Archivio del Tag ‘Pd’
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Via dall’euro e addio Troika, se solo avessimo un leader
«Come si sa, questo è un paese in cui le cose serie si decidono a ferragosto. Poi, al rientro, gli italiani trovano il piatto cotto in tavola». Fatti da parte, suggerisce Scalfari a Renzi, confermando l’allarme di De Bortoli sull’imminente arrivo della Troika, caldeggiato da Draghi. «E’ stato come se il travolgente successo alle europee, non solo non consacrasse la leadership di Renzi, ma quasi la indebolisse: arginato il M5S, Renzi non serve più», secondo Aldo Giannuli. «E il preannuncio del licenziamento è arrivato con la bacchettata di Draghi, che ha detto papale papale: “Caro Renzi, non mi incanti con la riforma del Senato, sono altre le riforme che devi fare” e, il sottinteso, neanche tanto dissimulato, era “altrimenti togliti di mezzo”». Renzi prima si è messo sull’attenti, poi ha tentato di dire che sulle riforme deciderà lui. «Povero illuso, non si rende conto di avere pochissime frecce al suo arco e di avere troppi avversari: gli americani lo detestano per le sue aperture a Putin, la Merkel non lo digerisce, la Buba gli darebbe fuoco, la finanza che sogna di avventarsi sul peculio berlusconiano non gli perdona il tentativo di salvare il Cavaliere, adesso ci si mette anche Draghi».Renzi «pensava di affascinare l’Europa con la sua riforma del Senato», ma «non se l’è bevuta nessuno», scrive Giannuli nel suo blog. All’Ue, invece, «interessa la precarizzazione totale del lavoro in Italia, arraffare quel po’ che ancora ha un valore (Eni, Cdp, Telecom, forse qualche pezzetto di Finmeccanica) e che gli italiani si spremano sino all’ultima goccia di sangue, diano fondo ai risparmi e si vendano casa per pagare gli interessi sul debito pubblico e, se possibile, ne restituiscano una parte attraverso il Fiscal Compact». Tutto il resto sono solo chiacchiere. Problema: con l’economia in recessione, il debito esplode. E presto metterà fine alla bonaccia dello spread. Sul “Sole 24 Ore”, l’economista neoliberale Luigi Zingales scrive che «non saremo mai in grado di soddisfare il Fiscal Compact», e inoltre «la situazione del nostro debito pubblico è insostenibile, a meno di una significativa ripresa dell’inflazione», che è sempre stata il maggior alleato dei paesi debitori. «Ma questo – puntualizza Giannuli – presuppone la sovranità monetaria del debitore, cosa che l’euro ci ha tolto».Il problema, continua l’analista, è che, mentre gli italiani hanno capitalizzato i loro risparmi in beni reali (essenzialmente immobili), i tedeschi li hanno impiegati per l’acquisto di titoli finanziari, prevalentemente in euro. Per cui, un’inflazione al 3% sarebbe una grande boccata di ossigeno per i paesi indebitati come Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, ma «alle orecchie dei tedeschi suonerebbe come una tassa patrimoniale di pari importo sui titoli». E siccome la moneta comune «non è mai la “moneta di tutti”, ma sempre e solo del più forte», questo non si può fare: «Per i tedeschi la soluzione sta nella spoliazione dei paesi debitori, del loro patrimonio pubblico (aziende, immobili, riserva aurea, Cdp) e di quello privato (risparmi, proprietà immobiliari e, fosse per loro, anche vendita dei figli al mercato degli schiavi)». Per liquidare l’Italia, occorre «azionare con la massima decisione la leva fiscale (ovviamente al rialzo) e svendere subito il patrimonio pubblico», due cose che Monti aveva iniziato a fare «con grande sollievo della platea “europea”». Ovviamente, «dopo una “cura” del genere un paese entra in una fase di estrema decadenza economica per interi decenni», ma questo non interessa all’“Europa”. «Per i tedeschi, i partner europei sono solo sgabelli su cui arrampicarsi per reggere la sfida della globalizzazione».Certo, Renzi «non sta dando le risposte attese», limitandosi «a giocare al “piccolo leader”, cosa sommamente irritante». Per la verità, l’“Europa” non ha soluzioni politiche di ricambio, spiega Giannuli: «La destra berlusconiana l’ha già cacciata una volta ed è decotta, il centro non esiste e nel Pd non c’è nessuno che possa dare il cambio al fiorentino». E allora che si fa? Semplice: «Si commissaria l’Italia. Si fa governare il paese dalla Troika». A costringere l’Italia a invocarne “l’aiuto”, basterà «un nuovo “assedio dello spread”»: quando il differenziale sul rendimento dei titoli di Stato risalirà oltre i 500-600 punti, «gli italiani, soprattutto grazie al loro ineffabile Capo dello Stato, faranno quello che devono fare e si troverà il Monti di turno che faccia il lacchè della Troika». Niente di difficile, peraltro: «A preparare il terreno ci sta già pensando Scalfari». Un segnale chiaro, riguardo al pensiero dei poteri forti europei e dei loro esponenti italiani. E Renzi? «Il “bersagliere del nulla” ha solo due scelte davanti: o fa quello che la Bce gli dice, alla lettera e senza capricci, oppure fa saltare il tavolo». Il ricatto del debitore: se io vado in default, mi trascino dietro tutti, comprese le banche tedesche, così salta anche l’euro. Oppure: ristrutturiamo il debito senza ricatti e rivediamo tutti gli accordi, inziando a negoziare l’uscita dall’infame moneta unica.«La forza negoziale dell’Italia sta proprio nel fatto che è un grande debitore, con i suoi oltre 2.000 miliardi di debito», continua Giannuli. «La Ue e l’euro potrebbero resistere agevolmente a un default greco, pari a 300 miliardi, e forse potrebbero incassare anche un tracollo portoghese, ma un colpo da 2.000 miliardi è decisamente troppo». Si sa: un piccolo debito è un problema del debitore, ma un grande debito è un problema del creditore. Forse, a quel punto, «potrebbero accodarsi spagnoli, greci e portoghesi», insieme ai variegati movimenti “euroscettici”. «Dunque, la via sarebbe quella di sedersi tutti al tavolo e assumere il problema del debito come problema comune a debitori e creditori. Questo non è un tempo normale: la grande crisi chiede scelte radicali. Nel nostro caso, o servi della Troika o ribelli decisi a far saltare il tavolo, tertium non datur». Questo, però, «richiederebbe una intelligenza, una preparazione, un coraggio politico di cui non sospettiamo lontanamente Renzi». La sua «patetica impennata in difesa della sovranità nazionale» resta del tutto irrilevante. Il Fiorentino «sarà travolto prima di aver finito di parlare, ma quello che verrà dopo sarà anche peggiore: prepariamoci».«Come si sa, questo è un paese in cui le cose serie si decidono a ferragosto. Poi, al rientro, gli italiani trovano il piatto cotto in tavola». Fatti da parte, suggerisce Scalfari a Renzi, confermando l’allarme di De Bortoli sull’imminente arrivo della Troika, caldeggiato da Draghi. «E’ stato come se il travolgente successo alle europee, non solo non consacrasse la leadership di Renzi, ma quasi la indebolisse: arginato il M5S, Renzi non serve più», secondo Aldo Giannuli. «E il preannuncio del licenziamento è arrivato con la bacchettata di Draghi, che ha detto papale papale: “Caro Renzi, non mi incanti con la riforma del Senato, sono altre le riforme che devi fare” e, il sottinteso, neanche tanto dissimulato, era “altrimenti togliti di mezzo”». Renzi prima si è messo sull’attenti, poi ha tentato di dire che sulle riforme deciderà lui. «Povero illuso, non si rende conto di avere pochissime frecce al suo arco e di avere troppi avversari: gli americani lo detestano per le sue aperture a Putin, la Merkel non lo digerisce, la Buba gli darebbe fuoco, la finanza che sogna di avventarsi sul peculio berlusconiano non gli perdona il tentativo di salvare il Cavaliere, adesso ci si mette anche Draghi».
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Grazie a Renzi, anche l’Eni potrebbe lasciare l’Italia
Quello di Monti era il governo della Goldman Sachs. Quello di Letta, il nipote, era il governo dell’Aspen Institute. Per dire che erano entrambi molto orientati a fare gli interessi della finanza anglo-americana. Non a caso il governo Monti realizzò lo scorporo della Snam, che gestisce la rete di distribuzione del gas in Italia, dalla holding Eni. Una richiesta che era venuta «non soltanto dagli esponenti della canaglia liberista in Italia (legati mani e piedi agli ambienti di Wall Street e della City) ma anche da azionisti dell’Eni come il fondo di investimento americano Knight Winke, che si era assunto il ruolo di assillare il governo con tale questione che poi Monti aveva finito per risolvere a suo modo all’inizio del 2012». Anche Matteo Renzi, che nel 2009 il settimanale americano “Time” aveva definito “l’Obama italiano”, si è mostrato fedele alla linea “atlantica” e ha avviato le grandi manovre per mettere in vendita quote azionarie di società sotto controllo pubblico come Eni, Enel, Poste, Finmeccanica e Fincantieri, ma anche Enav, Cdp Reti, Rai Way e Stm.In particolare, scrive Giuliano Augusto su “Rinascita”, Renzi è intenzionato a vendere una quota del 5% di Eni ed Enel portando in tal modo la quota pubblica dal 30% al 25%. Attualmente l’Enel è controllato dal Tesoro con una quota del 31,244% mentre l’Eni è controllata al 26,369% dalla Cassa Depositi e Prestiti (il cui principale azionista è il Tesoro con l’80,1%) e dal Tesoro con il 3,94%. Collegata a queste operazioni c’è la questione dell’Opa obbligatoria che il Pd al governo vorrebbe fare scendere al 25% dall’attuale 30%, mentre il relatore del provvedimento alla Camera, Massimo Mucchetti, voleva portarla al 20%. Il che avrebbe obbligato il Tesoro e la Cassa Depositi e Prestiti a vendere la quota azionaria eccedente quella percentuale, sia che si tratti di quota diretta (Tesoro) che indiretta (Cdp). Obiettivo: tutelare «gli interessi esteri anglofoni». Renzi? «L’uomo giusto al posto giusto». Per la prima volta, nell’ente fondato da Enrico Mattei come leva strategica della rinascita italiana nel dopoguerra, i soci privati stranieri sono diventati maggioritari: potrebbero essere le premesse per trasferire l’Eni all’estero, «tanto per gettare le premesse di un futuro assorbimento da parte di un colosso concorrente come l’americana Exxon».«La linea di Renzi – scrive Augusto – è in buona sostanza quella di trasformare Eni, Enel e le altre società a controllo statale in “pubblic company”», società ad azionariato diffuso «nelle quali non ci sia più un socio di riferimento ma dove i tanti soci privati eleggano di volta in volta gli amministratori». Così, addio Eni sullo scenario internazionale, con buona pace di «qualsiasi possibilità dell’Italia di avere una politica energetica autonoma in Europa e nel mondo». Questa sarebbe la risposta dell’“amerikano” Renzi alle critiche venute dagli europei “atlantici” e dagli stessi Stati Uniti per l’eccessiva “simpatia” italiana verso la Russia di Putin? Il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, ha stimato in appena 10 miliardi il ricavato delle privatizzazioni (svendite). Soldi che sarebbero usati per coprire una parte irrisoria dell’enorme debito pubblico italiano. Tra le cessioni, la vendita a gruppi cinesi del 49% di CdP-Reti, società che controlla appunto la Snam. «Tra americani e cinesi cambia poco. Continua la colonizzazione del nostro paese».Quello di Monti era il governo della Goldman Sachs. Quello di Letta, il nipote, era il governo dell’Aspen Institute. Per dire che erano entrambi molto orientati a fare gli interessi della finanza anglo-americana. Non a caso il governo Monti realizzò lo scorporo della Snam, che gestisce la rete di distribuzione del gas in Italia, dalla holding Eni. Una richiesta che era venuta «non soltanto dagli esponenti della canaglia liberista in Italia (legati mani e piedi agli ambienti di Wall Street e della City) ma anche da azionisti dell’Eni come il fondo di investimento americano Knight Winke, che si era assunto il ruolo di assillare il governo con tale questione che poi Monti aveva finito per risolvere a suo modo all’inizio del 2012». Anche Matteo Renzi, che nel 2009 il settimanale americano “Time” aveva definito “l’Obama italiano”, si è mostrato fedele alla linea “atlantica” e ha avviato le grandi manovre per mettere in vendita quote azionarie di società sotto controllo pubblico come Eni, Enel, Poste, Finmeccanica e Fincantieri, ma anche Enav, Cdp Reti, Rai Way e Stm.
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Ledeen, l’amico americano che tiene al guinzaglio il Pd
Se ieri le nostre piazze saltavano in aria perché l’Italia era lo scudo occidentale contro il comunismo sovietico, e si doveva impedire a tutti i costi che il Pci di Berlinguer andasse al governo con Moro, oggi la situazione dello Stivale è persino peggiorata, dato il progressivo esaurimento delle risorse fossili. Questo spiega l’instabilità sul fronte est (lo scontro tra Usa e Russia in Ucraina) e quella sul fronte sud (il massacro di Gaza, motivato anche dall’enorme giacimento di gas, il “Leviatano”, nelle acque palestinesi). «Gli interessi geopolitici del “Gruppo di Georgetown” e del Mossad, quindi, sono identici», sostiene Stefano Ali, mentre «gli interessi economici e militari della destra conservatrice e interventista Usa in Italia sono sensibilmente incrementati», come dimostra l’installazione del Muos a Niscemi o anche l’insistenza sull’acquisto dei disastrosi F-35. «Continuiamo ad essere un paese anomalo, servo della Nato e solo apparentemente democratico, ad opera degli stessi spettri del passato». Da Kissinger a Renzi, passando per Michael Ledeen, indicato come consigliere-ombra del giovane premier per la politica estera.In un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, Ali evoca una lobby come il “Gruppo di Georgetown”, capitanato da quel Kissinger che definì Napolitano «il mio comunista preferito», corretto immediatamente da Napolitano (ex comunista, prego). «E Renzi. Matteo Renzi con la sua rete di amicizie internazionali, attraverso Marco Carrai. Davide Serra (con forti interessi in Israele e che porta in dote i legami con la Morgan Stanley), Marco Bernabè (sempre con Tel Aviv con il fondo Wadi Ventures e il padre, Franco, e le sue dorsali telefoniche Italia-Israele), Yoram Gutgeld (israeliano e suo consulente economico – porta in anche dote l’esperienza McKinsey di cui era socio anziano fino al marzo 2013)». Ma sopratutto Ledeen, cioè «la figura più inquietante», che «si allunga dietro tutte le stragi, tutti i depistaggi che hanno attraversato l’Italia e non solo». L’ammiraglio Fulvio Martini, all’epoca capo del Sismi, lo definì «non gradito all’Italia». Ledeen, racconta Ali, fu «sdoganato da Berlusconi appena giunto al potere», e così «imperversò nelle sue televisioni sotto la forma di “commentatore politico internazionale”».Secondo Ali, Ledeen è stato in grado di «ordinare a Matteo Renzi» la cessione degli aeroporti toscani al magnate argentino Eduardo Eurnekian. Secondo il blogger, «Henry Kissinger, Michael Ledeen e le strutture israeliane sono di nuovo (e da sempre) i padroni della scena». C’è chi dice che il Pd è la nuova Dc? Peggio: il partito fondato da Veltroni «ha ormai da tempo tradito le origini, ma con il binomio Renzi-Napolitano è diventato l’antitesi della storia della sinistra». Secondo Stefano Ali, «è l’erede di tutto quel fronte anticomunista che si asservì e asservì l’Italia alla destra conservatrice Usa di Kissinger e Ledeen e del Mossad». Il “muro di gomma” delle stragi impunite? Frutto del blocco di potere «“garante” della subalternità e della sottomissione dello Stato italiano agli interessi del “Gruppo di Georgetown”». Linea diretta coi rottamatori? «Per le referenze su Federica Mogherini, Renzi dice: “Chiedete a John Kerry”». L’esponente Pd fu «ammessa agli incontri segreti con agenti Usa sin dal 2006», scrive Ali, che illumina il retroterra del presunto potere occulto di ieri e di oggi basandosi anche sul testimonianze come quelle del senatore Giovanni Pellegrino, fino al 2001 presidente della Commissione Stragi, autore del libro-denuncia “Segreto di Stato”.«Ciò che può sembrare intreccio di fantascienza complottistica è solo il frutto di un lavoro certosino fatto dalla Commissione Stragi», avverte Ali. «Teniamolo sempre a mente, anche quando sembra di precipitare nelle allucinazioni ansiogene». Nella sua analisi, Pellegrino parte da una premessa ancora attuale: l’Italia non è mai stata una democrazia “normale”, perché – dal Trattato di Yalta – è stata sempre considerata “marca di frontiera”, al doppio crocevia est-ovest e nord-sud. Sovranità limitata: «Una specie di portaerei Nato nel Mediterraneo». A questo, oltre alla pesante presenza del Vaticano, si aggiunga «una spaccatura verticale interna, determinata da post-fascismo e post-Resistenza», tra italiani «anticomunisti» e italiani «antifascisti». Tutta la storia del dopoguerra, secondo Pellegrino, va interpretata in quest’ottica. E’ per questo che certi fili non si spezzano: l’attuale capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda, figlio dell’ex capo della polizia e allora giornalista dell’“Espresso”, secondo un report del Sisde risalente al lontano 1984 ebbe «rapporti molto stretti» con Ledeen, dopodiché fu promosso consigliere di amministrazione dell’“Editoriale L’Espresso” e ricoprì l’incarico di addetto stampa di Francesco Cossiga durante il sequestro Moro. Stefano Ali parla di connessioni sotterranee con la P2, che faceva da tramite col super-potere Usa, di cui il Mossad israeliano sarebbe stato un braccio operativo nella stagione della strategia della tensione, fra attentati e depistaggi.Se la stagione della guerra fredda aveva permesso lo sviluppo della cosiddetta “Gladio Rossa”, formata da “Lotta Continua”, “Potere Operaio” e le prime Brigate Rosse, fino cioè all’arresto di Curcio e Franceschini, «con la svolta parlamentare del Pci, l’isolamento di Secchia e soprattutto la morte di Feltrinelli», di fatto l’eversione “rossa” «si dissolse, per confluire nelle Brigate Rosse», che però finirono sotto il controllo di Mario Moretti, scampato alla retata che fruttò la cattura dei fondatori grazie a Silvano Girotto, in arte “Frate Mitra”, un classico infiltrato. Da quel momento, scrive Ali, al di là della facciata “di sinistra” delle Br di Moretti, «connotazione ideologica utilizzata solo per fomentare i militanti», i vertici delle strutture “eversive” passarono – tutti – sotto il controllo «degli ambienti della destra repubblicana Usa». Versione controversa: secondo altri analisti, rimase forte anche l’influenza dell’Urss, attraverso la Stasi, l’intelligence della Germania Est. L’Italia, in ogni caso, era un campo di battaglia. E gli attori – sulla sponda occidentale – sono ormai noti. La notizia? Un vecchio arnese come Ledeen, molto «vicino» a Zanda in quegli anni secondo il Sisde, è un super-consigliere di Renzi.«Mossad e destra repubblicana Usa – continua Ali – erano già riusciti a instaurare (in Grecia, Spagna e Portogallo) regimi fascisti». Le stragi italiane, fino al 1969 dovevano quindi servire «affinché, nel dicembre del 1969, Mariano Rumor dichiarasse lo “stato d’emergenza” che ne consentisse l’instaurazione anche in Italia». Rumor, però, non dichiarò lo stato d’emergenza. E il tentato “golpe Borghese” del 1970 fu l’ultimo tentativo, anche quello andato a vuoto. «Da notare che già dagli anni ‘60 la P2 di Gelli era molto attiva: con la sua rete di iscritti soprattutto nelle forze armate e nei servizi segreti, era nelle condizioni di garantire tutta la copertura necessaria». Secondo Ali, da vari documenti risulta che Kissinger e Ledeen «fossero iscritti alla P2 nel “Comitato di Montecarlo” (o “Superloggia”)», un “braccio” della P2 «che si occupava di traffico internazionale di armi e al quale venne fatta risalire in modo diretto l’organizzazione della strage di Bologna». Se Gelli era «solo una sorta di segretario», significa che «le “menti” stavano altrove». Il vero leader? Rimasto nell’ombra, fino ad oggi. In compenso, conclude Ali, molti nomi di allora sono rimasti al loro posto. E qualcuno, oggi, è vicinissimo al governo Renzi. Pronti a tutto, nel caso gli eventi precipitassero in Ucraina con l’offensiva Usa contro la Russia di Putin?Se ieri le nostre piazze saltavano in aria perché l’Italia era lo scudo occidentale contro il comunismo sovietico, e si doveva impedire a tutti i costi che il Pci di Berlinguer andasse al governo con Moro, oggi la situazione dello Stivale è persino peggiorata, dato il progressivo esaurimento delle risorse fossili. Questo spiega l’instabilità sul fronte est (lo scontro tra Usa e Russia in Ucraina) e quella sul fronte sud (il massacro di Gaza, motivato anche dall’enorme giacimento di gas, il “Leviatano”, nelle acque palestinesi). «Gli interessi geopolitici del “Gruppo di Georgetown” e del Mossad, quindi, sono identici», sostiene Stefano Ali, mentre «gli interessi economici e militari della destra conservatrice e interventista Usa in Italia sono sensibilmente incrementati», come dimostra l’installazione del Muos a Niscemi o anche l’insistenza sull’acquisto dei disastrosi F-35. «Continuiamo ad essere un paese anomalo, servo della Nato e solo apparentemente democratico, ad opera degli stessi spettri del passato». Da Kissinger a Renzi, passando per Michael Ledeen, indicato come consigliere-ombra del giovane premier per la politica estera.
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Andreotti, Vanna Marchi e ora il Tamarro di Firenze
Questo presidente del Consiglio ha uno stile molto personale: una miscela fra Fanfani, Andreotti, Berlusconi e Vanna Marchi, con un tocco tamarro molto particolare. Di Fanfani ha l’attivismo frenetico e fine a sé stesso, ma non l’ideazione politica; di Andreotti il cinismo, ma non la raffinata perfidia; di Berlusconi l’ineguagliabile faccia tosta, ma non il tempismo (essere frenetici non significa necessariamente essere tempisti). Di Vanna Marchi ha la comunicativa dell’imbonitore televisivo, ma gli manca… gli manca… No: mi pare che non manchi nulla. Quanto al coefficiente di tamarraggine, fate voi. La cifra stilistica vantata è quella della velocità: Renzi è veloce, fa in un mese quello che altri non hanno fatto in vent’anni. Poi dopo un mese, due mesi, tre mesi non è successo niente? Non c’è problema: annunciamo un’altra “riforma” che faremo nel mese prossimo.In realtà lui è un grande illusionista, sa creare come nessun altro l’illusione di un attivismo insonne e turbinoso. E questo tratto si confonde con quello dell’arroganza del provinciale toscano che, però, è di più di quel che sembra. In lui l’arroganza non è solo un aspetto del tratto personale più o meno sgradevole, è di più: è una forma di comunicazione politica e uno strumento di governo. In questo modo lui dà l’immagine del leader diverso dagli altri, informale, sbrigativo, deciso (e pazienza se questo comporta un discreto tasso di maleducazione). Ma è anche un modo per dribblare gli avversari. Se ci fate caso, non risponde mai nel merito alle obiezioni rivoltegli, ma punta solo a squalificare l’interlocutore: contesti argomentatamente le sue idee di riforma? Sei contro le riforme, sei un gufo, sei contro il cambiamento e vuoi lasciare tutto com’è.Trovi discutibili il suo modo di porsi verso la Ue? Sei antitaliano, indebolisci la posizione del paese verso la Merkel. Critichi le sue posizioni troppo morbide verso Israele, anche di fronte al massacro di Gaza? Sei antisemita. Non condividi la scelta della Mogherini come mister Pesc o ti scappa da ridere di fronte alla candidatura della Pinotti al Quirinale? Sei misogino, non vuoi l’affermazione delle donne in politica. E via di questo passo, attingendo a piene mani a quell’immenso serbatoio di stupidità che è il “politicamente corretto”, una delle grandi patologie del nostro tempo. Abilissimo a sfruttare qualche gaffe di suoi avversari, come quando Mineo disse che gli sembrava un autistico («Lascia stare i ragazzi autistici, che sono il dramma di migliaia di famiglie, prenditela con me»), come se Mineo, al di là della scelta del termine, se la fosse presa con qualche altro.Con questa tecnica, da giullare fiorentino, riesce sia a mascherare la sua ben modesta cultura, sia ad evitare un dibattito politico reale che non saprebbe reggere. Tutto diventa una questione di velocità o lentezza, di decisione o immobilismo, senza mai entrare nel merito delle riforme proposte che, in fondo, potrebbero anche essere sbagliate. Ma questo è un dubbio che non lo sfiora; anzi, Renzi proprio non ha dubbi mai. Il suo stile da leader carismatico alla “ribollita” è il prodotto dell’innesto delle due culture politiche originarie del Pd: quella democristiana e quella pcista. Dallo scudo crociato ha ereditato l’ipocrisia, l’assoluta slealtà sino ai limiti del cannibalismo (l’altro democristiano, Enrico Letta, ne sa qualcosa); dalla radice pcista ha ereditato lo stalinismo – che delegittima e criminalizza ogni dissenso – e la faziosità spinta sino al limite dell’assoluta disonestà intellettuale. Dalla Dc non ha ereditato il senso della mediazione (che non saprebbe fare). Dal Pci non ha ereditato il senso strategico della politica. E questo sarebbe il nuovo che il Pd ci propone… Carramba che sorpresa!(Aldo Giannuli, “Lo stile di Renzi”, dal blog di Giannuli del 29 luglio 2014).Questo presidente del Consiglio ha uno stile molto personale: una miscela fra Fanfani, Andreotti, Berlusconi e Vanna Marchi, con un tocco tamarro molto particolare. Di Fanfani ha l’attivismo frenetico e fine a sé stesso, ma non l’ideazione politica; di Andreotti il cinismo, ma non la raffinata perfidia; di Berlusconi l’ineguagliabile faccia tosta, ma non il tempismo (essere frenetici non significa necessariamente essere tempisti). Di Vanna Marchi ha la comunicativa dell’imbonitore televisivo, ma gli manca… gli manca… No: mi pare che non manchi nulla. Quanto al coefficiente di tamarraggine, fate voi. La cifra stilistica vantata è quella della velocità: Renzi è veloce, fa in un mese quello che altri non hanno fatto in vent’anni. Poi dopo un mese, due mesi, tre mesi non è successo niente? Non c’è problema: annunciamo un’altra “riforma” che faremo nel mese prossimo.
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La tripletta di Renzi: Italia senza Senato, Unità e Fiat
Renzi pensa molto di sé ma neppure lui avrebbe creduto a un simile colpo: liberare l’Italia negli stessi giorni, del Senato, dell’Unità e della Fiat. Non era facile perché non c’è apparente legame fra i tre grandi scomparsi, una istituzione, un giornale-memoria e una azienda che, da sola, rappresentava e garantiva l’Italia come paese industriale. Non ditemi che mettere insieme le tre chiusure (o partenze per sempre) è solo una trovata polemica. Renzi è bravo, come dicono tutti (chiamandolo continuamente Matteo perché è così giovane, e dandogli ideali pacche sulle spalle) e se si chiude il Senato è solo per una sua decisione (il perché, dovremo estrarlo dalle macerie); se chiude l’“Unità”, ciò che resta di un pezzo glorioso del suo partito, è perché tutto quel passato di altri gli dà noia; se se ne va la Fiat, un esodo unico in Europa e mai accaduto in un grande paese, è perché il suo disinteresse per ciò che non controlla – o lui o la Boschi – lo innervosisce e, francamente, non gli interessa.Nella loro diversa pesantezza e dimensione, tutti e tre gli eventi hanno un loro aspetto non chiaro (e anzi, misterioso) e stupisce che così tanta parte dei media italiani si prestino a celebrare due degli eventi e a ignorare il terzo. Nonostante la memoria corta di un mondo su cui piovono Twitter e hashtag come la cenere dopo Hiroshima, credo che si ricorderà la fine del Senato. Perché non se ne conosce la ragione; perché c’erano cose ben più urgenti da fare; perché ha sradicato in modo rozzo e violento i molti legami, ascendenze e conseguenze nella Costituzione; perché, come ha detto bene, chiaro e al momento giusto, il capogruppo di Forza Italia Paolo Romani, questa legge porta due firme: quella di Matteo Renzi e quella di Silvio Berlusconi. Lo testimonia un’immagine destinata a restare come quelle dei Marines di Iwo Jima: Maria Rosaria Rossi, di casa Berlusconi, abbraccia Maria Elena Boschi, di casa Renzi, con il furore femminile di poche grandi occasioni della vita.La commenta bene, in un desolato e bellissimo testo, sul “Corriere della Sera” (7 agosto) Corrado Stajano: «Perché, ci si chiede, discutere della legge fondamentale della Repubblica in modo così affannoso e dilettantesco, con il ritmo di una tappa a cronometro su pista, tra minacce e blandizie?». Nell’entusiasmo del momento si erano persino dimenticati che Giorgio Napolitano, a un certo momento, avrebbe dovuto diventare senatore a vita. E la Finocchiaro è dovuta correre indietro a inserire un’eccezione per ex presidenti della Repubblica, che restano d’ora in poi i soli senatori a vita. Ma dove? Nel festoso suk di portatori di interessi nominati dalle Regioni.Intanto Renzi ha chiuso “L’Unità”. Ma quando mai?, ti direbbero al Nazareno, se ti accogliessero e non temessero che qualcuno gli guardi le carte sul tavolo. “L’Unità”, ti direbbero, ha finito la corsa, punto e basta. Svelto com’è, Renzi non ha neanche perduto tempo a verificare se e come l’organo del Partito Democratico svolge il suo ruolo. Sì, qualche volta avrà notato con la coda dell’occhio, che non era tutto scritto da lui, che non c’entrava, neppure dopo anni di Ds e poi di Pd remissivo e sempre pronto a qualche pacificazione, con la nuova vita insieme, lui e Berlusconi, Berlusconi e lui. Non tutti cambiano radicalmente in una o due assemblee, come i membri di direzione del suo partito. Dopo tutto quel giornale ha mai aperto con grande foto del sorriso fisso sulla non realtà della Boschi o della incompetente e dannosa gentilezza della Madia?Diciamo la verità: il giornale stava nei ranghi ma non lo aveva ancora portato in trionfo. E poi, a certe scadenze, veniva fuori con certi ricordi e immagini e voci di cui non senti il bisogno, mentre condividi questa nuova Italia rinnovata e pacificata con Berlusconi. Intanto se i competenti del mondo fanno notare le tue disattenzioni economiche e il rischio grave dell’Italia, sei già circondato di “grandi giornali” italiani detti indipendenti che si occupano di non dirlo. Infine deve avere notato che nessuno, anche tra i più miti redattori dell’“Unità”, era mai stato boy scout. Renzi ha imparato solo la prima parte del celebre motto: “Tutti per uno”. È svelto, e passa subito alla conclusione: chiudere, e farla finita, come gli dice Verdini da un pezzo, con la paccottiglia comunista. La Fiat, che era l’immagine dell’Italia industriale nel mondo e il punto di riferimento per l’industria italiana (se lo fa la Fiat, come fa la Fiat…) si è sfilata con agilità dalle tasse (paga a Londra), dai legami con l’Italia (ha sede amministrativa e legale in Olanda) e dalla produzione (che ha luogo alla periferia di Detroit).Di fronte a un evento di tale enormità i politici non c’erano, non al Parlamento di una o due Camere, non al governo. Renzi lavorava a cambiare verso, a cambiare l’Italia, a forgiare le riforme che tracciano qualche solco ma non si sa per dove. Anche perché gli hanno portato a Palazzo Chigi tre immensi gipponi, che sarebbero destinati alla produzione italiana (famosa nel mondo per la Cinquecento, ricordate?). Ma la produzione italiana non esiste. Piani, progetti e investimenti sono stati tenuti fermi. E gli operai della Fiat, noti nel mondo per il loro lavoro, ora sopravvivono in buon numero con la cassa integrazione di questa Repubblica, mentre la Casa Tudor-Marchionne paga al governo inglese. Renzi? Per lui va bene. Il paese gli sembra più fresco, più giovane. Senza Fiat, senza “Unità”, senza Senato, lui ci ha riportati come bambini al mattino di una giornata che ci promette bellissima. Se righiamo dritto, senza ostruzionismi e senza menarla sulla Costituzione.(Furio Colombo, “Renzi, la tripletta: via Senato, Unità e Fiat”, da “Il Fatto Quotidiano” dell’11 agosto 2014).Renzi pensa molto di sé ma neppure lui avrebbe creduto a un simile colpo: liberare l’Italia negli stessi giorni, del Senato, dell’Unità e della Fiat. Non era facile perché non c’è apparente legame fra i tre grandi scomparsi, una istituzione, un giornale-memoria e una azienda che, da sola, rappresentava e garantiva l’Italia come paese industriale. Non ditemi che mettere insieme le tre chiusure (o partenze per sempre) è solo una trovata polemica. Renzi è bravo, come dicono tutti (chiamandolo continuamente Matteo perché è così giovane, e dandogli ideali pacche sulle spalle) e se si chiude il Senato è solo per una sua decisione (il perché, dovremo estrarlo dalle macerie); se chiude l’“Unità”, ciò che resta di un pezzo glorioso del suo partito, è perché tutto quel passato di altri gli dà noia; se se ne va la Fiat, un esodo unico in Europa e mai accaduto in un grande paese, è perché il suo disinteresse per ciò che non controlla – o lui o la Boschi – lo innervosisce e, francamente, non gli interessa.
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Sicilia, futura Wall Street (ma la mafia non lo capisce)
La Mafia, se non fosse composta da qualche migliaio di culi di pecora col cervello del retto di una pecora, farebbe le seguenti cose: A) La Mafia capisce (intendo i giovani istruiti mafiosi, non quei cervelli prostate di capra che sono oggi i tradizionali capi) che la Sicilia è posizionata nel canale di intermediazione finanziaria più importante del mondo. Quella fra Africa e Occidente. Ci sono 2 colossali business del futuro, indiscutibilmente, roba di proporzioni tali da far impallidire il petrolio e i Mercati: l’Agroalimentare (destinato all’Occidente) che Cina, Arabia Saudita, Corea et al. stanno sviluppando in Africa con progetti agricoli delle dimensioni del Belgio, ipertecnologici, (ritorni finanziari di un minimo del 7% fino al 24%, di media, roba che non esiste una equity o un titolo in tutto il mondo che ti renda questi soldi); e i mega-progetti energetici come la Inga-3 del Congo, ma moltissimi altri del genere. La Cina e gli Usa ci si stanno buttando a capofitto, ma pensate al giorno in cui l’Europa si accorgerà che il futuro dei mega-soldi è nello sviluppo dell’Africa.Bene, la Sicilia dove sta? Proprio sulle soglie della più grande ricchezza del futuro, fra l’Africa e l’Occidente, al confine marittimo. Saranno decine di migliaia di aziende mondiali che nei prossimi 200 anni si accavalleranno disperatamente per arrivare nel business Africa. Ok, la Mafia la pianta di vivere di puzzette come prostitute, armi, droga e appalti da Topolino, e si mette la cravatta, manda i suoi alla Bocconi, e infine fa della Sicilia la Wall Street più importante del mondo. Cioè…. Fa banche! Fa servizi finanziari! Fa ponti finanziari fra l’Europa e il megabusiness dell’Africa. Cioè, la piantate di fare le puzze di capra a Roma coi puzzoni di Palazzo Chigi, e fate i veri soldi. Come dire… fate a Palermo o a Messina delle Goldman Sachs che invece di avere come Ceo Lloyd Blankfein e altri, hanno un tal Ciro Roccomanno, o una Rosanna Maniscalco. E pagate le vostre tasse, e date da lavorare a TUTTA LA SCILIA, e la Dia non vi rompe più i coglioni, e fate 30.000 (trentamila) volte i soldi che fate oggi coi vostri traffici di armi, puzze, pizzini, prostitute, barconi di disperati, e appalti dei Puffi. Lo capite o no, stolti mafiosi? E’ quello che fece la malavita inglese negli anni ‘50, passando dalla puzza di cui sopra alla City di Londra. La City, sapete cos’è?B) Investite nella bellezza della Sicilia. Per il turismo di tutto il mondo le Maldive diventerebbero un laghetto di pesca sportiva confronto alla Sicilia, che se abbellita, curata, attrezzata, sarebbe il Paradiso delle vacanze del Pianeta. E voi, coi vostri soldi puliti – senza prostitute, armi vendute a psicopatici in giro per il mondo, senza pizzo alle vedove, senza puzze di questo genere – investirete nella più bella isola del mondo. E il Roe (il “return on equities”) sarà 2.000 volte quello che avete oggi dalla puzza in cui sguazzate, senza avere la Dia, la polizia, e ogni sorta di scocciatura alle calcagna. Senza dare, come dovete fare adesso, alle griffe di moda internazionali 400 milioni di cui vi riciclano 200 e gli altri li buttate al cesso aprendo un megastore a Singapore (in cui non compra nessuno). Cara Mafia, sveglia. E’ tempo che i vostri rampolli mandino in pensione le prostate di capra di 70 anni che ancora vi governano e che facciate… BUSINESS. E Wall Street guarderà a Palermo o a Catania con un metro di lingua fuori dalla bocca.Non avete mai capito nulla, signori capi mandamento. I soldi, quelli tanti e veri e tranquilli, si fanno in finanza, con la faccia alla luce del sole, con tante bella fondazioni e ASSICURAZIONI (tipo Carisbo? o Monte dei Paschi? Unipol?) e con la sicurezza che né lo Stato né il pubblico, vi obiettino nulla. Anzi, con la certezza che, se le cose vi vanno male, lo Stato e la Bce interverranno per salvarvi il deretano. Con la certezza che l’Europa manderebbe a puttane centinaia di milioni di famiglie e aziende – CON UN BEL TRATTATO LEGALE – per salvarvi il deretano. Non so se voi, capi mandamento puzzoni, avete mai sentito parlare di Ltro per le banche o di Tremonti? Voi oggi ci smenate la paghetta, confronto a quello che Draghi farebbe per voi se diventaste banche, puliti, con la cravatta, come Unicredit? Intesa? Ubi? Lo sapete che alle banche Usa e Ue dal 2007 sono stati regalati 14.000 miliardi di dollari? Quanto fate voi, Camorra, Mafia, ‘Ndrangheta e altre puzze messe assieme all’anno? 100 miliardi? Dai, siete agli spiccioli del caffè, ma dai… Cristo, mafiosi, ma siete proprio idioti. Non avete capito un cazzo di soldi. Ma c’è un p.s. (Ps: Mafia, rimani quello che sei, perché come sei fai diecimila volte meno danni della finanza che ho descritto, e del Pd, di De Benedetti, di Saviano, di Benigni, o di Renzi – i paggi del Vero Potere qui da noi. Dammi un pizzo tutti i giorni, piuttosto che un Padoan o un Marco Buti).(Paolo Barnard, “Lettera alla Mafia: per favore, rimani Mafia”, dal blog di Barnard del 6 agosto 2014).La Mafia, se non fosse composta da qualche migliaio di culi di pecora col cervello del retto di una pecora, farebbe le seguenti cose: A) La Mafia capisce (intendo i giovani istruiti mafiosi, non quei cervelli prostate di capra che sono oggi i tradizionali capi) che la Sicilia è posizionata nel canale di intermediazione finanziaria più importante del mondo. Quella fra Africa e Occidente. Ci sono 2 colossali business del futuro, indiscutibilmente, roba di proporzioni tali da far impallidire il petrolio e i Mercati: l’Agroalimentare (destinato all’Occidente) che Cina, Arabia Saudita, Corea et al. stanno sviluppando in Africa con progetti agricoli delle dimensioni del Belgio, ipertecnologici, (ritorni finanziari di un minimo del 7% fino al 24%, di media, roba che non esiste una equity o un titolo in tutto il mondo che ti renda questi soldi); e i mega-progetti energetici come la Inga-3 del Congo, ma moltissimi altri del genere. La Cina e gli Usa ci si stanno buttando a capofitto, ma pensate al giorno in cui l’Europa si accorgerà che il futuro dei mega-soldi è nello sviluppo dell’Africa.
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Elezioni ad personam, Renzi e Silvio ladri di democrazia
Nell’accordo piduista Renzi-Berlusconi, benedetto da Napolitano, c’è molto di peggio che non il Senato dei nominati (il Senato andava semplicemente abolito e contemporaneamente il numero dei deputati portato a cento). Il vero elemento golpista del patto piduista del Nazareno è costituito invece dalla legge elettorale, che consentirà a una forza di minoranza un controllo totale non solo del legislativo ma anche delle istituzioni di garanzia: presidenza della Repubblica e Corte Costituzionale. Nell’ambito di questa legge elettorale super-truffaldina e micidiale per la democrazia, l’elemento più grave è dato dalla vera e propria istigazione a delinquere rappresentata dall’incentivo alla presentazione di liste locali di clientelismo mafioso e liste nazionali di indecenza corporativa. Sarà infatti vantaggioso presentare liste che non hanno alcuna possibilità di eleggere un deputato ma che concorreranno alla somma dei voti con cui la coalizione potrà ottenere i premi di maggioranza truffaldini.Liste improbabili e impensabili in paesi civili, ma che nelle prossime elezioni saranno presenti davvero, tipo la lista “Forza Dudù”, che Berlusconi ha già fatto sottoporre a test dalla sua sondaggista di fiducia, con raccapriccianti esiti positivi. E altrettanto vantaggioso sarà presentare in ogni circoscrizione liste di mozzaorecchi locali coalizzate con i partiti principali dell’uno o dell’altro schieramento, liste che sul piano nazionale conteranno per lo zero virgola qualcosa ma su quello locale possono anche raggiungere consensi a due cifre. Basterà perciò avere una lista di clientelismo locale affaristico e/o mafioso in ogni circoscrizione e l’incremento nazionale per una coalizione potrebbe toccare il 10 per cento! Di questo sconcio che fomenterà una vera e propria metastasi letale per la democrazia, i gettonatissimi politologi di establishment alla D’Alimonte & Co. nulla dicono, vuoi perché nella loro insipienza non se ne sono neppure accorti, vuoi perché lo sanno ma establishment oblige.Eliminare la possibilità che questi due tipi di lista possano concorrere alla somma dei voti delle coalizioni è imprescindibile se non si vuole portare a dismisura lo sfregio alla democrazia che comunque questa legge elettorale realizzerà. Dovrebbe perciò essere obiettivo primario delle opposizioni, e innanzitutto del M5S che resta l’unica attuale opposizione effettiva all’establishment (Lega e Sel ne fanno sontuosamente parte), imporre un emendamento che stabilisca la soglia minima di voti (due o tre per cento a livello nazionale, meglio ancora il quattro o la soglia che verrà stabilita per avere deputati) al di sotto della quale una lista non concorre alla determinazione della somma di una coalizione. È una battaglia di elementare civiltà, ma è anche una battaglia che può essere vincente, perché sarà difficile perfino per i pasdaran dell’inciucio Berlusconi-Renzi difendere una norma di così sfacciata valenza clientelar-affaristico-mafiosa.E tale battaglia avrà l’ulteriore effetto virtuoso, se condotta con l’intransigenza doverosa e anche con il sacrosanto can-can dell’ostruzionismo parlamentare più chiassoso e mediaticamente pagante, di sbattere in faccia agli italiani che ancora si illudono del carattere riformista del governo Renzi e magari imputano al M5S di saper dire solo dei “no”, come il “fare” del governo sia sempre più spesso la prosecuzione, perfino allargata, delle “porcate” dell’epoca berlusconiana (altro che rottamazione!) e come l’opposizione sappia invece essere propositiva e radicale: unica forza davvero riformista. Infine, è incomprensibile come una tale battaglia non l’abbiano già lanciata “dissidenti” del Pd come Casson e Mucchetti, che pure hanno alzato le barricate per ignominie assai meno ignominiose.(Paolo Flores d’Arcais, “Contro l’inciucio Renzi-Berlusconi c’è una battaglia che si può vincere subito”, da “Micromega” del 4 agosto 2014).Nell’accordo piduista Renzi-Berlusconi, benedetto da Napolitano, c’è molto di peggio che non il Senato dei nominati (il Senato andava semplicemente abolito e contemporaneamente il numero dei deputati portato a cento). Il vero elemento golpista del patto piduista del Nazareno è costituito invece dalla legge elettorale, che consentirà a una forza di minoranza un controllo totale non solo del legislativo ma anche delle istituzioni di garanzia: presidenza della Repubblica e Corte Costituzionale. Nell’ambito di questa legge elettorale super-truffaldina e micidiale per la democrazia, l’elemento più grave è dato dalla vera e propria istigazione a delinquere rappresentata dall’incentivo alla presentazione di liste locali di clientelismo mafioso e liste nazionali di indecenza corporativa. Sarà infatti vantaggioso presentare liste che non hanno alcuna possibilità di eleggere un deputato ma che concorreranno alla somma dei voti con cui la coalizione potrà ottenere i premi di maggioranza truffaldini.
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Eutanasia dell’Italia, aspettando l’inferno della Troika
Verrà la Troika e avrà i miei occhi, sembra dire Eugenio Scalfari, che forse trascura l’ultima tragica battuta del “Tamburo di latta”, memorabile film sulla Germania nazista: eravamo un popolo di ingenui, credevamo fosse Babbo Natale e invece quello che bussava alla porta era l’Uomo del Gas. La Troika, peggio dell’orco delle fiabe nere: il braccio armato dell’élite tecno-finanziaria che sta scassinando gli Stati europei riducendoli in miseria e portandogli via tutto. Più che fantascienza, un film dell’orrore. Tutto avviene nella quasi-indifferenza generale. Le televisioni, 24 ore su 24, propongono l’anonimo volto del carneade Renzi, la sua predicazione imbarazzante a cui – questa la notizia – ha creduto, forse per disperazione, il 40% dei votanti alle ultime europee. Lo stellone italiano, Babbo Natale. Ma a bussare alla porta, avverte Ferruccio De Bortoli, sarà proprio lui, l’Uomo del Gas. L’avrebbe confidato ad amici, hanno scritto. Manovra lacrime e sangue in autunno, con prelievo forzoso dai conti correnti degli italiani. Poi, comunque, arriverà la falce della Troika: l’Italia sarà commissariata come la Grecia.Un incubo, annacquato ogni giorno da polemiche minute – la distriba sugli 80 euro, le schermaglie parlamentari – mentre il paese affonda ogni giorno di più. E il peggio è che affonda senza neppure l’onore di una diagnosi con dignità politica, con piena cittadinanza in Parlamento. L’Italia, dicono ormai tutti gli analisti economici indipendenti, sta morendo per un motivo elementare: qualcuno, tra Berlino e Bruxelles, ha deciso di assassinarla. L’arma letale si chiama euro, il killer che la impugna si chiama Troika. Ogni possibile restrizione di bilancio – il pareggio obbligatorio, il tetto del 3%, il Fiscal Compact, la mannaia sulla spesa pubblica vitale – è direttamente riconducibile all’euro. Altre spiegazioni non reggono, eppure c’è ancora chi si attarda in chiacchiere su mafia e corruzione, evasione fiscale e auto blu. Se anche suonassero le sirene antiaeree, nessuno le sentirebbe. Non una sola formazione politica è stata capace di organizzare un fronte culturale, una mobilitazione trasversale, nonostante l’emergere ormai dilagante – non nel mainstream, però, ma solo nelle catacombe del web e nelle assemblee porta a porta – di voci autorevoli di esperti, economisti, ex ministri, intellettuali ed ex dirigenti dello Stato, tutti a dire che l’Eurozona è semplicemente demenziale, criminale, insostenibile. E non è stato un incidente, ma un disegno.Scalfari addirittura la invoca, la Troika, confermando – involontariamente – l’allarme lanciato da De Bortoli, che ha già concordato l’abbandono della direzione del “Corriere della Sera”. Renzi, dal canto suo, sembra in gara col Mostro: taglia il Senato, amputa la democrazia elettorale, predispone la più colossale privatizzazione della storia italiana. Forse, semplicemente, tenta di convincere il Mostro a tenersi lontano dall’Italia: se saranno gli italiani a suicidarsi da soli, forse sarà meno doloroso. Siamo a questo? Letture critiche si intrecciano un po’ ovunque, sui blog. L’ok al mostruoso Juncker? Un boccone alla belva Merkel, per tenerla buona. La battaglia europea per la Mogherini, ben relazionata con Kerry? Un messaggio: confidiamo nella protezione americana contro gli abusi disumani dell’asse franco-tedesco. Realpolitik compensativa: silenzio sulla macelleria di Gaza e su quella in Ucraina progettata da Obama, e avanti tutta con l’adesione al Ttip, il Trattato Transatlantico, negoziato in segreto, che potrebbe segnare la fine del made in Italy. «Renzi è la rovina dell’Italia», avrebbe detto De Bortoli. Senza spiegare, peraltro, chi ne sarebbe la salvezza.Verrà la Troika e avrà i miei occhi, sembra dire Eugenio Scalfari, che forse trascura l’ultima tragica battuta del “Tamburo di latta”, memorabile pellicola sulla Germania nazista: eravamo un popolo di ingenui, credevamo fosse Babbo Natale e invece quello che bussava alla porta era l’Uomo del Gas. La Troika, peggio dell’orco delle fiabe nere: il braccio armato dell’élite tecno-finanziaria che sta scassinando gli Stati europei riducendoli in miseria e portandogli via tutto. Più che fantascienza, un film dell’orrore. Tutto avviene nella quasi-indifferenza generale. Le televisioni, 24 ore su 24, propongono l’anonimo volto del carneade Renzi, la sua predicazione imbarazzante a cui – questa la notizia – ha creduto, forse per disperazione, il 40% dei votanti alle ultime europee. Lo stellone italiano, Babbo Natale. Ma a bussare alla porta, avverte Ferruccio De Bortoli, sarà proprio lui, l’Uomo del Gas. L’avrebbe confidato ad amici, hanno scritto. Manovra lacrime e sangue in autunno, con prelievo forzoso dai conti correnti degli italiani. Poi, comunque, arriverà la falce della Troika: l’Italia sarà commissariata come la Grecia.
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De Bortoli: rischio prelievo forzoso, poi arriverà la Troika
Crescita giù, conti pubblici a rischio. Renzi? «La rovina dell’Italia», secondo quanto Ferruccio De Bortoli, direttore del “Corriere della Sera”, avrebbe confidato ad amici. Secondo De Bortoli, il governo Renzi sarà “costretto” a varare in autunno una manovra “lacrime e sangue” da 20 miliardi, cui seguirà la resa sostanziale alla Troika Ue, formata da Commissione Europea, Bce e Fmi, pronta a “mettere le mani nelle tasche degli italiani” anche con un prelievo forzoso dai conti correnti. Che le cose non stiano andando bene, scrive il newsmagazine “Investire Oggi”, lo si capisce dall’intervista che il premier ha rilasciato a “La7” a fine luglio, nella quale ha ammesso che sarà difficile centrare l’obiettivo di crescita dello 0,8% per quest’anno. Tuttavia, il premier ha aggiunto che una crescita dello 0,4% piuttosto che dello 0,8% o dell’1,5% sarebbe «indifferente», perché nulla cambierebbe nella vita ordinaria delle persone. «Se a fare la battuta non fosse il capo di un governo, ci sarebbe da ridere».L’Italia sta precipitando nell’abisso infernale dell’Eurozona: difficile immaginare che per un’economia il cui Pil è del 9% più basso di quello del 2007 e che presenta una disoccupazione prossima al 13%, una crescita zero o una dell’1,5% sia uguale. Comunque sia, perfino Renzi è costretto alle prime ammissioni. Scenario confermato peraltro dal Fmi, secondo cui la crescita italiana per il 2014 non supererebbe lo 0,3%, mentre Bankitalia e Confindustria sono ancora più pessimiste, fermandosi allo 0,2%. Anche l’Istat avverte che la “ripresa” potrebbe non esserci stata nemmeno nel secondo trimestre. «Ormai – scrive Investire Oggi” – non esiste un serio analista che non preveda la necessità di una manovra correttiva a settembre». Per Jp Morgan e Mediobanca, la stangata sarà nell’ordine di 20 miliardi di euro, «che è anche la stessa cifra di cui si parla a porte chiuse nel Pd». Una mazzata secca: «Si vocifera che il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, stia pensando a un prelievo sugli assegni pensionistici oltre i 3 mila euro all’anno».Secondo alcuni media, poi, alla manovra-tagliola crede anche Ferruccio De Bortoli, che ormai teme la possibile adozione del provvedimento più brutale – il prelievo forzoso – che precederebbe il commissariamento definitivo dell’Italia da parte della Troika europea. Sempre secondo “Investire Oggi”, dello stesso parere sarebbe il super-banchiere Giovanni Bazoli, presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa-Sanpaolo, a sua volta azionista in Rcs, il gruppo editoriale che controlla il “Corriere”. «Potremmo declassare le affermazioni di De Bortoli a semplice sfogo, a boutade, a esagerazioni del tutto personali e senza fondamento», precisa “Investire Oggi”, «ma stiamo parlando non solo del numero uno del principale quotidiano italiano, bensì di colui che gestisce l’organo di informazione dei salotti buoni italiani, che ha perfetta percezione di cosa pensi la finanza nazionale e internazionale». E quindi, «se De Bortoli arriva ad affermare che ci sarà una maxi-manovra da 20 miliardi, che sarà effettuato un prelievo forzoso e che alla fine arriverà la Troika, significa che verosimilmente ha informazioni che lo spingono a esternare simili frasi».http://www.investireoggi.it/economia/prelievo-forzoso-manovra-da-20-miliardi-e-arrivo-della-troika-e-un-incubo-o-la-verita/Crescita giù, conti pubblici a rischio. Renzi? «La rovina dell’Italia», secondo quanto Ferruccio De Bortoli, direttore del “Corriere della Sera”, avrebbe confidato ad amici. Secondo De Bortoli, il governo Renzi sarà “costretto” a varare in autunno una manovra “lacrime e sangue” da 20 miliardi, cui seguirà la resa sostanziale alla Troika Ue, formata da Commissione Europea, Bce e Fmi, pronta a “mettere le mani nelle tasche degli italiani” anche con un prelievo forzoso dai conti correnti. Che le cose non stiano andando bene, scrive il newsmagazine “Investire Oggi”, lo si capisce dall’intervista che il premier ha appena rilasciato a “La7”, nella quale ha ammesso che sarà difficile centrare l’obiettivo di crescita dello 0,8% per quest’anno. Tuttavia, il premier ha aggiunto che una crescita dello 0,4% piuttosto che dello 0,8% o dell’1,5% sarebbe «indifferente», perché nulla cambierebbe nella vita ordinaria delle persone. «Se a fare la battuta non fosse il capo di un governo, ci sarebbe da ridere».
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Meno democrazia: Renzi, il tecno-populista dell’élite
L’Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e mezzo), negli ultimi vent’anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l’economia capitalista ad essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo – prima delle merci e del denaro – le mappe concettuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato; trasformando quello che era il cittadino dell’illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano – ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso.Effetto culturale, questo, dell’antipolitica capitalista, che per essere sovrano assoluto e culturalmente monopolista deve rimuovere ogni sovrano concorrente. Berlusconi: il populista che prometteva la modernizzazione neoliberale del paese. In realtà, un populismo del cambiare tutto per non cambiare nulla (soprattutto i suoi interessi personali e aziendali).Un populismo aziendalista, con la figura del padre/leader sostituita da quella dell’imprenditore che si è fatto da solo (o quasi), perfetta nell’esprimere il modello culturale che tutti dovevano apprendere: l’edonismo, il godimento immediato, la deresponsabilizzazione egoistica ed egotistica. Per legittimare – questa l’azione appunto culturale, pedagogica prima che economica – le retoriche neoliberiste dell’essere imprenditori di se stessi e della competizione come unica forma di vita.Bossi e la Lega: il mezzo populismo (non solo perché limitato a una parte del territorio), apparentemente il più classico dei populismi con il richiamo alla tradizione, ai simboli di terra e di sangue. All’essere padroni a casa nostra: da intendere però non come sovrani sulla nostra terra ma come padroni nel senso antico del capitalismo. Populismo da piccola impresa, da capitalismo molecolare come versione localistica dell’ordoliberalismo tedesco e della sua pedagogia per imporre il modello impresa all’intera società. Grillo: il populista contestatore, il teorico del net-populismo come forma perfetta della democrazia. Grillo come l’uomo del cambiamento ma incapace di cambiare (dice solo no) e forse populista anche di se stesso. E Matteo Renzi. Un populismo di tipo nuovo ma evoluzione dei precedenti. Perché anch’egli cerca il rapporto diretto con il popolo e lo invoca come propria totalizzante legittimazione. Perché aspira ad essere insieme Partito di Renzi e Partito della Nazione. Un partito-non-partito, tuttavia, ormai anch’esso trasversale – e quasi un non-luogo nel senso di Marc Augé: come un aeroporto, un supermercato, un luogo di consumo di politica.Un populismo che invoca il popolo contro le caste e il sindacato, salvando invece le oligarchie che lo sostengono come un sol uomo; che ha grandi mass-media schierati dalla sua parte e che gli consentono ciò che mai avrebbero consentito a Berlusconi; un populismo fideistico e teologico-politico (noi contro loro, noi il tutto che non accetta il due e il tre e il molteplice e gli eretici; noi il nuovo, gli altri il vecchio). Un populismo che vuole rottamare appunto il vecchio, ma che non rottama, non corregge (una volta si chiamava autocritica, ma il nuovo che avanza travolge anche la memoria) i molti errori del passato: il sì all’austerità, all’articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio. Un populismo finalizzato alla modernizzazione dell’Italia – e ogni populismo è stato, storicamente, anche una via per la modernizzazione, facendo accettare al popolo, in nome del popolo, quelle trasformazioni che altrimenti non sarebbero state possibili per trasformare un paese e quel popolo. Per questo, quello di Renzi è un populismo tecnocratico: che produce quella modernizzazione neoliberista che Berlusconi non è riuscito a produrre e Grillo fatica a poter produrre.Un populismo nel nome della tecnocrazia, che la tecnocrazia ama; un populismo che trasforma (forse questa volta per davvero) il potere politico nel senso richiesto dalla tecnocrazia: meno democrazia (la riforma del Senato, le proposte di nuova legge elettorale); meno diritti sociali e quindi politici (diventati un costo); più decisionismo; meno partecipazione e più adattamento alla realtà immodificabile del mercato; meno cittadinanza attiva e più accettazione della ineluttabilità del reale. Perché le sue pratiche politiche – al di là delle apparenze e delle discussioni con Angela Merkel e di alcuni interventi comunque virtuosi – sono tutte dentro alla cultura della modernizzazione richiesta dall’ideologia neoliberista (flessibilità del lavoro, privatizzazioni, un nuovo modo di essere imprenditori di se stessi, riduzione ulteriore dello stato sociale, crescita invece di sviluppo, competizione invece di solidarietà); e la flessibilità sul Fiscal Compact (invece della sua abolizione, per evidente irrazionalità e surrealtà economica), pure invocata, è un pannicello caldo rispetto al nuovo new deal che sarebbe invece necessario (e urgente).Un populismo futurista, inoltre: nel nome della velocità, delle macchine, delle parole in libertà, dell’azione per l’azione. Il populismo di Renzi è dunque più di un classico neopopulismo, che ha dominato la scena per trent’anni coniugando populismo e neoliberismo, mercato e popolo, modernizzazione e impoverimento e disuguaglianze. E’ un neopopulismo tecnocratico – per altro discendenza diretta di quello neoliberista – che scardina ancor più di quello neoliberista le forme e le pratiche della democrazia; riduce a niente la società e la società civile; attacca il sindacato o lo rende inutile (in coerenza con le tecnocrazie globali); che spettacolarizza se stesso proponendosi come outsider, come rottura, come alternativa, in realtà portandoci nella società dello spettacolo della tecnocrazia. Una tecnocrazia che non si espone più direttamente con i noiosi e antipatici tecnici, ma con la fantasia e l’estro di un populismo mediatico e spettacolare, moderno e postmoderno insieme, dove twittare è più importante che ascoltare.(Lelio Demichelis, “Il populismo tecnocratico del rottamatore”, da “Sbilanciamoci” del 4 luglio 2014).L’Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e mezzo), negli ultimi vent’anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l’economia capitalista ad essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo – prima delle merci e del denaro – le mappe concettuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato; trasformando quello che era il cittadino dell’illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano – ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso.
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Sei povero? Tranquillo, la riforma del Senato è pronta
Chissà come sono contenti della riforma del Senato i sei milioni e ventimila poveri assoluti d’Italia, aumentati nell’ultimo anno di un milione e 206 mila unità. E chissà come sono entusiasti del nuovo corso i dieci milioni di poveri “relativi” e come gongolano vedendo che le priorità di chi li governa riguardano il castigo per i senatori dissidenti, le mediazioni di Calderoli e il patto del Nazareno. Faranno la òla, altroché, di fronte al nuovo che avanza. Per ora il “nuovo” è che loro aumentano a ritmo spaventoso, e un altro “nuovo” è che la povertà – anche quella assoluta – riguarda anche gente che lavora. Come dire che il disagio e l’indigenza non sono più (da un bel pezzo) faccende di marginalità, ma componenti strutturali del paese (il 10% di poveri assoluti, quasi il 15% di poveri relativi), componenti strutturali a cui si presentano priorità come “governabilità”, “stabilità” e non, come si sarebbe detto un tempo, pane e lavoro.I dati Istat diffusi ieri, come spesso fanno i numeri, specie se spaventosi, fanno un po’ di giustizia di tanti discorsetti teorici. Uno su tutti: l’eterna, noiosissima, stucchevole diatriba su destra e sinistra. Categorie vecchie: ora va di moda il sopra e sotto, il di fianco, l’oltre, e altre belle paroline utili all’ammuina. Poi, in una pausa della creatività ideologica corrente, arrivano quei numeri a ricordare che la forbice della diseguaglianza continua ad aprirsi, che i poveri aumentano (di moltissimo) e che il paese è ormai due paesi: chi ce la fa e chi non ce la fa. Con in mezzo chi ce la fa a fatica e vive nel terrore del passaggio di categoria, verso la retrocessione, ovviamente. A questi ultimi sono andati gli 80 euro di Renzi: un po ’ di ossigeno ai “quasi poveri” che un tempo si sarebbero detti ceto medio.I numeri dell’Istat sono il solo vero discorso politico sentito in Italia negli ultimi mesi. L’unico che meriti di essere approfondito, un filino più serio dei pranzetti con Verdini, degli incontri in streaming, della pioggia di emendamenti sulla riforma della Costituzione. Un discorso che dovrebbe parlare anche a quella sinistra dispersa e bastonata che si oppone (ah, si oppone?) alle larghe e larghissime intese. Un solo punto, un solo programma, basta una riga: ridurre le distanze, attenuare le differenze, diminuire le diseguaglianze. Le cifre dell’Istat – e le persone che mestamente ci stanno dietro – indicano l’unica vera priorità del paese, altro che Italicum. E sarebbe interessante capire, sia detto per inciso, quanti di quei milioni di nuovi poveri, assoluti o relativi, sono scivolati indietro a causa dell’affievolirsi della parola “diritti”. Parola vecchia, bollata come conservatrice.E così non è più un diritto il lavoro, non è più un diritto la casa, e di scivolata in scivolata, la povertà diventa questione privata, colpa individuale e non, come dovrebbe essere, piaga pubblica e sociale. Il “governo più di sinistra degli ultimi trent’anni” (cfr. Matteo Renzi, febbraio 2014) non solo ha altre priorità, ma pare intenzionato a intaccare alcune forme di welfare (la cassa integrazione in deroga, per dirne una) facilitando, e non contrastando, lo scivolamento verso l’indigenza di altre centinaia di migliaia di italiani. Per questo i numeri dell’Istat sono il solo vero discorso politico sentito negli ultimi tempi: dicono di come oggi una sinistra che lotti contro le diseguaglianze non esista, e di quanto invece ce ne sarebbe bisogno. Come il pane. Appunto.(Alessandro Robecchi, “Sei povero? Calma, la riforma del Senato è quasi pronta”, da “Micromega” del 17 luglio 2014).Chissà come sono contenti della riforma del Senato i sei milioni e ventimila poveri assoluti d’Italia, aumentati nell’ultimo anno di un milione e 206 mila unità. E chissà come sono entusiasti del nuovo corso i dieci milioni di poveri “relativi” e come gongolano vedendo che le priorità di chi li governa riguardano il castigo per i senatori dissidenti, le mediazioni di Calderoli e il patto del Nazareno. Faranno la òla, altroché, di fronte al nuovo che avanza. Per ora il “nuovo” è che loro aumentano a ritmo spaventoso, e un altro “nuovo” è che la povertà – anche quella assoluta – riguarda anche gente che lavora. Come dire che il disagio e l’indigenza non sono più (da un bel pezzo) faccende di marginalità, ma componenti strutturali del paese (il 10% di poveri assoluti, quasi il 15% di poveri relativi), componenti strutturali a cui si presentano priorità come “governabilità”, “stabilità” e non, come si sarebbe detto un tempo, pane e lavoro.
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Pardi: Renzi peggio della P2, è in arrivo una dittatura
La P2 è cosa passata e sepolta. E comunque tale riforma è peggio di quel che era il programma della P2 perché essa era una cosa visionaria di ultradestra, frenata dall’interno da tutti i meccanismi della democrazia, Dc compresa non essendo complice fino in fondo. Oggi invece abbiamo il partito di centrosinistra che instaura la dittatura della maggioranza, peggio della P2. Renzi sta applicando e realizzando il programma di Berlusconi. Come un mantra, il premier si dice continuamente soddisfatto dell’affidabilità di Forza Italia, la quale avrebbe mantenuto in vita il Patto del Nazareno. Lo credo bene, è il loro programma! Quante volte Berlusconi si è lamentato di una Costituzione che non darebbe a chi governa gli strumenti per farlo? Hanno inventato questo meccanismo di dittatura della maggioranza (e di dittatura del leader della maggioranza sulla sua maggioranza) per liquidare ogni possibilità di opposizione parlamentare.La riforma del Titolo V è frutto di un dialogo tra Pd e Fi. Vi sembra normale che un pregiudicato come Berlusconi sia protagonista di una riforma costituzionale? La legge elettorale è platealmente incostituzionale come quella attuale: con un mostruoso premio di maggioranza mantiene il voto diseguale ed esclude dalla rappresentanza politica milioni di cittadini. Tra l’altro le liste saranno bloccate quindi a decidere la composizione saranno i partiti, nelle loro segrete stanze. C’è il rischio si instauri in Italia – in senso tecnico – una dittatura della maggioranza in grado di modificare la Corte Costituzionale ed eleggersi il suo presidente della Repubblica. Inoltre sarà la dittatura del leader della maggioranza sulla sua stessa maggioranza. Questo Parlamento non ha alcuna legittimità a legiferare sulla Costituzione essendo composto da nominati in base a una legge elettorale, il Porcellum, ritenuta incostituzionale dalla Consulta. Di cosa stiamo parlando? Abbiano il buon gusto e la serietà di legiferare su temi come lo sviluppo, il lavoro, l’economia, i diritti civili ma si astengano rigorosamente dal toccare la nostra Carta. È un’anomalia pericolosissima.Il soggetto promotore è senza diritto: solo Camere elette con una legge che restauri il principio dell’articolo 48 (il voto è personale ed eguale) potranno modificare la Costituzione. In secondo luogo, ci vogliono far credere che il bicameralismo sia la causa di tutti i mali. Una bugia. Da tempo il Parlamento è esautorato dai propri compiti: si governa il paese tramite decreti leggi con le Aule relegate al solo compito di votare la fiducia. I disegni di legge sono rarissimi e il potere legislativo è di fatto nelle mani dell’esecutivo. Il vero problema è che la maggioranza non è compatta e i leader non riescono a gestire i propri partiti. Bicameralismo perfetto? No, potremmo anche rivederlo. Ma il focus è un altro: la riforma costituzionale va associata alla nuova legge elettorale in cantiere. I due provvedimenti sono parte di uno stesso disegno. Vogliono declassare il Senato e lasciare intatta la Camera che permetterà al partito che prende più voti un dominio assoluto.(Pancho Pardi, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “La riforma di Renzi peggio della P2”, pubblicata da “Micromega” il 14 luglio 2014).La P2 è cosa passata e sepolta. E comunque tale riforma è peggio di quel che era il programma della P2 perché essa era una cosa visionaria di ultradestra, frenata dall’interno da tutti i meccanismi della democrazia, Dc compresa non essendo complice fino in fondo. Oggi invece abbiamo il partito di centrosinistra che instaura la dittatura della maggioranza, peggio della P2. Renzi sta applicando e realizzando il programma di Berlusconi. Come un mantra, il premier si dice continuamente soddisfatto dell’affidabilità di Forza Italia, la quale avrebbe mantenuto in vita il Patto del Nazareno. Lo credo bene, è il loro programma! Quante volte Berlusconi si è lamentato di una Costituzione che non darebbe a chi governa gli strumenti per farlo? Hanno inventato questo meccanismo di dittatura della maggioranza (e di dittatura del leader della maggioranza sulla sua maggioranza) per liquidare ogni possibilità di opposizione parlamentare.