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Ricordati che devi morire, dice all’Italia il massone Cottarelli
C’era una volta l’Italia. Era un paese pieno di problemi, come tutti gli altri paesi europei. Ma aveva una sua peculiare caratteristica: era un paese relativamente felice – più di altri paesi europei – al punto da stupire il mondo (un’altra volta, come nel Rinascimento, e poi nel Risorgimento) per una sua qualità assolutamente inimitabile: la capacità di “esplodere” e di espandersi in tempi rapidissimi, utilizzando due qualità fondamentali, l’ingegno italico e la capacità di lavoro. Era il dopoguerra, intorno c’erano solo macerie. D’accordo, era intervenuto qualcosa di inatteso: il Piano Marshall. La spinta, per decollare. Ma poi, si sa, c’era – appunto – l’Italia. L’Eni, Enrico Mattei, la Prima Repubblica. Il boom, il miracolo economico. Costruito come? Nel solo modo possibile: con il sacro, strategico, formidabile debito pubblico. Tecnicamente: deficit positivo, per citare il sommo Keynes, il genio inglese che – a suon di debito – tirò fuori l’America dal pantano, permettendole di vincere la Seconda Guerra Mondiale e poi addirittura di stravincere, al punto da rimettere in piedi la democrazia in Europa, sia pure in funzione antisovietica. Tutto bene, o quasi, fino ai primi anni ‘90. Crescita continua: i figli che hanno più opportunità di quante ne abbiano avute i genitori. Poi, l’infarto: la crisi, la fine del benessere.Neoliberismo, morte dello Stato sovrano. Cartellino rosso: ora basta, dovete soffrire. Chi lo dice? Loro, l’élite finanziaria, la Banca Mondiale, il Fondo Moneriario. Un nome? Carlo Cottarelli. E perché mai dovremmo soffrire? Perché sì, è la risposta. Ed è vero: lo conferma il “Corriere della Sera”. Queste sono cose che succedono, oggi, e che irritano moltissimo alcuni italiani. Come Gioele Magaldi, per esempio. Magaldi è un italiano trasparente. E’ anche un massone, è stato il “maestro venerabile” della prestigiosa loggia Monte Sion del Goi, il Grande Oriente d’Italia. Ricorda, a ogni pie’ sospinto, che questo paese è stato “fabbricato” da massoni, nell’Ottocento. Si chiamavano Garibaldi, per dire. E poi altri massoni, nel Novecento, alla fine della Seconda Guerra Mondiale hanno rimesso insieme i cocci di quel che restava del paese dopo il fascismo. Meuccio Ruini, repubblicano, presidente della commissione per la futura Costituzione. E Pietro Calamandrei, comunista, presidente della Costituente. Massoni, che all’epoca significava: fine dei privilegi di casta, suffragio universale, laicità e sovranità elettorale per ogni cittadino, uomini e donne, ricchi e poveri.S’infuria, Magaldi, tutte le volte che qualcuno disconosce il ruolo storico della massoneria nella genesi della Repubblica italiana. Si irrita, quando Di Maio e Salvini firmano il loro “contratto di governo” dove sta scritto che nessun massone potrà mai far parte del governo gialloverde. Minaccia, Magaldi, di fare i nomi degli interessati: è pieno, il governo gialloverde, di massoni importanti. Si spazientisce, Gioele Magadi, se qualcuno – magari della Lega – gli chiede di intercedere, presso la massoneria sovranazionale, per proteggere il governo Conte, così ferocemente avversato dalla supermassoneria reazionaria. Va bene, dice: vedremo. Ma perché, intanto, non dichiaratar apertamente l’appartenenza massonica di ministri e sottosegretari? Parla, Magaldi, di cose che purtroppo sa. Per esempio: Luigi Di Maio, l’attuale capo dei 5 Stelle, prima delle elezioni bussò – inutilmente – alla porte degli stessi circuiti “neo-aristocratici” che avevano messo alla porta Matteo Renzi, un leader teoricamente progressista. Oggi, dice Magaldi, Di Maio è maturato parecchio. Tante cose sono cambiate, in Italia, in pochissimi mesi.Come fa, Magaldi, a esprimersi in questi termini? Semplice: fa parte, lui stesso, del circuito massonico sovranazionale. E’ stato “iniziato” alla superloggia “Thomas Paine”, pietra miliare della massoneria internazionale progressista. Cos’è una superloggia? Una Ur-Lodge, ha spiegato nel suo libro “Massoni” (edito da “Chiarelettere”, venduto in decine di migliaia di copie ma passato sotto silenzio dalla stampa mainstream) è un circolo esclusivo di persone importanti, che concorrono a decidere i destini del mondo senza che i media ne parlino mai. Ne ha parlato lui, infatti: ha messo a disposizione un archivio di 6.000 pagine, ma nessuno si è sognato di chiedergliene conto, e meno che meno di contestarlo o smentirlo. Silenzio assoluto. Ci sono tutti, in quel libro: Licio Gelli e Pinochet, Allende e i Kennedy, Martin Luther King, Kissinger e Bush, Gorbaciov, Draghi e Napolitano. E il mitico Cottarelli?Fa parte del penultimo capitolo della nostra infelicissima storia recente, dice Magaldi a David Gramiccioli, conduttore del seguitissimo programma “Massoneria On Air” su “Colors Radio”. Che dice, l’ex commissario alla spending review del paramassone Enrico Letta? Semplice: che dobbiamo soffrire. Che le promesse del governo gialloverde sono irrealizzabili. Flat Tax, riforma della legge Fornero sulle pensioni, reddito di cittadinanza? Pura follia, dichiara il Cottarelli al “Corriere della Sera”, che lo presenta – si stupisce Magaldi – come un paladino della crescita. Lui, Cottarelli? Tanto per cominciare, sottolinea Magaldi, Cottarelli è un massone. Un massone occulto, non dichiarato. Poi è un massone che appartiene ai circuiti sovranazionali, quelli delle Ur-Lodges. E soprattutto: milita nella destra politico-economica, la Chiesa neoliberista che prescrive al popolo di tirare la cinghia. E’ lo stesso Cottarelli che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, oppose all’ipotesi di governo gialloverde, nel bocciare Paolo Savona al ministero dell’economia. Ma attenzione, ricorda Magaldi: poco prima, era stato lo stesso Di Maio a sventolare il nome di Cottarelli come campione di virtù politica, in campo economico.Oggi, sul “Corriere della Sera”, Cottarelli ripete stancamente la sua luttuosa canzone: non ce la possiamo fare. Sembra non conoscere la storia dell’Italia democratica: è come se parlasse del Burundi, non di un paese del G8. Ricorda il frate medievale che, nel film “Non ci resta che piangere”, ripete a Massimo Troisi il suo illuminante monito: “Ricordati che devi morire”. No, Cottarelli, gli risponde Magaldi: certo, avete cercato di farla morire, l’Italia, ma non ci siete riusciti. Ce l’avete messa tutta: voi, la Merkel, Draghi, Monti, Napolitano, Juncker e tutta la banda. Massoni, dal primo all’ultimo. Massoni opachi, non dichiarati, e in più “neo-aristocratici”, allergici alla democrazia. Ma, per vostra sfortuna, l’Italia non è il Burundi (e detto tra noi, non è ancora morta). Era, e resta, una delle prime dieci economie del pianeta. Come lo è diventata? Non certo tagliando la spesa pubblica, non certo amputando il deficit. Non sa, Carlo Cottarelli, come fu che l’Italia divenne la quinta economia del mondo? Col debito pubblico, ovviamente. Non lo sa, il Cottarelli? No, non è possibile, come è impossibile che non lo sappia il “Corriere della Sera”, che presenta il Cottarelli come una specie di guru venuto da altri mondi, da qualche cartoon della Disney.Se ne rammarica, Gioele Magaldi. Se ne sorprende. Ma avverte: verrà il giorno, molto presto, in cui nessuno potrà più permettersi di dire all’Italia “ricordati che devi morire”. Nonostante le molte manchevolezze, aggiunge, è bene sostenere – oggi – il provvisorio governo gialloverde: almeno pensa alla vita degli italiani, non alla loro morte. A quella ci hanno pensato in tanti, da Berlusconi a Prodi, passando per D’Alema e Amato, Padoa Schioppa, Dini, Ciampi e compagnia piangente. Un coro greco: povera Italia. Ma era solo teatro. Ci siamo cascati? Eccome. La cosa sconcertante, rileva Magaldi, è che ci siano ancora in giro i Cottarelli, riveriti – a reti unificate – come arcangeli dell’apocalisse, anziché spazzati via come mosconi fastidiosi e deprimenti. Questo, infatti, dice l’economista del Fondo Moneriario: dobbiamo soffrire, dobbiamo morire. Non possiamo proprio immaginarcelo, un futuro migliore. Siamo dunque il Ruanda? No, siamo l’Italia. Qualcuno, prima o poi, lo spiegherà a Cottarelli (e al “Corriere della Sera”, se mai ancora esisterà).…..Italia, Europa, felicità, mondo, Rinascimento, Risorgimento, ingegno, lavoro, storia, dopoguerra, macerie, Usa, Piano Marshall, Eni, Enrico Mattei, Prima Repubblica, boom, economia, miracolo economico, sacro, debito pubblico, deficit, deficit positivo, John Maynard Keynes, genio, Gran Bretagna, America, Seconda Guerra Mondiale, democrazia, Europa, Urss, crescita, figli, genitori, crisi, benessere, neoliberismo, morte, Stato, sovranità, sofferenze, élite, oligarchia, finanza, Banca Mondiale, Fmi, Carlo Cottarelli, Corriere della Sera, Gioele Magaldi, massoneria, Monte Sion, Goi, Grande Oriente d’Italia, Ottocento, Giuseppe Garibaldi, Novecento, Seconda Guerra Mondiale, fascismo, Meuccio Ruini, repubblicani, Costituzione, Pietro Calamandrei, comunisti, Costituente, privilegi, casta, suffragio universale, laicità, sovranità, elezioni, cittadini, donne, ricchi, poveri, Luigi Di Maio, M5S, Movimento 5 Stelle, Matteo Salvini, governo gialloverde, Lega, Giuseppe Conte, supermassoneria, reazionari, Luigi Di Maio, elezioni bussò, aristocrazia, neo-feudalesimo, Matteo Renzi, leader, progressisti, superlogge, Thomas Paine, Ur-Lodges, Massoni, bestseller, Chiarelettere, silenzio, stampa, media, mainstream, disinformazione, destino, mondo, globalizzazione, Licio Gelli, Cile, P2, Loggia P2, Augusto Pinochet, golpe, Salvador Allende, Jfk, John Fitzgerald Kennedy, Bob Kennedy, Robert Kennedy, Martin Luther King, Henry Kissinger, George W. 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Ma aveva una sua peculiare caratteristica: era un paese relativamente felice – più di altri paesi europei – al punto da stupire il mondo (un’altra volta, come nel Rinascimento, e poi nel Risorgimento) per una sua qualità assolutamente inimitabile: la capacità di “esplodere” e di espandersi in tempi rapidissimi, utilizzando due doti fondamentali, l’ingegno italico e la capacità di lavoro. Era il dopoguerra, intorno c’erano solo macerie. D’accordo, era intervenuto qualcosa di inatteso: il Piano Marshall. La spinta, per decollare. Ma poi, si sa, c’era – appunto – l’Italia. L’Eni, Enrico Mattei, la Prima Repubblica. Il boom, il miracolo economico. Costruito come? Nel solo modo possibile: con il sacro, strategico, formidabile debito pubblico. Tecnicamente: deficit positivo, per citare il sommo Keynes, il genio inglese che – a suon di debito – tirò fuori l’America dal pantano, permettendole di vincere la Seconda Guerra Mondiale e poi addirittura di stravincere, al punto da rimettere in piedi la democrazia in Europa, sia pure in funzione antisovietica. Tutto bene, o quasi, fino ai primi anni ‘90. Crescita continua: i figli che hanno più opportunità di quante ne abbiano avute i genitori. Poi, l’infarto: la crisi, la fine del benessere.
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“Progressisti” alle europee: Laura Boldrini, una garanzia
«Le prossime elezioni europee saranno una sfida tra due visioni del mondo. Che ne dite, se per sfidare la destra, i partiti progressisti rinunciassero ai propri simboli per dare vita a una lista unitaria nel segno dell’apertura e dell’innovazione?». Lei, Laura Boldrini, ha già pronto l’hashtag: #ListaUnitariaEuropea. A vederla così, l’ex presidente della Camera – politicamente defunta da tempo, e ora miracolosamente riportata in vita solo grazie al provvidenziale attivismo dell’Uomo Nero, cioè Matteo Salvini – fa venire in mente, ai progressisti (quelli veri, lontani anni luce dal Pd e dai suoi cespugli già appassiti) che in fondo è proprio vero, le prossime elezioni europee saranno realmente “una sfida tra due visioni del mondo”. E se sarà in campo anche lei, Laura Boldrini, per i progressisti sarà facilissimo scegliere: non certo tra “la destra” e “la sinistra”, categorie tragicamente archiviate dal pensiero unico della Seconda Repubblica, ma – appunto – tra oligarchia e democrazia, privatizzazioni e welfare, autoritarismo economico e diritti sociali, Disunione Europea e sovranità nazionale (non solo italiana, anche degli altri paesi europei che dovevano essere partner, e invece sono diventati spietati concorrenti grazie al feroce mercantilismo dell’establishment, che si rifugia sempre – per coprire i propri misfatti – nel cosmetico “politically correct” di cui è campionessa la signora Boldrini).Per un progressista italiano – un sincero democratico – avere di fronte Laura Boldrini alle prossime elezioni europee sarebbe magnifico: un perfetto replay del funesto referendum costato la vita, politicamente, a Matteo Renzi, altro campione (scorrettissimo) del “politicamente corretto”. Che ghiotta occasione, per milioni di elettori: se molti di loro non saranno ancora pienamente convinti dall’ibrida alleanza gialloverde, a chiarir loro le idee provvederebbe all’istante Laura Boldrini, icona perfetta di tutto quello che in Italia ha smesso di funzionare – ma nel modo più subdolo, cioè evitando di farlo sapere agli italiani. L’erosione dei diritti del lavoro, la flessibilità del precariato, i tagli sanguinosi al welfare e alle pensioni, i ticket della sanità privatizzata. E in generale, tutto il paese regalato – a fette, a trance, a tonnellate – a imprenditori affamati di profitto, a capitali franco-tedeschi, a consorterie paramassoniche di origine atlantica che poi magari evitano di spendere soldi nella manutenzione dei beni ottenuti in omaggio, fino al punto da lasciar crollare – con morti e feriti – anche i viadotti autostradali. Chi c’era, a Palazzo Chigi, mentre tutto questo accadeva? Romano Prodi, Massimo D’Alema, Giuliano Amato. Un’ombra di autocritica, dal centrosinistra? Non pervenuta. In compenso, riecco Laura Boldrini.Resuscita, la Boldrini – e con lei Martina e i gregari del Pd e dintorni, comparse di cui si stenta a ricordare i nomi – solo grazie al furore mediatico che si abbatte su Salvini, il quale insiste nel bloccare gli sbarchi dei migranti per mettere in difficoltà gli strozzini europei dell’Italia, per niente sicuro che il suo governo gialloverde riesca, in autunno, a disobbedire all’eterno diktat di Bruxelles riuscendo a finanziare almeno in parte la riduzione delle tasse, la riforma della legge Fornero, l’istituzione dello sbandierato reddito di cittadinanza. Tutte cose che suonano estremamente democratiche, persino “di sinistra” per usare l’obsoleto lessico boldriniano, visto che si tratterebbe che lasciare più soldi in tasca agli italiani. Ma appunto, non se ne parla: deve morire (sotto l’accusa di xenofobia) il primo governo che lavora per gli italiani, non a caso temuto e detestato dai poteri che tifano per Laura Boldrini e contro il popolo italiano. Che dire, ad esempio, del campione dei diritti umani Emmanuel Macron, devoto amico di Papa Bergoglio? E che dire del venerabile Günther Oettinger, secondo cui saranno “i mercati” a insegnare agli italiani come votare? A proposito: è stato proprio Oettinger a proporre a Strasburgo il disegno di legge che avrebbe imbavagliato il web, pochi mesi dopo la martellante campagna finanziata dalla stessa Boldrini contro le “fake news” della Rete. Che ticket formidabile, Boldrini-Oettinger: un invito a nozze, per gli elettori progressisti impegnati a scegliere, nella primavera 2019, tra “due visioni del mondo”.Così come oggi Laura Boldrini non esisterebbe neppure più, senza Matteo Salvini, è una vera fortuna che l’ex presidente della Camera sia ancora in campo, in vista delle prossime europee: la sua candidatura avrà il potere, prodigioso, di motivare gli incerti. Tutto diventerà lampante: gli elettori avranno un’occasione d’oro per bocciare sonoramente, una volta per tutte, partiti e politicanti sedicenti progressisti, che hanno letteralmente assassinato ogni residua istanza progressista in Italia, ogni barlume di residuale democrazia. Sono gli infidi maggiordomi del rigore, i sacerdoti dell’austerity, i cavalieri del Fiscal Compact. Sono i farisaici notai del pareggio di bilancio inflitto all’Italia come una micidiale piaga biblica, da cui il paese non si è ancora ripreso – né potrà farlo, come noto, senza una robusta, radicale, rivoluzionaria sterzata. Una mareggiata, a livello europeo, con centinaia di milioni di elettori disposti a inviare a Bruxelles l’ultimo avvertimento: o si straccia il Trattato di Maastricht, che affida ai banchieri della Bce il governo del continente, o l’Europa salta per aria. Servirà un plebiscito, come quello che mandò a casa Renzi. E quindi servirà – più che mai – Laura Boldrini, a ricordare agli italiani come votare, per mandare finalmente a casa tutti gli Oettinger, i ladri, i bari e i professori del “politically correct” che ancora fanno la morale all’Italia, dopo averla razziata e affondata per conto dei soliti, potenti padroni stranieri.«Le prossime elezioni europee saranno una sfida tra due visioni del mondo. Che ne dite, se per sfidare la destra, i partiti progressisti rinunciassero ai propri simboli per dare vita a una lista unitaria nel segno dell’apertura e dell’innovazione?». Lei, Laura Boldrini, ha già pronto l’hashtag: #ListaUnitariaEuropea. A vederla così, l’ex presidente della Camera – politicamente defunta da tempo, e ora miracolosamente riportata in vita solo grazie al provvidenziale attivismo dell’Uomo Nero, cioè Matteo Salvini – fa venire in mente, ai progressisti (quelli veri, lontani anni luce dal Pd e dai suoi cespugli già appassiti) che in fondo è proprio vero, le prossime elezioni europee saranno realmente “una sfida tra due visioni del mondo”. E se sarà in campo anche lei, Laura Boldrini, per i progressisti sarà facilissimo scegliere: non certo tra “la destra” e “la sinistra”, categorie tragicamente archiviate dal pensiero unico della Seconda Repubblica, ma – appunto – tra oligarchia e democrazia, privatizzazioni e welfare, autoritarismo economico e diritti sociali, Disunione Europea e sovranità nazionale (non solo italiana, anche degli altri paesi europei che dovevano essere partner, e invece sono diventati spietati concorrenti grazie al feroce mercantilismo dell’establishment, che si rifugia sempre – per coprire i propri misfatti – nel cosmetico “politically correct” di cui è campionessa la signora Boldrini).
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Tutti più poveri, grazie alle privatizzazioni imposte all’Italia
La tragedia di Genova ha contribuito a spostare l’agenda del dibattito pubblico sull’alternativa fra privatizzazione e nazionalizzazione. In premessa: nel caso italiano, appare difficile negare che le privatizzazioni abbiano prodotto più danni che benefici. Si sono realizzate essenzialmente attraverso la cessione di monopoli pubblici a monopoli privati, con conseguente aumento delle tariffe e, molto spesso, con peggioramento della qualità dei servizi erogati. A partire dagli anni Novanta si è assistito a un rilevante passo indietro dell’intervento pubblico in economica. Ovviamente si è trattato di un fenomeno globale, che, come spesso accade, l’Italia ha sperimentato più tardi (la prima ondata di privatizzazioni in Europa si ha nell’Inghilterra della signora Thatcher negli anni Ottanta) e, quando lo ha sperimentato, lo ha fatto con la massima accelerazione. Il ritiro dello Stato si registra in un notevole dimagrimento del settore pubblico italiano, in particolare per numero di addetti. L’intero settore pubblico italiano nelle due diverse ramificazioni è nei fatti il più sottodimensionato d’Europa.L’ultima rilevazione Ocse ci informa che, mentre nel nostro paese la pubblica amministrazione assorbe circa 3.400 lavoratori, in Francia e nel Regno Unito, paesi con una popolazione e un Pil pro-capite di entità simile alla nostra, se ne contano rispettivamente 6.200 e 5800. Negli Stati Uniti – paese tradizionalmente guardato come una vera economia di mercato – il numero di dipendenti pubblici è di circa il 25% superiore al nostro. Si può aggiungere che, in Italia, l’occupazione nel settore pubblico riguarda prevalentemente individui con elevata scolarizzazione. In più, la convinzione che i dipendenti pubblici siano ben retribuiti e godano di eccesso di protezioni è palesemente smentita sul piano empirico. L’Istat registra un aumento della retribuzione oraria netta del 21% su base annua per i lavoratori del settore privato, a fronte di incrementi pressoché nulli nel settore pubblico. E si calcola che la gran parte dei contratti a tempo determinato sono somministrati dalla pubblica amministrazione. Dunque, i dipendenti pubblici, in media, guadagnano meno dei loro colleghi del settore privato e sono più frequentemente assunti con contratti precari.Per quanto riguarda la produttività del lavoro nel settore pubblico, pure a fronte delle rilevanti difficoltà di misurazione, e pur volendo accettare la tesi che questa è più bassa rispetto al settore privato, occorre ricordare che l’operatore pubblico svolge, di norma, le proprie funzioni in quelle che William Baumol definiva “attività stagnanti”, ovvero attività nelle quali (si pensi ai servizi alla persona) risulta impossibile generare avanzamento tecnico e, dunque, incrementi di produttività. In tal senso, se anche si ritiene che il ‘merito’ del singolo lavoratore sia misurabile e che lo sia anche nei servizi nel settore pubblico, da ciò non si può immediatamente dedurre che questa conclusione discende dal basso rendimento degli occupati, potendo più realisticamente dipendere dalla bassa accumulazione di capitale. Si calcola anche che il tasso di assenteismo dei lavoratori del settore pubblico italiano è in linea con la media europea. I fautori delle privatizzazioni sostengono che l’operatore privato è sempre più efficiente dell’operatore pubblico. Lo Stato deve limitarsi a creare le condizioni necessarie affinché l’esercizio della libertà d’impresa avvenga nel rispetto delle norme e dei contratti vigenti.Nella fattispecie della società Autostrade, si propone (così Confindustria) l’istituzione di una commissione che esamini le concessioni e vigili sullo svolgimento del servizio. Non si ammette quello che si considera il ritorno ai “carrozzoni di Stato”. Per contro, i fautori delle nazionalizzazioni ritengono che possa essere solo lo Stato a svolgere funzioni di interesse generale e, nel caso della società Autostrade, propongono (in linea con il governo) la revoca della concessione. Quest’ultima posizione è condivisibile, se non altro per come è stato gestito il processo di privatizzazione in Italia, con una puntualizzazione, che riguarda la selezione dei nostri manager pubblici. Si tratta di una questione pressoché ignorata, ma rilevante. Su fonte ministero dell’economia e delle finanze, risulta che l’Italia ha pochi dirigenti pubblici, molto meno dei principali paesi europei. Risulta anche che sono mediamente più anziani. Soprattutto risulta assente una scuola di alta formazione, come esiste in altri paesi europei (si pensi al caso francese).Vi è di più. La lunga stagione delle privatizzazioni – durata almeno un ventennio in Italia, nella sostanziale assenza di voci critiche – coincise con la cosiddetta svolta neoliberista e con la convinzione che oltre a generare maggiore efficienza, la cessione di asset pubblici a privati fosse necessaria per aumentare il gettito fiscale e generare avanzi primari. Le privatizzazioni – intenzionalmente o meno – servivano anche ad accrescere le diseguaglianze distributive, sia per l’aumento delle tariffe, sia perché – e per conseguenza – l’accesso a servizi privati è più difficile per i percettori di redditi bassi. Si riteneva che l’aumento delle diseguaglianze fosse un motore di crescita attraverso i cosiddetti effetti di sgocciolamento: i ricchi, in quanto più produttivi (per ipotesi), contribuiscono maggiormente alla crescita economica, rendendo successivamente possibili misure di trasferimento a vantaggio dei più poveri. La redistribuzione a vantaggio dei più ricchi si è verificata, lo sgocciolamento no.La convinzione per la quale le privatizzazioni servono ad aumentare le entrate fiscali e a generare crescita è molto problematica e, nei fatti, sembra essere falsa. Ciò a ragione del fatto che, per definizione, esse implicano – come si è verificato in Italia – una riduzione delle dimensioni del settore pubblico. Come certificato dall’Inps, il primo effetto (ovvio e prevedibile) derivante dalla riduzione del numero di dipendenti pubblici è proprio la riduzione delle entrate fiscali. Il privato può più facilmente evadere o eludere. Il secondo (altrettanto prevedibile) risultato consiste nell’accentuazione della caduta della domanda interna, per il tramite dei minori consumi derivanti dalla decurtazione dei redditi nel pubblico impiego. Il terzo risultato è il peggioramento della qualità dei servizi offerti, come conseguenza (anch’essa ovvia) della riduzione del numero di occupati.(Guglielmo Forges Davanzati, “Alcuni effetti indesiderati delle privatizzazioni in Italia”, da “Megachip” del 21 agosto 2018).La tragedia di Genova ha contribuito a spostare l’agenda del dibattito pubblico sull’alternativa fra privatizzazione e nazionalizzazione. In premessa: nel caso italiano, appare difficile negare che le privatizzazioni abbiano prodotto più danni che benefici. Si sono realizzate essenzialmente attraverso la cessione di monopoli pubblici a monopoli privati, con conseguente aumento delle tariffe e, molto spesso, con peggioramento della qualità dei servizi erogati. A partire dagli anni Novanta si è assistito a un rilevante passo indietro dell’intervento pubblico in economica. Ovviamente si è trattato di un fenomeno globale, che, come spesso accade, l’Italia ha sperimentato più tardi (la prima ondata di privatizzazioni in Europa si ha nell’Inghilterra della signora Thatcher negli anni Ottanta) e, quando lo ha sperimentato, lo ha fatto con la massima accelerazione. Il ritiro dello Stato si registra in un notevole dimagrimento del settore pubblico italiano, in particolare per numero di addetti. L’intero settore pubblico italiano nelle due diverse ramificazioni è nei fatti il più sottodimensionato d’Europa.
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Magaldi: cade il governo? Tanto meglio per Lega e 5 Stelle
Cade il governo Conte, in autunno? Non reggerà alla prova del fuoco rappresentata dal bilancio 2019 da sottoporre a Bruxelles? Tanto meglio: Lega e 5 Stelle farebbero il pieno di voti, nel caso di elezioni anticipate. Facile profezia: l’eventuale nuovo esecutivo avrebbe un programma meno timido e sarebbe pronto a rompere in modo ancora più netto con l’attuale governance europea, fondata sulla grande menzogna del rigore ammazza-Stati spacciato per amara medicina. Gioele Magaldi non ha dubbi: se l’esecutivo gialloverde dovesse davvero cadere, l’establishment politico-mediatico violentemente ostile a leghisti e pentastellati avrà ben poco di cui rallegrarsi, perché gli elettori premieranno Salvini e Di Maio con un autentico plebiscito, come ben si è visto dagli applausi dei genovesi scrosciati all’arrivo dei due vicepremier ai funerali delle vittime del viadotto Morandi. Tutto si tiene, nei drammi estivi che hanno scosso l’Italia: la responsabilità politica del disastro di Genova ricade sulla stessa élite che ha privatizzato la penisola, regalandola agli “amici degli amici”, salvo poi imporre a un paese impoverito di accogliere senza fiatare i migranti (quasi un milione, negli ultimi tre anni) che l’Europa vorrebbe che restassero interamente a carico nostro.«Ecco perché applaudo Salvini: per una volta, il ministro dell’interno ha “tenuto il punto”, rinunciando a piegarsi ai diktat dell’oligarchia europea», dice Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio”. Troppo comodo – e ipocrita – il moralismo di chi accusa il leader della Lega di mancanza di umanità, specie se l’attacco proviene dal potere neoliberista che ha razziato l’Africa e imposto, ai lavoratori italiani, il “dumping” salariale dei neo-schiavi, costretti a fare concorrenza sleale alla nostra forza lavoro, accettando condizioni disumane di sfruttamento. Dov’era, il centrosinistra che oggi si scaglia con inaudita violenza contro Salvini, quando si trattava di gestire l’economia in modo equo, evitando di far sprofondare il paese nella crisi più nera? Bersani “impiccava” lo Stato al nodo scorsoio del pareggio di bilancio, insieme al cappio della legge Fornero sulle pensioni, prima ancora che Renzi facesse piazza pulita – con il Jobs Act – degli ultimi diritti sindacali. Ed ecco oggi la “guerra tra poveri”, che oppone lavoratori italiani e stranieri, vittime – tutti – della stessa catastrofe macroeconomica: lo Stato in bolletta, impossibilitato a investire denaro per produrre lavoro grazie a una gestione privatistica dell’euro, senza neppure il paracadute degli eurobond a garantire il necessario debito pubblico.Nel lucido ragionamento di Magaldi, la tragedia di Genova e la rissa mediatica sui naufraghi a bordo della nave Diciotti («con le accuse surreali rivolte a Salvini dalla magistratura») sono due facce, drammatiche, della stessa medaglia: da una parte la vecchia élite che ha prodotto solo macerie (infrastrutturali e sociali) e dall’altra il primo governo “sovranista”, da 25 anni a questa parte, che cerca di rimediare allo sfacelo. «Per fortuna – insiste Magaldi – Salvini ha inaugurato la linea necessaria, quella della fermezza: che non ha certo per bersaglio i migranti, ma l’ipocrisia con cui Bruxelles vorrebbe continuare a non-gestire un fenomeno vergognoso come l’esodo da paesi africani letteralmente depredati dell’élite europea». Azione necessaria, quella del governo Conte, ma non sufficiente: «Sarà meglio che, anche sui provvedimenti econonici, Salvini e Di Maio comincino a passare dalle parole ai fatti, cercando di attuare quello che hanno promesso agli italiani. Nel caso non ce la dovessero fare, però – aggiunge Magaldi – non sarebbe affatto un male». Già, perché dopo eventuali elezioni anticipate, aggiunge, la coalizione “gialloverde”, ormai strategicamente coesa, farebbe l’en plein e ripartirebbe con maggiore slancio, per abbattere il Muro di Bruxelles fondato sulla “teologia” dell’austerity.Keynesiano e progressista, Magaldi non ha dubbi: tutta l’Europa è in crisi, perché negli ultimi decenni il continente è caduto, letteralmente, nelle mani di una ristretta cerchia di oligarchi. Hanno contrabbandato per virtù l’ideologia del rigore di bilancio, con trattati-capestro che hanno amputato gli Stati del potere sovrano di investire nell’economia. Risultato: classe media in via di estinzione, popoli impoveriti, democrazie svuotate ed élite divenute improvvisamente miliardarie, padrone di tutto ciò che prima era pubblico – acqua, energia, trasporti, telefonia e Poste, persino le autostrade. Nel bestseller “Massoni”, Magaldi ha fornito nomi e cognomi della cabina di regia – supermassonica – che ha pilotato questa globalizzazione selvaggia e senza diritti, a beneficio esclusivo delle multinazionali finanziarie. Il complottismo degli ultimi anni punta il dito contro le malefatte della Trilaterale? «Ma quella è solo una emanazione, peraltro piuttosto trasparente, della Ur-Lodge “Three Eyes”», a lungo ispirata da personaggi come Kissinger, Rockefeller e Brzezisnki.I blogger più esasperati, come Daniel Estulin, se la prendono con il Bilderberg e i suoi invitati, da Lilli Gruber al segretario di Stato vaticano Pietro Parolin? «Aprite gli occhi: le notizie che lo stesso Bilderberg lascia filtrare servono solo a produrre il gossip necessario a distogliere l’attenzione dai veri manovratori, i “fratelli controiniziati” delle Ur-Lodges reazionarie: personaggi che, certo, non finiscono sui giornali». Che fare, dunque? Esattamente quello che sta facendo il governo Conte, ribadisce Magaldi, fautore di un risveglio democratico europeo, di cui l’Italia “gialloverde” sembra destinata a fare da apripista. Una “profezia” che il presidente del Movimento Roosevelt (“metapartito” nato proprio per rianimare lo scenario politico italiano in senso progressista) aveva formulato in tempi non sospetti: vedrete, aveva annunciato, che alla fine sarà proprio questa scassatissima Italia a invertire il corso della storia, mettendo in campo forze politiche in grado di smascherare la grande impostura neoliberista che ha impoverito l’Europa spolpando Stati e popoli.Quelle a cui stiamo assistendo oggi, in fondo, sono le prove generali di una rivoluzione culturale: verrà il giorno in cui la parola “spread” perderà ogni significato, perché la finanza pubblica sarà tornata a garantire pienamente tutto il deficit necessario a rimettere in piedi il paese, cominciando dalla ricostruzione delle troppe infrastrutture fatiscenti, lasciate agonizzare da governi costretti a elemosinare “a strozzo” gli euro della Bce. «A proposito: spero che i familiari delle vittime di Genova non si rivalgano solo sugli eventuali responsabili della società autostradale, ma chiedano di essere risarciti anche dai governi precedenti, che hanno creato le premesse del disastro». In ogni caso, Magaldi è ottimista: «Che il governo Conte regga o meno alla prova d’autunno, è irrilevante: indietro non si torna. La destrutturazione politica della Seconda Repubblica è ormai nei fatti». Gli italiani sembrano aver capito che centrodestra e centrosinistra fingevano soltanto di essere alternativi. Nella realtà non hanno fatto altro che obbedire ai diktat dei grandi privatizzatori neoliberisti: quelli che oggi sparano su Salvini, temendo che l’Italia si stia davvero risvegliando.Cade il governo Conte, in autunno? Non reggerà alla prova del fuoco rappresentata dal bilancio 2019 da sottoporre a Bruxelles? Tanto meglio: Lega e 5 Stelle farebbero il pieno di voti, nel caso di elezioni anticipate. Facile profezia: l’eventuale nuovo esecutivo avrebbe un programma meno timido e sarebbe pronto a rompere in modo ancora più netto con l’attuale governance europea, fondata sulla grande menzogna del rigore ammazza-Stati spacciato per amara medicina. Gioele Magaldi non ha dubbi: se l’esecutivo gialloverde dovesse davvero cadere, l’establishment politico-mediatico violentemente ostile a leghisti e pentastellati avrà ben poco di cui rallegrarsi, perché gli elettori premieranno Salvini e Di Maio con un autentico plebiscito, come ben si è visto dagli applausi dei genovesi scrosciati all’arrivo dei due vicepremier ai funerali delle vittime del viadotto Morandi. Tutto si tiene, nei drammi estivi che hanno scosso l’Italia: la responsabilità politica del disastro di Genova ricade sulla stessa élite che ha privatizzato la penisola, regalandola agli “amici degli amici”, salvo poi imporre a un paese impoverito di accogliere senza fiatare i migranti (quasi un milione, negli ultimi tre anni) che l’Europa vorrebbe che restassero interamente a carico nostro.
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Pezzi di merda: fenomenologia dell’odio nell’Italia di Salvini
Succede questo: a proclamarsi paladini dell’uomo dalla pelle scura, oggi, sono i killer politici dell’uomo dalla pelle chiara – quelli che gli hanno tolto tutto, in Europa, dopo aver abbondantemente depredato anche l’Africa, trasformandola in una terra desolata da cui scappare. Così i naufraghi salvati in mare da una nave della Guardia Costiera diventano prigionieri, letteralmente torturati dal vero Uomo Nero, il Ministro della Paura che usurpa la poltrona del Viminale. Ha un problema, l’Uomo Nero, anzi due: non può fare quello che vorrebbe, e che ha promesso agli elettori – tagliare le tasse – e in più deve rispondere di un risarcimento colossale imposto al suo partito dal potere giudiziario. Un risarcimento così anomalo, e così enorme, da ridurre praticamente a zero la possibilità di sostenere qualsiasi attività politica, e quindi di continuare a esistere, come partito. Chi ha paura dell’Uomo Nero? La cosiddetta Europa: quella che impedisce che le tasse vengano abbattute, che le pensioni italiane siano dignitosamente rimpinguate, che giunga un reddito provvisorio ai senza-lavoro. Di questo sono ostaggi, i naufraghi della nave Diciotti: di un’ingiustizia infame, compiuta da Bruxelles.Negli ultimi tre anni, si apprende, l’Italia ha accolto la quasi totalità dei 700.000 migranti sbarcati sulle sue coste. Il resto d’Europa non li vuole. Deve tenerseli, per forza, l’Uomo Nero. Al quale però non si concede – in cambio – di abbassare le imposte, alzare le pensioni, distribuire un reddito di cittadinanza. “Pezzi di merda”, li qualifica senza giri di parole il filosofo televisivo Massimo Cacciari – ma attenzione: l’insulto non è affatto rivolto ai mostri dell’Unione Europea, i fanatici del rigore, gli affamatori della Grecia, i devastatori dell’Italia, i predoni delle autostrade che poi crollano. Su quelli, tuttalpiù, sono piovute fumose analisi, formulate in italiano forbito. L’espressione brutalmente gergale è invece indirizzata agli insensibili criminali che osano trattenere un centinaio di africani, giovani adulti, a bordo di un natante della Guardia Costiera ormeggiato in un porto siciliano. Tra i “pezzi di merda” più autorevoli, se non altro per il ruolo istituzionale che riveste, è il vicepremier Di Maio, il primo a esprimere – sotto forma di minaccia aperta, alla buon’ora – la possibilità di sospendere i finanziamenti miliardari che l’Italia è tenuta, dai trattati, a versare alla burocrazia Ue.Mentre i filosofi incendiano le strade, già lastricate di furore e di violenza, di odio squadristico e mediatico contro l’insolente governo che gli italiani – quei farabutti – hanno osato votare e ora sostanzialmente approvano, maledetti loro, uno dei due consoli che reggono l’esecutivo Conte arriva dunque ad avvertire i cosiddetti partner europei: attenzione, la corda potrebbe spezzarsi. Si comincia ventilando l’indicibile – la renitenza contributiva – e così ci si infila su un sentiero che potrebbe portare addirittura là dove fino a ieri sarebbe stato impensabile: lo spettro dell’uscita dell’Italia dall’Unione Europea, finalmente presentata per quello che è – una cricca di tecnocrati imbroglioni, al soldo della peggiore oligarchia speculativa. Questo è un paese in cui il presidente della Repubblica, parlando con l’allora premier incaricato, lo ha cortesemente (ma irritualmente) invitato a passare a salutare il governatore della Banca d’Italia, l’esimio Ignazio Visco, super-banchiere convinto – al pari del tedesco Günther Oettinger, o del connazionale Carlo Cottarelli – che saranno “i mercati”, in futuro, a “insegnare” agli italiani come votare, pena la scure dello spread, nel caso ripetessero l’errore imperdonabile di premiare gli sciamannati 5 Stelle o, peggio, l’Uomo Nero, cioè l’illuso che voleva il professor Paolo Savona al ministero dell’economia e un principe del giornalismo indipendente come Marcello Foa alla presidenza della Rai.Scherziamo? Siamo impazziti? L’ultima presidente della Rai, Monica Maggioni, è ora presidente della sezione italiana della Commissione Trilaterale, mentre la collega Gruber – quella che ospita frequentemente il noto filosofo, talora affetto da coprolalia – è saldamente ospite dei gagliardi passacarte messi assieme dal conte Étienne Davignon e dall’imperatore David Rockefeller, riuniti per la prima volta nel lontano 1954 all’hotel de Bilderberg a Oosterbeek, in Olanda. Lo stesso Visco, che governa Bankitalia (di proprietà di banche private) è il pupillo di Mario Draghi, che nel 1992 salì a bordo del panfilo Britannia e oggi governa la Bce (di proprietà di banche private). Draghi risulta essere un membro autorevolissimo dello stesso club che annovera tra i suoi eletti il presidente emerito Napolitano e il francese Jacques Attali, l’uomo-ombra di Macron: prontissimo, tramite l’obbediente Tajani, ad attivare il network sotterraneo dimostratosi capace di indurre Berlusconi a venir meno alla parola data a Salvini, sulla nomina di Foa. Tutto è partito dall’Eliseo, cioè dal vertice politico del paese che, oggi anno, depreda 14 Stati africani portandogli via l’equivalente di 500 miliardi di euro, costringendo i loro giovani a imbarcarsi verso le nostre coste.Qualcuno spieghi, ai migranti soccorsi dalla Diciotti, che non possono fidarsi dell’uomo bianco che si finge loro amico. “Timeo Danaos et dona ferentes”: i greci mi fanno paura anche quando portano doni, dice Laocoonte, nell’Eneide, di fronte al Cavallo di Troia appena giunto davanti alle mura della città assediata. Se solo i giornalisti avessero fatto il loro dovere, accusa il Premio Pulitzer americano Seymour Hersh, in questi anni avremmo avuto meno guerre, meno stragi, meno vittime, perché quasi tutte le guerre, così come l’opaco terrorismo stragista, sono state organizzate a tavolino, dalla stessa élite bugiarda, agitando false prove per demonizzare leader che riteneva scomodi. L’hanno potuto fare, sempre, grazie alla connivente reticenza dei giornali, delle televisioni. Lo stesso si può dire dell’intellighenzia nazionale “embedded”, quella che oggi – tra appelli rabbiosi (e schizzi di sterco) – si permette il lusso di criminalizzare l’Uomo Nero, ignorando deliberatamente i crimini mostruosi dell’oligarchia-fantasma che ha declassato il paese, condannandolo al declino dopo averlo svenduto, pezzo su pezzo, fino a farlo crollare come il ponte di Genova. Un’Italia alla frusta, amputata della sua sovranità e taglieggiata dai finti ragionieri di Bruxelles. Eppure, nel paese a cui la Francia impedisce di eleggere il presidente della televisione di Stato, ci si scaglia selvaggiamente contro il ministro che “sequestra” i migranti su una nave.Il crollo delle dittature è spesso preceduto da violenze inconsulte. In Romania, Nicolae Ceaucescu ordinò alla Securitate di sparare nel mucchio, al primo accenno di ribellione popolare. E il satrapo Siad Barre, a lungo padrone della Somalia grazie anche al provvido sostegno post-coloniale italiano, non esitò a ordinare alla polizia di mitragliare il pubblico dello stadio che aveva osato contestarlo. Si dirà che siamo in Italia, dove vige la legge semiseria della “bolla di componenda”, sintetizzata dal genio letterario di Camilleri: ogni conflitto si trasforma in una tempesta in un bicchier d’acqua, se alla fine tutti si portano a casa la loro fetta di torta. Si dirà che il cosiddetto governo gialloverde, quello dell’Uomo Nero, sta esasperando la crisi dei migranti solo per aprire un fronte alternativo da cui attaccare Bruxelles, cioè il super-potere che gli vieterà di mantenere le promesse fatte agli elettori il 4 marzo, pena il ricatto dell’incursione finanziaria sul costo del debito pubblico di un paese reso vulnerabilissimo, come gli altri dell’Eurozona, dall’assenza di una moneta sovrana con la quale difendersi dal racket della Borsa. Sia come sia, lo spettacolo cui si è costretti ad assistere rivela qualcosa di estremamente inedito: mentre giornali e intellettuali lanciano palle di letame, gli elettori osservano con attenzione le mosse del loro governo, il primo esecutivo – nella storia ingloriosa dell’Ue – completamente sgradito da Bruxelles.Succede questo: a proclamarsi paladini dell’uomo dalla pelle scura, oggi, sono i killer politici dell’uomo dalla pelle chiara – quelli che gli hanno tolto tutto, in Europa, dopo aver abbondantemente depredato anche l’Africa, trasformandola in una terra desolata da cui scappare. Così i naufraghi salvati in mare da una nave della Guardia Costiera italiana diventano prigionieri, letteralmente torturati dal vero Uomo Nero, il Ministro della Paura che usurpa la poltrona del Viminale. Ha un problema, l’Uomo Nero, anzi due: non può fare quello che vorrebbe, e che ha promesso agli elettori – tagliare le tasse – e in più deve rispondere di un risarcimento colossale imposto al suo partito dal potere giudiziario. Un risarcimento così anomalo, e così enorme, da ridurre praticamente a zero la possibilità di sostenere qualsiasi attività politica, e quindi di continuare a esistere, come partito. Chi ha paura dell’Uomo Nero? La cosiddetta Europa: quella che impedisce che le tasse vengano abbattute, che le pensioni italiane siano dignitosamente rimpinguate, che giunga un reddito provvisorio ai senza-lavoro. Di questo sono ostaggi, i naufraghi della nave Diciotti: di un’ingiustizia infame, compiuta da Bruxelles.
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Bordin: gli oligarchi neoliberisti temono l’Italia, e fan bene
Siamo stati noi. Inutile girarci attorno, la crisi del liberismo è partita dall’Italia ed è destinata a durare ancora a lungo. Secondo autorevoli analisti la crisi del liberismo – non del capitalismo, attenzione: del liberismo, che non è la stessa cosa – è partita nel 2008 con la crisi dei mutui subprime e il fallimento di Lehman Brothers. E invece è partita con noi euroscettici targati 2011 e, sissignori, dalla piccola addomesticata Italietta. Alla crisi tecnica in atto, “noi” abbiamo infatti aggiunto l’informazione, ed è per questo che ci odiano. Andatevi a vedere i tweet dei liberisti italiani, in stile Scacciavillani e Boldrin, per farvene un’idea. Sembrano impazziti! Mia nonna in cortile aveva delle galline che facevano meno casino quando giungeva il momento di tirar loro il collo. Molti “di noi” li insultano e rispondono punto su punto alle critiche e alle provocazioni. E invece hanno ragione: la causa del crollo della loro religione ideologica siamo noi. E abbiamo appena cominciato. L’Italia è il primo paese del vecchio continente e il primo membro fondatore dell’Unione Europea a essere governato da una leadership euroscettica. Per essere giusti, tuttavia, “leadership critica verso la Ue” sarebbe una definizione più appropriata, visto che non la smettono di rimarcare ogni santissimo giorno che non vogliono uscire dall’euro e bla bla bla.Leggendo la faccenda da parte di chi (noi) euroscettico lo è davvero, e non per convenienza momentanea, la nascita del governo di Conte segnala che la rete liberale euro-atlantica ha perso il controllo politico dell’Italia. Usando una terminologia finanziaria, direi che questo è un “trend” serio, e segue la scofitta dei liberal dell’Europa orientale e isolana: svolta in Austria, la Brexit e, prima fra tutte, la politica illuminante degli islandesi. Poco prima della grande svolta, quella italiana, abbiamo l’occupazione di un certo Donald Trump della Casa Bianca. La “destra” tradizionale non ha nulla a che fare con questo nuovo fenomeno: un movimento in crescita che rifiuta ciò che l’Europa (e il mondo occidentale in generale) è diventato nei decenni successivi alla fine della Guerra Fredda, così come le sue basi ideologiche. Contrariamente a ciò che molti scrivono per dare alla faccenda un tono nostalgico o neopauperistico, l’ondata euroscettica e antiliberista non combatte il pluralismo, il multiculturalismo, ecc, ma l’immigrazione di massa, la globalizzazione economica incontrollata, la repressione delle identità locali e nazionali, l’individualismo estremo, lo sradicamento culturale, l’islamizzazione e la cosiddetta “ideologia di genere”.Quel movimento (noi), variamente chiamato “nazionalista”, “populista”, “rossobruno”, “anti-establishment”, “sovranista”, in realtà contiene una sorprendente varietà di posizioni che spaziano dal comunismo ad Adam Smith e sta indubbiamente cavalcando un’onda storica simile a quella che portò alla fine del blocco sovietico. Se la devono mettere in saccoccia: il panorama della politica occidentale sta cambiando ed anzi ha già causato cambiamenti irreversibili. Occorre però tenere gli occhi bene aperti – spalancati! – perchè non mancano moltissimi agganci tra l’ascesa di questo movimento e liberali “sotto copertura”, nel senso che sembrano keynesiani, ma che in realtà sono liberali disposti a concedere qualche briciola mantenendo però saldamente in mano il potere. Di certo, i conservatori liberali classici, ma sedicenti progressisti, non hanno capito nulla della vicenda dei migranti; e questa incapacità di pensare alla politica è la migliore garanzia della loro scomparsa e dell’aumento dei loro avversari. Finora, questo pare essere il trend.L’Italia era tra i paesi con il più alto sostegno all’integrazione europea. Un decennio fa, i partiti anti-establishment ed euro-critici potevano mirare, tutti insieme, al 10% -15% dei voti. Come è diventato un posto dove possono raggiungere bene oltre il 60%? Dal mio punto di vista ciò è spiegato da una combinazione di fattori sistemici, politiche terribili e terribile comunicazione da parte dell’Ue come istituzione, dalle maggiori figure politiche europee e dai loro rappresentanti italiani. Fondamentalmente, la situazione attuale è stata generata dalla questione delle riforme economiche e dall’immigrazione. Sul primo fronte, è noto che l’Italia sia stata attaccata appositamente (spread), ma ha evitato un collasso finanziario nel 2011-2012, perché la Bce è intervenuta con una massiccia liquidità e, in seguito, acquisti di bond per stabilizzare le sue finanze. Questo tuttavia era basato su un accordo politico tra Roma da una parte e Bruxelles, Francoforte e Berlino dall’altra: l’Italia fu salvata ma dovette promettere una lunga lista di riforme economiche e sociali. L’idea dell’Ue germanica era piuttosto chiara: l’Italia è attualmente un sistema economico insostenibile (balle); mentre la Bce acquista un po’ di tempo, le riforme vengono attuate, riportando il paese su una traiettoria di sostenibilità.Peccato che la serie di riforme draconiane richieste dall’Ue era fondamentalmente impossibile da attuare nel contesto italiano. Ci sono formidabili limiti legali e persino costituzionali a ciò che il governo può fare per affrontare diritti, pensioni, sussidi, contratti stabiliti e così via. L’Italia, piaccia o non piaccia, ha una Costituzione keynesiana. Il tradimento di questa impostazione democratica ha provocato una dolorosa compressione della domanda interna. Tutto il resto, sono balle talmente giganti da non stare nelle mutande. Sul fronte dell’immigrazione, sia il governo di Letta che quello di Renzi hanno creato una situazione di assoluto caos: qualcosa che è stato riconosciuto persino, a suo merito, dal ministro degli interni Marco Minniti (sotto Gentiloni), che ha ammesso gli effetti disastrosi di tali politiche. Il comportamento dell’Ue su questa questione è stato completamente contraddittorio. Da un lato Bruxelles ha insistito su un piano per la redistribuzione dei migranti che nessuno vuole. Il piano appare al meglio assurdo, con possibilità minime di essere mai adottato; dall’altra, tutti i paesi confinanti con l’Italia hanno rafforzato i loro controlli sugli stranieri.Vale la pena ricordare che la crisi migratoria nel Mediterraneo deve essere ricondotta direttamente all’assurda campagna militare del 2012, avviata da Francia e Gran Bretagna, che non solo ha distrutto alcuni degli interessi di sicurezza più vitali dell’Italia (un alleato dell’Ue e della Nato), ma dell’Europa in generale, compresi in definitiva quelli di Francia e Gran Bretagna, accelerando la destabilizzazione della politica europea. Ancora una volta, la posizione della leadership dell’Ue e della sua filiale italiana sembra essere che questa situazione caotica nel Mediterraneo durerà potenzialmente per molti anni e persino decenni, e che gli italiani (come il resto degli europei) dovrebbero semplicemente sopportare… Nessuno sembrava rendersi conto che questo non era possibile – tranne noi. Quello che però gli elettori e i sostenitori dell’attuale governo non hanno ancora capito, e che li rende in parte diversi da noi, è che molti di “noi” non confidano in un grande successo di questo governo. In caso di fallimento, infatti, l’elettorato non si sposterà affatto nella direzione pregressa dei liberal euro-moderati, ma si radicalizzerà sempre di più su posizioni euroscettiche.(Massimo Bordin, “Perché i neoliberisti odiano l’Italia – e fanno benissimo”, dal blog “Micidial” del 13 agosto 2018).Siamo stati noi. Inutile girarci attorno, la crisi del liberismo è partita dall’Italia ed è destinata a durare ancora a lungo. Secondo autorevoli analisti la crisi del liberismo – non del capitalismo, attenzione: del liberismo, che non è la stessa cosa – è partita nel 2008 con la crisi dei mutui subprime e il fallimento di Lehman Brothers. E invece è partita con noi euroscettici targati 2011 e, sissignori, dalla piccola addomesticata Italietta. Alla crisi tecnica in atto, “noi” abbiamo infatti aggiunto l’informazione, ed è per questo che ci odiano. Andatevi a vedere i tweet dei liberisti italiani, in stile Scacciavillani e Boldrin, per farvene un’idea. Sembrano impazziti! Mia nonna in cortile aveva delle galline che facevano meno casino quando giungeva il momento di tirar loro il collo. Molti “di noi” li insultano e rispondono punto su punto alle critiche e alle provocazioni. E invece hanno ragione: la causa del crollo della loro religione ideologica siamo noi. E abbiamo appena cominciato. L’Italia è il primo paese del vecchio continente e il primo membro fondatore dell’Unione Europea a essere governato da una leadership euroscettica. Per essere giusti, tuttavia, “leadership critica verso la Ue” sarebbe una definizione più appropriata, visto che non la smettono di rimarcare ogni santissimo giorno che non vogliono uscire dall’euro e bla bla bla.
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E con Genova franano 40 anni di saccheggio neoliberista
Mentre i soliti media danno il via al cerimoniale di commenti e manifestazioni di sorpresa o di indignazione per il crollo del Viadotto Polcevera, affermiamo senza mezzi termini che la serie di crolli di infrastrutture degli ultimi anni, cui oggi si aggiunge un tragico e luttuoso disastro, è una naturale conseguenza del loro invecchiamento e della consegna del Bel Paese, ben prima del crac del 2007-2008, anzi da almeno quarant’anni, alla logica dell’austerità, che prevede giocoforza ilsilenziamento degli esperti di progettazione, manutenzione e ammodernamento. Il processo non riguarda soltanto l’Italia, bensì tutta la regione transatlantica, come ricordano i lettori a proposito di ponti e di inondazioni negli Stati Uniti, per esempio. Con il “governo del cambiamento” potrebbe in effetti cessare un trentennio di “inglorioso saccheggio”, l’opposto dei “trenta gloriosi”, come i francesi chiamano la fase storica di ricostruzione postbellica. Potrebbe esservi una svolta, dopo questo lungo periodo successivo al crollo del Muro di Berlino e rispetto a un condizionamento politico frutto dell’orchestrazione di Mani Pulite, ma ancora troppi sembrano stare al gioco di chi cade dalle nuvole, per scoprire che il governo eredita interi ambiti della nostra economica nazionale lasciati al declino.Per non parlare di come l’esecutivo si confronti con l’assenza di settori economici previsti dalla lungimiranza di coloro che, come dicevano, furono ridotti al silenzio, affinché i tecnocrati potessero procedere con il saccheggio del capitale nazionale. Casi emblematici delle due categorie? Maltenute sono le infrastrutture di gestione delle acque e disattesi i piani di sviluppo concepiti con le più ampie vedute urbanistiche. Assenti i sistemi di trasporto avveniristici rimasti tra le pagine di fantascienza o al più delle riviste di divulgazione scientifica: il treno a levitazione magnetica, l’aerotreno, gli hovercraft, gli aerei civili supersonici, le navi a propulsione magnetoidrodinamica, ecc.. In gravissimo affanno il settore della ricerca nello sfruttamento per scopi pacifici dell’energia custodita nei nuclei, in primis tramite la fusione nucleare. Quel che si trova alla “fine del ciclo vitale” non è, tuttavia, soltanto il parco composto delle numerosissime infrastrutture (a tal proposito approviamo il riferimento al Piano Marshall nel recente appello del Cnr alla ricostruzione delle opere obsolete), tra le quali i gioielli ingegneristici o di armonizzazione con il paesaggio costruiti anche in anticipo rispetto alle altre grandi potenze occidentali.I candidati sono stati eletti nel “governo del cambiamento” grazie ad animati discorsi sull’urgenza di intaccare la Legge Fornero, di smontare la Buona Scuola, di rivedere il Jobs Act, ma non avrebbero dovuto trascurare che l’inesorabile legge cronologica del “fine vita” vige anche per le opere immateriali: essa si applica ai cicli di vita della società stessa, quelli durante i quali prosperano le nefaste mezze verità dei sofisti. Sotto sforzi eccessivi non sono soltanto le strutture progettate dagli ingegneri, ma anche la capacità demografica della società stessa, che è stata indotta, con la negazione degli appropriati investimenti, a rinunciare di costruire la propria base di futuro progresso dei livelli di vita (lo trovate un caso che la vita media abbia cominciato lievemente a calare?). Altra cosa sarebbe stata, durante la campagna elettorale, se l’attacco alla Fornero fosse stato esteso a tutte le “riforme pensionistiche” risalendo sino a Lamberto Dini; se il male della scuola non fosse stato additato nella sola “riforma” renziana, ma si fosse aperto un dibattito sull’optimum raggiunto nei cento-cinquantanni di scuola pubblica (che in sé sono stati una lunghissima sperimentazione); se sulla questione del lavoro non si fosse sbandierata un’opposizione limitata al Jobs Act, ma fossero stati presentati in modo organico gli argomenti a favore di una rinascita economica, per incidere coordinatamente su altri fattori (moneta unica, parametri non scientifici di Maastricht, pareggio di bilancio in Costituzione, sovranità nella politica economica delle grandi opere, ecc.) anziché perdurare nella dinamica pluridecennale della depressione dei salari.Crollano, assieme ai ponti veri, i castelli fiabeschi di sabbia del sistema venduto come l’unico rimasto a disposizione, quello del liberismo, che in verità è già una concessione chiamare “sistema economico”. Siamo alla fine di un ciclo narrativo di menzogne al servizio degli avvoltoi finanziarii e in questo momento di transizione occorre tener presente che vi è chi ci consegna colpevolmente un paese in più modi fallato (non sono esclusi gli inetti o coloro che hanno preferito credere alla fiabe) e chi rischia di svilire l’impulso degli elettori, non osando essere di radicale cambiamento, ma accontentandosi di far appello alla memoria corta delle masse, invece che alla memoria a lungo termine degli esperti emarginati per decenni. Stiamo parlando di un’epoca che deve andarsene e della necessità di limitare i dolori del travaglio. Non è vero che abbiamo troppe infrastrutture: la rete ferroviaria è poco più di quella di Cavour, mentre la popolazione è nel frattempo triplicata. Ma anche, non fu mai vero che le pensioni fossero insostenibili, quando Dini vi mise mano.Non fu mai vero che la scuola dovesse trasformarsi in bottega e rafforzare la propria deriva con l’autoritarismo sotto la maschera della “autonomia” attenta alle “esigenze del territorio”. Non fu mai vero che il lavoro umano dovesse essere passato nel tritacarne della depressione dei salari. Se questa dolente epoca deve cedere, dobbiamo riconoscere altresì che non fu mai vero che la sovranità monetaria fu mal gestita dal nostro paese. Furono piuttosto certe morti di rilievo politico (Mattei, Moro, ecc.) ad arrestare la nostra corsa verso il progresso materiale e spirituale. Bisogna avere il coraggio di far maturare appieno e in brevissimo tempo il dibattito più strategico, assai mirato sulla necessità di rivedere quei vincoli che hanno determinato il disastro e continuano a legare le mani a chiunque sia chiamato a servire il paese, e non gli speculatori. Questi non staranno a lungo in attesa prima di sferrare qualche colpo.(Flavio Tabanelli, “Ponti, pensioni e altri assetti alla prova del governo del cambiamento”, da “Scenari Economici” del 15 agosto 2018).Mentre i soliti media danno il via al cerimoniale di commenti e manifestazioni di sorpresa o di indignazione per il crollo del Viadotto Polcevera, affermiamo senza mezzi termini che la serie di crolli di infrastrutture degli ultimi anni, cui oggi si aggiunge un tragico e luttuoso disastro, è una naturale conseguenza del loro invecchiamento e della consegna del Bel Paese, ben prima del crac del 2007-2008, anzi da almeno quarant’anni, alla logica dell’austerità, che prevede giocoforza ilsilenziamento degli esperti di progettazione, manutenzione e ammodernamento. Il processo non riguarda soltanto l’Italia, bensì tutta la regione transatlantica, come ricordano i lettori a proposito di ponti e di inondazioni negli Stati Uniti, per esempio. Con il “governo del cambiamento” potrebbe in effetti cessare un trentennio di “inglorioso saccheggio”, l’opposto dei “trenta gloriosi”, come i francesi chiamano la fase storica di ricostruzione postbellica. Potrebbe esservi una svolta, dopo questo lungo periodo successivo al crollo del Muro di Berlino e rispetto a un condizionamento politico frutto dell’orchestrazione di Mani Pulite, ma ancora troppi sembrano stare al gioco di chi cade dalle nuvole, per scoprire che il governo eredita interi ambiti della nostra economica nazionale lasciati al declino.
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Disastro privatizzato: così il neoliberismo ci crolla addosso
A poche ore dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, la prima riflessione di molti cittadini italiani sta andando alla questione tutt’altro che secondaria della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. I numerosi crolli di viadotti, strade, scuole, infrastrutture del paese, da sempre giustificata con i vincoli di bilancio, con il debito pubblico, con le richieste di austerity da parte dell’Europa, ci sta mostrando due fatti evidenti: che se non si spende in infrastrutture e manutenzione si mette in pericolo la vita delle persone, il turismo e l’economia di intere zone; e poi che la semplice privatizzazione di infrastrutture lucrose come le autostrade non porta con sé i meravigliosi benefici promessi dalla propaganda neoliberista degli anni ‘80 e ‘90, con la sua retorica del “privato è bello”, della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, dei vantaggi per gli utenti. La verità è che con le privatizzazioni si sono spesso creati monopoli, posizioni di rendita di tipo feudale e ingiustificati guadagni per poche famiglie ricche e strettamente legate con i vertici della politica nazionale e internazionale, a danno dei cittadini, che pagano pedaggi assurdamente costosi a fronte di un servizio tutt’altro che ineccepibile.In Italia i principali gruppi privati concessionari delle autostrade sono il Gruppo Gavio (che è il quarto operatore al mondo nella gestione di autostrade a pedaggio con un network di circa 4.156 km di rete e che in Italia, attraverso la società Sias, gestisce circa 1.423 km di rete, fra i quali l’autostrada Genova-Ventimiglia), e il gruppo Atlantia, di proprietà dei Benetton. Un articolo de “Il Fatto Quotidiano” di qualche mese fa, a firma di Fabio Pavesi, metteva in evidenza gli enormi profitti del gruppo Atlantia (le autostrade italiane fino al 1999 furono di proprietà pubblica, del gruppo Iri, con il nome di Società Autostrade, diventata poi nel 2003 Autostrade per l’Italia S.p.A, 100% di proprietà del gruppo Atlantia, che gestisce autostrade a pedaggio anche in altri paesi). Per essere precisi, 1,9 miliardi di utile operativo solo nel 2017 e solo per Autostrade per l’Italia S.p.A e un utile netto di 972 milioni in crescita del 19% sul 2016. Quale vantaggio ne viene ai cittadini italiani? Ovviamente nessuno. La autostrade a pedaggio sono una gallina dalle uova d’oro ad esclusivo appannaggio di potenti gruppi industriali, in assenza di qualsivoglia criterio di efficienza (come periodicamente si legge nelle riflessioni degli economisti più attenti, per esempio in questo articolo de “Il Sole 24 Ore”).Molti ormai cominciano a rimpiangere i tempi dell’Iri, quando era lo Stato a gestire l’immenso patrimonio delle grandi infrastrutture del paese. E molti si chiedono per quale ragione si dovrebbe continuare così. Riflettendo in questi giorni sulle profetiche analisi del sociologo ungherese Karl Polanyi, scritte nel 1944 e pubblicate nel volume “La grande trasformazione”, mi chiedo se il neoliberismo, con i suoi miti di libertà d’impresa, competizione, privatizzazione, deregolamentazione, sia compatibile con la democrazia in generale e con la Costituzione italiana in particolare. La domanda non è originale e la risposta in certa misura è scontata, per chi frequenta la ricca letteratura al riguardo, ma non credo sia inutile ripercorrere le ragioni per le quali la risposta non può che essere negativa. Da queste ragioni deve derivare infatti un giudizio storico e politico nettissimo sulla classe dirigente che ci ha governato dagli anni ‘80 in poi e la motivazione chiara a ribellarci ad uno stato di cose non più tollerabile. Il neoliberismo ha fatto fortuna, anche nelle masse, equivocando sulla parola “libertà”. Chi non è sensibile alle infinite promesse di una parola tanto pregnante? Chi non vorrebbe essere libero? Il problema è però è duplice: quale libertà? E la libertà di chi?La visione liberale dello Stato si fonda sulla difesa delle libertà civili e politiche: libertà di coscienza, di riunione, di associazione, di espressione, eccetera. Esistono però, osserva Polanyi, anche le libertà negative: la libertà di sfruttare i propri simili, di sottrarre all’utilizzo comune scoperte tecnico-scientifiche per proteggere interessi privati, di trarre profitti da calamità collettive, di inquinare l’ambiente. Nell’economia capitalista, queste due forme di libertà sono i due lati della stessa medaglia. Si potrebbe ipotizzare, continua Polanyi, una società futura nella quale le libertà “positive”, accompagnate da una regolamentazione adeguata, possano essere estese a tutti i cittadini. “Regolamentare” vuol dire porre limiti ai privilegi di una minoranza, proteggere i più deboli dal potere soverchiante di chi detiene la proprietà, correggere gli squilibri economici e sociali, controllare e sanzionare i comportamenti dannosi alla collettività, permettere a tutti i cittadini, anche a quelli svantaggiati, di esercitare le libertà “positive”. Questa società futura sarebbe libera e giusta insieme.Ma ad impedire questo esito (la diffusione della libertà) è proprio l’“ostacolo morale” dell’utopismo liberale (quello che chiamiamo “neoliberismo”), di cui lui riconosceva il massimo esponente nell’economista Von Hayek. La visione neoliberista è utopica perché predica l’assenza del controllo e dell’intervento dello Stato in ambito economico e sociale, proprio mentre invoca l’esercizio della forza e anche della violenza dello Stato a difesa della proprietà. Detto in parole povere, per il neoliberismo lo Stato è al servizio della proprietà individuale e della libera impresa, cioè di quei pochi che non hanno bisogno di incrementare il proprio reddito, il proprio tempo libero e la propria sicurezza, e agisce a svantaggio delle libertà di tutti gli altri. La libertà neoliberista è solo prerogativa dei ricchi (anche se a parole è disponibile a tutti) e non può essere estesa a tutti, perché questo minaccerebbe la proprietà. Chi è povero lo è per colpa sua ed è solo un perdente nella competizione per la ricchezza. La libertà è in sostanza la libertà di arricchirsi senza vincoli né regole. Il neoliberismo (l’utopismo liberale), concludeva Polanyi, è intrinsecamente e incorreggibilmente antidemocratico e autoritario, perché piega lo Stato a difendere gli interessi di una minoranza a danno della maggioranza.Non per nulla il primo esperimento di Stato neoliberista fu il Cile di Augusto Pinochet, dove “libertà” significava azzeramento dei sindacati e dei diritti delle comunità, privatizzazioni selvagge, liberalizzazioni finanziarie e repressione delle libertà civili. Qui il neoliberismo si sposa con il fascismo. Ma c’è anche un modo meno cruento per effettuare un colpo di Stato: corrodere un giorno dopo l’altro, per decenni, i diritti e i redditi dei cittadini, asservirli al potere finanziario, vincolarli a norme-capestro che li rendano schiavi di interessi estranei, modificare la Costituzione a danno della sovranità popolare, indebolire i lavoratori e i sindacati, assecondare gli interessi dei più forti, non intervenire a ridurre le disuguaglianze, privatizzare i beni pubblici, ridurre la spesa sociale, distrarre continuamente l’attenzione pubblica con falsi problemi e individuare sempre nuovi bersagli per la rabbia popolare, colpevolizzare i cittadini per la loro condizione e controllare i mass-media, in modo che veicolino continuamente la visione che più fa comodo ai manovratori (quella che Marcello Foa ha chiamato “il frame”, la cornice), martellare per anni e decenni i cittadini con un linguaggio economicista pieno di concetti come imprenditorialità, libertà d’impresa, debiti e crediti, competizione, eccetera – insomma costruendo un’ideologia che giustifichi e renda accettabile la progressiva riduzione in schiavitù di interi popoli, tenendone a bada l’inevitabile scontento con il senso di colpa, la paura e la menzogna.Questo è ciò che è successo da noi in questi ultimi decenni. Questo è l’imperdonabile tradimento della Costituzione e dei suoi valori realizzato da una classe politica avida e asservita a gruppi di potere nazionali e sovranazionali che l’hanno telecomandata a danno nostro. Il neoliberismo non è solo di una teoria economica, ma di un modello complessivo di società, sorretto da un poderoso e contraddittorio apparato ideologico, incompatibile con la democrazia, come sono incompatibili con la democrazia i monopoli privati di beni collettivi. Il viadotto di Genova è un simbolo di ciò che deve finire in Italia e nel mondo se vogliamo avere un futuro democratico. La globalizzazione neoliberista, che esalta il libero mercato, mentre mira a costituire monopoli e posizioni di forza, sta mettendo in ginocchio interi popoli. Povertà e disuguaglianza aumentano di giorno in giorno a livello globale. Non è più accettabile mantenere in piedi privilegi feudali, massacrando sogni e speranze di miliardi di persone.Il filosofo John Rawls sosteneva che una disuguaglianza è accettabile solo se migliora anche le condizioni di chi ha di meno. La ricchezza non è un male, ma lo è l’ingiusta distribuzione di essa. La libertà senza giustizia sociale è solo un guscio vuoto e uno specchio per le allodole. Questo dice in sostanza la nostra Costituzione. Se la vogliamo difendere, dobbiamo consegnare al passato il neoliberismo, memori della sofferenza e dei disastri che ha provocato. Non vedo altra via d’uscita dal tunnel nel quale ci troviamo. Deve essere lo Stato a regolare l’economia e il fine dell’economia deve essere il benessere dei cittadini. Il mercato non è in grado di autoregolarsi affatto e laddove i governi sono collusi con i potentati economici stanno tradendo la sovranità popolare. Non dimentichiamoci la frase pronunciata dal miliardario Warren Buffett (il terzo uomo più ricco al mondo) a proposito della diminuzione delle tasse per i ricchi: «La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi». Tanto per ricordarci di che cosa c’è in gioco: non la lotta contro la ricchezza, ma la lotta contro una visione predatoria della ricchezza e contro la menzogna che ci rende schiavi da troppo tempo di un’élite che ha consapevolmente e pazientemente costruito il mondo squilibrato nel quale ci troviamo – di cui troviamo il ritratto nel libro di Gioele Magaldi, “Massoni: società a responsabilità illimitata”, editore Chiarelettere.(Patrizia Scanu, “Il neoliberismo è compatibile con la democrazia?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 15 agosto 2018).A poche ore dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, la prima riflessione di molti cittadini italiani sta andando alla questione tutt’altro che secondaria della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. I numerosi crolli di viadotti, strade, scuole, infrastrutture del paese, da sempre giustificata con i vincoli di bilancio, con il debito pubblico, con le richieste di austerity da parte dell’Europa, ci sta mostrando due fatti evidenti: che se non si spende in infrastrutture e manutenzione si mette in pericolo la vita delle persone, il turismo e l’economia di intere zone; e poi che la semplice privatizzazione di infrastrutture lucrose come le autostrade non porta con sé i meravigliosi benefici promessi dalla propaganda neoliberista degli anni ‘80 e ‘90, con la sua retorica del “privato è bello”, della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, dei vantaggi per gli utenti. La verità è che con le privatizzazioni si sono spesso creati monopoli, posizioni di rendita di tipo feudale e ingiustificati guadagni per poche famiglie ricche e strettamente legate con i vertici della politica nazionale e internazionale, a danno dei cittadini, che pagano pedaggi assurdamente costosi a fronte di un servizio tutt’altro che ineccepibile.
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Sechi: New Deal rooseveltiano gialloverde, ora o mai più
Il quadro politico dice che il “governo Frankenstein” è il solo possibile. E se dovesse fallire L’alternativa sarebbe il caos, che vorrebbe dire, alla fine, un altro governo tecnico. Diciamocelo, a qualcuno piacerebbe: il piccolo establishment italiano vuole il commissariamento. Chi lavora per questa prospettiva? Piccoli gruppi di potere. Anche il Quirinale? No, il Quirinale no. Anzi, il Colle è stato il potere che più ha preso atto della situazione e favorito la nascita del governo gialloverde. Mattarella è più preoccupato di altre cose, come l’emergere nei 5 Stelle di quelle pulsioni di ruralismo cerebrale per cui tutto ciò che è infrastruttura, modernizzazione, rete non virtuale, non va bene. Il vero redde rationem comunque è sulla politica economica. La realtà è che il governo M5S-Lega ha un solo vero nemico, se stesso. Tria vuole tenere insieme tutto, Flat Tax, reddito di cittadinanza, annullamento delle clausole di salvaguardia, riforma Fornero, stop all’aumento dell’Iva, alcuni benefici fiscali. Nemmeno Mandrake riuscirebbe a fare una cosa del genere. Quindi dovrà sacrificare qualcosa. A meno che non intendano fare un po’ di deficit, ma quanto?Il punto è che non si vedono né il continuismo, né la svolta. Il primo avrebbe imposto di sacrificare punti importanti del programma di governo, la seconda di sfidare Bruxelles. Cosa vogliono fare Lega ed M5S? Qual è il disegno complessivo? Non si è capito. L’altro elemento di preoccupazione viene dalla Lega. Sta abbozzando su cose che, se si realizzano, il suo elettorato rifiuterà. La stretta sui contratti contenuta nel decreto lavoro, che ora è legge. E poi il reddito di cittadinanza non fa certo parte della base socioeconomica dei leghisti. In un modo o nell’altro si arriva sempre al M5S, perché nella testa dei 5 Stelle all’impostazione statalista si unisce una corrente molto forte di pensiero anti-industriale. Peccato che siano le imprese a produrre i posti di lavoro, e che l’agognata redistribuzione che vuole Di Maio – leggasi reddito di cittadinanza – possa venire solo dalla crescita e dal maggor gettito fiscale di lavoratori e imprese. Con la loro logica, invece, i 5 Stelle interrompono il vaso comunicante.Cosa mi aspetto a settembre? Non la crisi di governo, perché non c’è alternativa. La vera incognita sono i mercati, a cui allude Renzi. E Salvini? Potrebbe essere tentato di mollare Di Maio per Berlusconi? Tutto è possibile, non saprei però se il centrodestra vincerebbe le elezioni, ed è un calcolo che fa certamente anche Salvini. Se si andasse a votare, Salvini pescherebbe ulteriormente nel bacino di Berlusconi, mentre ai 5 Stelle, che ora sono forti, ruberebbe solo pochi voti. Se Salvini prendesse il 30% cento e Berlusconi il 10, avrebbero la maggioranza parlamentare, però al 40 bisogna arrivarci, non è affatto facile. Un nuovo governo che nascesse in Parlamento? Non ci sono i numeri per fare un accordo parlamentare. Al patto Salvini-Berlusconi servirebbero pezzi di altri gruppi parlamentari, ma c’è un particolare: Salvini è l’uomo nero con cui nessuno vuol fare alleanze. In mancanza di un accordo, si andrebbe al voto con un fallimento alle spalle. A quel punto sì che si sveglierebbero i mercati.Insomma Conte, Salvini, Di Maio e Tria devono trovare una sintesi. Ma è la strada per farlo che ancora non si vede. Il problema sostanziale è che i ceti produttivi della Lega si contrappongono alle masse in cerca di lavoro statalizzato del M5S, con i rappresentanti degli uni e degli altri che sono alleati in Parlamento. L’unico governo possibile si trova a lavorare in una situazione impossibile. Una soluzione, volendo, ci sarebbe. Un New Deal italiano, in cui Salvini e Di Maio smettono di fare campagna elettorale e mettono insieme un trust di persone pensanti con il compito di elaborare un accordo rooseveltiano coerente che unisca Nord e Sud. E’ quello che stanno facendo? Non è vero, perché non c’è un tentativo di politica corale, di sintesi, ma solo un contratto stilato dal notaio, fatto a compartimenti stagni, di cui alternativamente ognuna delle due forze punta a realizzare un pezzo, alla meglio. Non è così che si governa un paese. Salvini e di Maio sono ancora in tempo, ma devono agire subito.(Mario Sechi, dichirazioni rilasciate a Federico Ferraù per l’intervista “Attacco all’Italia, a settembre offensiva dei mercati: ecco chi sta con loro”, pubblicata da “Il Sussidiario” il 9 agosto 2018. Giornalista, già direttore del “Tempo”, Sechi si avvicinò a Monti per poi successivamente distaccarsene, riconoscendo la natura punitiva e “suicida” della strategia del rigore imposta all’Italia dall’oligarchia tecnocratica di Bruxelles).Il quadro politico dice che il “governo Frankenstein” è il solo possibile. E se dovesse fallire L’alternativa sarebbe il caos, che vorrebbe dire, alla fine, un altro governo tecnico. Diciamocelo, a qualcuno piacerebbe: il piccolo establishment italiano vuole il commissariamento. Chi lavora per questa prospettiva? Piccoli gruppi di potere. Anche il Quirinale? No, il Quirinale no. Anzi, il Colle è stato il potere che più ha preso atto della situazione e favorito la nascita del governo gialloverde. Mattarella è più preoccupato di altre cose, come l’emergere nei 5 Stelle di quelle pulsioni di ruralismo cerebrale per cui tutto ciò che è infrastruttura, modernizzazione, rete non virtuale, non va bene. Il vero redde rationem comunque è sulla politica economica. La realtà è che il governo M5S-Lega ha un solo vero nemico, se stesso. Tria vuole tenere insieme tutto, Flat Tax, reddito di cittadinanza, annullamento delle clausole di salvaguardia, riforma Fornero, stop all’aumento dell’Iva, alcuni benefici fiscali. Nemmeno Mandrake riuscirebbe a fare una cosa del genere. Quindi dovrà sacrificare qualcosa. A meno che non intendano fare un po’ di deficit, ma quanto?
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Duri con Salvini, ma zitti sul martirio (razzista) della Grecia
Condivido quasi nulla di Matteo Salvini, anzi, dico chiaro che da molto quest’uomo sta offrendo il fianco al ben noto sottosuolo dei più beceri italiani, quindi benissimo ha fatto il professor Paolo Becchi a sollecitare il ministro dell’interno verso prese di posizione sia politiche che personali inequivocabili contro qualsiasi rigurgito razzista (“Libero”, 02/08). Perché l’Europa è una terra fresca di oltre duemila morti per razzismo contati nel solo anno 2012, a cui, sempre per razzismo e sempre nello stesso periodo, si aggiunsero un milione di discriminati nel diritto alle cure fondamentali, abbandonati a contagi incontrollati di malaria e Hiv, e una strage d’innocenti per mortalità infantile. Si tratta di un olocausto di umani le cui origini, e il cui agghiacciante svolgimento, furono dovuti a una martellante campagna politica presso le opinioni pubbliche dove le vittime erano additate specificamente come gruppo etnico nemico dell’interesse comune degli onesti lavoratori, come sanguisughe delle tasse di chi veramente lavora, e come corrotti, ovvero una popolazione parassita inferiore contro cui si giustificavano, nella difesa degli onesti, misure di una durezza senza pietà fino alle estreme conseguenze di cui sopra. Una campagna quindi populista, becera e razzista.Un autorevole quanto accorato studio della più prestigiosa rivista medica del mondo, il “The Lancet”, del 2014 forniva le cifre di quel bagno di sangue: 2.200 morti negli over 55 in un solo anno, un aumento dei contagi da Hiv del 3.126% (tremilacentoventisei), casi diffusi di malaria, e un aumento della mortalità infantile fra le loro donne di un orribile 43%. Questo può fare il populismo razzista, questo ha fatto, in Grecia. Dietro al megafono dell’istigazione a nessuna pietà per quei “parassiti” c’erano Angela Merkel, Jean-Claude Trichet, Christine Lagarde, Mario Monti fra i più vociferanti. L’istigazione all’odio contro l’etnia greca arrivò al punto da impedire all’altrimenti umanitaria sinistra italiana delle Ong, de “La Repubblica”, del Pd, e degli apostoli dell’anti-razzismo come i Saviano, Padellaro, Benigni e Lerner di organizzare milizie in maglietta rossa dirette alla Corte di Giustizia dell’Aja per denunciare quei crimini contro l’umanità a sfondo interamente razzista (ricordo solo quel Barnard in prima serata Tv gridare “Mario Monti, lei li ha tutti sulla coscienza quei morti, criminale”, non ricordo altri colleghi).Che fosse razzismo – cioè un rigurgito di dissennato astio da parte di milioni di europei contro un’etnia considerata parassita – interamente ad opera del populismo razzista di Merkel, Trichet, Lagarde e Monti – lo dimostrò un autorevole studio pubblicato già nel 2010 dal prestigioso Levy Economics Institute of Bard College di New York a firma di Dimitri B. Papadimitriou, L. Randall Wray e Yeva Nersisyan, dove ogni singola accusa all’etnia parassita e infame veniva fatta a pezzi: 1) Il debito greco, detto “minaccia alla stabilità di tutto il continente e causato da diffuso malcostume e parassitismo” era in realtà dovuto in maggioranza alla recessione economica mondiale, cioè calo Pil, calo tasse, e aumento conseguente di aiuti statali ai lavoratori in difficoltà di cui la Grecia non aveva nessuna colpa. 2) Non era affatto vero che il reddito pro capite greco era troppo alto per le casse di governo. Era invece uno dei più bassi d’Europa. 3) Lo Stato Sociale greco spendeva pro capite in media 3.530 euro contro i 6.251 della media europea. Nessuna elemosina a “parassiti”. 4) I costi amministrativi greci erano inferiori a quelli tedeschi o francesi, la spesa dello Stato era sotto la media Oecd, e la spesa pensionistica era in linea con quella di Germania e Francia.E’ col gelo nel sangue per questo precedente di pura follia razzista, e in ricordo dei distratti fischiettii (quando non assensi) dell’umanitaria sinistra italiana delle Ong, de “La Repubblica”, del Pd, e degli apostoli dell’anti-razzismo come i vari Saviano, Padellaro, Benigni e Lerner, che trovo assolutamente giusto il richiamo del professor Becchi a Matteo Salvini. E lo scrivo senza una traccia di sarcasmo. Meglio una parola in più del leader leghista contro derive razziste populiste anti “parassiti” che l’accusa domani di essere stato in qualsiasi modo complice di un’onda d’odio che causò poi stragi. O peggio: di essere stato un omologo di Angela Merkel (e la strage in Grecia continua).(Paolo Barnard, “Il prof. Becchi avvisa Salvini sul razzismo, e fa bene. Io aggiungo l’altra parte”, dal blog di Barnard del 3 agosto 2018).Condivido quasi nulla di Matteo Salvini, anzi, dico chiaro che da molto quest’uomo sta offrendo il fianco al ben noto sottosuolo dei più beceri italiani, quindi benissimo ha fatto il professor Paolo Becchi a sollecitare il ministro dell’interno verso prese di posizione sia politiche che personali inequivocabili contro qualsiasi rigurgito razzista (“Libero”, 02/08). Perché l’Europa è una terra fresca di oltre duemila morti per razzismo contati nel solo anno 2012, a cui, sempre per razzismo e sempre nello stesso periodo, si aggiunsero un milione di discriminati nel diritto alle cure fondamentali, abbandonati a contagi incontrollati di malaria e Hiv, e una strage d’innocenti per mortalità infantile. Si tratta di un olocausto di umani le cui origini, e il cui agghiacciante svolgimento, furono dovuti a una martellante campagna politica presso le opinioni pubbliche dove le vittime erano additate specificamente come gruppo etnico nemico dell’interesse comune degli onesti lavoratori, come sanguisughe delle tasse di chi veramente lavora, e come corrotti, ovvero una popolazione parassita inferiore contro cui si giustificavano, nella difesa degli onesti, misure di una durezza senza pietà fino alle estreme conseguenze di cui sopra. Una campagna quindi populista, becera e razzista.
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Il governo Tria-Draghi-Mattarella spaventa Lega e 5 Stelle
Il grosso dello scontro sulle nomine sembra ormai alle spalle del governo, ma sembra anche poter rappresentare solo l’antipasto di quel che potrà accadere in autunno. Ci sono tutti gli ingredienti perché la legge di bilancio si trasformi nella “madre di tutte le battaglie” per il governo Conte, scrive sul “Sussidiario” Anselmo Del Duca, che vede avvicinarsi una battaglia decisiva, del tipo “o la va, o la spacca”, per la vita o la morte dell’esecutivo gialloverde. I due partiti che formano la maggioranza, ragiona Del Duca, hanno la stessa necessità, e cioè dare concretezza alle loro promesse elettorali qualificanti: per il Movimento 5 Stelle il reddito di cittadinanza, per la Lega la Flat Tax e la revisione alla radice della legge Fornero sulle pensioni. «Nessuno dei due, nemmeno il Carroccio che vola nei sondaggi, può immaginare di tornare alle urne con il carniere del tutto vuoto: sarebbe una sconfitta su tutta la linea difficile da spiegare agli elettori». I maggiori ostacoli? Un “tridente” temibile, formato dall’asse politico che lega Sergio Mattarella a Mario Draghi, completato dall’enigmatico e finora ultra-prudente mininistro dell’economia Giovanni Tria, piazzato in quel dicastero dopo il clamoroso veto opposto da Mattarella a Paolo Savona.Il problema dei problemi, rileva Del Duca, è che – con l’attuale assetto del bilancio, allineato ai vincoli di Bruxelles – non ci sono abbastanza soldi per finanziare reddito di base, tagli alle tasse e pensioni più dignitose. Secondo l’analista del “Sussidiario”, non sarà facile trovare un equilibrio che consenta a 5 Stelle e Lega di poter dare segnali positivi, almeno parziali, al proprio elettorato. «Nel mirino è il titolare dell’economia, Giovanni Tria, cui spetterà di sicuro l’ingrato compito di trasformarsi nel “signor no” della spesa pubblica». Tanti i segnali già emersi in questa direzione: «Sono soprattutto i grillini ad adombrare un Tria nemico, arcigno guardiano dei conti pubblici, in nome e per conto di Mario Draghi, e con la benedizione del Quirinale». Il ministro, dal cantro suo, ha preparato la trincea per la battaglia che lo aspetta proprio nello scontro di questi giorni sulle nomine: «In cambio del via libera a Francesco Palermo alla guida della Cassa Depositi e Prestiti ha incassato la blindatura del dicastero di via XX Settembre con la nomina di Alessandro Rivera alla direzione generale del Tesoro, che si affianca alla permanenza di Daniele Franco alla Ragioneria generale dello Stato».In questa fase, aggiunge Del Duca, la Lega ha svolto con Giancarlo Giorgetti un ruolo sostanzialmente di mediazione, «ma non è che il Carroccio abbia il desiderio di fare esclusivamente il donatore di sangue». Il bilanciamento della nomina di Palermo, scrive Del Duca, potrebbe avvenire sulle Ferrovie, ma anche sulla presidenza della Rai. E non va trascurato il desiderio leghista di poter contare su un vicepresidente del Csm “amico”, come contraltare del ministro della giustizia pentastellato. «La partita delle nomine non è affatto chiusa, quindi, anzi è destinata a durare tutto l’autunno, in parallelo alla discussione della legge di bilancio». Il clima in cui avverrà lo ha descritto con crudezza lo stesso Di Maio: «C’è da lavorare nell’ottica di una legge che deve essere coraggiosa e non che tiri a campare». Il vicepremier grillino ha detto a chiare lettere che questo comporta anche l’avvio della ridiscussione dei parametri economici a livello europeo, anche perché faceva parte del programma sia della Lega che del Movimento 5 Stelle. «La prospettiva è quindi di un autunno caldo sul fronte parlamentare», sottolinea Del Duca: «Ce n’è abbastanza per far crescere il livello di ansia dalle parti del Quirinale».Delle prospettive dei prossimi mesi, aggiunge l’analista, si è parlato nel lungo colloquio (oltre un’ora) che a sorpresa il premier Conte ha avuto con il presidente della Repubblica. E’ a Conte, secondo Del Duca, che Mattarella guarda come «l’unico che può riuscire a tenere insieme le dispendiose richieste dei due partiti di governo e le necessità di tenere i conti pubblici in equilibrio». Il rischio di strappi è concreto, sottolinea il “Sussidiario”, e nel caso della Cassa Depositi e Prestiti ci si è andati vicino. «Giovanni Tria ha rischiato di fare la fine di Renato Ruggiero, ministro tecnico degli esteri del governo Berlusconi, costretto a lasciare per incompatibilità. Lo ha capito lo stesso Giorgetti, proconosole di Matteo Salvini in tutte le trattative sulle nomine: è bene non tirare troppo la corda, perché potrebbe spezzarsi per davvero». In altre parole: «Le dimissioni di Tria, se mai ci si dovesse arrivare, sarebbero un colpo davvero troppo duro da sopportare per il governo». E’ pur vero, però, che l’esecutivo gialloverde morirebbe, politicamente, solo se il “partito di Bruxelles” gli imponesse di ispirare al rigore anche la prossima finanziaria, costringendolo cioè a rinunciare al suo programma dichiaratamente anti-austerity.Il grosso dello scontro sulle nomine sembra ormai alle spalle del governo, ma sembra anche poter rappresentare solo l’antipasto di quel che potrà accadere in autunno. Ci sono tutti gli ingredienti perché la legge di bilancio si trasformi nella “madre di tutte le battaglie” per il governo Conte, scrive sul “Sussidiario” Anselmo Del Duca, che vede avvicinarsi una battaglia decisiva, del tipo “o la va, o la spacca”, per la vita o la morte dell’esecutivo gialloverde. I due partiti che formano la maggioranza, ragiona Del Duca, hanno la stessa necessità, e cioè dare concretezza alle loro promesse elettorali qualificanti: per il Movimento 5 Stelle il reddito di cittadinanza, per la Lega la Flat Tax e la revisione alla radice della legge Fornero sulle pensioni. «Nessuno dei due, nemmeno il Carroccio che vola nei sondaggi, può immaginare di tornare alle urne con il carniere del tutto vuoto: sarebbe una sconfitta su tutta la linea difficile da spiegare agli elettori». I maggiori ostacoli? Un “tridente” temibile, formato dall’asse politico che lega Sergio Mattarella a Mario Draghi, completato dall’enigmatico e finora ultra-prudente ministro dell’economia Giovanni Tria, piazzato in quel dicastero dopo il clamoroso veto opposto da Mattarella a Paolo Savona.
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Barnard: dimettetevi, per salvare il cambiamento promesso
Non vi lasciano lavorare? E allora dimettetevi: solo così, dopo nuove elezioni, potrete finalmente varare il “governo del cambiamento”, quello vero, che risolleverà l’Italia, sottraendola alla morsa di Bruxelles. E’ scettico, Paolo Barnard, sulla faticosa guerra di trincea nella quale sembrano invischiati Lega e 5 Stelle, letteralmente imbrigliati da un establishment ben deciso a impedire qualsiasi rottura dei vincoli Ue, ben sapendo che proprio il rifiuto del rigore di bilancio è indispensabile per finanziare Flat Tax e reddito di cittadinanza. «Doveva essere il “governo del cambiamento”, e già dopo soli due mesi è diventato il “governo del meglio di niente”», scrive Barnard nel suo blog. «E’ esattamente dal governo Amato del 1992, passando per Prodi, D’Alema, Berlusconi, i ‘tecnici’ e Renzi – aggiunge – che ci fanno vivere i #governidelmegliodiniente, cioè i soliti esecutivi impiccati ad aule parlamentari da mercato-delle-vacche, e dove gli elettori vincenti si contentano della logica “Ok, ma è sempre meglio che avere gli altri”. E sono esecutivi che mai nulla di concreto hanno dato all’Italia, infatti qualcuno provi a citare una sola riforma in positivo degli ultimi 26 anni che sia ricordata nella cultura politica, nel welfare, nel lavoro e nei portafogli italiani come uno spartiacque. Zero, solo una e tragicamente in negativo: la perdita della moneta sovrana lira con l’adesione all’euro».