Archivio del Tag ‘paura’
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Ai vertici dell’Ue una banda di criminali: processateli
Le politiche di austerità, gli aggiustamenti strutturali, le privatizzazioni imposte agli Stati membri dai vertici Ue, ovvero dalla cosiddetta Troika (Bce, Fmi e Commissione) stanno infliggendo privazioni insostenibili a milioni di cittadini. In Italia, non meno che in Grecia, Spagna e Portogallo, la disoccupazione è alle stelle. Il Pil ha perso oltre 10 punti rispetto al 2007. La combinazione di micidiali indicatori come la deflazione (crollo dei prezzi), la domanda stagnante e la crescita-zero sta portando le rispettive economie, a cominciare dalla nostra, verso il disastro. Errori? No: crimini. Lo sostiene un gruppo di giornalisti e politici greci, che a fine 2012 ha inoltrato alla Corte Penale Internazionale dell’Aja una denuncia per “sospetti crimini contro l’umanità” a carico dei vertici della Troika: il presidente della Commissione Europea, Barroso, la direttrice del Fmi, Lagarde, del presidente del Consiglio Europeo, Van Rompuy, nonché della cancelliera Angela Merkel e del suo ministro delle finanze Wolfgang Schäuble.A sua volta, aggiunge Luciano Gallino in un intervento su “Repubblica” ripreso da “Micromega”, un’attivista tedesca nel campo dei diritti umani, Sarah Luzia Hassel, appoggiava la denuncia con una documentatissima relazione circa le azioni compiute dalle citate istituzioni a danno sia della Grecia che di altri paesi, europei e no. «Tutte azioni suscettibili di venir configurate addirittura come crimini contro l’umanità, ai sensi dell’articolo 7 dello Statuto di Roma della Corte Penale dell’Aja». Si va dalla liquidazione della sanità pubblica alle politiche agricole che hanno affamato milioni di persone, dalla salvaguardia del sistema finanziario a danno dei cittadini ordinari alle ristrette élite che influenzano le decisioni delle istituzioni stesse, fino agli interventi nel campo del lavoro e della previdenza atti a ledere basilari diritti umani. Un terzo documento, infine, che accusa i vertici Ue di gravi forme d’illegalità, è stato pubblicato a fine 2013 dal centro studi di politiche del diritto europeo di Brema, su richiesta della Camera del Lavoro di Vienna.Documenti che «giacciono tuttora nei cassetti dei destinatari», benché rinverditi da clamorose denunce come quella della rivista medica “Lancet” «circa i danni che sta infliggendo alla popolazione la crisi della sanità in Grecia per via delle misure di austerità imposte dalle istituzioni Ue». In pratica, «chi soffre di cancro non riesce più a procurarsi le medicine necessarie, divenute troppo costose», e «la quota di bambini a rischio povertà supera il 30%». In Grecia sono ricomparse, dopo quarant’anni, malaria e tubercolosi, mentre i suicidi sono aumentati del 45% e chi fa uso di droga non dispone più di siringhe sterili distribuite dal sistema sanitario, per cui utilizza più volte la stessa siringa. Risultato: i casi di infezione Hiv rilevati sono ormai centinaia. Attenzione: «L’Italia, insieme con Spagna, Portogallo e Irlanda, appare avviata sulla stessa strada della Grecia», avverte Gallino.Il sistema sanitario nazionale italiano è alle corde: «Anche da noi i tempi di attesa per le visite specialistiche si sono allungati sovente di molti mesi perché i medici che vanno in pensione non sono rimpiazzati». Inoltre, le prestazioni sono sempre più costose, al punto che molti rinviano le analisi o «rinunciano a visite mediche o esami clinici perché i ticket hanno subito forti aumenti e non riescono più a pagarli». Paradossale: «Coloro che vanno in un laboratorio convenzionato si sentono dire che se scelgono la tariffa privata spendono meno del ticket». Senza contare che «molte famiglie non riescono più a mandare i bimbi all’asilo o alla scuola materna perché i posti sono stati ridotti, o la retta è aumentata al punto che non possono farvi fronte».La Grecia è vicina, ammonisce il rapporto di “Lancet”: «Se le politiche adottate avessero effettivamente migliorato l’economia, allora le conseguenze per la salute potrebbero essere un prezzo che val la pena di pagare. Per contro, i profondi tagli hanno avuto in realtà effetti economici negativi, come ha riconosciuto perfino il Fmi». In altre parole, riassume Gallino, non soltanto i vertici Ue hanno dato prova, con le politiche economiche e sociali che hanno imposto, di una «scandalosa indifferenza per le persone che vi erano soggette», ma queste sciagurate politiche «si sono pure dimostrate clamorosamente sbagliate». Nel 2008, diversi giuristi americani ed europei parlarono di “crimini economici contro l’umanità”, commessi dai dirigenti dei maggiori gruppi finanziari. Ma nel caso della crisi europea non si tratta più di attori privati (banchieri-pirati), bensì dei massimi esponenti della dirigenza pubblica della Ue, cui è stato affidato l’oneroso impegno di presiedere ai destini di 450 milioni di persone ai tempi della crisi.I vertici dell’Ue «hanno mostrato anzitutto una clamorosa incompetenza della gestione della crisi», e hanno scelto di «favorire gli interessi dei grandi gruppi finanziari andando contro agli interessi vitali delle popolazioni». Di fatto, «hanno dato largo ascolto alle maggiori élite europee, e in più di un caso ne fanno parte». Soprattutto, «hanno mostrato di non tenere in alcun conto le sorti delle persone cui si dirigevano le loro politiche». Stando al documento di Brema, le violazioni dei diritti umani compiute dai vertici Ue, in spregio agli stessi trattati dell’Unione, potrebbero essere portate davanti a varie corti e istituzioni europee, nonché davanti a organizzazioni internazionali quali l’Onu e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Domanda: «È mai possibile che non siano chiamati a rispondere per nulla delle illegalità non meno che degli errori che hanno commesso, e delle sofferenze che hanno causato con l’indifferenza se non addirittura il disprezzo dimostrato verso le popolazioni colpite?».Le politiche di austerità, gli aggiustamenti strutturali, le privatizzazioni imposte agli Stati membri dai vertici Ue, ovvero dalla cosiddetta Troika (Bce, Fmi e Commissione) stanno infliggendo privazioni insostenibili a milioni di cittadini. In Italia, non meno che in Grecia, Spagna e Portogallo, la disoccupazione è alle stelle. Il Pil ha perso oltre 10 punti rispetto al 2007. La combinazione di micidiali indicatori come la deflazione (crollo dei prezzi), la domanda stagnante e la crescita-zero sta portando le rispettive economie, a cominciare dalla nostra, verso il disastro. Errori? No: crimini. Lo sostiene un gruppo di giornalisti e politici greci, che a fine 2012 ha inoltrato alla Corte Penale Internazionale dell’Aja una denuncia per “sospetti crimini contro l’umanità” a carico dei vertici della Troika: il presidente della Commissione Europea, Barroso, la direttrice del Fmi, Lagarde, del presidente del Consiglio Europeo, Van Rompuy, nonché della cancelliera Angela Merkel e del suo ministro delle finanze Wolfgang Schäuble.
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Kiev, la strana Padania atomica di Yulia Tymoshenko
Chi dovrà essere “rieducato” – e chi invece eliminato – nella strana Padania orientale di Yulia Tymoshenko? «Gli italiani potrebbero immaginare una situazione in cui Bossi avesse raggiunto il potere, sul serio. Dopo una ventina d’anni il discorso, per quanto ridicolo, della Padania, avrebbe potuto produrre una generazione che avrebbe creduto di essere di etnia padana e di antica origine celtica, o altre fesserie del genere». Lo scrive il russo Igor Glushkov, in una lettera che Giulietto Chiesa pubblica su “Megachip”. Tema: la storica russofobia che anima gli anglosassoni, vittime di una sorta di «paranoia ossessiva» che li porta a credere che l’avanzata dei russi in Europa «comporti la catastrofe per il dominio britannico». Di qui la guerra senza quartiere, condotta dal monopolio Usa della disinformazione, per presentare la rivolta di Kiev come una sollevazione del “popolo ucraino” contro il giogo di Mosca. Dando per scontato, tra l’altro, che l’Ucraina sia molto diversa dalla famosa Padania di Bossi.Pietra dello scandalo, l’intercettazione telefonica in cui è incappata l’ex oligarca Yulia Timoshenko, promossa “pasionaria” anti-russa dal mainstream occidentale, che in una conversazione privata dichiara che vorrebbe sterminare, con la bomba atomica, gli 8 milioni di russi che popolano l’Est ucraino. «Non li chiama neppure russi, ma “izgoi”, banditi, fuorilegge», osserva Glushkov, che vive in Italia e ricorda come l’Ucraina non sia «un territorio etnicamente definito da una nazionalità», bensì «una specie di puzzle, che si è venuto componendo in tappe diverse della storia». L’“ucrainizzazione” forzata degli ultimi vent’anni non è tale «da poter mobilitare un esercito di ucraini contro i russi», e addirittura «non c’è nemmeno una polizia disponibile a soffocare le manifestazioni del sud-est: è per questo che sono stati costretti a chiamare i mercenari dall’esterno», cioè «gruppi di guerriglia armata composti da nazisti, preparati ad azioni violente dagli Stati Uniti in veri e propri lager».Il resto del paese, continua Glushkov, per adesso è impaurito, blindato dalla manipolazione di una Tv ucraina che sta bombardando la gente con informazioni false. «Gente che, comunque, non è disponibile ad accettare una guerra aperta contro la Russia. Perché? Perché la stragrande maggioranza si sente parte della nazione russa! Questo dimostra il referendum di Crimea e le precedenti elezioni». Naturalmente, però, i nostri media si sono tenuti a debita distanza dalla verità. «Il pubblico italiano, grazie all’ignoranza storica, politica, di quasi tutti i commentatori (nel silenzio, peraltro, del mondo accademico e universitario), ha ricevuto un’informazione completamente distorta», sostiene Giulietto Chiesa. Così, «la russofobia anglosassone ha dettato le notizie», nobilitando «i nazisti di Maidan». E la Russia, «che ha subito per vent’anni la penetrazione americano-tedesco-polacca praticamente senza reagire (perché guidata da idee filo-occidentali), ha di fatto soltanto reagito, difendendo il popolo russo di Crimea. Ed è stata rappresentata come l’aggressore, sebbene fosse stata aggredita».Questa, ribadisce Giulietto Chiesa – autore di numerosi video-editoriali su “Pandora Tv” – è una crisi di gravità senza precedenti nella storia, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: gli equilibri europei sono stati modificati, la sicurezza europea è stata distrutta. «Tutto questo non sarebbe stato possibile se l’informazione giunta ai cittadini italiani ed europei fosse stata decentemente vicina alla realtà, ma noi invece viviamo ormai dentro Matrix, prigionieri dell’illusione dell’Occidente di continuare a dominare il mondo». Resta, intanto, l’imbarazzo per le esternazioni stragiste della Tymoshenko, la cui carriera politica – scrive Igor Glushkov – è stata «molto simile a quella di quasi tutti gli oligarchi russi e ucraini: fatta rubando». Di sicuro, conferma Giulietto Chiesa, oggi la Tymoshenko rappresenta «un dato negativo, agli occhi dell’Europa». Dopo aver gettato il sasso, «usando i nazisti», adesso gli europei vorranno «ripulirsi dagli schizzi di fango». La stessa Yulia Tymoshenko «è uno schizzo di fango: ricattabile, certo, ma anche in grado di ricattare». Tutto molto prevedibile: «Quando si porta al potere una banda di criminali bisogna mettere in conto che, per normalizzare la situazione, li si deve rieducare, o eliminare. Resta da vedere se la Tymoshenko sarà in grado di essere rieducata, oppure se la dovranno eliminare».Chi dovrà essere “rieducato” – e chi invece eliminato – nella strana Padania orientale di Yulia Tymoshenko? «Gli italiani potrebbero immaginare una situazione in cui Bossi avesse raggiunto il potere, sul serio. Dopo una ventina d’anni il discorso, per quanto ridicolo, della Padania, avrebbe potuto produrre una generazione che avrebbe creduto di essere di etnia padana e di antica origine celtica, o altre fesserie del genere». Lo scrive il russo Igor Glushkov, in una lettera che Giulietto Chiesa pubblica su “Megachip”. Tema: la storica russofobia che anima gli anglosassoni, vittime di una sorta di «paranoia ossessiva» che li porta a credere che l’avanzata dei russi in Europa «comporti la catastrofe per il dominio britannico». Di qui la guerra senza quartiere, condotta dal monopolio Usa della disinformazione, per presentare la rivolta di Kiev come una sollevazione del “popolo ucraino” contro il giogo di Mosca. Dando per scontato, tra l’altro, che l’Ucraina sia molto diversa dalla famosa Padania di Bossi.
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Generazione decrescente: la crisi e la formica utopista
Fine del lavoro, del futuro, della società civile protetta dai diritti di cittadinanza. Fine di tutto quello che siamo stati abituati a pensare come destino, consuetudine, standard di vita, aspettative. E’ scoppiata una guerra: era pronta da trent’anni, ma quasi nessuno se n’era accorto – men che meno la sinistra, partiti e sindacati. Oggi vaghiamo smarriti tra macerie lungamente programmate: persino l’incresciosa elemosina degli 80 euro promessi da Matteo Renzi può apparire una buona notizia, anche se ha il sapore della minestra della Caritas o della distribuzione di aiuti umanitari nel Darfur. Siamo in guerra, ma c’è chi ragiona come se fossimo ancora in tempo di pace. Lo fanno i politici, naturalmente, professionisti dell’elusione della verità esattamente come i maggiori media. E lo fanno pure, a modo loro, gli illuminati sostenitori dell’eresia decrescista: dicono che il sistema si è rotto semplicemente perché “doveva” rompersi, non poteva durare.Certo, l’attuale modello di sviluppo ha avvelenato la Terra e prodotto solitudine e depressione. E ora che s’è inceppato, abbandona al suo destino la prima “generazione decrescente” della storia occidentale moderna, quella che sa di non poter avere quello che ebbero tutte le generazioni precedenti: la legittima speranza di crescere ancora. Il che però non significa, di per sé, precipitare nell’abisso: ci si può attrezzare per vivere meglio, comunque, a prescindere dall’ecatombe del Pil. E’ la tesi di Andrea Bertaglio, classe 1979, espressa nella sua ultima dolente ricognizione editoriale presentata da Maurizio Pallante, di cui è stretto collaboratore. Il libro si affaccia con angoscia sul panorama desolante dei coetanei, traditi dalle false promesse dello sviluppo illimitato e condannati all’esilio o al call center, in precaria alternativa alla disoccupazione perenne, mentre intorno si sfasciano, giorno per giorno, tutte le certezze del sistema Italia. Sta franando, il nostro paese, che pure militava nel G7 – settima potenza industriale del mondo – e che l’Eurozona dell’austerity ha letteralmente declassato, stroncato, ridotto a mendicare clemenza dai potenti signori di Bruxelles, che peraltro nessuno ha mai eletto.Tutto questo accade, sostengono ormai molti analisti, perché l’élite mondiale non tollera di dover “dividere la torta” con ormai 7 miliardi di esseri umani e le loro inevitabili aspirazioni di consumo. Cibo e terre, acqua, energia, tecnologia, merci. Il risveglio dell’ex terzo mondo, oggi guidato dai Brics, dopo la caduta dell’Urss ha fatto esplodere il business della globalizzazione selvaggia, le delocalizzazioni, il lavoro schiavistico. L’industria? Sempre meno conveniente, per gli antichi “padroni”: meglio la pura speculazione finanziaria. A una condizione, essenziale: sbaraccare l’ostacolo della politica democratica, il welfare, la sovranità degli Stati, le leggi a tutela del cittadino, i diritti del lavoro. Per teorici intransigenti come Paolo Barnard – che cita economisti come il francese Alain Parguez, già insider all’Eliseo – basta dare un’occhiata alle biografie dei padri fondatori dell’Unione Europea (l’autoritario Mitterrand, “monarchico” come il suo guru Jacques Attali, e il primo presidente della Commissione Europea, Jacques Delors, definito “uomo dell’Opus Dei”) per capire che razza di progetto – a vocazione feudale – sia quello dell’Ue, di cui l’euro rappresenza il braccio armato, con un unico grande obiettivo: radere al suolo la sovranità finanziaria degli Stati membri, e quindi la loro residua capacità di proteggere le rispettive comunità nazionali.Il tracollo è ovvio, perfettamente voluto. Se privatizzi la moneta crolla tutto, a cascata: credito, spesa pubblica, settore privato dell’economia, occupazione, risparmi delle famiglie. “Masters of the Universe”, li chiama Noam Chomsky. Sono l’élite planetaria, erede dell’oligarchia occidentale che per due secoli, e in particolare nella seconda metà del ‘900, ha subito come un affronto la nascita della democrazia moderna, l’avvento dello Stato come erogatore di benessere materiale per i propri cittadini, grazie alla libera creazione di moneta. Oggi? Si stanno semplicemente riprendendo tutto, abolendo di fatto la democrazia. E lo fanno in un mondo sovrappopolato e minacciato da più crisi, concomitanti e tutte potenzialmente letali: energia, clima, economia, acqua, cibo, ambiente. Per Giulietto Chiesa, autore del saggio “Invece della Catastrofe” che parte dalle drammatiche profezie del Club di Roma sui raggiunti limiti dello sviluppo del capitalismo coloniale e mercantile, ci sono tutte le condizioni geopolitiche per temere l’avvento di una Terza Guerra Mondiale.Dopo l’11 Settembre la storia s’è rimessa a correre: Iraq e Afghanistan, Libia e Siria, ora Ucraina. Evidente il tentativo degli Usa di coinvolgere l’Europa in una drammatica sfida con la Russia. Obiettivo: fermare l’avanzata della Cina, sfruttando l’unico vero vantaggio di cui gli Stati Uniti ancora dispongono, cioè la supremazia tecnologico-militare. Il guaio, avverte uno storico medievista come Franco Cardini, è che ormai a decidere non sono più i governi eletti dal Parlamento, perché tutte le maggiori istituzioni nazionali e soprattutto internazionali – politiche, diplomatiche, economiche, finanziarie – sono capillarmente infiltrate dalle lobby dell’élite, che tende a militarizzare il mondo impiegando missili-fantasma, droni-killer, milizie private, eserciti mercenari. Si preparano soluzioni sbrigative, repressioni, abolizioni di diritti sociali. Un incubo, che aiuta a comprendere lo scenario nel quale sono paracadutati i trentenni di oggi, a cui anche in Germania viene spiegato che i mini-job da 500 euro al mese sono un lusso, dati i tempi che corrono. C’è una guerra in corso, appunto. Ma ancora si stenta a riconoscerla.Di recente, in un incontro coi ragazzi torinesi del Movimento per la Decrescita Felice, un intellettuale ultra-indipendente come Guido Ceronetti ha ammesso la propria nostalgia per il socialismo, cioè un sistema in cui lo Stato garantisca pari opportunità per tutti. Lo Stato è il grande assente dei nostri giorni: privandolo della sua sovranità fisiologica, i trattati-capestro di Bruxelles lo costringono a trasformarsi in spietato esattore, non avendo più altra fonte finanziaria che quella fiscale. Un libero pensatore come Alex Langer, profeta europeo dell’ambientalismo politico, si battè già negli anni ‘80 per il grande cambiamento oggi invocato dagli ecologisti: sapeva benissimo che solo il governo, investendo denaro sovrano attraverso la spesa pubblica e quindi il debito, può imprimere una forte eccelerazione a qualsiasi politica di ricoversione sostenibile dell’economia. Bertaglio lo cita in un passaggio del suo libro: «La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile». E’ esattamente il crinale – innanzitutto culturale – su cui si impegnano i promotori della decrescita intelligente, da Pallante a Latouche.E’ anche il cuore dell’indagine che Andrea Bertaglio conduce con voce disarmata, partendo dalla propria esperienza personale, a confronto con quella di suo padre e, prima ancora, di suo nonno. E’ crollato un mondo, il loro. E questo di oggi, popolato di giovani spaesati e costretti a farsi mantenere dai genitori, rinunciando all’idea di metter su casa, è qualcosa che – per la prima volta – fa davvero paura. Quella della decrescita (s’intende: decrescita del Pil, degli sprechi, dei veleni) è una sorta di bussola: se lavori come un pazzo e spendi tutto quello che guadagni, finisci col non sapere neppure più cosa stai facendo, e perché. A cosa serve il lavoro che attualmente – quando c’è – ci dà da vivere? Riconversione: di certo, un lavoro socialmente utile fa vivere meglio, anche se magari fa calare il Pil perché comporta meno consumi, meno spostamenti, meno spese. E’ la filosofia della filiera corta, dei territori sostenibili, del “meno e meglio”. La strada imboccata da Roberto, che ha mollato il lavoro d’ufficio a Cagliari e si è messo a fare l’orticoltore in un paesino della provincia. O quella – spettacolare – dei ragazzi di Pescomaggiore, l’ecovillaggio fatto di case di paglia.I pionieri dell’economia sostenibile sembrano scansare il dilemma politico dei rapporti di forza, quelli cioè che – attraverso le elezioni – possono far vincere un’idea, trasformandola in azione pubblica regolarmente finanziata. Si diffida, purtroppo (ma comprensibilmente) delle organizzazioni politiche, preferendo l’azione diretta, promossa dal basso. Come quella del Comitato Rifiuti Zero che, ricorda Bertaglio, ha imposto «la vittoria del popolo valdostano contro l’affarismo», che voleva il solito inceneritore. Leader del comitato di lotta, il giovane medico Jean-Luis Aillon, dirigente Mdf. Un ragazzo di 29 anni, che ha scelto di lavorare meno – come guardia medica – per avere più tempo per l’orto e la produzione di formaggi destinati all’autoconsumo. «Se lavorassi soltanto per diventare ricco e famoso, sarei presto molto depresso».L’ennesimo ingenuo utopista? «La selezione naturale ha prescelto l’istinto utopista», risponde il dottor Aillon. «Sperare in un mondo migliore, mettere in crisi il reale, lottare per i propri sogni, è qualcosa che è stato iscritto nel nostro parimonio genetico. Perché favorisce la sopravvivenza della specie». Utopia, maneggiare con cura: quello che può apparire debolezza, è esattamente il suo contrario. Nel libro di Bertaglio, Jean-Luis ricorre a una parabola: «Se paragoniamo il nostro cinquantenne medio, disilluso e senza speranze, e una specie di formiche utopista, che sogna e si batte per un mondo diverso, possiamo vedere che quest’ultima è molto più forte e sopravvive». Inutile negarlo: «Noi abbiamo dentro questo patrimonio genetico, che la cultura odierna cerca di spegnere. L’ingenuo, semmai, è chi non lo riconosce». Farà in tempo, la “formica utopista”, a fermare i carri armati neoliberisti di Harvard, quelli che suggeriscono all’euro-totalitarismo la dottrina dell’austerity espansiva che uccide come mosche i bambini di Atene e avvicina alla Grecia anche il nostro paese?(Il libro: Andrea Bertaglio, “Generazione decrescente”, riflessione autobiografica sul mondo che è – e che potrebbe essere, con prefazione di Maurizio Pallante, Edizioni Età dell’Acquario, 103 pagine, 14 euro).Fine del lavoro, del futuro, della società civile protetta dai diritti di cittadinanza. Fine di tutto quello che siamo stati abituati a pensare come destino, consuetudine, standard di vita, aspettative. E’ scoppiata una guerra: era pronta da trent’anni, ma quasi nessuno se n’era accorto – men che meno la sinistra, partiti e sindacati. Oggi vaghiamo smarriti tra macerie lungamente programmate: persino l’incresciosa elemosina degli 80 euro promessi da Matteo Renzi può apparire una buona notizia, anche se ha il sapore della minestra della Caritas o della distribuzione di aiuti umanitari nel Darfur. Siamo in guerra, ma c’è chi ragiona come se fossimo ancora in tempo di pace. Lo fanno i politici, naturalmente, professionisti dell’elusione della verità esattamente come i maggiori media. E lo fanno pure, a modo loro, gli illuminati sostenitori dell’eresia decrescista: dicono che il sistema si è rotto semplicemente perché “doveva” rompersi, non poteva durare.
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Sorvegliati e felici: è il capolavoro del Sesto Potere
Le preoccupazioni per l’uso intensivo dei media digitali come strumenti di sorveglianza pervasiva sono aumentate esponenzialmente dopo le rivelazioni della “gola profonda” Edward Snowden sulle pratiche di spionaggio messe in atto dai suoi ex datori di lavoro, la maggiore agenzia di sicurezza Usa, la Nsa, ai danni dei cittadini americani e di tutti gli altri paesi, nonché di capi di Stato (anche alleati) e imprese pubbliche e private. A mano a mano che Snowden rendeva noti nuovi documenti che denunciavano tali pratiche – intercettazioni di conversazioni telefoniche, email e quant’altro – i media sfoderavano gli immancabili riferimenti al romanzo “1984” di Orwell, o al Panopticon di Bentham, utilizzato da Michel Foucault come emblema di una modernità assurta a regno della sorveglianza e del controllo. Ora un libro a quattro mani di David Lyon e Zygmunt Bauman (si tratta di una conversazione a distanza, realizzata attraverso lo scambio di email) dal titolo “Sesto Potere. La sorveglianza nella modernità liquida” (ed. Laterza) suggerisce una prospettiva diversa.Lyon, da sempre attento analista dei problemi della sorveglianza, e Bauman, il filosofo che ha sostituito il concetto di “modernità liquida” alla categoria di postmodernità, ribaltano gli scenari orwelliani e foucaultiani di cui sopra, ai quali contrappongono quattro tesi di fondo: 1) viviamo in un mondo post-panottico in cui le nuove forme di controllo e sorveglianza assumono le caratteristiche tipiche del consumo e dell’intrattenimento; 2) i principali oggetti al centro dell’attenzione dei sistemi di sorveglianza non sono le persone in carne e ossa, bensì i loro “doppi” elettronici, cioè i dati che li riguardano; 3) ciò che più dobbiamo temere non è la fine della privacy e dell’anonimato bensì l’inquadramento in categorie in grado di determinare a priori il nostro futuro di consumatori e cittadini; 4) la costruzione di questa macchina infernale procede con la collaborazione spontanea, se non gioiosa, delle sue vittime. Proverò ora a illustrare le quattro tesi nell’ordine appena enunciato.Il concetto di Panopticon, argomentano Lyon e Bauman, implicava la concentrazione dei soggetti sottoposti a sorveglianza in determinati luoghi – carceri, fabbriche, scuole, ospedali, ecc. – e sfruttava il “controllo delle anime” come strumento per cambiare comportamenti e motivazioni. Lo sguardo del controllore, temuto ma non visto e quindi presunto come costantemente presente, induce l’autodisciplina di lavoratori, prigionieri, pazienti e allievi che si adeguano alle aspettative del sistema di controllo per non subire sanzioni. Queste modalità punitive di controllo, osservano gli autori, riguardano ormai esclusivamente le “zone ingestibili” della società come le prigioni e i campi profughi, sono cioè riservate agli esseri umani dichiarati “inutili” ed esclusi nel senso pieno e letterale della parola. Viceversa il nuovo potere globale – che Lyon e Bauman contrappongono al potere politico tradizionale, confinato nel locale – non si esercita erigendo barriere, recinzioni e confini che vengono anzi considerati come ostacoli da superare e aggirare; esso deve poter raggiungere tutti in modo da poterli valutare e giudicare uno per uno e, a tale scopo, si impegna affinché tutti siano motivati a esporsi volontariamente al suo sguardo, a cercarlo avidamente più che a sottrarvisi.Passiamo alla seconda tesi. Qui Lyon e Bauman riprendono un tema che Stefano Rodotà ha già ampiamente sviscerato negli anni scorsi, analizzando il fenomeno del “doppio elettronico”. La costruzione di veri e propri “duplicati” delle persone è un processo costantemente in atto a partire dai frammenti di dati personali che ognuno di noi fornisce continuamente e quotidianamente al sistema di sorveglianza navigando in rete, usando la carta di credito, frequentando i social media, usando i motori di ricerca. Ciò di cui non siamo consapevoli è che questi frammenti di dati, estratti per scopi diversi, vengono poi remixati e utilizzati per altri scopi, sfuggendo completamente al nostro controllo (la sorveglianza tende così “a farsi liquida”, dice Bauman riproponendo la sua metafora favorita). Ma soprattutto ciò di cui non ci rendiamo sufficientemente conto è che questa informazione sganciata dal corpo finisce per esercitare un’influenza decisiva sulle nostre opportunità di vita e di lavoro. Il punto è infatti che i nostri duplicati divengono oggetto di analisi statistiche che servono a prevedere comportamenti futuri (Lyon e Bauman citano in merito il film “Minority Report”) e, sulla base di tali previsioni, a incasellarci in determinate categorie di consumatori appetibili o marginali e/o di cittadini buoni cattivi o “pericolosi”.Siamo così alla terza tesi, la più inquietante, secondo cui la nuova sorveglianza si propone di selezionare le persone allo stesso modo in cui, nei campi di concentramento nazisti, si selezionava chi doveva essere eliminato subito e chi poteva ancora tornare utile. Oggi è sparita la violenza omicida, ma non il principio della classificazione come presupposto di un trattamento differenziale per le diverse categorie di consumatori e cittadini. Il marketing ci valuta in base ai nostri “profili”, cioè ai nostri precedenti comportamenti di consumo; i sistemi di sicurezza non rivolgono più la loro attenzione ai singoli potenziali malfattori ma alle “categorie sospette” (vedi le disavventure delle persone di origine araba ai controlli negli aeroporti occidentali). Ecco perché la privacy non è più soltanto minacciata, ma diventa addirittura sospetta.Quante volte vi siete sentiti rispondere da qualcuno a cui ponevate il problema “che m’importa tanto non ho nulla da nascondere”? Come dire: se qualcuno tiene troppo alla propria invisibilità è automaticamente sospettato di avere commesso un crimine. Una mentalità che alimenta la tendenza alla delazione: per non essere classificati fra i sospettati, siamo infatti disposti a puntare il dito (o gli occhiali di Google) contro gli altri. Infine la quarta tesi: esporsi alla sorveglianza è oggi divenuto un gesto spontaneo, se non addirittura gratificante. Se il sorvegliato del Panopticon era ossessionato dall’incubo di non essere mai solo, il nostro incubo è diventato quello di non essere notati da nessuno; quello che vogliamo è non sentirci mai soli. Addestrati dai reality show televisivi e dall’esibizionismo dei social media, i nativi digitali considerano l’esibizione pubblica del privato come una virtù, se non come un dovere; “diventiamo tutti, al tempo stesso, promotori di merci e le merci che promuoviamo”, siamo costantemente impegnati a trasformare noi stessi in una merce vendibile.La seduzione sostituisce la polizia come arma strategica del controllo e ciò non riguarda solo consumi e sicurezza, ma anche la nuova organizzazione del lavoro: i manager si liberano del fardello di gestire e controllare una forza lavoro che ormai si autocontrolla h24 (come le lumache, scrivono Lyon e Bauman, ci portiamo sempre dietro quei Panopticon personali che sono cellulari, smart phone e iPad). In molti dei concetti del libro di Lyon e Bauman – e soprattutto in quest’ultima tesi della collaborazione volontaria delle vittime – ritrovo quanto io stesso scrivevo qualche anno fa (“Felici e sfruttati”, Ed. Egea). Tuttavia, pur condividendo questi argomenti, non posso fare a meno di provare un certo disagio, perché mi sembra che nell’analisi manchi qualcosa. Nella loro critica all’idolatria della tecnica risuonano infatti echi dei discorsi di un autore come Jacques Ellul, discorsi in cui l’autonomia della tecnica e la sua capacità di “spersonalizzare” i sistemi di dominio e controllo vengono presentati come assoluti: «La guerra d’indipendenza delle scuri contro i boia», si legge in un passaggio del libro, «ormai si è conclusa con la vittoria delle scuri, ormai sono le scuri a scegliere i fini, cioè le teste da tagliare».Qui il pensiero corre ai droni e alla loro capacità di “anestetizzare” il senso di colpa di chi li manovra (o, in futuro prossimo, di fare del tutto a meno di manovratori umani); ma per quanto inquietanti ci appaiano simili fenomeni, credo che non andrebbero mai dimenticati i fattori politici ed economici – leggi le relazioni di potere fra dominati e dominanti – che rendono possibili certi sviluppi tecnici e che, quindi, rappresentano l’unico terreno su cui si possa sperare di lottare per cambiare direzione. Altrimenti l’unica speranza di salvezza, come mi pare succeda nell’ultimo capitolo del libro, resta affidata alla fede (è il caso di Lyon) o a un’etica laica (è il caso di Bauman) che rinvia solo a sé stessa.(Carlo Formenti, “Felici e sorvegliati”, da “Micromega” del 5 marzo 2014. Il libro: Sygmunt Bauman e David Lion, “Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida”, Laterza, 159 pagine, 16 euro).Le preoccupazioni per l’uso intensivo dei media digitali come strumenti di sorveglianza pervasiva sono aumentate esponenzialmente dopo le rivelazioni della “gola profonda” Edward Snowden sulle pratiche di spionaggio messe in atto dai suoi ex datori di lavoro, la maggiore agenzia di sicurezza Usa, la Nsa, ai danni dei cittadini americani e di tutti gli altri paesi, nonché di capi di Stato (anche alleati) e imprese pubbliche e private. A mano a mano che Snowden rendeva noti nuovi documenti che denunciavano tali pratiche – intercettazioni di conversazioni telefoniche, email e quant’altro – i media sfoderavano gli immancabili riferimenti al romanzo “1984” di Orwell, o al Panopticon di Bentham, utilizzato da Michel Foucault come emblema di una modernità assurta a regno della sorveglianza e del controllo. Ora un libro a quattro mani di David Lyon e Zygmunt Bauman (si tratta di una conversazione a distanza, realizzata attraverso lo scambio di email) dal titolo “Sesto Potere. La sorveglianza nella modernità liquida” (ed. Laterza) suggerisce una prospettiva diversa.
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Rottamano la Costituzione perché hanno paura di noi
Pessima trovata, abolire il Senato. Segno di una politica senza idee, che ha paura degli elettori. E tenta di rifarsi il trucco per nascondere la sua incapacità di affrontare i veri problemi che abbiamo di fronte: «La concentrazione del potere economico e gli andamenti della finanza mondiale, l’impoverimento e il degrado del pianeta, le migrazioni di popolazioni. Ne subiamo le conseguenze, senza poter agire sulle cause». E la classe dirigente? «Non dirige un bel niente», accusa Gustavo Zagrebelsky. «Non tenta di mettere la testa fuori. Per far questo, occorrerebbe avere idee politiche e almeno tentare di metterle in pratica». Così, resta solo «il formicolio della lotta per occupare i posti migliori nella rete dei piccoli poteri oligarchici», un formicolio «che allontana e disgusta la gran parte che ne è fuori». Pura «autoconservazione del sistema di potere e dei suoi equilibri». Dietro ai tweet di Matteo Renzi, il giurista torinese vede «il blocco d’una politica che gira a vuoto, funzionale al mantenimento dello status quo».Una volta, ricorda Zagrebelsky, Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani definirono “razza padrona” un certo equilibrio oligarchico del potere. «Oggi, piuttosto riduttivamente, la chiamiamo “casta”. Un’interpretazione è che un sistema di potere incartapecorito e costretto sulla difensiva, avesse bisogno di rifarsi il maquillage. Se questo è vero, è chiaro che occorrevano accessori, riverniciature: il renzismo mi pare un epifenomeno». La classe dirigente italiana? «E’ decaduta a un livello culturale imbarazzante. La ragione è semplice: di cultura politica, la gestione del potere per il potere non ha bisogno. Sarebbe non solo superflua, ma addirittura incompatibile», dice il presidente onorario della Consulta alla giornalista Silvia Truzzi del “Fatto Quotidiano”. Sgomenta la memoria degli uomini che gestirono la ricostruzione del paese nel dopoguerra: Parri, Nenni, De Gasperi, Einaudi, Togliatti. «Non è che avessero le stesse idee, ma ne avevano: e le idee davano un senso politico alla loro azione».Le cose che oggi vengono dette e fatte dai politici «sono pezze, rattoppi d’emergenza necessari per resistere, non per esistere. Non è politica. Nella migliore delle ipotesi, se non è puro “potere per il potere”, è gestione tecnica». Attenzione: «La tecnica guarda indietro, la politica dovrebbe guardare avanti». Esempio, il governo Monti, cioè «la tecnica come surrogato della politica: un’illusione». Lancinante, l’assenza di politica, proprio nei momenti di massima crisi. «Basta essere nuovi e giovani? No. Quello che conta è la struttura dei poteri cui si fa riferimento e di cui si è espressione». Oggi, «in questo vuoto politico-sociale che cosa esiste e prospera? La rete degli interessi più forti. È questa rete che esprime i dirigenti attraverso cooptazioni. La democrazia resiste come forma, ma svuotata di sostanza. Se la si volesse rinvigorire, occorrerebbe una società capace di auto-organizzazione politica, ciò che una volta sapevano fare i partiti. Oggi, invece, sono diventati per l’appunto, canali di cooptazione, per di più secondo logiche di clan e di spartizione dei posti. Così, non si promuove il tanto necessario e sbandierato rinnovamento, ma si “allevano” giovani uguali ai vecchi».Ecco la parola: «Il rinnovamento sembra molto spesso un “allevamento”. Il resto è apparenza: velocità, fattività, decisionismo, giovanilismo, futurismo, creativismo. Tutte cose ben note e di spiegabile successo, soprattutto in rapporto con l’arteriosclerosi politica che dominava. Ma la novità di sostanza dov’è? La “rottamazione” a che cosa si riduce?». Magari al consueto refrain della necessità di modificare l’assetto costituzionale. «Le istituzioni possono sempre essere migliorate e rese più efficienti, ma mi pare che siano diventate il capro espiatorio di colpe che stanno altrove», sottolinea Zagrebelsky. Il vero problema: «Le difficoltà che incontra un aggregato di potere che sempre più difficoltosamente riesce a mediare e tenere insieme il quadro delle compatibilità, in presenza di risorse pubbliche da distribuire sempre più scarse». Ai tempi di Berlusconi, continua Zagrebelky, l’insofferenza nei confronti della Costituzione derivava «dalle esigenze di un potere aggressivo». Oggi, invece, «l’atteggiamento è piuttosto difensivo», perché i fautori delle “ineludibili” modifiche costituzionali dicono: c’è bisogno di cambiamenti per governare meglio, con più efficienza. Ma il vero scopo è difendersi dai cittadini, dalla democrazia: «Il terrore delle elezioni, la vanificazione dei risultati elettorali, i “congelamenti” istituzionali in funzione di salvaguardia vanno nella stessa direzione».Gli italiani avevano archiviato il Cavaliere? Ecco che Renzi l’ha prontamente riesumato. La Consulta ha definito il Parlamento illegittimo, eletto dall’incostituzionale Porcellum? Pazienza, si fa finta di niente. E proprio a parlamentari così “nominati” si chiede di manomettere la Costituzione. Larghe intese, quindi, per paura di Grillo. «Le larghe intese sono la negazione della dimensione politica», continua Zagrebelsky. «Sono il regime della paralisi, della stasi». Sicché, oggi «sembra che si viva in un eterno presente, in cui una posta di natura politica non esiste. Se non ci sono scelte, non c’è politica, e se non c’è politica non c’è democrazia, ma solo conflitti personali, di gruppo o di clan per posti, favori e, nel caso peggiore, garanzie d’immunità». Quindi siamo senza futuro? Sì, «finché la palude non viene smossa». Sfiducia, astensionismo. «Perché i cittadini vanno sempre meno a votare? Una volta si diceva “son tutti uguali”, intendendo “sono tutti corrotti”. Ma oggi è peggio, si pensa: “tanto non cambia nulla”. È un effetto della stasi politica».Il Movimento 5 Stelle, riconosce Zagrebelky, è nato col dichiarato intento di “smuovere la palude”, addirittura di «investirla con una burrasca che rovesci tutto», anche se la politica «deve contenere anche un intento costruttivo», perché «la tabula rasa e la rete non sono programmi. Non lo è nemmeno la lotta alla corruzione che, di per sé, rischia d’essere solo una competizione per la sostituzione d’una oligarchia nuova a una vecchia». Contro la corruzione «devono valere le istituzioni di controllo e l’intransigenza dei cittadini», perché «in difetto di politica, alla corruzione non c’è limite». Di fronte a noi, c’è un’oligarchia che si arrocca, pronta a tutto – anche a rottamare democrazia e Costituzione. L’Italicum: «Mi colpisce che la legge elettorale sia decisa dagli accordi d’interesse di tre persone (Berlusconi, Renzi, Alfano) invece che dalle ragioni della democrazia, cioè dalle ragioni di tutti i cittadini elettori. Mi colpisce tanta arroganza, mentre con un Parlamento delegittimato come l’attuale, si tratterebbe di fare la legge più neutrale possibile. Mi colpisce che si sospenderà il diritto alle elezioni, perché la contraddizione tra le due Camere impedirà di scioglierle».Pessima trovata, abolire il Senato. Segno di una politica senza idee, che ha paura degli elettori. E tenta di rifarsi il trucco per nascondere la sua incapacità di affrontare i veri problemi che abbiamo di fronte: «La concentrazione del potere economico e gli andamenti della finanza mondiale, l’impoverimento e il degrado del pianeta, le migrazioni di popolazioni. Ne subiamo le conseguenze, senza poter agire sulle cause». E la classe dirigente? «Non dirige un bel niente», accusa Gustavo Zagrebelsky. «Non tenta di mettere la testa fuori. Per far questo, occorrerebbe avere idee politiche e almeno tentare di metterle in pratica». Così, resta solo «il formicolio della lotta per occupare i posti migliori nella rete dei piccoli poteri oligarchici», un formicolio «che allontana e disgusta la gran parte che ne è fuori». Pura «autoconservazione del sistema di potere e dei suoi equilibri». Dietro ai tweet di Matteo Renzi, il giurista torinese vede «il blocco d’una politica che gira a vuoto, funzionale al mantenimento dello status quo».
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Col Ttip gli Usa ci arruolano nella guerra contro la Cina
Tra un paio d’anni potrebbe crollare il nostro attuale sistema democratico, se il potere supremo dovesse passare direttamente alle grandi multunazionali grazie all’approvazione del Ttip, il Trattato Transatlantico destinato a lasciare al business l’ultima parola su lavoro, salute, sicurezza alimentare, acqua e beni comuni. Su “Le Monde Diplomatique”, Ignacio Ramonet rilancia l’allarme: quel trattato super-segreto fa paura, perché rivela la volontà degli Usa di trascinare l’Europa nello scontro geopolitico con la Cina. Il vero obiettivo dell’Accordo Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti, infatti, è fermare l’inesorabile avanzata di Pechino, che sta clamorosamente ridimensionando la leadership mondiale di Washington: tra una decina d’anni, al massimo, lo yuan potrebbe definitivamente scalzare il dollaro come valuta di scambio internazionale, mettendo fine a cent’anni di egemonia statunitense.Lo scopo del trattato che Washington e Bruxelles stanno mettendo a punto, lontano dai riflettori e con “l’assistenza” di 600 super-lobbysti, è quello di creare la maggiore zona di libero scambio commerciale del pianeta, con circa 800 milioni di consumatori. L’area formata da Usa ed Europa rappresenta quasi la metà del prodotto interno lordo mondiale e un terzo del commercio mondiale. L’Ue è la principale economia del mondo, ricorda Ramonet in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”: i suoi 500 milioni di abitanti dispongono in media, pro capite, di 25.000 euro di entrate all’anno. «Ciò significa che l’Ue è il maggior mercato mondiale e il principale importatore di manufatti e di servizi, dispone del maggiore volume di investimenti all’estero ed è il principale ricettore planetario di investimenti stranieri». L’Unione Europea è anche il primo investitore negli Usa, la seconda destinazione dell’esportazione statunitense e il maggior mercato per l’esportazione statunitense di servizi.La bilancia commerciale dei beni destina alla Ue un attivo di 76.300 milioni di euro; e quella dei servizi, un deficit di 3.400 milioni. Gli investimenti diretti dell’Ue negli Usa, viceversa, si aggirano sui 1.200 miliardi di euro. Washington e Bruxelles vorrebbero chiudere il trattato Ttip in meno di due anni, prima che scada il mandato del presidente Barack Obama. «Perché tanta fretta? Perché, per Washington, questo accordo ha un carattere geostrategico. Costituisce un’arma decisiva di fronte all’irresistibile crescita della potenza cinese», accompagnata da quella degli altri Brics, ovvero Brasile, Russia, India e Sudafrica. «Bisogna precisare che tra il 2000 e il 2008 il commercio internazionale della Cina si è più che quadruplicato: le sue esportazioni sono aumentate del 474% e le importazioni del 403%. Conseguenze? Gli Stati Uniti hanno perso la loro leadership come prima potenza commerciale del mondo che ostentavano da un secolo». Prima della crisi finanziaria del 2008, gli Usa erano il socio commerciale più importante per 127 Stati del mondo; la Cina lo era solo per 70 paesi. Questo bilancio si è invertito: oggi, la Cina è il socio commerciale più importante per 124 Stati, mentre gli Usa solo per 76.«Pechino, al massimo in dieci anni, potrebbe fare della sua moneta, lo yuan, l’altra grande divisa dell’interscambio internazionale e minacciare la supremazia del dollaro», spiega Ramonet. «È anche sempre più chiaro che le esportazioni cinesi non sono solo più di bassa qualità a prezzi accessibili grazie alla sua manodopera conveniente. L’obiettivo di Pechino è alzare il livello tecnologico della sua produzione e dei suoi servizi per essere leader domani anche nei settori (informatica, finanza, aereonautica, telefonia, ecologia) che gli Usa e altre potenze tecnologiche occidentali pensavano di poter preservare». Per tutte queste ragioni, ed essenzialmente per evitare che la Cina diventi la prima potenza mondiale, Washington desidera «blindare grandi zone di libero scambio dove i prodotti di Pechino avrebbero difficile accesso». Lo si sta facendo anche nel Pacifico, con un trattato gemello come la Tpp, Trans-Pacific Partnership.Tema cruciale, ma escluso dall’agenda-news dei grandi media: i cittadini “non devono sapere”, in modo che i tecnocrati di Bruxelles possano procedere indisturbati, cioè in modo opaco e non democratico, obbedendo ai “consigli” delle più grandi multinazionali del pianeta. Obiettivo finale: abbattere tutti i vincoli che oggi in Europa tutelano i consumatori, esponendo gli Stati al rischio di pesantissime penali – inflitte da tribunali speciali formati da legali d’affari – nel caso in cui le grandi compagnie accusassero i governi di “ostacolare il business” difendendo i lavoratori, l’ambiente, la salute pubblica, la sicurezza alimentare, la sopravvivenza di servizi non privatizzati. Pia Eberhardt, della Ong “Corporate Europe Observatory”, denuncia che i negoziati si sono tenuti senza alcuna trasparenza democratica: con la Commissione Europea solo impresari e lobby, esclusi tutti gli altri: giornalisti, ambientalisti, sindacati, organizzazioni per la difesa del consumatore. Un grande pericolo, denuncia Eberhardt, viene «dagli alimenti non sicuri importati dagli Usa, che potrebbero essere transgenici, o i polli disinfettati con cloro, procedimento proibito in Europa».Altri critici temono le conseguenze del Ttip in materia di educazione e conoscenza scientifica, inclusi i diritti intellettuali. In questo senso, la Francia, per proteggere il suo importante settore audiovisivo, ha già imposto una “eccezione culturale”, in modo che l’industria della cultura francese sia esclusa dal trattato. «Varie organizzazioni sindacali – continua Ramonet – avvertono che, senza dubbio, l’Accordo Transatlantico sprofonderà nei tagli sociali, nella riduzione dei salari, e distruggerà l’impiego in diversi settori industriali (elettronica, comunicazione, attrezzature dei trasporti, metallurgia, carta, servizi per le imprese) e agrari (pastorizia, agrocombustibili, zucchero)». Gli ecologisti europei spiegano inoltre che il Ttip, eliminando il principio di precauzione, potrebbe facilitare l’eliminazione di normative per la difesa dell’ambiente o di sicurezza alimentare e sanitaria.Alcune Ong ambientaliste temono che anche in Europa si incominci a introdurre il fracking, ossia l’uso di sostanze chimiche pericolose per le falde acquifere, per poter sfruttare il gas e il petrolio di scisto. Il maggior pericolo del Trattato Transatlantico resta il capitolo sulla “protezione degli investimenti”, che metterebbe fine alla residua sovranità degli Stati, costretti a piegarsi per non pagare sanzioni esorbitanti, inflitte per il “reato” di “limitazione dei profitti”. «Per il Ttip i cittadini non esistono», conclude l’analista di “Le Monde Diplomatique”: «Ci sono solo consumatori e questi appartengono alle imprese private che controllano i mercati. La sfida è immensa. La volontà civica di fermare il Ttip non deve essere da meno».Tra un paio d’anni potrebbe crollare il nostro attuale sistema democratico, se il potere supremo dovesse passare direttamente alle grandi multunazionali grazie all’approvazione del Ttip, il Trattato Transatlantico destinato a lasciare al business l’ultima parola su lavoro, salute, sicurezza alimentare, acqua e beni comuni. Su “Le Monde Diplomatique”, Ignacio Ramonet rilancia l’allarme: quel trattato super-segreto fa paura, perché rivela la volontà degli Usa di trascinare l’Europa nello scontro geopolitico con la Cina. Il vero obiettivo dell’Accordo Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti, infatti, è fermare l’inesorabile avanzata di Pechino, che sta clamorosamente ridimensionando la leadership mondiale di Washington: tra una decina d’anni, al massimo, lo yuan potrebbe definitivamente scalzare il dollaro come valuta di scambio internazionale, mettendo fine a cent’anni di egemonia statunitense.
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Revelli: temo Renzi, pericoloso funambolo dilettante
L’Italia danza sull’abisso, nelle mani di un funambolo dilettante che cammina sulla fune senza rete. E tutti lì sotto, con il naso in aria, a gridargli di accelerare. E’ l’immagine che emerge dai tanti messaggi augurali pervenuti a Renzi. Di Scalfari. Di Gad Lerner. Di Mario Calabresi. Di Massimo Cacciari. Del “Messaggero” e del “Sole”. Delle Coop e di Confindustria. Tutti improntati a un’euforia di maniera (bisognava “fare qualcosa”). Tutti in realtà segnati dalla paura. E dalla vertigine. L’ultima accelerazione l’ha rivelato: nella sua corsa folle alla conquista del Palazzo, Matteo Renzi ha concentrato su di sé tutto – la crisi interna al Pd, la crisi di governabilità del Parlamento, la crisi di iniziativa del Governo, lo stato comatoso dell’economia, la crisi di fiducia della società.Tutto, come in una grande matrioska dal volto di roditore. Cosicché davvero, se fallisce, cade tutto: finisce il Pd, si scioglie il Parlamento, si commissaria il Paese, si accelera la dissoluzione sociale… Motivo per cui, appunto, non resta che “sperare”. Sperare a prescindere. Contro l’evidenza, che ci dice che così non può farcela. Renzi non ha né le competenze, né l’autorevolezza, né la forza politica (ha seminato troppi cadaveri nella sua marcia forzata), per fare questo “miracolo”. Di Craxi ha l’arroganza e la presunzione, ma non il profilo da politico di lungo corso (l’uomo che aveva ridato orgoglio a un Psi umiliato dal compromesso storico) e l’aura dell’Internazionale socialista intorno, oltre che il partito nel pugno. Di Berlusconi ha lo stile da istrione e la ciarlataneria che piace a molti italiani, ma non il capitale monetario e umano che Mediaset e Publitalia (con qualche compartecipazione mafiosa) assicuravano. Punta su un’unica risorsa: il mito della velocità.Mito marinettiano (un po’ frusto per la verità, un secolo più tardi). E problematico per uno che vanta tra i principali supporter quello che dello slow ha fatto un brand, sia pur rispetto al food… Come nel caso della nuova tecnologia usata in America per produrre idrocarburi frantumando gli strati scistosi, anche Matteo Renzi pratica il fracking, generando energia dalla frantumazione di tutto ciò che gli sta sotto, a cominciare dal partito che l’ha portato fin qui, e dalla macchina dello Stato. Ma come gli ambientalisti ci spiegano che il fracking inquina le falde, così il renzismo rischia di inquinare il nostro spazio pubblico. Accelerando non la soluzione, ma la crisi stessa. Rischiando di lasciarci – dopo aver fagocitato tutto – “nudi alla meta”. Per questo è così necessario, e così pressante, costruire uscite di sicurezza. Piani di emergenza (e di evacuazione). Alternative politiche in cui i naufraghi possano approdare. Noi, che siamo prudenti e predichiamo il “principio di responsabilità!” di cui parla Hans Jonas, lavoriamo a questo.(Marco Revelli, “Il renzismo come esorcismo”, dal sito “Lista Tsipras” del 24 febbraio 2014).L’Italia danza sull’abisso, nelle mani di un funambolo dilettante che cammina sulla fune senza rete. E tutti lì sotto, con il naso in aria, a gridargli di accelerare. E’ l’immagine che emerge dai tanti messaggi augurali pervenuti a Renzi. Di Scalfari. Di Gad Lerner. Di Mario Calabresi. Di Massimo Cacciari. Del “Messaggero” e del “Sole”. Delle Coop e di Confindustria. Tutti improntati a un’euforia di maniera (bisognava “fare qualcosa”). Tutti in realtà segnati dalla paura. E dalla vertigine. L’ultima accelerazione l’ha rivelato: nella sua corsa folle alla conquista del Palazzo, Matteo Renzi ha concentrato su di sé tutto – la crisi interna al Pd, la crisi di governabilità del Parlamento, la crisi di iniziativa del governo, lo stato comatoso dell’economia, la crisi di fiducia della società.
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Renzi stai sereno, con l’euro il tuo governo è già morto
Tragica cosa per le persone di questo paese, non per ’sto egocentrico servo della finanza europea. Renzi fallirà come un cretino qualsiasi. Perché neppure può provarci. Non sto provocando, è che la sua è una missione impossibile. Se non fosse ’sto pupazzo pompato che è, se conoscesse l’Eurozona e la macroeconomia, non si sarebbe cacciato in questo pasticcio (e badate che sto dicendo che pure i suoi padroni speculatori ci smeneranno il muso, perché ’sto gioco di creare una moneta unica per distruggere mezza Europa e fare un gran banchetto si è già ritorto contro chi l’ha pensato. Gli speculatori ci hanno fatto un po’ di fortune per pochi anni, ma sta finendo). Per prima cosa Renzi si ritrova senza sovranità monetaria, quindi senza nessuna delle leve economiche fondamentali di cui deve godere un governo degno di questo nome, e di cui godono gli Usa, la Gran Bretagna, la Svezia o il Giappone.Non ha una banca centrale che possa controllare inflazione, prezzo del denaro, tassi d’interesse, né monetizzare la spesa decisa dal Parlamento. Renzi non possiede una moneta, e deve usare gli euro, da restituire con tassi non decisi da lui ai mercati di capitali internazionali. Dovrà dunque tassarci a morte sempre, per fare quanto appena detto. Dovrà quindi mentire all’Italia fingendo col gioco delle tre carte di spostare fondi e investimenti essenziali (lavoro, infrastrutture, crescita) da qui a lì, per poi rimangiarseli tutti con gli interessi. Dovrà rispettare il pareggio di bilancio, che peggiora ciò che ho appena scritto. Ovvero: chemiotassazione garantita, impossibilità di investire per le aziende e tagli alla spesa. Qui abbiamo la garanzia della decapitazione di speranze di posti di lavoro, salari, pensioni, modernizzazione del paese, sanità, risparmi privati, piano industriale, risanamento bancario, crescita del Pil e domanda aggregata. Potrei finire qui, ce n’è già a sufficienza, ma purtroppo…Renzi si ritroverà in una spirale di deficit negativi mortali, cioè di tutte quelle spese di Stato imposte dalla crisi dell’Eurozona ma che non risolvono nulla, non producono nulla e che aumentano il debito di Stato. Per prima cosa l’economia continuerà a contrarsi, come è già previsto per l’Italia dal Fmi, Bloomberg, Ocse, Commissione Ue, e quindi calerà sempre il gettito fiscale, che quindi va a ingrandire il debito. L’economia impantanata significa che il miliardo di ore di cassa integrazione rimarranno e aumenteranno, pompando di nuovo il debito. I fallimenti aziendali non caleranno, la curva dei prestiti bancari insolventi aumenterà e le banche italiane, che già sono in parte fallite, dovranno essere ri-salvate, a suon di denaro pubblico, e ancora il debito sale. Assieme ad esso salgono gli interessi da pagare, sempre spesa di Stato, ancora più debito. Ma stando in Eurozona, un debito che lievita è grave (con la lira non lo sarebbe) perché porta all’allarme delle agenzie di rating, che porta all’allarme dei mercati di capitali che prestano a Renzi gli euro, che porta a tassi più alti sui titoli di Stato, che porta a più debito.Che farà Draghi a ’sto punto? Si metterà a comprarci i titoli di Stato per far scendere i nostri tassi? Farà cioè la famosa Outright Monetary Transaction? Se lo fa, la Germania lo ammazza. Non lo farà. Renzi rimane nel letame. Renzi si ritrova con un’economia che si è contratta del 18% dalla fine degli anni ’90. Per riportarci a quel livello di vita, dovrebbe riuscire a far crescere l’Italia del 20%. No, calma, visto che oggi cresciamo dello 0,1% se va bene…. il 20% fa ridere. Renzi non è Roosevelt e non ha la sua testa. Poi abbiamo il problema della deflazione che sta aggredendo tutta l’Eurozona, con la Bce disperata perché non sa più che fare per fermare il crollo dei prezzi (deflazione = contrario di inflazione). E quel che è peggio, è che in un clima di crisi di queste proporzioni la gente corre a risparmiare disperatamente per il timore del domani (mica scemi), ma questo sottrae denaro in circolo, cosa che non solo affama tutta l’economia, ma peggiora la deflazione stessa. Vorrei che capiste che questo è uno dei mali economici peggiori e che c’è tutta la tecnocrazia europea che non sa più come fermarlo. Immaginatevi Renzi, il bulletto del Pd.Renzi, poi, fra otto mesi si ritroverà l’implosione del sistema creditizio europeo, quando i test dei regolamentatori dell’Eba inevitabilmente mostreranno che alcune delle maggiori banche sono irrecuperabili. Da qui il terremoto delle piccole-medio banche, fra cui quelle italiane sono quelle messe peggio d’Europa sia come buchi di bilancio che come capitale di copertura. Prometeia stima che solo per i prestiti insolventi le banche italiane siano scoperte per 150 miliardi di euro. E chi le salva? E con che soldi? No, Renzi, la sovranità monetaria non ce l’hai, non le puoi nazionalizzare. Che fai? Chiami Benigni?Ma Renzi almeno ha la carta delle privatizzazioni… Vendi il vendibile, incassa l’incassabile. Funziona? No. Non ha funzionato in nessun paese del mondo, meno che meno da noi quando proprio il centro sinistra si mise negli anni ’90 a svendere pezzi di beni di Stato a un ritmo talmente forsennato che fece il record europeo delle privatizzazioni nel 1999. Sapete di quanto ridussero il debito di Stato italiano? Di un maestoso 8%. E allora i prezzi contrattati per i beni pubblici da alienare erano, circa, decenti. Oggi, con l’Italia sprofondata dall’Eurozona in una svalutazione della sua economia da piangere, Roma deve svendere a prezzi stracciati qualsiasi cosa offra, con margini che saranno patetici. Renzi, farà la Thatcher dei poveri.E la disoccupazione? Sapete cosa costa all’Italia avere il 12% (fasullo, è molto di più) di disoccupati? Trecentosessanta miliardi all’anno perduti. E i giovani? Il 76% di loro è costretto alla flessibilità, con limiti invalicabili all’acquisto di una casa o al matrimonio. L’Eurozona fu pensata ed edificata proprio per ridurre il sud Europa a un serbatoio di lavoratori pagati alla kosovara ma in strutture moderne. Il futuro di questi ragazzi è ormai certo: stipendi dai 600 agli 800 euro per i più qualificati, al lavoro per investitori stranieri. Questo non è più un economicidio, è un olocausto economico e generazionale, che Renzi dovrà gestire sotto l’egida della Germania che già oggi sta affossando il resto d’Europa coi suoi diktat criminosi. Tradotto in termini specifici: il potere neomercantile della mega-industria tedesca, quello della Bundesbank, quello dei maggiori speculatori-rentiers del mondo, contro Renzino da Firenze.Matteo, tu fai fesso qualcun altro. Perché è vero che ignori il 70% di tutto questo, ma sul restante 30% sei pienamente d’accordo, da bravo leader del partito di destra finanziaria peggiore d’Italia, il Pd. Conclusione. Renzi non si rende conto di cosa lo aspetta, ma soprattutto del fatto che la catastrofe dell’economia italiana è un MACROPROBLEMA STRUTTURALE nell’Eurozona, e finché esisteranno i parametri economicidi dell’euro non esiste salvezza. Il governo Renzi è morto prima di nascere. Poi, sapete, uno si stufa di scrivere sempre le stesse cose.(Paolo Barnard, “L’Eurozona ha già ucciso il governo Renzi”, dal blog di Barnard del 18 febbraio 2014).Tragica cosa per le persone di questo paese, non per ’sto egocentrico servo della finanza europea. Renzi fallirà come un cretino qualsiasi. Perché neppure può provarci. Non sto provocando, è che la sua è una missione impossibile. Se non fosse ’sto pupazzo pompato che è, se conoscesse l’Eurozona e la macroeconomia, non si sarebbe cacciato in questo pasticcio (e badate che sto dicendo che pure i suoi padroni speculatori ci smeneranno il muso, perché ’sto gioco di creare una moneta unica per distruggere mezza Europa e fare un gran banchetto si è già ritorto contro chi l’ha pensato. Gli speculatori ci hanno fatto un po’ di fortune per pochi anni, ma sta finendo). Per prima cosa Renzi si ritrova senza sovranità monetaria, quindi senza nessuna delle leve economiche fondamentali di cui deve godere un governo degno di questo nome, e di cui godono gli Usa, la Gran Bretagna, la Svezia o il Giappone.
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Cardini: soldati privati e polizie agli ordini dell’élite
«Più il soldato era estraneo e magari perfino ostile rispetto all’ambiente nel quale espletava il suo servizio, più la sua fedeltà si indirizzava esclusivamente ai suoi superiori e meglio lo si poteva usare come strumento di repressione». Un tema che torna d’attualità oggi, nell’Europa travolta dalla crisi socio-economica e sull’orlo di rivolte. Per lo storico Franco Cardini, «siamo all’anno zero; e poiché siamo governati da anonimi poteri, è ovvio che il corpo di polizia sovranazionale serva ai loro interessi». A Cardini, intervistato da Alberto Melotto per “Megachip”, non sfugge il ricorso sistematico a nuove forme di repressione: dalla valle di Susa militarizzata alla Sicilia «ferita dal Muos», fino alla nuova inquietante gendarmeria europea, Eurogendfor. «Questa euro-milizia, che andrà ad incorporare in futuro la stessa Arma dei carabinieri, dovrà gestire crisi legate all’ordine pubblico», ricorda Melotto. «Si parla di un’immunità giudiziaria per gli appartenenti a questo corpo speciale di polizia: gli ufficiali di Eurogendfor non potranno essere intercettati dalle autorità giudiziarie dei singoli Stati».È facile supporre che un simile marchingegno verrà impiegato in situazioni dove si verifica una forte protesta sociale contro decisioni inique dei governi, argomenta Melotto, ragionando con Cardini sulla recente ripubblicazione del volume “Quell’antica festa crudele”, un viaggio – prima edizione nei primi anni ‘80 – lungo i secoli che vanno dal medioevo alla Rivoluzione Francese. Guerra e pace: «La guerra che crea nuove classi sociali, sollecita spostamenti di popolazioni affamate in cerca di ingaggi mercenari e terrorizza plebi contadine», e la pace che, dpo l’anno mille, «diffonde il proprio messaggio esigente e chiede risposte adeguate, col formarsi di movimenti che pongono seri limiti alle guerre private». Guerre private, organizzate da élite? La certezza del diritto si incrina appena viene meno la sovranità statale: «La sovranità nazionale – dice Cardini – l’Italia non ce l’ha più da quando il sistema Usa-Nato è entrato potentemente nella penisola, innervandola con le sue basi militari senza che i nostri governi abbiano mosso un dito, anzi sulla base di un’evidente loro connivenza».Cardini, osserva Melotto, nella sua analisi storica vuole «mettere l’accento su una civiltà che possedeva una forte consapevolezza di quel che significasse l’andare in battaglia, che trovava in sé gli anticorpi che potessero salvarla da un definitivo tracollo, da un totale cedimento alla barbarie del sangue versato». Consapevolezza che, secondo Cardini, risulta assente ingiustificata ai nostri giorni. Riproporre oggi “Quell’antica festa crudele”, infatti, «è utile per marcare la distanza che separa un periodo di impegno e di scontro culturale e politico dai nostri anni inconsapevoli». Se nei secoli passati la guerra poteva essere “umanizzata”, “razionalizzata” e quindi dominata, oggi «la mancanza di una morale condivisa nell’opinione pubblica pare far da preludio al trionfo delle guerre non più legate ai voleri degli Stati-nazione. Oggi, l’istituzione di una milizia come Eurogendfor fa pensare a un fronte di guerra interno: «È la prosecuzione della costruzione di Eurolandia a favore di chi la gestisce e ne ricava i frutti».Non era meglio la leva obbligatoria? Un esercito difensivo, una forza di protezione civile? «Un esercito che nasca con i soli scopi difensivi e di aiuto alla popolazione civile non è un esercito», dice Cardini. «Quello di cui avremmo bisogno sarebbe un vero esercito europeo, non un’organizzazione di ascari al servizio della Nato. La leva obbligatoria non è più concepibile: il processo di destrutturazione della società civile italiana è andato ormai troppo oltre». Altro segnale allarmante: il movimento pacifista si è quasi dissolto. «Siamo nella fase delle operazioni di polizia internazionali, funzionali al governo delle lobbies multinazionali che sta sempre più governando il mondo intero, con alcune zone ancora poco chiare. Per esempio, dove va la Cina? Si adatterà a questo tipo di gioco, e in che modo?». Quest’anno ricorre l’anniversario dello scoppio della Grande Guerra: quanto vi era di consapevole, nei governanti dell’epoca, nella decisione di mandare al massacro i proletari d’Europa l’un contro l’altro? «Il punto – replica Cardini – non era massacrare i proletari, ma perseguire una politica di potenza: la Russia voleva raggiungere il Mediterraneo, la Francia vendicarsi dei tedeschi e recuperare le aree ferrifere e carbonifere dell’area renano-mosellana. Certo, la guerra era un diversivo rispetto all’affrontare la questione sociale».La sinistra italiana, incarnata allora nel Partito Socialista – ricorda Melotto – fu l’unica in Europa a non chinare il capo alle intimidazioni del nazionalismo, diversamente da quanto fecero i socialisti francesi, che votarono i crediti di guerra dopo l’assassinio del loro dirigente Jean Jaurés. Non fu uno dei momenti più alti della storia del movimento operaio italiano? «Sì, e anche del mondo cattolico che in genere era nemico del conflitto», concorda Cardini. «Ma c’erano ormai larghe aree d’inquinamento nazionalista, tra i socialisti e tra i cattolici. Quanto all’interventismo rivoluzionario, che nasceva su altre basi, alla prova si rivelò un cavallo di Troia del nazionalismo». Oggi, la riflessione storica rischia di essere intorbidita: i «fanatici», decisi a «minimizzare le responsabilità dei nazisti» negando la tragedia della Shoah, finiscono col danneggiare anche «i ricercatori seri», che rivendicano il diritto di rivedere la storia, correggendo errori e mistificazioni. Cè poco da stare allegri: «Ci vorrebbe una Costituzione europea e una raggiunta maturità di coscienza appunto federale o confederale da parte dei popoli, che non c’è». C’è invece il dominio egemonico della Troika. «Chi lo ha voluto? Quali sono i suoi poteri? Chi li ha determinati? Una decisione di questo tipo non può esser presa nel totale silenzio dei governati».(Il libro: Franco Cardini, “Quell’antica festa crudele”, Il Mulino, 520 pagine, 30 euro).«Più il soldato era estraneo e magari perfino ostile rispetto all’ambiente nel quale espletava il suo servizio, più la sua fedeltà si indirizzava esclusivamente ai suoi superiori e meglio lo si poteva usare come strumento di repressione». Un tema che torna d’attualità oggi, nell’Europa travolta dalla crisi socio-economica e sull’orlo di rivolte. Per lo storico Franco Cardini, «siamo all’anno zero; e poiché siamo governati da anonimi poteri, è ovvio che il corpo di polizia sovranazionale serva ai loro interessi». A Cardini, intervistato da Alberto Melotto per “Megachip”, non sfugge il ricorso sistematico a nuove forme di repressione: dalla valle di Susa militarizzata alla Sicilia «ferita dal Muos», fino alla nuova inquietante gendarmeria europea, Eurogendfor. «Questa euro-milizia, che andrà ad incorporare in futuro la stessa Arma dei carabinieri, dovrà gestire crisi legate all’ordine pubblico», ricorda Melotto. «Si parla di un’immunità giudiziaria per gli appartenenti a questo corpo speciale di polizia: gli ufficiali di Eurogendfor non potranno essere intercettati dalle autorità giudiziarie dei singoli Stati».
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«Cari terroristi, sparate direttamente a noi No-Tav»
Cari (si fa per dire) terroristi, chi vorreste prendere per i fondelli? Ce l’avete per caso coi No-Tav, cioè i valsusini che hanno raccolto quasi 300.000 euro in sole tre settimane per sostenere la loro battaglia legale contro l’ecomostro chiamato Torino-Lione? Pensate davvero che qualcuno possa credere che chi si rivolge al popolo italiano per difendersi in tribunale, alla luce del sole, poi vada in giro di notte a piazzare bombe o magari a progettare attentati e omicidi? E’ questo il senso dell’appello “Condannateci tutti”, firmato da alcuni esponenti No-Tav all’indomani della strana rivendicazione con la quale la fantomatica sigla “Noa – nuclei operativi armati” pretenderebbe di parlare a nome dei No-Tav, addirittura promettendo di eliminare fisicamente i responsabili della repressione contro la protesta della valle di Susa. Ridicolo il solo pensare che il movimento No-Tav possa “convertirsi alla lotta armata”, proprio mentre mobilita l’opinione pubblica italiana per avere sostegno legale.I firmatari si rivolgono direttamente agli autori della lettera recapitata all’Ansa: «“Misteriosi” Noa, abbiamo appena letto il vostro comunicato, uscito con grande puntualità a tre giorni esatti dalla mobilitazione del 22 febbraio che il movimento No-Tav ha sollecitato in tutta Italia per ribadire la più ferma opposizione allo spreco di denaro pubblico secondo la logica delle grandi opere inutili». Intanto, «non capiamo come mai il movimento dovrebbe convertirsi alla lotta armata se già così, per il solo sospetto di aver causato l’incendio di un compressore, abbiamo quattro amici in carcere da mesi da mesi con l’accusa di terrorismo. Poi non capiamo come qualcuno possa ancora credere alla favola dei No-Tav terroristi quando abbiamo appena dimostrato, con una colossale raccolta fondi spontanea e solidale, a oggi di oltre 285mila € (raccolti in tempi di crisi durissima e in sole tre settimane), di voler ottemperare legalmente agli obblighi derivanti dalla condanna (che pure riteniamo profondamente ingiusta) inflitta a tre di noi nella causa intentataci da Ltf. A chi vi state rivolgendo, dunque?».«Il movimento No-Tav non ha orecchie per ascoltare questo genere di provocazioni», scrivono Eleonora Ponte, Claudio Giorno, Roberta Vair, Alberto Fiorentini, Paola Martignetti, Roberto Perdoncin, Chiara Sasso, Lisa Ariemma, Valerio Colombaroli, Valeria Longo, Cristina Bruno, Daniele Forte, Claudio Piacenza, Loredana Bellone e Mario Solara. «Il movimento è da sempre non violento e ha dimostrato di essere talmente forte da non aver bisogno di armi: abbiamo già dalla nostra la forza della ragione. E siamo tanti, sempre di più». I presunti “terroristi” che si firmano “Noa”? Sono proprio «fuori strada». Oppure, è una strada «che è stata loro indicata, come al solito», da chi vuole criminalizzare i No-Tav: «Il vostro vero obiettivo siamo noi. Ma il giochetto non funziona più. E’ vecchio, ormai».E ancora: «Cercate dei facili obiettivi? E perchè allora mettere di mezzo persone importanti che hanno anche la scorta? E che poi magari si spaventano davvero? Dovreste cominciare col colpire noi, siamo No-Tav e quindi obiettivi facilissimi. Niente scorta, qualcuno di noi non ha nemmeno più l’auto». «Non potremo darvi la soddisfazione di spaventarci – concludono i firmatari – perchè molti No-Tav, come dimostrano da 25 anni, non hanno paura di niente. Trovano solo che la stupidità dei più forti e arroganti sia estremamente fastidiosa, oltreché inutile. Noi le nostre energie le stiamo spendendo tutte per un’altra idea di società, economia, politica. Restiamo attesa di un vostro riscontro (condanna)».Cari (si fa per dire) terroristi, chi vorreste prendere per i fondelli? Ce l’avete per caso coi No-Tav, cioè i valsusini che hanno raccolto quasi 300.000 euro in sole tre settimane per sostenere la loro battaglia legale contro l’ecomostro chiamato Torino-Lione? Pensate davvero che qualcuno possa credere che chi si rivolge al popolo italiano per difendersi in tribunale, alla luce del sole, poi vada in giro di notte a piazzare bombe o magari a progettare attentati e omicidi? E’ questo il senso dell’appello “Condannateci tutti”, firmato da alcuni esponenti No-Tav all’indomani della strana rivendicazione con la quale la fantomatica sigla “Noa – nuclei operativi armati” pretenderebbe di parlare a nome dei No-Tav, addirittura promettendo di eliminare fisicamente i responsabili della repressione contro la protesta della valle di Susa. Ridicolo il solo pensare che il movimento No-Tav possa sposare il terrorismo, proprio mentre mobilita l’opinione pubblica italiana per avere sostegno legale.
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L’Italia senza Fiat, Marchionne umilia il made in Italy
Forse ricorderete certi giorni drammatici della crisi greca. Sembrava che non solo l’economia del paese, ma lo Stato greco come istituzione fosse sul punto del fallimento senza ritorno. Spaventava una temuta analogia con l’Italia. La risposta rassicurante è sempre stata: ma in Grecia non c’è la Fiat. Da più di un un secolo, generazione dopo generazione, ci siamo abituati a essere una grande potenza industriale, perché intorno alla Fiat era cresciuta un fitta distesa di imprese. Non parlo solo dell’immenso indotto (che poi, a sua volta, creava altri indotti in settori simili quanto a materiali e lavorazioni ma per prodotti diversi, lontani dall’automobile). Anche la nostra immagine nel mondo era fatta di Fiat. Non solo perché non ci sarebbe stata Pirelli, senza Fiat, e non sarebbe durata fino ai nostri giorni la Ferrari senza Fiat. Ma perché la presenza, la continuità, l’internazionalizzazione della Fiat era una specie di garanzia vasta e implicita per ogni nuovo imprenditore italiano che debuttava nel mondo.Suggerisco di non cadere nella trappola di immaginare – come consolazione e magari come vendetta – un’Italia che non ha mai avuto la Fiat. Possibilissimo. Forse ci sarebbero più verde, più treni, e meno autostrade. Ma il paese non apparirebbe, come appare ora, improvvisamente e brutalmente mutilato. E forse, fino a questo momento, sarebbe apparso più piccolo e meno importante. Si conoscono esodi, anche drammatici, di grandi gruppi imprenditoriali da un paese all’altro. Credo che il caso Fiat sia il primo che avviene non per cambio di proprietà, ma sotto la guida degli stessi azionisti che hanno deciso di vivere, pagare tasse, incassare dividendi, crescere e curare i loro affari altrove. È bene non dimenticare che la partenza Fiat avviene dopo avere abbandonato l’associazione degli altri imprenditori italiani, la Confindustria, dicendo al mondo che l’altra imprenditoria di questo paese non è all’altezza.Avviene dopo avere umiliato gli operai in parte cacciandoli, in parte dividendoli, ma lasciandoli quasi tutti in cassa integrazione, facendo sapere che costano troppo e che con loro uno bravo come Marchionne non intende trattare. Nel caso che qualcuno avesse in animo di investire in Italia, avrà il suo peso la lettera di raccomandazione dell’ad di ciò che è stata la Fiat agli imprenditori del mondo. Ci dicono che alcune fabbriche della ex Fiat rimangono in Italia, e appena l’Italia sarà uscita dalla crisi riprenderanno a produrre. Anzi, all’Italia è stato assegnato il settore lusso, che è più remunerativo. Se vende. Ma perché allora portare la Cinquecento torinese nell’America in piena ripresa, e far produrre a Torino Cherokee e Suv di stazza americana, come se stralunati cittadini italiani appena usciti (se, quando ne usciranno) dalla peggiore crisi dopo la guerra, avessero subito il desiderio di caricarsi il costo di macchine americane?Però se il settore, come è prevedibile, langue, sarà inevitabile dire: visto? Abbiamo fatto di tutto, ma gli italiani costano troppo e non vendono. Anno fiscale dopo anno fiscale (che si computa a Londra) le filiali italiane richiederanno, da un management saggio, ridimensionamenti adeguati. Pensosi economisti diranno che è inevitabile e anzi dovuto in base alle leggi del mercato. E sindacalisti prudenti dichiareranno di volta in volta che, ancora una volta, nei limiti del possibile, sono stati salvati (indicare il numero sempre più piccolo) posti di lavoro. Nei limiti del possibile. Si vede a occhio che quel “possibile” si sta restringendo da un pezzo. Niente investimenti, niente progetti, niente nuovo management, al posto di quello in partenza. In un prossimo, prevedibile e non lieto futuro, la “vittoria” dei sindacati sarà di avere salvato due stabilimenti su tre, poi uno su due.Alla fine si leverà un coro di sinceri apprezzamenti per i successi della Chrysler, una fabbrica americana di auto e motori dislocata a Detroit (Stati Uniti) con filiali nel mondo, tra cui l’Italia, con una proprietà coraggiosa (ha saputo sradicarsi dalla provincia costosa, che era una palla al piede) e perciò apprezzata dai mercati. Avete notato? Questo testo, che intendeva far notare la ferita grave di un’Italia senza Fiat, (un paese amputato della sua massima industria che, di colpo, perde paurosamente valore) è diventato un elogio di questa proprietà. Dopo tutto, potranno dirvi che, quando lo hanno deciso, annunciato e festeggiato non si è presentato neppure uno straccio di sottosegretario per sapere dove andava, e perché e con chi, l’azienda simbolo del paese, allo stesso tempo garantita e garanzia dell’Italia. Dopo vicende del genere non ci sono mai ritorni. La tenaglia americana ti accetta, ma non molla. E poi quell’infelice nuovo nome, Fca, si legge male e suonerebbe imbarazzante in Italia. Non preoccupatevi. Qui, in terra di colonia, non dovranno mai pronunciarlo. A loro basta che si dimentichi che qui, ai tempi di Gianni Agnelli, c’era la Fiat.Forse ricorderete certi giorni drammatici della crisi greca. Sembrava che non solo l’economia del paese, ma lo Stato greco come istituzione fosse sul punto del fallimento senza ritorno. Spaventava una temuta analogia con l’Italia. La risposta rassicurante è sempre stata: ma in Grecia non c’è la Fiat. Da più di un un secolo, generazione dopo generazione, ci siamo abituati a essere una grande potenza industriale, perché intorno alla Fiat era cresciuta un fitta distesa di imprese. Non parlo solo dell’immenso indotto (che poi, a sua volta, creava altri indotti in settori simili quanto a materiali e lavorazioni ma per prodotti diversi, lontani dall’automobile). Anche la nostra immagine nel mondo era fatta di Fiat. Non solo perché non ci sarebbe stata Pirelli, senza Fiat, e non sarebbe durata fino ai nostri giorni la Ferrari senza Fiat. Ma perché la presenza, la continuità, l’internazionalizzazione della Fiat era una specie di garanzia vasta e implicita per ogni nuovo imprenditore italiano che debuttava nel mondo.
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Piccola antologia ignobile: così parlarono i padri dell’Ue
«Sono sicuro che l’euro ci costringerà a introdurre un nuovo insieme di strumenti di politica economica. Proporli adesso è politicamente impossibile, ma un bel giorno ci sarà una crisi e si creeranno i nuovi strumenti». Così parlava Romano Prodi nel lontano 2001, precisamente il 4 dicembre, intervistato dal “Financial Times”. Dunque “sapeva”, Prodi, che l’euro avrebbe generato “una crisi”. La memorabile sortita dell’ex premier italiano, ex consulente di Goldman Sachs e ovviamente ex presidente della Commissione Europea, fa parte del florilegio presentato da “Megachip” alla voce: piccola antologia di “democrazia europea”. «Dunque per fare “passi avanti” l’Europa ha bisogno di devastare la società, avvilire la cultura, generare disoccupazione di massa, far suicidare imprenditori e lavoratori, gettare nello sconforto e nella disperazione milioni di giovani e produrre miseria».Sul metodo generalmente adottato dalla Troika – il terrorismo economico – è illuminante l’ammissione di un altro supremo eurocrate, il francese Jean-Claude Juncker, già presidente dell’Eurogruppo: «Prendiamo una decisione, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo un po’ per vedere cosa succede. Se non provoca proteste né rivolte, perché la maggior parte della gente non capisce niente di cosa è stato deciso, andiamo avanti passo dopo passo fino al punto di non ritorno». Non è fantascienza, non è letteratura horror. Sono parole – reali – dei grandi decisori europei, quelli che decretano le misure da cui deriva il supplizio socio-economico al quale siamo sottoposti. In altre parole, stando alle rivelazioni di Juncker, crimini contro l’umanità. I leader europei, dice l’italiano Giuliano Amato il 12 luglio 2007 a “Eu Observer”, hanno deciso che il Trattato Lisbona «avrebbe dovuto essere illeggibile». Questo perché, «se fosse stato comprensibile, ci sarebbero state ragioni per sottoporlo a referendum». Quindi gli eurocrati «si sentono più al sicuro con la cosa illeggibile», testualmente. Obiettivo, appunto, «evitare pericolosi referendum».Lo sa bene l’ex cancelliere tedesco Helmuth Kohl, che al “Telegraph” del 9 aprile 2013 dichiara: «Sapevo che non avrei mai potuto vincere un referendum in Germania. Avremmo perso il referendum sull’introduzione dell’euro. Questo è abbastanza chiaro. Avrei perso sette a tre. Nel caso dell’euro sono stato come un dittatore». Dopotutto, «l’Europa non nasce da un movimento democratico», come ammette già nel 1999 il super-tecnocrate ed ex ministro prodiano Tommaso Padoa Schioppa. L’attuale Unione Europea ha un’origine chiaramente eversiva: «E’ nata seguendo un metodo che potremmo definire con il termine di dispotismo illuminato». La costruzione europea? «E’ una rivoluzione», dice Padoa Schioppa a “Commentaire”, «anche se i rivoluzionari non sono dei cospiratori pallidi e magri, ma degli impiegati, dei funzionari, dei banchieri e dei professori», che al «polo del consenso popolare» preferiscono ovviamente «quello della leadership».Per un altro padre fondatore dell’Ue, il monarchico Jacques Attali, trasformatosi in “socialista” alla corte di François Mitterrad, l’euro non fu certo creato per la gioia della “plebaglia europea”. Il 24 gennaio 2011 rivela: «Abbiamo minuziosamente “dimenticato” di includere l’articolo per uscire da Maastricht». Contratto unico al mondo: senza clausola di rescissione. Attali ha avuto «il privilegio» di far parte del gruppo ristretto incaricato di stendere le prime bozze. «Ci siamo incoraggiati a fare in modo che uscirne sia impossibile», ammette. «Abbiamo attentamente “dimenticato” di scrivere l’articolo che permetta di uscirne». Niente da aggiungere? «Non è stato molto democratico, naturalmente, ma è stata un’ottima garanzia per rendere le cose più difficili, per costringerci ad andare avanti».Chiude la rassegna dell’orrore il professor Mario Monti, il 22 febbraio 2001 all’università Luiss, al convegno “finanza: comportamenti, regole istituzioni”. «Non dobbiamo sorprenderci che l’Europa abbia bisogno di crisi, crisi gravi, per fare passi avanti», dice il futuro capo del “governo tecnico” incaricato da Napolitano. «I passi avanti dell’Europa sono per definizione cessioni di parti delle sovranità nazionali a un livello comunitario». In quattro parole, Monti espone la “filosofia del ricatto” che è la prassi sostanziale dei gangster al governo di Bruxelles: si provvede a terremotare un paese, per poi (Prodi docet) imporre la “soluzione” già pronta nel cassetto. «È chiaro che il potere politico – ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale – possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle, perché c’è una crisi in atto visibile, conclamata». La benedetta crisi, progettata a tavolino. Minacce, ricatti, menzogne, truffe. Un campionario inesauribile.«Sono sicuro che l’euro ci costringerà a introdurre un nuovo insieme di strumenti di politica economica. Proporli adesso è politicamente impossibile, ma un bel giorno ci sarà una crisi e si creeranno i nuovi strumenti». Così parlava Romano Prodi nel lontano 2001, precisamente il 4 dicembre, intervistato dal “Financial Times”. Dunque “sapeva”, Prodi, che l’euro avrebbe generato “una crisi”. La memorabile sortita dell’ex premier italiano, ex consulente di Goldman Sachs e ovviamente ex presidente della Commissione Europea, fa parte del florilegio presentato da “Megachip” alla voce: piccola antologia di “democrazia europea”. «Dunque per fare “passi avanti” l’Europa ha bisogno di devastare la società, avvilire la cultura, generare disoccupazione di massa, far suicidare imprenditori e lavoratori, gettare nello sconforto e nella disperazione milioni di giovani e produrre miseria».