà stia facendo il doppio gioco al servizio dei padroni dell’euro e della grande finanza nel senso suddetto, anziché per i greci – un elemento che ha in comune con Grillo e con Iglesias, l’economista spagnolo leader del partito “Podemos”: tutti e tre, in fondo, agiscono da neutralizzatori del dissenso, cercano di tenere nell’euro i loro rispettivi paesi ed evitando di parlare sia della realtà indicata nel primo paragrafo di questo articolo, sia e soprattutto della radice ultima dei problemi monetari e finanziari, ossia del fatto che usiamo una moneta creata interamente (quasi) dalle banche con operazione di prestito-indebitamento, quindi che siamo tutti (escluse le banche) impegnati nell’assurdo compito di estinguere i debiti con denaro preso a debito, e soprattutto del fatto che questo sistema è creato e imposto da una classe globale di soggetti che hanno il potere di creare e far accettare, a costo zero e senza produrre beni reali, moneta contabile, con cui comprano o finanziano (cioè indebitano) praticamente tutto e tutti, incluse le istituzioni e la politica, come ho spiegato nel mio recente articolo “La macchina del destino”. E che è questa classe sociale a governare l’Occidente. Incontrastata e irresponsabile.L’euro stesso è un sistema con cui i paesi forti (soprattutto la Germania) si fanno banchieri dei paesi “eurodeboli” (soprattutto l’Italia), accumulando crediti verso di loro, sottraendogli liquidità con gli interessi e l’imposizione di avanzi primari, e imponendo loro misure recessive che li indeboliscono ulteriormente nell’economia reale e nella competitività internazionale. Alla fine conseguono il pieno controllo di questi paesi, così come le banche conseguono il controllo delle aziende che dipendono da esse per tirare avanti. E’ un sostituto della conquista militare dei secoli scorsi. La Bce, con le sue misure di sostegno (acquisti massicci di debito pubblico dei paesi eurodeboli sui mercati secondari), in realtà svolge il còmpito di mascherare tale processo di demolizione pilotata, per rendere possibile il suo completamento. Una Bce che, mediante tali acquisti, assicura il rifinanziamento del debito pubblico a tassi minimi a paesi con un rating da spazzatura, e che quindi sarebbe logico e sano che divenissero insolventi, è come un medico che mantiene in vita una persona mediante una macchina di supporto vitale, mentre un altro le espianta gli organi, e l’imbonitore di turno chiama questo espianto “riforme” e “risanamento”, e dice che grazie ad esse il paziente è oramai fuori pericolo e si è riguadagnato rispetto, autorevolezza e fiducia sui mercati. Cerca persino (invano), attraverso il quantitative easing, di dare l’impressione di una ripresa reale.Non è fuori pericolo: se togliessimo all’Italia il sostegno artificiale e anti-mercato della Bce, i tassi (rectius: i rendimenti) schizzerebbero alle stelle e l’Italia tornerebbe alla lira. Ma tornerebbe ad essa indebolita dall’azione di governi che, col pretesto del risanamento, hanno tagliato le gambe sua economia in modo strutturale (chiusure aziendali, disoccupazione, indebitamento, emigrazione dei migliori), difficilmente reversibile, portando la pressione fiscale sulle aziende al 70%, ossia a livelli tali da renderle non competitive rispetto alla concorrenza straniera. Per non parlare del differenziale dei costi energetici.(Marco Della Luna, “Tsipras bifronte” dal blog di Della Luna del 30 giugno 2015).Tsipras bifronte, eroe della liberazione greca o subdolo agente dei banchieri europei? Il debito pubblico greco è piccolo, circa 323 miliardi; perciò, vi dicono, non è grave se la Grecia lascia l’euro e se esso viene svalutato o ridenominato in dracme. Questa rassicurazione è menzognera perché i titoli di questo debito, in sé piccolo, sono usati come base per una moltiplicazione finanziaria di molte volte; inoltre, vi è una grossa massa di contratti derivati, indicizzati al titolo greco; il totale potrebbe superare i 2.000 miliardi. Perciò una svalutazione di quei titoli o una loro ridenominazione in dracme avrebbe un impatto molto forte, forse catastrofico, o destabilizzante per il business finanziario globale. E tutto questo vale per il Btp italiano molto più che per il debito greco, dato il rapporto quantitativo. Ho spiegato più approfonditamente queste cose nel mio recente, breve saggio “Sottomissione Finanziaria”, in questo blog. Ecco spiegata una buona ragione per trattenere nell’euro paesi che avrebbero bisogno ad uscirne. Una ragione che non viene resa nota all’opinione pubblica, ma che determina le scelte politiche dei suoi governanti, burattini del potere bancario.
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Foa: ha ragione Putin, sono gli Usa a minacciare la Russia
Nelle relazioni internazionali bisogna saper cogliere innanzitutto il quadro generale; solo avendo ben presente la visione strategica dei paesi coinvolti è possibile analizzare il dettaglio ovvero i singoli episodi. Riguardo alla Russia le mie idee sono da tempo piuttosto chiare. Premessa: mi sono recato a Mosca regolarmente per 18 anni, dal 1990 al 2008, in qualità di inviato speciale. Ho seguito in prima persona le fasi cruciali di questo paese, dal crollo dell’Unione sovietica alla crisi finanziaria della fine degli anni Novanta, dall’ascesa di Putin al periodo di Medvedev, inclusi i drammi di Beslan e del teatro Dubrovka. In questi 18 anni non ho mai dovuto coprire una sola crisi internazionale provocata dal Cremlino. In questi 18 anni ho assistito al progressivo, sovente passivo ridimensionamento di Mosca nello scenario geostrategico a cui è corrisposto, a partire dal Duemila, lo sviluppo di una nuova Russia che, sfruttando il boom dei prezzi petroliferi e delle materie prime, desiderava solo una cosa: continuare ad arricchirsi.Era una Russia che, in politica estera, chiedeva agli americani solo di essere rispettata nel cortile ci casa ovvero in quel che restava delle proprie zone di influenza, come l’Ucraina e alcune Repubbliche asiatiche. Mai imperiale, mai militaresca. Non cercava guai e continuo a pensarlo oggi. Della bella intervista rilasciata al neodirettore del “Corriere della Sera” Luciano Fontana e a Paolo Valentino, vale la pena di rileggere soprattutto due passaggi. Domanda del “Corriere”: «Parlando di pace, signor presidente, i paesi dell’ex Patto di Varsavia che oggi sono membri della Nato, come i baltici e la Polonia, si sentono minacciati dalla Russia. L’Alleanza ha deciso di creare una forza dissuasiva di pronto intervento per venire incontro a queste preoccupazioni. Ha ragione l’Occidente a temere di nuovo l’“orso russo”? E perché la Russia assume toni così conflittuali?». Risposta di Putin: «La Russia non parla in tono conflittuale con nessuno e, in queste questioni, come diceva Otto von Bismarck, “non sono importanti i discorsi, ma il potenziale”. Cosa dicono i potenziali reali? Le spese militari degli Stati Uniti sono superiori alle spese militari di tutti i paesi del mondo messi insieme. Quelle complessive della Nato sono 10 volte superiori a quelle della Federazione Russa. La Russia praticamente non ha più basi militari all’estero».«La nostra politica non ha un carattere globale, offensivo o aggressivo. Pubblicate sul vostro giornale la mappa del mondo, indicando tutte le basi militari americane e vedrete la differenza. Le faccio degli esempi. A volte mi fanno osservare che i nostri aerei volano fin sopra l’Oceano Atlantico. Il pattugliamento con aerei strategici di zone lontane lo facevano solamente l’Urss e gli Usa all’epoca della “guerra fredda”. Ma la nuova Russia, all’inizio degli anni Novanta, lo ha abolito, mentre i nostri amici americani hanno continuato a volare lungo i nostri confini. Per quale ragione? Così alcuni anni fa abbiamo ripristinato questi sorvoli: ci siamo comportati aggressivamente? Vicino alle coste della Norvegia ci sono i sommergibili americani in servizio permanente. Il tempo che ci mette un missile a raggiungere Mosca da questi sottomarini è di 17 minuti. E volete dire che ci comportiamo in modo aggressivo? Lei ha menzionato l’allargamento della Nato a Est. Ma noi non ci muoviamo da nessuna parte, è l’infrastruttura della Nato che si avvicina alle nostre frontiere. E’ la dimostrazione della nostra aggressività?».Domanda del “Corriere”: «Nega le minacce alla Nato?». Risposta di Putin: «Solo una persona non sana di mente, o in sogno, può immaginare che la Russia possa un giorno attaccare la Nato. Sostenere quest’idea non ha senso, è del tutto infondata. Forse qualcuno può essere interessato ad alimentare queste paure. Io posso solo supporlo. Ad esempio gli americani non vogliono tanto il ravvicinamento tra la Russia e l’Europa. Non lo affermo, lo dico solo come ipotesi. Supponiamo che gli Usa vogliano mantenere la propria leadership nella comunità atlantica. Hanno bisogno di una minaccia esterna, di un nemico per garantirla. E l’Iran chiaramente non è una minaccia in grado di intimidire abbastanza. Con chi mettere paura? Improvvisamente sopraggiunge la crisi ucraina. La Russia è costretta a reagire. Forse tutto è fatto apposta, non lo so. Ma non siamo noi a farlo. Voglio dirvi: non bisogna aver paura della Russia. Il mondo è talmente cambiato, che oggi le persone ragionevoli non possono immaginare un conflitto militare su scala così vasta. Noi abbiamo altre cose da fare, ve lo posso assicurare».Queste sono parole di un leader che non cerca guai. E’ evidente che Putin non aspetti altro che di poter chiudere la crisi con l’America e di poter tornare ad essere considerato come un partner economico sulla scena globale. Non esiste una nuova Russia imperiale, resta una Russia che chiede solo di essere riammessa nella comunità internazionale e di poter partecipare, di nuovo, al G8. Trovare un accordo sull’Ucraina non è difficile, ma bisogna volerlo. E questo è il problema. E’ significativo che sull’edizione di ieri del “Corriere”, persino un atlantista di ferro come l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di fatto abbia certificato la buona fede di Mosca, rilevando come Putin gli avesse formulato il suo pensiero già nel 2013, pensiero che lo stesso Napolitano trasmise a Obama. Inutilmente. Chi ragiona con onestà intellettuale dovrebbe chiedersi piuttosto quali siano gli obiettivi geostrategici che gli Usa stanno surretiziamente e a mio giudizio pericolosamente perseguendo. E perché Obama abbia deciso di rispondere alla mano tesa Putin minacciando nuove sanzioni economiche e un’escalation missilistica nell’Europa dell’Est. Non è così che si mette in sicurezza il mondo.(Marcello Foa, “Perché Putin, in fondo, ha ragione”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 15 giugno 2015).Nelle relazioni internazionali bisogna saper cogliere innanzitutto il quadro generale; solo avendo ben presente la visione strategica dei paesi coinvolti è possibile analizzare il dettaglio ovvero i singoli episodi. Riguardo alla Russia le mie idee sono da tempo piuttosto chiare. Premessa: mi sono recato a Mosca regolarmente per 18 anni, dal 1990 al 2008, in qualità di inviato speciale. Ho seguito in prima persona le fasi cruciali di questo paese, dal crollo dell’Unione sovietica alla crisi finanziaria della fine degli anni Novanta, dall’ascesa di Putin al periodo di Medvedev, inclusi i drammi di Beslan e del teatro Dubrovka. In questi 18 anni non ho mai dovuto coprire una sola crisi internazionale provocata dal Cremlino. In questi 18 anni ho assistito al progressivo, sovente passivo ridimensionamento di Mosca nello scenario geostrategico a cui è corrisposto, a partire dal Duemila, lo sviluppo di una nuova Russia che, sfruttando il boom dei prezzi petroliferi e delle materie prime, desiderava solo una cosa: continuare ad arricchirsi.
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L’Isis finanza scuole in Kosovo, sotto il controllo degli Usa
Per fare la guerra santa è bene partire dall’educazione. Soprattutto quella di asili e scuole materne, dove si può iniziare a fare proselitismo jihadista. Occorre quindi finanziarle per far sì che al loro interno si insegni il radicalismo islamista. In Kosovo, scrive il “Giornale”, sono numerosi gli asili, le scuole e i collegi che vengono finanziati da gruppi di terroristi, «e lo fanno attraverso delle organizzazioni non governative». Esatto: sono proprio quelle Ong create dopo la guerra del 1999, che «si sono rapidamente legate agli imam radicali locali». In questo modo, «fiumi di denaro vengono riversati dal terrorismo internazionale nelle scuole kosovare». Si calcola che siano arrivati circa 35 milioni di euro da Arabia Saudita, Libano, Libia, Emirati Arabi, Qatar. C’è anche una scuola con la licenza dal 2006, quindi riconosciuta dal governo locale attraverso il ministero dell’educazione: è la “Flori del giornò” di Pristina, il cui proprietario avrebbe anche legami con terroristi in Bosnia e in Iraq. Ma sono ben 50 le Ong inserite nel documento dell’intelligence straniera citata dal quotidiano “Koha” come anello di congiunzione tra fondamentalismo islamico e educazione al radicalismo in Kosovo.Con la qualifica di Ong, continua il “Giornale”, queste organizzazioni mantengono la facciata pulita davanti ad operazioni illegali: prima portano cibo e sostegno sanitario, poi l’incitamento alla violenza. «La cooperazione, infatti, parte solo dopo la costruzione di una moschea. Poi l’indottrinamento è immediato: corsi sul Corano e prediche sui dogmi dell’Islam», ovviamente interpretati dall’imam radicale di turno. Come scrive in un reportage da Pristina Alessandro Albino su “Lettera 43”, «allo studio della religione – secondo l’intelligence – vengono affiancati addestramento militare, insegnamento di tattiche di guerriglia urbana, uso di armi ed esplosivi». Dopo le scuole superiori, chi non va a studiare nei paesi arabi finanziatori delle Ong, imbraccia il fucile e viene inviato al fronte per combattere al fianco dei guerriglieri dell’Isis. «La paga è alta, molto più di un normale stipendio in Kosovo: 300 euro per chi rimane a Pristina, 30.000 per chi sceglie la Siria e l’Iraq».Secondo le autorità, al momento, circa 300 cittadini del paese balcanico “liberato” dalla Nato hanno partecipato ai combattimenti in diversi luoghi controllati dall’Isis e 40 di questi sono morti in battaglia. Altri 32 sono stati da poco arrestati e sospettati di aver avuto contatti con lo Stato Islamico. A settembre, 15 reclutatori di integralisti islamici disposti a combattere a fianco dell’Isis e di “Al-Nusra” in Siria e Iraq sono finiti in manette, tra cui il leader del partito islamico Fuad Ramiqi e 12 imam di varie regioni. «L’allarme terrorismo si fa sempre più vicino all’Europa e all’Italia», conclude il “Giornale”. «Il Kosovo è a maggioranza mussulmana, e sarebbero 50.000 i combattenti pronti ad impugnare le armi per lottare contro l’infedele. Cioè noi».L’articolo del quotidiano milanese, osserva Pino Cabras in una nota su “Megachip”, spiega molto bene «un meccanismo che in questi anni ha accompagnato l’interventismo finanziario dei grandi elemosinieri delle petromonarchie del Golfo: ovunque ci sia l’Islam si cerca di dare – a suon di dollari – un ruolo centrale alle correnti minoritarie e oscurantiste per emarginare le altre opzioni politiche e religiose». L’articolo, però, «non si addentra negli intrecci di questa azione con le strategie di “fomentazione del caos” che partono da fortissimi settori di Washington». Nel caso in questione, continua Cabras, non si dimentichi che il Kosovo «è una delle creazioni statuali più artificiose e controverse degli ultimi cento anni», ovvero «un paese che – più che una nazione indipendente – è un protettorato militare Usa nel cuore del mondo balcanico, un perno delle strategie geopolitiche che intendono spezzare i legami tra Russia e resto dell’Europa».Anche i recentissimi disordini nella confinante Macedonia, che sono appena agli inizi, hanno un preciso retroterra militare e di intelligence collocato «nelle strutture di destabilizzazione basate in Kosovo, dove la regia è saldamente washingtoniana e brussellese, prima ancora che di Ryad». Il problema, conclude Cabras, non è dunque che in Kosovo c’è una maggioranza mussulmana pronta ad aggredire noi, come potrebbe far pensare la conclusione dell’articolo del “Giornale”. «Il problema è semmai che c’è una minoranza che potrà avere un peso micidiale dopo che si spezzeranno i vecchi ordini», esattamente come è avvenuto in Ucraina (con i neonazisti) o nel Levante (con l’Isis). Il pericolo è dunque massimo, insiste “Megachip”, data la presenza di «registi cinici e alleati provenienti da molte appartenenze religiose, ma uniti dalla fede nel dollaro».Per fare la guerra santa è bene partire dall’educazione. Soprattutto quella di asili e scuole materne, dove si può iniziare a fare proselitismo jihadista. Occorre quindi finanziarle per far sì che al loro interno si insegni il radicalismo islamista. In Kosovo, scrive il “Giornale”, sono numerosi gli asili, le scuole e i collegi che vengono finanziati da gruppi di terroristi, «e lo fanno attraverso delle organizzazioni non governative». Esatto: sono proprio quelle Ong create dopo la guerra del 1999, che «si sono rapidamente legate agli imam radicali locali». In questo modo, «fiumi di denaro vengono riversati dal terrorismo internazionale nelle scuole kosovare». Si calcola che siano arrivati circa 35 milioni di euro da Arabia Saudita, Libano, Libia, Emirati Arabi, Qatar. C’è anche una scuola con la licenza dal 2006, quindi riconosciuta dal governo locale attraverso il ministero dell’educazione: è la “Flori del giornò” di Pristina, il cui proprietario avrebbe anche legami con terroristi in Bosnia e in Iraq. Ma sono ben 50 le Ong inserite nel documento dell’intelligence straniera citata dal quotidiano “Koha” come anello di congiunzione tra fondamentalismo islamico e educazione al radicalismo in Kosovo.
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Mosca non teme la Nato, e il vero sconfitto sarà l’Europa
Per il futuro prossimo ci attende un’opzione brutale e folle, che si chiama guerra, visto che è «miseramente fallito» l’attacco su due fronti – prezzo del petrolio e valore del rublo – che puntava a distruggere l’economia russa e a metterla in una posizione di fornitore energetico vassallo dell’Occidente. Il nuovo “grande gioco” in Eurasia? E’ sempre ruotato attorno al controllo delle risorse naturali. In Ucraina, il Cremlino è stato esplicito nel tracciare due precise linee rosse: l’Ucraina non farà parte della Nato e la Repubblica Popolare di Donetsk e Lugansk non sarà fatta a pezzi. Per Pepe Escobar, ci avviciniamo a una possibile deadline esplosiva, quando le sanzioni Ue scadranno, in luglio. Con una Ue «in subbuglio ma ancora schiava della Nato», e la militarizzione dell’Est, dai paesi baltici alla Polonia, il conflitto potrebbe esplodere. Ma attenzione: «Solo i pazzi credono che Washington rischierà vite statunitensi per l’Ucraina o per la Polonia». E quindi, «se si arrivasse all’impensabile – una guerra tra Nato e Russia in Ucraina – le linee di difesa russe sono sicuramente superiori sia in mare sia in terra, sia dal punto di vista convenzionale sia da quello nucleare».Il Pentagono, scrive Escobar in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, sa benissimo che la Russia «ridurrebbe le forze della Nato in frantumi in poche ore». Poi «arriverebbe la scelta decisiva di Washington: accettare la bruciante sconfitta o passare alle armi tattiche nucleari». Il Pentagono sa che la Russia «ha le capacità difensive, aeree e missilistiche, per controbattere qualsiasi arma», incluse quelle del programma “Prompt Global Strike” statunitense (Pgs). Secondo il generale Kirill Makarov, numero due delle forze di difesa aerospaziali russe, l’attuale infrastruttura militare della Nato è la maggiore minaccia alla sicurezza di Mosca, che però avrebbe «un paio di generazioni di vantaggio» nei propri armamenti difensivi. Spiegazione: «Mentre il Pentagono era impegolato nei suoi problemi in Afghanistan e Iraq, si è completamente perso il salto in avanti tecnologico compiuto dalla Russia», scrive Escobar. «Lo stesso vale per la capacità cinese di colpire i satelliti statunitensi e quindi polverizzare il sistema di guida satellitare degli Icbm statunitensi», cioè i missili balistici intercontinentali.«Lo scenario corrente – continua Escobar – è che la Russia guadagna tempo fino a che non avrà completamente protetto il proprio spazio aereo dagli Icbm statunitensi, aerei stealth e missili cruise, con il sistema S-500». Ciò non è sfuggito all’attenzione del “British Joint Intelligence Committee” (Jic), che aveva simulato tempo fa l’eventualità di un primo attacco di Washington ai danni della Russia. Secondo il Jic, Washington potrebbe avere seri problemi in tre casi: se un governo “estremista” dovesse prendere il potere negli Usa, se ci fosse una crescente caduta di fiducia negli Usa e nei loro alleati occidentali a causa di sviluppi politici nelle nazioni stesse, e se ci fosse qualche repentino avanzamento nella sfera degli armamenti statunitensi, tanto che l’impazienza possa prendere il sopravvento. Smontata l’ipotesi che gli Usa possano sferrare il “primo colpo” per abbattere la capacità difensiva di Mosca, resta una pesante incognita: cosa accadrebbe se domani gli Stati Uniti disponessero di una tranquillità strategica come quella di cui oggi gode la Russia?Tutto il gioco, continua Escobar, ruotava attorno a chi controllava il mare – il regalo geopolitico che gli Usa hanno ereditato dal Regno Unito. «Controllare i mari significa ereditare cinque imperi: Giappone, Germania, Gran Bretagna, Francia e Paesi Bassi. Tutti quei natanti statunitensi che pattugliano i mari per garantire “libero mercato” – come sostiene la macchina della propaganda – potrebbero essere usati di colpo contro la Cina. È un meccanismo simile all’operazione finanziaria “governare da dietro” attentamente architettata per contemporaneamente distruggere il rublo e lanciare una guerra del petrolio per ridurre alla sottomissione la Russia». Il piano principale di Washington, aggiunge Escobar, resta semplicissimo: «“Neutralizzare” la Cina dal Giappone e la Russia dalla Germania, con gli Stati Uniti a fare da spalla ai due puntelli. La Russia è de facto l’unico paese dei Brics ad opporsi». Questa era la situazione fino a che Pechino non ha lanciato le nuove “vie della seta”, ovvero il progetto di unire tutta l’Eurasia sul piano economico e commerciale su binari ad alta velocità, trasferendo tonnellate di merci dal trasporto marittimo a quello terrestre. Mentre Washington continua a demonizzare la Russia per colpire la partnership sino-russa, in un futuro non remoto Germania, Russia e Cina avranno «ciò che serve per diventare i pilastri di un’Eurasia totalmente integrata».Per il futuro prossimo ci attende un’opzione brutale e folle, che si chiama guerra, visto che è «miseramente fallito» l’attacco su due fronti – prezzo del petrolio e valore del rublo – che puntava a distruggere l’economia russa e a metterla in una posizione di fornitore energetico vassallo dell’Occidente. Il nuovo “grande gioco” in Eurasia? E’ sempre ruotato attorno al controllo delle risorse naturali. In Ucraina, il Cremlino è stato esplicito nel tracciare due precise linee rosse: l’Ucraina non farà parte della Nato e la Repubblica Popolare di Donetsk e Lugansk non sarà fatta a pezzi. Per Pepe Escobar, ci avviciniamo a una possibile deadline esplosiva, quando le sanzioni Ue scadranno, in luglio. Con una Ue «in subbuglio ma ancora schiava della Nato», e la militarizzione dell’Est, dai paesi baltici alla Polonia, il conflitto potrebbe esplodere. Ma attenzione: «Solo i pazzi credono che Washington rischierà vite statunitensi per l’Ucraina o per la Polonia». E quindi, «se si arrivasse all’impensabile – una guerra tra Nato e Russia in Ucraina – le linee di difesa russe sono sicuramente superiori sia in mare sia in terra, sia dal punto di vista convenzionale sia da quello nucleare».
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Ci hanno portato via il lavoro, ecco la causa del disastro
La finanza non spiega tutto: dietro la crisi dell’Occidente, con la fuga dell’industria verso l’ex terzo mondo globalizzato, rappresenta la punizione storica del capitale contro lavoratori evoluti, ben pagati e tutelati da importanti diritti. Lo sostiene Aldo Giannuli, rileggendo il senso della catastrofe in corso, che sta letteralmente devastando l’Europa. «Dalla fine degli anni settanta – scrive lo storico dell’ateneo milanese – si è manifestata a livello mondiale una tendenza al calo dell’occupazione manifatturiera, nonostante un forte incremento assoluto di produzione industriale». Fenomeno in larga parte spiegabile con il “salto” tecnologico prodotto dalla combinazione fra robot e informatica, che ha drasticamente ridotto la domanda di forza lavoro. Ma attenzione: questo calo non è avvenuto in modo omogeneo: mentre la componente industriale è aumentata vorticosamente nei paesi in via di sviluppo, specie in Asia (Corea e Thailandia, Singapore, Taiwan, e poi Cina, India, Vietnam, Indonesia), coinvolgendo quindi anche Messico, Egitto, Turchia e Argentina), nei paesi avanzati l’occupazione industriale è crollata. Addio lavoro in fabbrica negli Usa, in Europa e in Giappone. Idem nei paesi dell’ex blocco sovietico, salvo Polonia, Germania Orientale e Boemia.«Questo andamento – scrive Giannuli nel suo blog – è stato determinato in larga parte da un sostenuto processo di deindustrializzazione dei paesi avanzati, nei quali sono stati fortemente ridimensionati settori quali la siderurgia, i materiali da costruzione, la chimica base, il tessile e, parzialmente, l’alimentare». Siamo ormai nella “fabbrica globale”, per cui in alcuni settori (trasporti e meccanica, ma anche informatica e telecomunicazioni) i singoli componenti sono prodotti in diversi paesi emergenti, per essere poi assemblati negli stabilimenti della ditta che firma il prodotto. «Di fatto, in Occidente hanno resistito solo pochi settori (come la chimica fine, l’ottica o la farmaceutica) e hanno conosciuto un incremento (sia in termini di occupati che di fatturato) le sole industrie delle armi, del settore satellitare e del lusso». Questo processo, continua Giannuli, è stato determinato dal massiccio trasferimento di capitali e impianti in paesi dell’Asia e dell’America Latina e dal parallelo processo di smobilitazione industriale nei paesi avanzati. «Tutto ciò è stato il frutto di diversi fattori come il rigetto delle popolazioni locali nei confronti delle lavorazioni altamente inquinanti, ma soprattutto dall’esigenza di parte imprenditoriale di abbattere i salari». Così, le delocalizzazioni «sono state la principale arma imprenditoriale nella rivincita contro i lavoratori».Un’operazione brillantemente riuscita, grazie alla collaborazione dei governi di Usa, Europa e Giappone, indipendentemente dal loro colore politico: mentre i tassi di disoccupazione sono saliti mediamente del 4-5%, i salari reali sono calati. In più è cresciuta una massiccia fascia di precariato. E dovunque è peggiorata la parte normativa del rapporto di lavoro. Il trasferimento della produzione verso i paesi del Sud del mondo è stato favorito dal minor costo della forza lavoro, spesso priva dei più elementari diritti sindacali, insieme ad altri vantaggi: disponibilità di terreni a costo zero per gli stabilimenti, debole pressione fiscale dovuta all’assenza di un sistema previdenziale e sanitario, assenza di qualsivoglia normativa di tutela ambientale e, soprattutto, prezzi bassissimi dei trasporti. Il periodo tra il 1982 e il 2006 è stato un autentico “bengodi petrolifero”: il prezzo del barile inferiore ai 40 dollari ha consentito uno sviluppo senza precedenti dei trasporti, soprattutto marittimi. Questo, prosegue Giannuli, ha permesso ai prodotti di arrivare sui mercati a prezzi largamente concorrenziali, dopo aver percorso migliaia di miglia marine.In secondo luogo i cambi: l’introduzione della “fiat money” e la conseguente demetallizzazione del sistema monetario «ha avuto riflessi imprevisti in particolare nei confronti della Cina, la cui moneta non è convertibile (in realtà lo è ma solo attraverso la Boc che, ovviamente, applica i criteri che ritiene più opportuni per sostenere le esportazioni)». Il risultato è il “grande disordine monetario” di valute sganciate da qualsiasi parametro oggettivo, «alcune in reciproco apprezzamento che fluttua di giorno in giorno, altre governate politicamente, altre ancora rette artificialmente dal gioco dei regimi fiscali». Di fatto, «questo ha reso molto più facili le esportazioni dei paesi emergenti, che operano proprio sui margini offerti dal cambio». Si spiega così la provenienza cinese dell’aglio che consumiamo sulle nostre tavole: proprio l’alterazione del regime monetario riesce a rendere più “conveniente” l’aglio prodotto a migliaia di chilometri e trasportato sin qui. Decisivo, in ogni caso, il costo sociale delle delocalizzazioni, che «si sono rivelate il suicidio dell’Occidente». Un piano preciso: «La scelta di deindustrializzare i paesi sviluppati fu orientata in primo luogo a colpire i livelli salariali raggiunti e a smantellare l’organizzazione operaia, che aveva il suo punto di concentrazione nelle grandi industrie».Da industriali, le nostre economie si sono trasformate, basandosi sui servizi e sull’intermediazione finanziaria. Ipotesi rivelatasi fallimentare già nel medio periodo, «e non solo per il disastro finanziario, ma anche quello della bilancia dei pagamenti, intaccata sia dal deflusso di capitali che dal costante passivo della bilancia commerciale». Lo spiega un economista come Emiliano Brancaccio: la bilancia commerciale rappresenta il principale indicatore della forza competitiva del sistema produttivo nazionale. «Il surplus commerciale segnala che il paese non avrà bisogno di deprezzare la propria moneta per reggere la concorrenza, il che rassicura i creditori circa il valore futuro atteso dei titoli emessi». Per cui, aggiunge Brancaccio, anziché imporre un controproducente pareggio di bilancio pubblico, «bisognerebbe orientare le politiche economiche di tutti i paesi dell’Eurozona al perseguimento tendenziale di un altro pareggio: quello delle bilance commerciali». L’Italia, ad esempio, con un disavanzo verso l’estero superiore al 4% del Pil, «dovrebbe realizzare interventi strutturali realmente in grado di rilanciare una produttività del lavoro da tempo stagnante».Da oltre vent’anni la bilancia commerciale dei paesi sviluppati (con l’eccezione, peraltro non costante, di Germania e Giappone) è sostanzialmente in rosso. E questo per due precise ragioni: intanto, lo sviluppo dei servizi non compensa da solo la flessione occupazionale dell’industria. E poi la concorrenza dei paesi emergenti (la cui crescita fu troppo sottovalutata all’inizio del processo di globalizzazione) si è fatta sentire anche in quel campo. «Mentre quasi tutte le merci sono esportabili, non tutti i servizi lo sono», argomenta Giannuli. «Per cui, se posso “esportare” i viaggi aerei con rotte internazionali, non posso esportare il servizio tramviario, allo stesso modo il cui, se posso fornire all’estero servizi di consulenza di vario genere, non posso esportare il servizio dell’anagrafe o quello di chirurgia di urgenza». Una parte significativa dei servizi, per sua natura, è destinata al consumo interno, «per cui è evidente che la bilancia commerciale, attraverso l’esportazione dei servizi, recupera solo una parte di quello che ha perso sul piano della manifattura». In secondo luogo, «le previsioni sulla capacità di sviluppo dei paesi emergenti sono state molto al di sotto della realtà: la Cia, nel 2002 elaborò una ipotesi di scenario per il 2023 nel quale ipotizzava che la Cina avrebbe raggiunto certi traguardi non prima del 2025, ma essi risultarono poi raggiunti già nel 2008».Nel caso dei servizi, aggiunge Giannuli, la grande sorpresa è venuta dall’India: già da tempo New Delhi è definita il “call center del mondo” per i servizi di consulenza più diversi, e oggi inizia ad affacciarsi l’ipotesi di trasferire la diagnostica a medici indiani on line sulla base dei risultati delle analisi cliniche. Inoltre, le università indiane stanno scalando i primi posti per quanto riguarda le facoltà di matematica, e le società indiane offrono servizi di calcolo sempre più sofisticati, mentre le compagnie aeree (Air India, Air Deccan) iniziano a far sentire la loro concorrenza anche sulle rotte internazionali. «Dunque chi pensava che gli “arretrati asiatici” ci avrebbero messo decenni per rivaleggiare anche sui servizi, oggi deve prendere atto che anche qui le cose sono andate molto diversamente». Per dirla in due parole: «Le economie avanzate sono state svuotate, perchè la manifattura è emigrata in Asia e i profitti finanziari sono emigrati a Riccolandia. E questa – conclude Giannuli – è la base della nostra crisi irrisolta».La finanza non spiega tutto: dietro la crisi dell’Occidente, con la fuga dell’industria verso l’ex terzo mondo globalizzato, rappresenta la punizione storica del capitale contro lavoratori evoluti, ben pagati e tutelati da importanti diritti. Lo sostiene Aldo Giannuli, rileggendo il senso della catastrofe in corso, che sta letteralmente devastando l’Europa. «Dalla fine degli anni settanta – scrive lo storico dell’ateneo milanese – si è manifestata a livello mondiale una tendenza al calo dell’occupazione manifatturiera, nonostante un forte incremento assoluto di produzione industriale». Fenomeno in larga parte spiegabile con il “salto” tecnologico prodotto dalla combinazione fra robot e informatica, che ha drasticamente ridotto la domanda di forza lavoro. Ma attenzione: questo calo non è avvenuto in modo omogeneo: mentre la componente industriale è aumentata vorticosamente nei paesi in via di sviluppo, specie in Asia (Corea e Thailandia, Singapore, Taiwan, e poi Cina, India, Vietnam, Indonesia), coinvolgendo quindi anche Messico, Egitto, Turchia e Argentina), nei paesi avanzati l’occupazione industriale è crollata. Addio lavoro in fabbrica negli Usa, in Europa e in Giappone. Idem nei paesi dell’ex blocco sovietico, salvo Polonia, Germania Orientale e Boemia.
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Rella: guerra alla memoria, per dominarci definitivamente
Benjamin ha scritto che ogni documento di cultura è anche un documento di barbarie. Una passeggiata nei Fori Imperiali a Roma ne è una straordinaria illustrazione. Certo, con il passare del tempo il monumento, eretto per celebrare una vittoria, e di converso una sconfitta, si allontana dall’occasione che lo ha generato. Non testimonia più un potere attuale, ma piuttosto l’opera del tempo che si deposita su di esso, lo modifica, spesso lo risignifica. Accanto al Monumentum, vale a dire a ciò che deve essere ricordato, c’è la damnatio memoriae, ciò che deve essere dimenticato. Dall’antichità ai nostri giorni la gestione della memoria e la gestione dell’oblio sono state strumenti politici, strumenti di potere. Nella distruzione dei monumenti di Mosul c’è però qualcosa che va oltre la damnatio memoriae. È una operazione di barbarie, ma di barbarie ultramoderna, addirittura postmoderna. I capolavori a cui l’uomo dovrebbe legare la sua memoria o addirittura la sua identità vengono spostati di qui e di là scopi turistici ed economici, o addirittura promozionali, o propagandistici, come lo sono le distruzioni di Mosul.Su Botticelli all’Expo non caleranno magli e martelli, ma orde di turisti a decretarne la sostanziale insignificanza culturale. Ancora una volta la barbarie dell’Isis è ultramoderna, spettacolare, cinematografica, o meglio da serie Tv. Ha scritto Arjun Appadurai che nel periodo della globalizzazione si sono moltiplicati episodi di violenza immane, che è penetrata con ferocia chirurgica all’interno dei corpi, dilaniandone le carni. Dalla Bosnia negli anni Novanta del secolo scorso, al Ruanda, e via via fino agli orrori attuali è stata una catena di delitti, una striscia ininterrotta di sangue. L’Isis è andato oltre. Ha massacrato centinaia e migliaia di persone, ma ha spettacolarizzato la singolarità. Una vittima, un coltello, un carnefice, un corpo senza testa. È una gestione sapiente dell’orrore. Si pensi come l’uccisione con una lama implichi un rapporto diretto, inequivocabile, carnale, tra i corpi della vittima e del carnefice.Bush è colpevole di molte cose. Già Bush padre con la Guerra del Golfo aveva trasformato, come aveva scritto Asor Rosa, un piccola guerra locale in una guerra mondiale: una guerra senza conflitto effettivo, una guerra dell’epoca della globalizzazione. Bush figlio ha proseguito. Ma non solo lui. Tutto l’Occidente si è trovato – dopo l’Iraq e dopo l’Afghanistan – a gestire conflitti per delega, anche quando, come in Libia, c’è stato intervento diretto. E ovunque ha lasciato dietro di sé caos e violenza. Oggi c’è chi chiede un intervento di polizia internazionale contro l’Isis. I pacifisti ironizzano sull’elmetto indossato dai fautori dell’intervento. Ora, al di là del pericolo paventato dall’Occidente, assistiamo a veri e propri etnocidi: intere tribù e intere popolazioni eliminate per il loro credo religioso o per la loro etnia. Era giusto intervenire contro Hitler e cercare di fermare l’Olocausto? Non era forse giusto magari intervenire anche prima?Il potere strega, affascina: chi lo esercita e chi lo subisce. Penso all’immane sforzo di Pier Paolo Pasolini per fronteggiare il potere in “Petrolio”, facendo stuprare il suo personaggio, trasformandolo in donna, sgretolando la forma stessa del romanzo, per concludere che anche organizzando il mondo in un’opera d’arte si esercita una forma di potere. Penso a Kafka che, come dice Canetti, ha combattuto il potere in tutte le sue forme, per riconoscere nelle lettere alla fidanzata, Felice, che egli era bensì, come lei, vittima, ma al tempo stesso era anche carnefice. Dunque esercitiamo sempre una qualche forma di potere, e sempre in qualche forma lo subiamo. Si tratta di essere costantemente vigili. Non piegarsi ad esso, riconoscerlo, resistere alla sua seduzione. Direi che la conoscenza è ormai così diffusa che rischia di diventare un rumore di fondo, di ottundere la nostra percezione dei conflitti e della loro durezza. Diventa perfino difficile, nell’iterazione degli omicidi dell’Isis, convincerci che quello che vediamo è sangue vero. Ho parlato della gestione del tempo e della memoria come un atto di potere e di dominio. Qual è il potere che gestisce oggi l’immane memoria della rete? A quale fine?Posso citare i nomi dei proprietari di Google, di Amazon, di Facebook. Non mi dicono nulla. Questa è l’epoca in cui uno dei più formidabili strumenti di potere della storia dell’umanità scivola nell’anonimato, si fa oscuro e indecifrabile. Si fa neutro. proprio come le operazioni di Borsa computerizzate che distruggono l’economia di una nazione, o creano profitti scandalosamente osceni per i singoli. Inoltre la rete spinge a vivere il tempo in istanti submicroscopici, tempi segmentati fatti solo di “ora”: da un’“ora” a un’altra “ora”, senza che questo tempo possa diventare una memoria individuale. Mi chiedo se non sia in atto un processo di desoggettivazione, in quanto il soggetto può dirsi tale soltanto se in possesso di una propria memoria e di un proprio tempo. La damnatio sarebbe in questo caso la cancellazione della memoria individuale. Foucault concludeva il suo ultimo seminario invitando alla “cura di sé”, a costruirsi come soggetti e a mantenersi soggetti. Foucault sapeva come questo processo di soggettivazione fosse sempre a rischio.(Franco Rella, dichiarazioni rilasciate a Monica Pepe per l’intervista “Morte della civiltà?” pubblicato da “ZeroViolenza” il 9 aprile 2015. Filosofo e saggista, Rella ha insegnato estetica allo Iuav di Venezia. È autore di saggi su arte, letteratura e filosofia, come “L’enigma della bellezza”, “La responsabilità del pensiero”, “Interstizi. Tra arte e filosofia”, “Ai confini del corpo”, “Forme del sapere. L’eros, la morte, la violenza” e “Figure del tempo”, introduzione al secondo volume dell’Enciclopedia delle Arti Contemporanee, a cura di Achille Bonito Oliva).Benjamin ha scritto che ogni documento di cultura è anche un documento di barbarie. Una passeggiata nei Fori Imperiali a Roma ne è una straordinaria illustrazione. Certo, con il passare del tempo il monumento, eretto per celebrare una vittoria, e di converso una sconfitta, si allontana dall’occasione che lo ha generato. Non testimonia più un potere attuale, ma piuttosto l’opera del tempo che si deposita su di esso, lo modifica, spesso lo risignifica. Accanto al Monumentum, vale a dire a ciò che deve essere ricordato, c’è la damnatio memoriae, ciò che deve essere dimenticato. Dall’antichità ai nostri giorni la gestione della memoria e la gestione dell’oblio sono state strumenti politici, strumenti di potere. Nella distruzione dei monumenti di Mosul c’è però qualcosa che va oltre la damnatio memoriae. È una operazione di barbarie, ma di barbarie ultramoderna, addirittura postmoderna. I capolavori a cui l’uomo dovrebbe legare la sua memoria o addirittura la sua identità vengono spostati di qui e di là scopi turistici ed economici, o addirittura promozionali, o propagandistici, come lo sono le distruzioni di Mosul.
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L’euro sarà la vostra tomba, parola di Godley (era il 1992)
Molte persone in tutta Europa hanno improvvisamente realizzato di non sapere quasi nulla sul Trattato di Maastricht, mentre giustamente si rendono conto che questo trattato può fare una grande differenza nella loro vita. La loro legittima ansia ha portato Jacques Delors a dare l’indicazione che il punto di vista della gente comune in futuro dovrebbe essere consultato con più attenzione. Avrebbe potuto pensarci prima. Anche se sono favorevole a procedere verso un’integrazione politica in Europa, credo che il progetto di Maastricht presenti gravi carenze, e anche che il dibattito pubblico su di esso sia stato stranamente povero. Con un rifiuto danese, con la Francia che ci è andata vicino, e con l’esistenza stessa dello Sme messa in discussione dopo i saccheggi da parte dei mercati valutari, questo è un buon momento per fare il punto. L’idea centrale del Trattato di Maastricht è che i paesi della Ce dovrebbero muoversi verso una unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma come deve essere gestito il resto della politica economica?Dato che il trattato non propone nessuna nuova istituzione oltre alla banca europea, i suoi sponsor devono supporre che non sia necessario nient’altro. Ma questo potrebbe essere corretto solo se le economie moderne fossero dei sistemi che si auto-regolano e che non hanno nessun bisogno di essere gestite. Sono giunto alla conclusione che una tale visione – che le economie siano organismi capaci di auto-regolazione che mai in nessun caso necessitano di una qualche forma di gestione – ha di fatto determinato il modo in cui il Trattato di Maastricht è stato costruito. Si tratta di una versione rozza ed estrema di quel punto di vista che da qualche tempo incarna la saggezza convenzionale dell’Europa (anche se non quella degli Stati Uniti o del Giappone), secondo la quale i governi sono incapaci di perseguire gli obiettivi tradizionali della politica economica, come la crescita e la piena occupazione, e quindi non dovrebbero nemmeno provarci. Tutto ciò che si può legittimamente fare, secondo questo punto di vista, è controllare l’offerta di moneta e tenere il bilancio in pareggio.C’è voluto un gruppo composto in gran parte di banchieri (il Comitato Delors) per giungere alla conclusione che una banca centrale indipendente sia l’unica istituzione sovranazionale necessaria a governare un’Europa integrata e sovranazionale. Ma c’è anche molto di più. Bisogna sottolineare sin dall’inizio che la creazione di una moneta unica nella Ce è veramente destinata a segnare la fine della sovranità delle nazioni che la compongono e del loro potere di agire in modo indipendente sulle grandi questioni. Come ha sostenuto in modo molto convincente Tim Congdon, il potere di emettere la propria moneta, e di intervenire tramite la propria banca centrale, è il fatto principale che definisce l’indipendenza di una nazione. Se un paese rinuncia a questo potere, o lo perde, acquisisce lo status di ente locale o di colonia. Le autorità locali e le regioni ovviamente non possono svalutare. Ma perdono anche il potere di finanziare i deficit con emissione di moneta, e gli altri metodi per ottenere finanziamenti sono soggetti a regolamentazione da parte dell’autorità centrale. Né possono modificare i tassi di interesse.Dato che le autorità locali non possiedono nessuno degli strumenti di politica macroeconomica, la loro scelta politica è limitata alle questioni relativamente minori – un po’ più di istruzione qui, un po’ meno di infrastrutture là. Penso che quando Jacques Delors enfatizza la novità del principio di ‘sussidiarietà’, in realtà ci sta solo dicendo che saremo autorizzati a prendere decisioni su un maggior numero di questioni relativamente poco importanti rispetto a quanto potevamo supporre in precedenza. Forse ci permetterà di avere i cetrioli ricurvi, dopo tutto. Veramente un grande affare! Permettetemi di esprimere un punto di vista diverso. Credo che il governo centrale di qualsiasi Stato sovrano dovrebbe impegnarsi con continuità per determinare il livello generale ottimale di servizi pubblici, l’imposizione fiscale complessiva più corretta, la corretta allocazione delle spese tra obiettivi concorrenti e la equa ripartizione della pressione fiscale. Il governo deve anche determinare in che misura qualsiasi disavanzo tra spesa e tassazione debba esser finanziato da un intervento della banca centrale e quanto debba essere finanziato dal prestito pubblico e a quali condizioni.Il modo in cui i governi decidono tutte queste questioni (e alcune altre), e la qualità della loro leadership, in interazione con le decisioni degli individui, delle imprese e del settore estero, determinerà cose come i tassi di interesse, il tasso di cambio, il tasso di inflazione, il tasso di crescita e il tasso di disoccupazione. Questo influenzerà anche profondamente la distribuzione del reddito e della ricchezza, non solo tra gli individui ma tra intere regioni, fornendo assistenza, si spera, alle persone colpite dai cambiamenti strutturali. Non si può semplificare troppo sull’utilizzo di questi strumenti, con tutte le loro interdipendenze, volti a promuovere il benessere di una nazione e a proteggerla al meglio possibile dagli shock di varia natura a cui inevitabilmente può andare soggetta. Non vuol dire molto, per esempio, dire che i bilanci dovrebbero essere sempre in pareggio, nel momento in cui un bilancio in pareggio con spesa e tassazione entrambe al 40% del Pil avrebbe un impatto completamente diverso (e molto più espansivo) di un bilancio in pareggio al 10%.Per immaginare la complessità e l’importanza delle decisioni macro-economiche di un governo, basta solo chiedersi quale sarebbe la risposta adeguata, in termini di politica di bilancio, monetaria e valutaria, per un paese che produce grandi quantità di petrolio, ad un aumento del prezzo del petrolio di quattro volte. Sarebbe giusto non fare niente? E non si dovrebbe mai dimenticare che in periodi di fortissima crisi, può anche essere appropriato per un governo centrale peccare contro lo Spirito Santo di tutte le banche centrali e invocare la ‘tassa da inflazione’ – appropriandosi deliberatamente delle risorse e riducendo, attraverso l’inflazione, il valore reale della ricchezza di carta di una nazione. Dopo tutto, era proprio mediante la tassa da inflazione proposta da Keynes che avremmo dovuto fare i pagamenti di guerra. Enumero tutti questi argomenti non per suggerire che la sovranità non dovrebbe essere ceduta per la nobile causa dell’integrazione europea, ma che se i singoli governi rinunciano a tutte queste funzioni, semplicemente queste devono essere assunte da qualche altra autorità.La lacuna incredibile nel programma di Maastricht è che, mentre contiene un progetto per l’istituzione e il modus operandi di una banca centrale indipendente, non esiste nessun progetto per l’analogo, in termini comunitari, di un governo centrale. Eppure dovrebbe semplicemente esistere un sistema di istituzioni che svolgano a livello comunitario tutte quelle funzioni che sono attualmente esercitate dai governi dei singoli paesi membri. La contropartita per rinunciare alla sovranità dovrebbe essere che i paesi membri siano costituiti in federazione, a cui sia affidata la loro sovranità. E il sistema federale, o il governo, come sarebbe meglio chiamarlo, dovrebbe esercitare nei confronti dei suoi membri e del mondo esterno tutte quelle funzioni che ho brevemente descritto sopra. Consideriamo due esempi significativi di ciò che un governo federale, che amministra un bilancio federale, dovrebbe fare. I paesi europei sono attualmente bloccati in una grave recessione. Allo stato attuale, dato che anche le economie degli Stati Uniti e del Giappone sono deboli, non è affatto chiaro quando si potrà avere una ripresa significativa.Le implicazioni politiche di questa situazione stanno diventando spaventose. Eppure l’interdipendenza delle economie europee è già così forte che nessun singolo paese, con l’eccezione teorica della Germania, si sente in grado di perseguire politiche espansive per conto suo, perché ogni paese che cercasse di espandersi per proprio conto incontrerebbe presto un vincolo della bilancia dei pagamenti. La situazione attuale richiede con forza una reflazione coordinata, ma non esistono né le istituzioni né un quadro di pensiero condiviso che potranno condurre a questo desiderabile risultato, che sarebbe di per sé ovvio. Si dovrebbe riconoscere con franchezza che se la depressione dovesse volgere seriamente al peggio – per esempio, se il tasso di disoccupazione dovesse attestarsi in modo permanente intorno al 20-25%, come negli anni Trenta – i singoli paesi prima o poi eserciterebbero il loro diritto sovrano di dichiarare che il movimento di integrazione nel suo insieme è stato un disastro e ritornare al controllo dei cambi e al protezionismo – a un’economia da stato d’assedio, se volete. Ciò equivarrebbe a una riedizione del periodo tra le due guerre.In un’unione economica e monetaria in cui il potere di agire in maniera indipendente venisse effettivamente abolito, una reflazione ‘coordinata’ come quella che adesso sarebbe così urgente e necessaria potrebbe essere intrapresa solo da un governo federale europeo. Senza un’istituzione del genere, la Uem impedirebbe azioni efficaci da parte dei singoli paesi, senza sostituirle con alcunché. Un altro ruolo importante che qualsiasi governo centrale deve svolgere è quello di garantire una rete di sicurezza sui livelli di sussistenza delle regioni che ne fanno parte, che siano in crisi per ragioni strutturali – a causa del declino di alcune industrie, per esempio, o a causa di alcuni cambiamenti demografici economicamente sfavorevoli. Attualmente questo accade nel corso naturale degli eventi, senza che nessuno in realtà ne accorga, perché gli standard comuni dei finanziamenti pubblici (ad esempio, la salute, l’istruzione, le pensioni e le indennità di disoccupazione) e un sistema fiscale comune (auspicabilmente, progressivo) sono entrambi istituiti in via generale su tutte le singole regioni.Di conseguenza, se un settore soffre un grado insolito di declino strutturale, il sistema fiscale genera automaticamente i trasferimenti netti in suo favore. In extremis, una regione che non potesse produrre nulla, non morirebbe di fame perché sarebbe titolare di pensioni, indennità di disoccupazione e reddito dei dipendenti pubblici. Che cosa succede se un intero paese – una potenziale ‘regione’ di una comunità completamente integrata – subisce una battuta d’arresto strutturale? Finché si tratta di uno Stato sovrano, può svalutare la sua moneta. Può quindi commerciare con successo al livello di pieno impiego, a patto che il popolo accetti i necessari tagli dei redditi reali. Con l’unione economica e monetaria, questa strada è ovviamente sbarrata, e la sua prospettiva è veramente grave, a meno che un bilancio federale non adempia a una funzione redistributiva. Come è stato chiaramente riconosciuto nella relazione MacDougall, pubblicata nel 1977, per rinunciare all’opzione della svalutazione ci deve essere una contropartita in termini di redistribuzione fiscale.Alcuni autori (come Samuel Brittan e Sir Douglas Hague) hanno seriamente sostenuto che l’Uem, abolendo il problema della bilancia dei dei pagamenti nella sua forma attuale, in realtà abolirebbe il problema, laddove esso esista, di un persistente fallimento nella competizione sui mercati mondiali. Ma, come sottolineato dal professor Martin Feldstein in un suo importante articolo sull’Economist (13 giugno), questo argomento è pericolosamente errato. Se un paese o una regione non ha il potere di svalutare, e se non è beneficiario di un sistema di perequazione fiscale, allora non c’è nulla che possa impedirgli di subire un processo di irrimediabile tracollo che porterà, alla fine, all’emigrazione come unica alternativa alla povertà o alla fame. Sono solidale con la posizione di coloro (come Margaret Thatcher), che, di fronte alla perdita di sovranità, desiderano scendere all’istante dal treno della Uem. Sono solidale anche con coloro che perseguono l’integrazione nel quadro giuridico di una sorta di costituzione federale, che disponga di un bilancio federale molto più grande del bilancio comunitario. Quello che trovo assolutamente sconcertante è la posizione di coloro che stanno puntando all’unione economica e monetaria, senza la creazione di nuove istituzioni politiche (a parte una nuova banca centrale), e che alzano le mani con orrore alle parole ‘federale’ o ‘federalismo’. Questa è la posizione attualmente adottata dal governo e dalla maggior parte di coloro che prendono parte al pubblico dibattito.(Wynne Godley, “Su Maastricht e tutto il resto”, profetico intervento apparso sulla “London Review of Book” nel lontano 1992, l’8 marzo, ora riproposto dal blog “Vox Populi”. Economista e autore di svariati saggi, Godley è stato consulente del Tesoro britannico, poi docente del King’s College e direttore di dipartimento all’Università di Cambridge).Molte persone in tutta Europa hanno improvvisamente realizzato di non sapere quasi nulla sul Trattato di Maastricht, mentre giustamente si rendono conto che questo trattato può fare una grande differenza nella loro vita. La loro legittima ansia ha portato Jacques Delors a dare l’indicazione che il punto di vista della gente comune in futuro dovrebbe essere consultato con più attenzione. Avrebbe potuto pensarci prima. Anche se sono favorevole a procedere verso un’integrazione politica in Europa, credo che il progetto di Maastricht presenti gravi carenze, e anche che il dibattito pubblico su di esso sia stato stranamente povero. Con un rifiuto danese, con la Francia che ci è andata vicino, e con l’esistenza stessa dello Sme messa in discussione dopo i saccheggi da parte dei mercati valutari, questo è un buon momento per fare il punto. L’idea centrale del Trattato di Maastricht è che i paesi della Ce dovrebbero muoversi verso una unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma come deve essere gestito il resto della politica economica?
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Morte ai palestinesi, questa Italia fa rimpiangere Craxi
Bei tempi, quelli di Craxi e Andreotti – perlomeno, rispetto all’attuale disastro politico. Cartina di tornasole, il voto del 27 febbraio sul (mancato) riconoscimento italiano dello Stato di Palestina. Tutti contrari, in aula – i berlusconiani, Renzi, perfino Sel – con l’unica eccezione del M5S, favorevole ai palestinesi “senza se e senza ma”. «Il partito unico che ci governa, ivi compresa la Lega Nord e il cespuglio “rosafucsia” alla “sinistra” del Pd», i cui esponenti vendoliani «fingono di litigare nei vari talk-show», non è stato neanche capace di votare quella che di fatto sarebbe stata poco più di una mozione di intenti, sebbene di alto valore simbolico. Il voto, scrive Fabrizio Marchi, non avrebbe comunque comportato nessuna ricaduta concreta sulla realtà della cosiddetta “crisi” israelo-palestinese, «cioè l’occupazione neocoloniale e razzista a cui è sottoposto da decenni il popolo palestinese da parte dello Stato di Israele e di tutti i suoi governi, nessuno escluso». Forse, aggiunge Marchi, «ci sono anche modi relativamente più dignitosi per servire i propri padroni, ad esempio fingendo di avere una propria autonomia politica: in fondo a questo serviva o avrebbe potuto servire votare in favore dello Stato di Palestina».Anche per fare questo, però, «serve un briciolo di dignità e di spessore», scrive Marchi su “L’Interferenza”. Qualità elementari, che purtroppo «questo ceto politico non possiede». Perlomeno, la classe politica della Prima Repubblica «cercava di assolvere alla funzione che all’interno dell’alleanza politico-militare occidentale le era stata affidata, con un relativo margine di autonomia politica, di equilibrio e di capacità di mediazione reale in quella che era la sua area geopolitica di pertinenza, cioè il bacino del Mediterraneo». Partiti come Dc, Psi e Pci credevano nel ruolo politico dell’Italia nell’area mediterranea e mediorientale. Di sicuro si sarebbero comportati «con maggiore dignità e senso dello Stato». Marchi ricorda il celebre discorso alla Camera del 6 novembre del 1985 con cui l’allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, difese il legittimo diritto dei palestinesi alla lotta armata per liberare la propria terra dalla potenza occupante, «azzardando addirittura un paragone storico fa il movimento di liberazione nazionale palestinese e quello risorgimentale e mazziniano». Per non parlare del famoso episodio di Sigonella dell’ottobre dello stesso anno, dove lo stesso Craxi impedì ai marines Usa di catturare un commando palestinese del Fplp che aveva sequestrato una nave da crociera italiana, l’Achille Lauro.Il commando palestinese aveva ucciso un passeggero americano di religione ebraica, Leon Klinghoffer, costretto sulla sedia a rotelle. Tra parentesi, la vittima «non era un anziano qualsiasi», spiega oggi uno studioso come Gianfranco Carpeoro: Klinghoffer era il capo del “B’Nai Brit”, la superloggia massonica segreta ebraica, che corrisponde alla sezione più impenetrabile del Mossad, l’intelligence israeliana. «L’aereo su cui viaggiavano i membri del commando palestinese – ricorda Marchi – fu fatto circondare dai carabinieri», che impedirono armi in pugno ai marines americani di catturare i palestinesi, per poi far ripartire l’aereo verso il porto sicuro della Jugoslavia comunista di Tito. «Un episodio che provocò un momento di grave tensione nei rapporti fra il governo italiano e quello americano», e che oggi appare lunare, incredibile. La crisi di Sigonella «rilanciava il ruolo dell’Italia nello scacchiere mediorientale come paese non ostile ai popoli arabi, in continuità con una politica di cooperazione e collaborazione con i paesi maghrebini e mediterranei già iniziata a suo tempo dal presidente dell’Eni, Enrico Mattei, che per questo fu assassinato dalle multinazionali del petrolio Usa».C’è chi sostiene che Usa e Israele non avessero dimenticato quell’affronto, aggiunge Marchi. Si ritiene infatti che la successiva caduta in disgrazia di Craxi avesse in qualche modo a che vedere con la sua politica di apertura nei confronti dell’Olp e in generale dei governi nazionalisti laici arabi, ben oltre le vicende di Tangentopoli. «Questo ovviamente non fa di Craxi, così come di Andreotti e in generale di quel ceto politico da loro rappresentato, degli eroi della lotta dei popoli del mondo contro l’imperialismo, però ci offre una testimonianza reale di quale sia il livello dell’attuale classe politica». Un panorama desolante, che comprende a pieno titolo anche la Lega Nord di Salvini, che «ha votato contro lo Stato di Palestina con una dichiarazione esplicitamente filoisraeliana». La Lega si rivela così «una forza di finta opposizione al “sistema”, schierata in realtà su posizioni filo-atlantiste». Le simpatie per Putin e la Corea del Nord? «Nero seppia da buttare in faccia alla parte culturalmente più debole del suo elettorato». Morte ai palestinesi, dunque, ora e sempre, anche da parte del Salvini che spande odio verso i migranti più disperati. «E’ bene non farsi ingannare da questa gente, molto abile in queste operazioni di maquillage dalle quali purtroppo molte persone in buona fede tendono a farsi condizionare – conclude Marchi – soprattutto in assenza di un’alternativa politica solida».Bei tempi, quelli di Craxi e Andreotti – perlomeno, rispetto all’attuale disastro politico. Cartina di tornasole, il voto del 27 febbraio sul (mancato) riconoscimento italiano dello Stato di Palestina. Tutti contrari, in aula – berlusconiani e renziani, perfino Sel – con l’unica eccezione del M5S, favorevole ai palestinesi “senza se e senza ma”. «Il partito unico che ci governa, ivi compresa la Lega Nord e il cespuglio “rosafucsia” alla “sinistra” del Pd», i cui esponenti vendoliani «fingono di litigare nei vari talk-show», non è stato neanche capace di votare quella che di fatto sarebbe stata poco più di una mozione di intenti, sebbene di alto valore simbolico. Il voto, scrive Fabrizio Marchi, non avrebbe comunque comportato nessuna ricaduta concreta sulla realtà della cosiddetta “crisi” israelo-palestinese, «cioè l’occupazione neocoloniale e razzista a cui è sottoposto da decenni il popolo palestinese da parte dello Stato di Israele e di tutti i suoi governi, nessuno escluso». Forse, aggiunge Marchi, «ci sono anche modi relativamente più dignitosi per servire i propri padroni, ad esempio fingendo di avere una propria autonomia politica: in fondo a questo serviva o avrebbe potuto servire votare in favore dello Stato di Palestina».
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Cia e sauditi, la premiata ditta dei tagliatori di teste
Non fanatici, ma mercenari. Traslocati in mezzo mondo – Afghanistan, Balcani, Medio Oriente – per scatenare il terrore, fornendo l’alibi per la “guerra infinita” degli Usa. Al-Qaeda e Isis sono due maschere dello stesso network, organizzato dai sauditi sotto la regia di Washington. «Dalle viscere del carcere di massima sicurezza statunitense di Florence (Colorado), il componente di Al-Qaeda Zacarias Moussaui, condannato all’ergastolo, fa luce su quello che certamente è il segreto più sporco della “guerra al terrore”», scrive Pepe Escobar. «In più di 100 pagine di testimonianze rese nei giorni scorsi in una corte federale di New York, Moussaui fa “esplodere” delle autentiche bombe legate alla “Casa di Saud”». Tra i più importanti finanziatori di Al-Qaeda prima dell’11 Settembre compaiono i principali esponenti del potere saudita, alleato di Washington. Le prime avvisaglie dello scandalo esplodono adesso, spiega Escobar, perché gli Usa ricattano l’Arabia Saudita: guai se Riyadh si sfilasse dall’alleanza, cessando di sostenere sottobanco il network del terrore, che oggi si chiama Califfato, o a scelta Isis, Isil o semplicemente Daesh. E guai se smettono di pompare petrolio, facendone crollare il prezzo per colpire Putin.Nelle rivelazioni dell’ergastolano Moussaui, scrive Escobar in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, troviamo nientemeno che l’ex capo dell’intelligence saudita, il principe Turki al-Faisal, già grande amico di Osama Bin Laden, insieme un personaggio come il principe Bandar Bin Sultan, detto “Bandar Bush”, già ambasciatore saudita negli Stati Uniti «e mancato sponsorizzatore di jihadisti in Siria». Turki e Bandar sono in compagnia «di un caro amico dei mercati occidentali (e di Rupert Murdoch)», cioè il principe Al-Waleed Bin Talal, e con lui «tutti i maggiori “chierici” wahhabiti dell’Arabia Saudita». In altre parole, «nessuno di loro è nuovo a chi segue fin dai tempi dell’Afghanistan degli anni ’80 le sporche vicende degli jihadisti finanziati dai wahhabiti sauditi». Le informazioni, aggiunge Escobar, assumono maggiore importanza se messe in relazione al prossimo libro di Michael Springmann, ex capo della sezione visti a Jeddah, in Arabia Saudita. In “Visto per al-Qaeda”, svelando «tutti gli sdoganamenti della Cia che hanno sconvolto il mondo», Springmann descrive in dettaglio le mosse dell’armata del terrore messa in piedi dagli Usa.Negli anni ’80, la Cia reclutò e addestrò «agenti musulmani» per contrastare l’invasione sovietica in Afganistan. «Più tardi, la Cia avrebbe spostato questi agenti dall’Afganistan ai Balcani, poi in Iraq, in Libia e in Siria, facendoli viaggiare con visti statunitensi illegali». Questi guerriglieri addestrati dagli Usa «si sarebbero poi riuniti in un’ organizzazione che è sinonimo di terrorismo jihadista: Al-Qaeda». Lo scopo politico di queste rivelazioni, dal punto di vista di Washington, secondo Springmann «è di esercitare pressioni sulla Casa di Saud per continuare a pompare le loro eccedenze petrolifere: i recenti rimbalzi petroliferi stanno provocando l’isterismo a Washington, poiché potrebbero essere il segnale di un ripensamento dei sauditi sulla loro guerra dei prezzi del petrolio contro, prima fra tutti, la Russia». Dunque, verso la metà degli anni ’80, “Al-Qaeda” era solo un database in un computer collegato al dipartimento delle comunicazioni del segretariato della Conferenza Islamica, scrive Escobar. «A quel tempo, quando Osama Bin Laden non era che un agente “delegato” Usa che operava a Peshawar, l’intranet di Al-Qaeda era un ottimo sistema di comunicazione per lo scambio di messaggi in codice tra i guerriglieri».“Al-Qaeda” non era un’organizzazione terrorista – ovvero un esercito islamico – e neanche proprietà privata di Osama Bin Laden. «In seguito, verso la metà degli anni 2000 in Iraq, Abu Musab al-Zarqawi – il precursore giordano di Isis/Isil/Daesh – stava reclutando giovani militanti-fanatici-arrabbiati, senza un diretto input da parte di Bin Laden. La sua copertura era Aqi (Al-Qaeda in Iraq)». Quindi, continua Escobar, Al-Qaeda era e resta un marchio di successo. «Non è mai stata un’organizzazione; piuttosto era un elemento operativo essenziale di un’agenzia di intelligence. Da qui l’imperativo categorico: Al-Qaeda è essenzialmente una derivazione dell’intelligence saudita». La miglior prova è il ruolo oscuro, fin dall’inizio, del principe Turki, ex direttore generale per lungo tempo del Mukhabarat, l’intelligence della Casa di Saud («ma Turki non parla, e mai lo farà»). L’intelligence turca, per parte sua, «non ha mai creduto al mito dell’“organizzazione” Al-Qaeda». Le rivelazioni di Moussaui, aggiunge Escobar, «diventano davvero esplosive quando si collegano tutti i punti tra l’ideologia politica della Casa di Saud, la piattaforma politica di Al-Qaeda e l’abbozzo ideologico del falso Califfato di Isis/Isil/Daesh. La matrice di tutti questi è il wahhabismo del 19° secolo – e la sua interpretazione/appropriazione medievale dell’Islam. Tutti usano metodi diversi, alcuni più rumorosi di altri, ma tutti hanno lo stesso fine: il proselitismo wahhabita».La differenza fondamentale, secondo Escobar, è che Al-Qaeda e Isis/Isil/Daesh «sono dei rinnegati wahhabiti che intendono, alla fine, prendere il posto della Casa di Saud – fantoccio comandato dall’Occidente – instaurando in modo ancora più intollerante il potere salafita e/o del Califfato». Per cui, «quando questa “bomba” ancora segreta verrà fuori dal vaso di pandora arabico, crolleranno i presupposti che reggono quel dono che viene continuamente elargito dagli Usa, la “Guerra al Terrore” (guerra infinita)». Non è rassicurante nemmeno il nuovo capo della Casa di Saud, il principe Salman, che «negli anni ’90 era uno strenuo sostenitore del salafismo e del Jihad», inclusa la pratica Bin Laden. Più tardi, come governatore di Riyadh, «si distinse nell’avversione più totale verso gli sciiti, che poi si espandeva nell’odio verso l’Iran nel suo complesso – per non parlare poi del suo odio per qualsiasi cosa che lontanamente ricordasse la democrazia all’interno dell’Arabia Saudita». Assurdo aspettarsi che Salman sia un “riformatore”, «come è assurdo aspettarsi che l’amministrazione Obama interrompa una volta per tutte la sua storia d’amore con i suoi “bastardi preferiti” del Golfo Persico».Ma ora, aggiunge Escobar, c’e’ un nuovo elemento chiave: «La Casa di Saud è disperata. Non è un segreto a Riyadh e in tutto il Golfo che il nuovo Re e i suoi consiglieri ammaestrati dall’Occidente stiano letteralmente perdendo la testa. Si ritrovano circondati dall’Iran – che, per giunta, è sul punto di concludere un accordo nucleare con il Grande Satana l’estate prossima». La situazione non è allegra: i sauditi «vedono il falso Califfato di Isis/Isil/Daesh che controlla gran parte del “Siraq” – e con gli occhi già puntati verso la Mecca e Medina. Vedono gli sciiti Houthi pro-Iran che controllano lo Yemen. Vedono gli sciiti della maggioranza in Bahrein repressi con grandi difficoltà dalle forze mercenarie. Vedono disordini sciiti diffusi nelle province orientali dell’Arabia Saudita, dove c’è il petrolio. Sono sparsi in tutto il Medio Oriente ancora in preda alla psicosi “Assad deve andarsene” (mentre lui non va da nessuna parte). Hanno bisogno di finanziare la “junta” militare al potere in Egitto con miliardi di dollari (l’Egitto è al verde). E oltre a tutto questo, si sono bevuti la storia America-contro-Russia, impegnandosi in una guerra dei prezzi del petrolio che sta consumando il loro budget».Non ci sono prove che Salman sia deciso a compiere lo sforzo di cooperare con il governo di maggioranza sciita a Baghdad, né che tenterà di raggiungere un compromesso con Teheran: «Al contrario, regna la paranoia, poiché nel momento in cui l’Iran riaffermasse la sua supremazia nucleare, una volta concluso l’accordo atteso per l’estate prossima, i sauditi si ritroveranno emarginati ideologicamente e politicamente». Soprattutto, conclude Escobar, non ci sono prove che l’amministrazione Obama abbia la capacità di riconsiderare le relazioni coi sauditi. «Ciò che è certo è che il più sporco segreto della “guerra al terrore” resterà off-limits. Tutto il “terrore” che stiamo vivendo, sia quello reale sia quello costruito a tavolino, proviene da un’unica fonte: non è “l’Islam”, ma l’intollerante e demente wahhabismo», irresponsabilmente incoraggiato, organizzato e finanziato con la piena collaborazione della Cia. Stesso film: dalla strage di americani innocenti l’11 Settembre alla ricomparsa dei “tagliatori di teste” in Siria, in Iraq e ora in Libia.Non fanatici, ma mercenari. Dirottati in mezzo mondo – Afghanistan, Balcani, Medio Oriente – per scatenare il terrore, fornendo l’alibi per la “guerra infinita” degli Usa. Al-Qaeda e Isis sono due maschere dello stesso network, organizzato dai sauditi sotto la regia di Washington. «Dalle viscere del carcere di massima sicurezza statunitense di Florence (Colorado), il componente di Al-Qaeda Zacarias Moussaui, condannato all’ergastolo, fa luce su quello che certamente è il segreto più sporco della “guerra al terrore”», scrive Pepe Escobar. «In più di 100 pagine di testimonianze rese nei giorni scorsi in una corte federale di New York, Moussaui fa “esplodere” delle autentiche bombe legate alla “Casa di Saud”». Tra i più importanti finanziatori di Al-Qaeda prima dell’11 Settembre compaiono i principali esponenti del potere saudita, alleato di Washington. Le prime avvisaglie dello scandalo esplodono adesso, spiega Escobar, perché gli Usa ricattano l’Arabia Saudita: guai se Riyadh si sfilasse dall’alleanza, cessando di sostenere sottobanco il network del terrore, che oggi si chiama Califfato, o a scelta Isis, Isil o semplicemente Daesh. E guai se smettono di pompare petrolio, facendone crollare il prezzo per colpire Putin.
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Fine della crisi? Via la Germania dall’Ue, e addio alla Nato
A mio modo di vedere, una valuta internazionale non è più necessaria. All’indomani della II Guerra Mondiale quando tutte le altre grandi nazioni industriali avevano economie distrutte e strutture industriali distrutte: solo il dollaro aveva valore e quindi poteva diventare la moneta mondiale. Oggi chiaramente ci sono molte zone sviluppate del mondo con valute legittime e quindi è possibile condurre scambi tra nazioni tramite le loro proprie valute. Avete l’euro, avete il rublo, avete la valuta cinese, avete la giapponese, la canadese, l’australiana, ognuna già ora con un grande volume di attività economica sulla faccia del pianeta che non esisteva nel 1945. E quindi una valuta di riserva non è veramente più necessaria. Una valuta di riserva connessa a una nazione assicura a quella nazione un potere, le dà l’egemonia finanziaria sopra altre nazioni. Stiamo osservando come Washington faccia un cattivo uso di questo potere. Un altro problema è il modo in cui Washington usa la valuta di riserva per pagare i suoi conti. Se sei la nazione con valuta di riserva puoi rilassarti, perché puoi pagare i tuoi conti emettendo moneta di credito.Negli anni recenti ciò che è successo è stato che Washington ha espanso oltre misura la sua disponibilità monetaria e il dollaro ha denominato il debito. Washington inflaziona la sua valuta come ha fatto, anno dopo anno, col “quantitative easing”. Una politica che, strettamente parlando, non è finita. Ciò costringe le altre nazioni a inflazionare le proprie valute, altrimenti il valore di scambio delle loro valute aumenta e le esportazioni vengono tagliate, e quindi per proteggere i mercati di esportazioni tutti devono inflazionare se lo fanno gli Stati Uniti. Così la conseguenza è che il mondo ora è sommerso da “fiat money”, ma la produzione di merci e di servizi non è cresciuta in modo commensurabile alla crescita del denaro. Ci aspettiamo una seria inflazione mondiale per molte ragioni. Molta di questa moneta è sotto chiave nel sistema bancario. C’è comunque una situazione molto instabile, ogni volta che la creazione di “fiat money” superi la produzione di beni e servizi.Penso che la situazione abbia raggiunto il punto in cui molte nazioni, parlo di nazioni potenti come la Russia e la Cina, si rendono conto che il sistema del dollaro, il sistema di pagamenti basato sul dollaro, si sta frantumando, ed è anche il sistema che può essere usato per imporre sanzioni su nazioni che non seguono le imposizioni di Washington. Avete sanzioni se vi comportate indipendentemente da Washington. Quindi si possono già vedere movimenti per abbandonare il sistema, e ciò certamente avverrà. La Cina è il più grande creditore del Tesoro statunitense: possiede la parte maggiore del debito Usa e ha legato la sua valuta al dollaro per dimostrare che la sua valuta è buona quanto il dollaro. E ciò che vediamo è che la valuta cinese è meglio del dollaro. Io penso che l’obiezione della Cina è il modo in cui gli Stati Uniti usano la loro valuta come un’egemonia finanziaria sopra tutte le altre nazioni. La usano per minare la sovranità delle altre nazioni.Lo vediamo con le sanzioni contro la Russia. Questo è il modo per costringere la Russia a sottomettersi al volere di Washington. Ma stanno ottenendo il risultato opposto. La Russia sta lasciando il sistema dei pagamenti basati sul dollaro. E inoltre, a causa della stupidità dei governi europei, la Russia sta riorientando il suo commercio dall’Europa all’Oriente. Lo vediamo oggi con gli sviluppi in campo energetico. Così ciò manderà in frantumi il sistema di pagamento basato sul dollaro. Le nazioni europee sono i grandi facilitatori dell’egemonia di Washington. Se le nazioni europee fossero davvero sovrane e fossero in grado di condurre politiche internazionali indipendenti non sarebbero stati vassalli degli Stati Uniti e questo limiterebbe lo strapotere degli Usa e priverebbe gli Stati Uniti della copertura per le sue guerre di aggressione. Cosa può fare l’Europa? Può disimpegnarsi dalla Nato. Essere un membro della Nato vuol dire assoggettarsi al controllo di Washington. La Nato esisteva per proteggersi dall’invasione dell’Europa da parte dell’Armata Rossa, l’esercito sovietico. Questa minaccia è spartita da almeno vent’anni. Eppure la Nato continua ad espandersi e viene usata dagli Stati Uniti per le sue guerre in Africa e nel Medio Oriente.Cosa ci guadagna l’Europa da tutto ciò? Niente. E adesso viene trascinata in un confronto militare con la Russia. Che cosa ne uscirà da tutto ciò? Nulla di buono per l’Europa. E’ quindi necessario che i paesi europei riacquistino la loro sovranità. Ma non sono sovrani, sono colonie. Sono regimi fantoccio. Non hanno politiche estere indipendenti. Sono assoggettate al volere di Washington. E ciò costituisce una grande facilitazione per l’egemonia di Washington. Senza ciò gli Stati Uniti sarebbero solo un altro paese tra tanti. Magari un paese molto forte, certo, ma un paese tra tanti. Quando però uno ha tutta l’Europa, il Canada, l’Australia e il Giappone come regimi fantoccio e Stati vassalli, diventa strapotente. Quindi, ciò che l’Europa può fare? Lasciare la Nato. La Nato non protegge più l’Europa, ma la mette in pericolo perché la coinvolge nelle guerre di Washington.Perché gli Usa riescono ad assoggettare le nazioni europee? Ci sono vari motivi. Uno è che dopo la Seconda Guerra Mondiale il dollaro è diventato la moneta di riserva, e ciò dà un potere enorme agli Stati Uniti. Un’altra ragione è stata la lunga Guerra Fredda con l’Unione Sovietica e la propaganda secondo cui l’Europa poteva essere invasa dall’Urss, con la conseguente dipendenza dell’Europa, che dura da decenni, dalla protezione americana. Se tu dipendi dalla protezione di un altro paese finisci per dover seguire le politiche di quel paese perché dipendi da quel paese. E’ il ruolo che assumi col tempo. Tutto ciò avrebbe dovuto finire con il collasso dell’Unione Sovietica. Sfortunatamente il collasso dell’Unione Sovietica ha portato alla ribalta negli Stati Uniti l’ideologia dei neoconservatori, che dice che la storia ha scelto gli Stati Uniti per dominare il mondo. Sarebbe la “Nazione Eccezionale”, la “Nazione Indispensabile”. E il collasso del comunismo, del socialismo, avrebbe provato che gli Stati Uniti dovevano esercitare la loro egemonia sul mondo.Questa ideologia è stata istituzionalizzata nella politica estera e militare degli Stati Uniti. Abbiamo la dottrina Brzezinski e la dottrina Wolfowitz. E in sostanza queste dottrine dicono che gli Stati Uniti devono prevenire l’ascesa di ogni altro paese che abbia il potere e la capacità di bloccare i propositi di Washington nel mondo. Questi due Stati, oggi, sono la Russia e la Cina. E quindi questa ideologia è estremamente pericolosa, perché mette il mondo in conflitto con la Russia e la Cina. E questi sono tra i principali paesi nucleari, e sono grandi economie ed enormi aree geografiche. E quindi l’ideologia dell’egemonia americana è una minaccia alla stessa esistenza della vita sulla Terra. La possibile alternativa rappresentata dalla Germania? Temo che la Merkel sia solo un pupazzo di Washington. E’ molto difficile per un leader europeo alzarsi in piedi e rappresentare il proprio popolo invece che gli Stati Uniti. Tutti i leader europei rappresentano gli Stati Uniti e non rappresentano il popolo della Francia, della Germania o il popolo britannico. Rappresentano gli Stati Uniti. E certamente sono ben remunerati per questo. E quindi i leader che mostrano una qualche disposizione a non stare al gioco sono sempre rovinati.Immaginatevi se la Germania dovesse semplicemente lasciare l’Ue . Restare non serve agli interessi della Germania. Perché la Germania verrebbe munta e pagherebbe i debiti dell’Ue, e dell’Ucraina. O se la Germania lasciasse la Nato: perché la Germania dovrebbe stare nella Nato? La Germania ha grandi collegamenti economici con la Russia. Ma questi stanno per essere sacrificati per far piacere agli americani. Quindi, sì, la Germania potrebbe fare molto. Potrebbe lasciare la Ue, potrebbe lasciare la Nato. Questo sarebbe la fine dell’egemonia statunitense. Ma non succederà, perché i paesi occidentali non hanno più, a mio avviso, la democrazia: i loro leader non rappresentano il popolo. Negli Stati Uniti rappresentano ideologie e rappresentano potenti gruppi di interessi, come ad esempio il complesso militare e di sicurezza, Wall Street e le grandi banche, e poi l’agribusiness, la lobby israeliana, le industrie estrattive, il petrolio, le miniere, l’industria del legno. Tutti questi sono interessi potentissimi, le cui donazioni determinano chi viene eletto. E le persone che traggono beneficio da questi contributi alle campagne elettorali sono alleate alle fonti del denaro. Quindi tutto il processo viene rimosso dalla rappresentazione del popolo. Il popolo non fornisce i soldi che eleggono i candidati. E quindi si ha una situazione in cui l’Europa è solo un vassallo degli Stati Uniti.Questi leader non possono nemmeno rappresentare gli interessi del loro popolo ma devono conformarsi alle politiche degli Stati Uniti. Perciò si può solamente dire che la democrazia in fin dei conti non esiste. E’ solo una copertura perché i governi sono incapaci di rappresentare gli interessi del popolo. Cosa dovrebbero fare i lavoratori e le persone comuni per ribilanciare lo squilibrio nei confronti del capitale? E’ chiaro che non possono fare nulla all’interno di questo sistema. Ciò che ha distrutto il potere dell’uomo comune negli Stati Uniti è stato la delocalizzazione all’estero dei posti di lavoro dell’industria manifatturiera. Quando l’industria è stata delocalizzata all’estero, i sindacati sono stati distrutti. E quando i sindacati sono stati smantellati, la fonte indipendente di finanziamento del Partito Democratico è stata distrutta. Di conseguenza, i Democratici ora devono rivolgersi agli stessi gruppi di interesse che finanziano i Repubblicani. Devono rivolgersi al complesso militare-sicurezza, a Wall Street, alle banche. E così, entrambi i partiti sono finanziati dalle medesime fonti. A tutti gli effetti, c’è un unico partito.L’unica cosa che possono fare i lavoratori spossessati è contestare la legittimità del governo e ribellarsi. E’ l’unica alternativa che hanno. Non c’è nessuna possibilità di cambiare il sistema dall’interno. Fin quando protestare vuol dire protestare pacificamente vuol dire che la gente accetta la struttura e semplicemente cerca di convincere coloro che hanno il potere che devono cambiare le proprie idee. Ma questo non avverrà. Non succede mai. Abbiamo raggiunto un punto in cui i lavoratori sono spinti ai margini. Non hanno nessuna influenza, nessuna rappresentanza. Quanto all’Europa, tutto quello che posso dire è che paesi che hanno una così lunga storia non devono rinunciare alla loro sovranità, per Washington. Devono riconquistare la loro sovranità per proteggere il mondo dall’aggressione di Washington. Devono ridiventare indipendenti, per costringere gli Usa a mollare questa ideologia della supremazia mondiale, perché è molto pericolosa – pericolosa per gli americani, per gli europei, per i cinesi, per i russi, per tutti. Potete vedere i morti e le distruzioni nel Medio Oriente da tredici anni. E l’ingerenza irresponsabile del governo degli Stati Uniti in Ucraina, le accuse irresponsabili contro la Russia, contro la Cina, la costruzione di basi militari sulle frontiere della Russia e in Asia per bloccare l’accesso della Cina alle risorse. Tutto questo ci porterà alla guerra. Ma la Russia e la Cina non sono la Libia o l’Iraq.(Paul Craig Roberts, dichiarazioni rilasciate a Piero Pagliani per un’intervista su “Pandora Tv”, ripresa da “Megachip” il 13 febbraio 2015).A mio modo di vedere, una valuta internazionale non è più necessaria. All’indomani della II Guerra Mondiale quando tutte le altre grandi nazioni industriali avevano economie distrutte e strutture industriali distrutte: solo il dollaro aveva valore e quindi poteva diventare la moneta mondiale. Oggi chiaramente ci sono molte zone sviluppate del mondo con valute legittime e quindi è possibile condurre scambi tra nazioni tramite le loro proprie valute. Avete l’euro, avete il rublo, avete la valuta cinese, avete la giapponese, la canadese, l’australiana, ognuna già ora con un grande volume di attività economica sulla faccia del pianeta che non esisteva nel 1945. E quindi una valuta di riserva non è veramente più necessaria. Una valuta di riserva connessa a una nazione assicura a quella nazione un potere, le dà l’egemonia finanziaria sopra altre nazioni. Stiamo osservando come Washington faccia un cattivo uso di questo potere. Un altro problema è il modo in cui Washington usa la valuta di riserva per pagare i suoi conti. Se sei la nazione con valuta di riserva puoi rilassarti, perché puoi pagare i tuoi conti emettendo moneta di credito.
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La sensazionale notizia della presenza dell’Isis in Libia
Tragico errore o cinica scommessa? E se l’attacco a Gheddafi scatenato da Francia e Gran Bretagna nel 2011 fosse coinciso con il vero atto di fondazione della mostruosa creatura occidentale chiamata Isis? La Libia viene ora presentata come se fosse invasa da un’armata di Gengis Khan arrivata all’improvviso da non si sa dove, attraverso quali frontiere. In realtà, tra gli “shabab” insorti contro Gheddafi prevalse da subito la leadership fondamentalista, appoggiata dalle bombe della Nato. Crollato il regime, e aperto l’immediato e sanguinoso regolamento di conti tra clan, centinaia di guerriglieri libici furono segretamente dirottati in Siria, attraverso la Turchia, per creare il nerbo all’Esercito Siriano Libero, quello che un anno più tardi – con le armi chimiche usate contro i civili nel tentativo di incolpare Assad – portò il mondo a un passo dalla Terza Guerra Mondiale, spingendo anche il Papa (insieme al Parlamento di Londra) a schierarsi vigorosamente contro l’attacco Nato. Svanita la possibilità di “jihadizzare” Damasco, ecco la nascita dell’Isis, guidato tra le macerie dell’Iraq dall’oscuro al-Baghdadi reduce dalla Siria, dov’era assistito e finanziato dagli Usa tramite missioni come quelle coordinate sul campo dal senatore John McCain. Qualcuno dunque riesce ancora a stupirsi della “comparsa” dell’Isis in Libia?Visto il tragico copione degli eventi, Vincenzo Brandi su “Megachip” ricorda che quattro anni fa fu attaccato il paese più prospero dell’Africa, uno Stato che «stava in pace da 42 anni» ed «era riuscito a contenere i contrasti tra le varie tribù». Il Pil di Tripoli era il più alto di tutto il continente: la Libia di Gheddafi «ospitava 2 milioni di lavoratori immigrati, aveva ricontrattato le licenze petrolifere con le compagnie straniere ottenendo il 90% dei proventi per lo Stato libico redistribuendo i profitti tra la popolazione», e inoltre «riconosceva pienamente i diritti delle donne, aveva fornito il paese di acqua potabile riuscendo anche a raggiungere l’autosufficienza alimentare», dopo aver «allontanato tutte le basi militari straniere, acquisendo una piena indipendenza». La campagna militare anglo-francese del 2011, cui si associò l’Italia in extremis per tutelare i terminali petroliferi dell’Eni, fu preceduta dalla consueta disinformazione mirata a creare consenso bellico, con l’invariabile demonizzazione del dittatore, grande amico dell’Italia fino al giorno prima, accusato persino di aver fatto scavare inesistenti fosse comuni, evidentemente per occultare i corpi di altrettanto immaginarie stragi di civili.Sulla Libia, nel 2011 gli Usa si lasciarono ritrarre in posizione più defilata. «La pensavamo come l’Italia: non bisogna intervenire», dice ora a “La7” un super-falco come il politologo Edward Luttwak, che però sui tagliagole mediatici del “Califfato” oggi dice: «Non chiamiamoli Isis, ma Islam: quello è il pericolo da fermare». E’ esattamente la stessa conclusione a cui puntano i macellai parigini di “Charlie Hebdo” e lo stragista solitario danese: il risultato delle loro azioni è la criminalizzazione indiscriminata di tutti i musulmani, verso lo “scontro di civiltà” tanto caro ai signori della guerra, al comando della politica estera Usa a partire dall’11 Settembre. Secondo Gioele Magaldi, autore del libro-denuncia “Massoni”, l’ex presidente francese Sarkozy, che per primo attaccò la Libia bomdardando Bengasi, sarebbe affiliato alla superloggia “Hathor Pentalpha” creata dai Bush, loggia a cui apparterrebbe anche Tony Blair, l’inventore delle “armi di distruzione di massa” di Saddam. Lo stesso filo rosso-sangue collegherebbe Jeb Bush, possibile candidato alle presidenziali 2016, con lo stesso al-Baghdadi, il leader jihadista in apparenza comparso dal nulla – come Bin Laden – per terrorizzare l’opinione pubblica occidentale.Nell’immenso caos nel quale è stato precipitato il mondo dopo il crollo dell’Urss, si susseguono ipotesi di spregiudicati complotti – alcuni chiaramente leggibili subito, altri confermati spesso dai fatti a posteriori, da prove e ammissioni – mentre avanza all’orizzonte l’inevitabile collisione geopolitica con la Cina, sempre più prossima a una Russia sfidata in Siria e ora assediata alla frontiera con l’Ucraina. Oltre alla coltre di nebbia stesa dai media e dai tanti “debunker”, gli incursori anti-complottistici (la Gran Bretagna ha recentemente reclutato centinaia di “troll” da scatenare su Facebook per smentire le accuse più insidiose), restano perfettamente percepibili le trame in corso, soggette poi al vaglio dell’imponderabile, e in particolare le manovre dell’Occidente per incunearsi nella grande faglia che separa i due rami dell’Islam: da Bin Laden in poi, finora l’intelligence atlantica ha puntato sui sunniti, arma letale contro l’Iran sciita e i suoi alleati regionali, come le milizie libanesi di Hezbollah che hanno arginato l’espansione di Israele. Nonostante quasi 15 anni di guerre ininterrotte, rovine, vittime e profughi, paesi devastati, “fallimenti” dietro cui si celano lucrosissimi business di armamenti e ricostruzioni, i signori della guerra restano al riparo: nessuno si domanda perché tutto questo accada, e il mainstream può persino permettersi di inscenare la “sorpresa libica” dell’Isis, col suo spettacolo dell’orrore.Tragico errore o cinica scommessa? E se l’attacco a Gheddafi scatenato da Francia e Gran Bretagna nel 2011 fosse coinciso con il vero atto di fondazione della mostruosa creatura occidentale chiamata Isis? La Libia viene ora presentata come se fosse invasa da un’armata di Gengis Khan arrivata all’improvviso da non si sa dove, attraverso quali frontiere. In realtà, tra gli “shabab” insorti contro Gheddafi prevalse da subito la leadership fondamentalista, appoggiata dalle bombe della Nato. Crollato il regime, e aperto l’immediato e sanguinoso regolamento di conti tra clan, centinaia di guerriglieri libici furono segretamente dirottati in Siria, attraverso la Turchia, per creare il nerbo all’Esercito Siriano Libero, quello che un anno più tardi – con le armi chimiche usate contro i civili nel tentativo di incolpare Assad – portò il mondo a un passo dalla Terza Guerra Mondiale, spingendo anche il Papa (insieme al Parlamento di Londra) a schierarsi vigorosamente contro l’attacco Nato. Svanita la possibilità di “jihadizzare” Damasco, ecco la nascita dell’Isis, guidato tra le macerie dell’Iraq dall’oscuro al-Baghdadi reduce dalla Siria, dov’era assistito e finanziato dagli Usa tramite missioni come quelle coordinate sul campo dal senatore John McCain. Qualcuno dunque riesce ancora a stupirsi della “comparsa” dell’Isis in Libia?
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Putin: 11 Settembre organizzato dagli Usa, eccovi le prove
L’attacco alle Torri Gemelle «è stato pianificato dal governo degli Stati Uniti, ma è stato eseguito per procura, in modo tale che l’attacco contro l’America e il popolo degli Stati Uniti sembrasse un’aggressione effettuata da organizzazioni terroristiche internazionali». Attenzione: «Le prove fornite sarebbero a tal punto convincenti, da smontare completamente la versione ufficiale dell’11 Settembre sostenuta dal governo degli Stati Uniti». Quali prove? Quelle che starebbero per essere pubblicate a Mosca, controfirmate nientemeno che da Vladimir Putin. Ultima mossa, clamorosa, per tentare di fermare la macchina da guerra che – dalla Siria all’Ucraina – sta assediando i non-allienati allo strapotere di Washington, Russia e Cina in primis, tenendo sotto ricatto anche i paesi del petrolio e la stessa Europa, costretta a varare sanzioni autolesioniste contro l’impero del gas e usare la Nato come minaccia contro Mosca. Il presidente russo, annuncia la “Pravda”, si prepara dunque al colpo del ko: l’esibizione di «prove schiaccianti», satellitari, che inchioderebbero l’intelligence di Bush al crimine dell’11 Settembre, spaventoso massacro ai danni dei cittadini americani, da terrorizzare al punto da indurli a sostenere le guerre a venire, cominciando da Iraq e Afghanistan.La notizia trapela dal newsmagazine “Veterans Today”: un collaboratore, Gordon Duff, segnala che sulla “Pravda” del 7 gennaio 2015 si parla dell’imminente, clamorosa iniziativa dei russi: smascherare definitivamente l’imbroglio mondiale dell’11 Settembre, quello degli arei dirottati sulle Torri “all’insaputa della Cia e dell’Fbi”, senza alcuna reazione da parte della difesa aerea americana. «Le evidenze satellitari russe che provano la demolizione controllata del World Trade Center con “armi speciali” – scrive “Come Don Chisciotte” – sono state recensite da un redattore di “Veterans Today”, mentre si trovava a Mosca». Gli analisti ritengono che l’attuale situazione di “guerra fredda” tra Washingon e Mosca rappresenti la quiete prima della tempesta: «Putin colpirà una sola volta, ma ha intenzione di farlo con notevole durezza», annuncia “Veterans Today”. «L’elenco delle prove include delle immagini satellitari», aggiunge il newsmagazine, e il materiale in via di pubblicazione «dimostrerebbe la complicità del governo degli Stati Uniti negli attacchi del 9/11 e la successiva manipolazione dell’opinione pubblica».«Le ragioni dell’inganno e dell’assassinio dei propri cittadini – continua Duff – avrebbero servito gli interessi petroliferi degli Stati Uniti e delle corporazioni statali del Medio Oriente». La Russia si preparebbe quindi a dimostrare, in modo clamoroso, che «l’America ha utilizzato il terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, contro i suoi stessi cittadini, per creare il pretesto per un intervento militare in paesi stranieri». Se così dovesse essere, aggiunge Duff, «la conseguenza diretta della tattica di Putin sarebbe quella di rendere note le politiche terroristiche segretamente adottate dal governo degli Stati Uniti: secondo gli analisti americani, la credibilità del governo statunitense ne risulterebbe compromessa e ci sarebbero, di conseguenza, delle proteste di massa nelle città e infine una rivolta generalizzata». A quel punto, si domanda Duff, gli Usa come potranno rapportarsi ancora sulla scena politica mondiale? «La leadership americana nella lotta contro il terrorismo internazionale ne risulterebbe totalmente compromessa, dando un immediato vantaggio agli Stati-canaglia e ai terroristi islamici».Lo stesso Barack Obama non è immune da accuse: tutti ricordano la scandalosa gestione dell’ultimo capitolo dell’affare Bin Laden, dichiarato morto in Pakistan senza uno straccio di prova, il presunto cadavere inabissato nell’Oceano Indiano. Morti anche i soldati del commando che avrebbe ucciso il capo di Al-Qaeda ad Abbottabad: fulminati “per errore” da fuoco amico, a Kabul, poche settimane dopo il misterioso blitz. Tutte le voci più importanti della dissidenza, negli Usa, hanno denunciato come palesemente falsa la versione ufficiale sulla strage dell’11 Settembre, mentre il Senato degli Stati Uniti ha concluso, di recente, che l’Fbi era perfettamente al corrente delle mosse dei futuri dirottatori-kamikaze. Finora, il manistream ha avuto buon gioco nel rifiutare i sospetti, avvalorando la verità ufficiale sulla base di una semplice tesi: il crimine evocato – strategia della tensione, con numeri smisuratamente stragistici – è troppo mostruoso per essere accettato. Impossibile digerire l’idea che qualcuno, al Pentagono, abbia organizzato l’attentato del secolo, arrivando addirittura ad “accecare” l’aviazione Usa per molte ore e a “sequestrare” il presidente Bush, fatto letteralmente scomparire “per proteggerlo”, e anche per impedirgli di reagire. “Complottismo”, è stata finora la formula liquidatoria per seppellire le scomode verità sull’11 Settembre, illuminate da prestigiose contro-inchieste: le Torri sarebbero crollate secondo le procedure della “demolizione controllata”, grazie all’impiego di esplosivi speciali come la nano-termite, di origine militare. E se ora Putin riuscisse davvero a confermare questa versione con evidenze esclusive?Gioele Magaldi, autore del dirompente libro “Massoni”, sulla scorta di documentazione top secret di origine massonica (che l’autore si dichiara pronto a esibire in caso di contestazioni) rivela che Osama Bin Laden non fu soltanto reclutato dalla Cia in Afghanistan ai tempi dell’invasione sovietica, ma fu “affiliato” nientemeno che da Zbigniew Brzezinski e inserito nel potentissimo club ultra-segreto delle superlogge internazionali. Una di queste, denominata “Hathor Pentalpha”, sarebbe stata creata da Bush padre con intenti palesemente eversivi: usare il terrorismo per manipolare l’opinione pubblica e trascinare l’Occidente nella “guerra infinita”, a beneficio delle super-lobby del petrolio e delle armi. Nella “Hathor Pentalpha” sarebbe arruolato anche Tony Blair, che più di ogni altro si spese per costruire la suprema menzogna delle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. Oggi, l’erede di Bin Laden è il “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi, misteriosamente scarcerato nel 2009 dal centro di detenzione di Camp Bucca in Iraq, perché potesse combattere nel sedicente “Esercito Siriano Libero” e poi fondare l’Isis, il cui nome coincide con quello della divinità egizia Iside, vedova di Osiride, nei testi antichi chiamata anche “Hathor”. Solito schema: creare l’armata del terrore per poi scatenare una guerra. E, prima ancora, una campagna elettorale: quella di Jeb Bush, ultimo rampollo della dinastia presidenziale del fondatore della “Hathor Pentalpha”, definita «superloggia del sangue e della vendetta» perché nata quando Bush – affiliato a superlogge reazionarie – fu battuto nella corsa alla Casa Bianca da Ronald Reagan, sostenuto da clan massonici concorrenti.Sempre secondo Magaldi, lo stesso Putin è “affiliato” a una superloggia latomistica internazionale. L’autore di “Massoni” sostiene inoltre che da qualche anno sia in atto una sorta di guerra inframassonica: le “Ur-Lodges” progressiste starebbero preparando una controffensiva, dopo gli ultimi decenni in cui il mondo è caduto letteralmente nelle mani dell’élite finanziaria che ha pilotato la globalizzazione più selvaggia, calpestando i diritti dei popoli e gettando anche l’Occidente in una crisi senza precedenti, il cui punto più critico è l’Europa, dove le classi medie sono state rapidamente impoverite a beneficio dell’oligarchia neo-feudale che domina Bruxelles con il dogma neoliberista del rigore. In parallelo, si muovono scenari geopolitici: come previsto da tutti gli analisti, il gigante cinese è cresciuto in modo esponenziale, minacciando la supremazia americana. La Russia di Putin, prima provocata in Siria e ora assediata in Ucraina a due passi da casa, rappresenta la prima linea del fronte, mentre i Brics lavorano nelle retrovie per preparare un’alternativa multipolare, anche finanziaria, alla “dittatura” del petrodollaro. Quella che Papa Francesco chiama Terza Guerra Mondiale si sta avvicinando. Nel tentativo di scongiurarla, Putin giocherà davvero la sconvolgente carta delle “prove definitive” per accusare il governo Usa per l’11 Settembre?L’attacco alle Torri Gemelle «è stato pianificato dal governo degli Stati Uniti, ma è stato eseguito per procura, in modo tale che l’attacco contro l’America e il popolo degli Stati Uniti sembrasse un’aggressione effettuata da organizzazioni terroristiche internazionali». Attenzione: «Le prove fornite sarebbero a tal punto convincenti, da smontare completamente la versione ufficiale dell’11 Settembre sostenuta dal governo degli Stati Uniti». Quali prove? Quelle che starebbero per essere pubblicate a Mosca, controfirmate nientemeno che da Vladimir Putin. Ultima mossa, clamorosa, per tentare di fermare la macchina da guerra che – dalla Siria all’Ucraina – sta assediando i non-allienati allo strapotere di Washington, Russia e Cina in primis, tenendo sotto ricatto anche i paesi del petrolio e la stessa Europa, costretta a varare sanzioni autolesioniste contro l’impero del gas e usare la Nato come minaccia contro Mosca. Il presidente russo, annuncia la “Pravda”, si prepara dunque al colpo del ko: l’esibizione di «prove schiaccianti», satellitari, che inchioderebbero l’intelligence di Bush al crimine dell’11 Settembre, spaventoso massacro ai danni dei cittadini americani, da terrorizzare al punto da indurli a sostenere le guerre a venire, cominciando da Iraq e Afghanistan.