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L’overdose da Fentanyl stermina 91 americani ogni giorno
E’ ormai la prima causa di morte per gli americani sotto i 50 anni, quindi in età produttiva: 91 americani muoiono ogni giorno per overdose da Fentanyl, un oppioide sintetico, antidolorifico, che crea forte dipendenza. La chiamano “opioid epidemic”: 52.000 morti nel 2015, 59.000 nel 2016 (più 19%), già oltre 60.000 ad agosto 2017; saranno almeno 65.000 a fine anno. Aumenti spaventosi. Gli Stati Uniti sono il paese con più morti per overdose del mondo per milione di abitante e lo sono per un differenziale enorme: 245,8 morti ogni milione all’anno contro i 26,4 per milione in Europa, dati del 2015, quindi 10 volte di più. A morire per overdose non sono tanto i neri o gli ispanici, sono soprattutto i bianchi, e soprattutto i maschi bianchi. Un coroner della Pennsylvania occidentale lamenta: ogni notte mi arrivano anche 13 corpi, non so più dove metterli; è come una peste. In vari Stati i poliziotti sono stati forniti di Naloxone, un farmaco d’emergenza: se trovano un morente per overdose, l’iniezione può salvarlo, ma ovviamente non fa nulla per ridurre il tasso di dipendenza. Lo Stato dell’Ohio ha querelato cinque farmaceutiche che fabbricano e producono il Fentanyl, per “favoreggiamento dell’epidemia”.Incredibilmente, il Fentanyl viene prescritto dai medici, appunto come antidolorifico – almeno all’inizio. Poi i pazienti cominciano a comprarlo illegalmente. Ci sarebbe anzitutto da chiedere: per quali mai dolori gli americani si rivolgono al medico, se il medico trova normale prescrivere un “antidolorifico” oppioide sintetico «che è 50 volte più forte dell’eroina e 100 volte più potente della morfina»? Quali dolori – se non quelli incoercibili del cancro terminale – richiedono un tale palliativo? Oppure si tratta della necessità di “funzionare” sul lavoro anche se si soffre per un qualunque dolore perché non ci si può assentare? E poi: sono dolori fisici, quelli che gli americani maschi bianchi vogliono soffocare con la prescrizione, o dolori spirituali a cui non sanno dare un nome? Anche il male sociale è stato privatizzato. Te lo curi da te. Il sito “Governing.com”, notiziario di tutti gli enti locali, osa un’altra diagnosi: «Non è come le passate crisi per droga, come quelle del crack o delle meta-anfetamine, non è la comparsa di una nuova classe di droghe che creano dipendenza a far morire ogni giorno 91 americani. Questa crisi degli oppiacei è una crisi del lavoro; è una crisi di affitti accessibili per le case. Le stesse forze che hanno rimodellato l’economia nel decennio scorso, hanno lasciato il vuoto riempito, in certe zone, dagli oppioidi».E aggiunge: «Uno studio dell’Università di Pennsylvania dopo le elezioni presidenziali dello scorso novembre ha scoperto che il presidente Trump ha preso enormemente più voti del previsto in quelle province (contee) che registrano il più alto tasso di “morti da disperazione”, ossia suicidi, overdosi di droga o da alcolismo. Ciò mostra che molti americani si sentono lasciati indietro dall’economia che cambia, e non credono più che il quadro politico attuale li sta aiutando». Dunque sono i bianchi maschi, in età da lavoro, che devono “funzionare” anche se malati per non essere licenziati; gente che votava democratico, spesso, che invece ha votato l’uomo nuovo che ha promesso, o anche solo dato l’impressione, di avere a cuore la loro tragedia? Forse i dolori che accusano questi bianchi non vengono dal corpo, né propriamente dallo spirito – ma vengono da una malattia sociale cui non sono più abituati a dare il senso giusto: ossia politico e collettivo, e che reinterpretano come un dolore privato, da “superare” e da “ingoiare”?Ho già accennato – troppo in breve – a un altro studio di due università, la Boston University – Department of Political Science – e la University of Minnesota Law School, sul rovesciamento del voto in circoscrizioni tradizionalmente democratiche, che hanno rifiutato Hillary Clinton e votato invece per Trump: sono quelle dove un numero maggiore di soldati, giovani che avevano “servito la patria” nei 15 anni di guerre americane, sono tornati nelle bare, o vivi e mutilati, o invalidi psichici. Per lo studio, tre Stati chiave per la vittoria di Donald (Pennsylvania, Michigan e Wisconsin) avrebbero dato la vittoria a Hillary se i vicini non avessero visto tante famiglie in lutto o con un invalido di guerra in casa. «Trump ha parlato a questa parte dimenticata dell’America». L’America dimenticata che sta elevando una silenziosa protesta per il costo umano che sta subendo per sostenere i 15 anni di guerre insensate non solo politicamente, ma eticamente (sono infatti, sappiamo, “guerre per Israele”). Il tasso immane di suicidi fra i soldati americani, da otto anni in crescita, è leggibile come l’estrema protesta silenziosa e impotente di un popolo per quello che lo costringono a fare?Nella fanteria, la più colpita, si toccano 29,9 suicidi per 100.000 persone, oltre il doppio della popolazione generale (12,6 per 100.000). Punte di un suicidio ogni 2,2 giorni. Si uccidono molto gli appena arruolati, anche prima di essere dispiegati in territorio nemico; ma moltissimo i congedati: «Venti reduci ogni giorno muoiono per suicidio», dice un rapporto ufficiale della Veteran Authority del 2016. Sulle cause, silenzio. Jason Roncoroni, un tenente colonnello che ha fondato una associazione di prevenzione del suicidio, tocca l’argomento tabù: «Attribuisce il tasso fra i militari al sentimento, fra loro, che le guerre americane non finiranno mai, e l’aspettativa di missioni future senza fine. Abbiamo sfumato la linea tra il tempo di guerra e il tempo di pace». Già: il tasso di suicidi s’è alzato dai primi anni 2000, inizio delle guerre “al terrorismo” (11 Settembre 2001), e non è mai calato. Anche, qui, sono i maschi bianchi a suicidarsi di più: i bianchi compongono poco più della metà dei soldati in servizio, ma i suicidi fra loro sono 7 su 10.Si piega sotto il fardello dell’uomo bianco, l’americano qualunque; l’uomo bianco che deve “funzionare”, e proprio per questo l’hanno caricato con un fardello che ormai lo schiaccia. E lui, sotto, incapace di sollevarlo, ci si uccide. Fatto istruttivo, solo l’armata israeliana ha tassi di suicidi paragonabili. Aggiungiamoci i 500 omicidi l’anno nella sola città di Chicago, in cui sono coinvolti soprattutto negri, quasi due al giorno, e in continuo aumento. Nell’insieme è l’immagine di una popolazione che si autodistrugge, che si devasta. O che viene devastata dalla “economia che cambia” e “li lascia indietro”, con paghe sempre minori ed affitti da pagare, e la coscienza della propria inutilità. E’ il capitalismo terminale, quello che fa profitti non più producendo merci ma producendo bolle finanziarie, che nella sua perfezione ideologica applicata persegue la massima efficienza come la intende: pagare il meno possibile il lavoro, precarizzarlo, sostituirlo con robot a tappe forzate, per retribuire al massimo il capitale finanziario.Tale “efficienza” porta l’effetto paradossale e opposto, che le imprese industriali rimaste in Usa fanno fatica a trovare lavoratori qualificati che non siano resi inservibili dall’oppioide. L’allarme è stato lanciato non da organizzazioni sociali, ma dalla stessa Federal Reserve. Le Fed di St. Louis ha denunciato l’introvabilità di lavoratori non drogati, e quindi improduttivi, in un “Libro Beige” diffuso il 12 luglio. La stessa Janet Yellen, la governatrice della Federal Reserve, ha spiegato in un’audizione al Senato che «gli oppioidi erano una delle cause del crollo della forza-lavoro», insieme beninteso ai robot e alle delocalizzazioni. Un crollo inaudito dalla «partecipazione alla forza lavoro», ossia delle persone che si offrono di lavorare. «Oggi, il 15% degli uomini fra i 25 e i 54 sono inspiegabilmente spariti dalla forza-lavoro – ossia uno ogni sette – nonostante il tasso di disoccupazione sia calato». Sono drogati che non riescono più a “funzionare”. La Yellen ha aggiunto di non capire e non sapere se «un così diffuso abuso di oppiacei sia la causa, o invece il sintomo di “malattie di lunga durata” di questi lavoratori».(Maurizio Blondet, estratto dal post “Usa, la nuova peste stermina l’uomo bianco, ormai superfluo”, pubblicato sul blog di Blondet il 16 agosto 2017).E’ ormai la prima causa di morte per gli americani sotto i 50 anni, quindi in età produttiva: 91 americani muoiono ogni giorno per overdose da Fentanyl, un oppioide sintetico, antidolorifico, che crea forte dipendenza. La chiamano “opioid epidemic”: 52.000 morti nel 2015, 59.000 nel 2016 (più 19%), già oltre 60.000 ad agosto 2017; saranno almeno 65.000 a fine anno. Aumenti spaventosi. Gli Stati Uniti sono il paese con più morti per overdose del mondo per milione di abitante e lo sono per un differenziale enorme: 245,8 morti ogni milione all’anno contro i 26,4 per milione in Europa, dati del 2015, quindi 10 volte di più. A morire per overdose non sono tanto i neri o gli ispanici, sono soprattutto i bianchi, e soprattutto i maschi bianchi. Un coroner della Pennsylvania occidentale lamenta: ogni notte mi arrivano anche 13 corpi, non so più dove metterli; è come una peste. In vari Stati i poliziotti sono stati forniti di Naloxone, un farmaco d’emergenza: se trovano un morente per overdose, l’iniezione può salvarlo, ma ovviamente non fa nulla per ridurre il tasso di dipendenza. Lo Stato dell’Ohio ha querelato cinque farmaceutiche che fabbricano e producono il Fentanyl, per “favoreggiamento dell’epidemia”.
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Sappiamo cosa vorremmo? No, abbiamo smesso di pensare
Viviamo in tempi stranissimi che, oltre ad un volgare conformismo, non ci consigliano di andare. E chiamiamo questo conformismo “buon senso”, “saper vivere” e persino lealtà alla patria, o addirittura “fede”. Così siamo giunti al punto che manifestare un desiderio di conoscere e riflettere, di pensare, oppure dichiarare di avere un punto di vista diverso da quanto ogni autorità ci propone, significa candidarsi al sospetto. Come minimo, si rischia di trovarsi ai margini del proprio gruppo. L’attuale sistema ha come presupposto che qualcuno pensi e giudichi per tutti. E allora, l’ordine interiorizzato e che nessuno verbalizza, ma che scivola indisturbato nelle pieghe di ogni coscienza è: «Non pensate, gente, non pensate, ricordatevi di non pensare, pensare stanca, è inutile, pensa uno per tutti e vi protegge dal vostro stesso pensiero…». Così viviamo tempi di conformismo coatto. Se vogliamo essere tranquilli, siamo invitati a metterci tutti in divisa, ad essere senza volto. Scriveva Karl Jaspers: «È possibile spiegare tutto, senza nulla comprendere». Proprio quanto ci sta accadendo. Crediamo di sapere tutto senza comprendere nulla.Da ciò ne discende uno stile di vita che rifugge quasi per istinto dalla complessità dei problemi. Tutto è semplice, tutto ha una soluzione, purchè non si pensi e non si dica a nessuno che la vita è rischio, scommessa, impegno, progetto di costruire insieme qualcosa di bello e sensato. Le società occidentali hanno fatto della libertà la loro bandiera. Nessun valore è stato tanto esaltato, in questi ultimi trecento anni, e nessuno appare, anche oggi (almeno in Occidente), tanto indiscutibile. E’ stato in nome della libertà che si sono sviluppate le grandi rivoluzioni della storia moderna. Ed è sempre appellandosi ad essa che ci si è battuti, nel secolo scorso, contro la potenza soffocante dei totalitarismi. Ma cosa significa, realmente, essere liberi? L’esperienza insegna che è più facile battersi per la libertà, che non individuarne l’effettivo significato. Ma è facile rendersi conto che dal concetto di libertà che si adotta dipende anche il tipo di liberazione per cui ci si deve battere.Se consideriamo la libertà come quella condizione nella quale non si è costretti da niente e da nessuno a fare o non fare qualcosa, poniamo l’accento esclusivamente sugli ostacoli esteriori che spesso limitano l’azione del soggetto e ne mortificano l’autonomia. A questa idea si sono ispirate e si ispirano molte battaglie per la liberazione da condizionamenti politici, economici, sociali e culturali. E certo il poter fare senza ostacoli ciò che si desidera costituisce una condizione necessaria della libertà. Ma è anche sufficiente? A farcene dubitare potrebbe essere il fatto semplicissimo che di una libertà così intesa si può parlare anche a proposito di animali non umani. Un cane è “libero” se non è attaccato al guinzaglio. In realtà, c’è da chiedersi se una persona realizzi veramente la sua libertà quando può fare ciò che desidera. E’ possibile, infatti, porre una questione più a monte, e cioè se questa persona sia libera di desiderare quello che desidera.In una società come la nostra, dominata dai meccanismi della pubblicità, questo dubbio si impone con particolare evidenza: è veramente libero che, subendo un bombardamento quotidiano di messaggi più o meno subliminali, si trova a desiderare un prodotto di cui non avrebbe alcun reale bisogno, anche a costo del sacrificio di altre cose, ragionevolmente assai più utili? L’esempio più eclatante di tale fenomeno è il clamore suscitato dal lancio dell’ultimo modello di iPhone, che rispetto ai suoi predecessori ha veramente poche novità. Eppure, il martellamento mediatico ha generato in numerosi giovani il desiderio di acquistarne uno, ad un prezzo è estremamente elevato e senza nessuna reale utilità rispetto ad un telefono cellulare “normale”. La domanda è: sono realmente io a desiderare, o c’è qualcun altro che mi spinge a desiderare? Il fatto è che il desiderio, come tale, è facilmente condizionabile dall’esterno. Esso dipende dagli oggetti che ci si presentano e nei cui confronti siamo liberi di sentirci attratti o meno.Esiste, tuttavia, un livello in cui la libertà umana si manifesta nella sua peculiarità ed è quello della volontà. Qui non si tratta più di poter fare, ma di poter scegliere ciò che si vuole fare. Per questo, però, è essenziale il pensiero. Senza pensiero la libertà si appiattisce sul livello dei riflessi condizionati. Accennavamo prima ai meccanismi della pubblicità. Si pensi anche alle mode e all’omologazione che ne risulta in tutti i settori, da quello dell’abbigliamento a quello, ben più delicato, delle opinioni etiche, politiche o religiose. Oggi è molto difficile sfuggire a questa forma di dominio invisibile. Ed esso è tanto più pericoloso in quanto censura non le risposte, ma le stesse domande. Moltissimi uomini e donne, oggi, vivono alle prese con problemi che sono stati messi in “agenda” da altri. Ebbene, ciò è caratteristico dei totalitarismi che, a differenza degli antichi regimi assolutistici, mirano non a soffocare le opposizioni, ma a conquistare il cuore e la mente delle persone, plasmandole per così dire “dall’interno”, piuttosto che costringendole dall’esterno.È chiaro che se si adotta il concetto dominante di libertà, le nostre società, apparentemente, sembrano essere libere, senza nessun limite esteriore, ma sono minacciate da una forma di oppressione totalitaria che può essere individuata e denunziata solo se si adotta un concetto più ampio di libertà, che naturalmente non escluda il primo, ma lo collega al problema della scelta consapevole e non soltanto al comportamento esterno. A questo punto il problema del pensiero si rivela drammaticamente attuale. Se su di esso si gioca il valore della libertà, nel suo significato più pieno, vale la pena chiedersi perchè oggi sia così debole di fronte alle sfide della vita personale e sociale, e come sia possibile restituirgli la sua forza. Forse bisognerebbe cominciare dallo spegnere la nemica numero uno dell’umanità: la televisione!(“Purchè non si pensi: utilizzare la libertà per instaurare il totalitarismo dei desideri indotti”, dal blog “Il Navigatore Curioso”, agosto 2017).Viviamo in tempi stranissimi che, oltre ad un volgare conformismo, non ci consigliano di andare. E chiamiamo questo conformismo “buon senso”, “saper vivere” e persino lealtà alla patria, o addirittura “fede”. Così siamo giunti al punto che manifestare un desiderio di conoscere e riflettere, di pensare, oppure dichiarare di avere un punto di vista diverso da quanto ogni autorità ci propone, significa candidarsi al sospetto. Come minimo, si rischia di trovarsi ai margini del proprio gruppo. L’attuale sistema ha come presupposto che qualcuno pensi e giudichi per tutti. E allora, l’ordine interiorizzato e che nessuno verbalizza, ma che scivola indisturbato nelle pieghe di ogni coscienza è: «Non pensate, gente, non pensate, ricordatevi di non pensare, pensare stanca, è inutile, pensa uno per tutti e vi protegge dal vostro stesso pensiero…». Così viviamo tempi di conformismo coatto. Se vogliamo essere tranquilli, siamo invitati a metterci tutti in divisa, ad essere senza volto. Scriveva Karl Jaspers: «È possibile spiegare tutto, senza nulla comprendere». Proprio quanto ci sta accadendo. Crediamo di sapere tutto senza comprendere nulla.
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Rivoluzione colorata: l’imbroglio Macron seppellirà i francesi
Dal lontano 2005, la Francia non ha più un vero presidente: all’Eliseo si sono succeduti soltanto dei pallidi figuranti. Compreso l’ultimo arrivato, Emmanuel Macron, “fabbricato” dal supemassone reazionario Jacques Attali e inizialmente scambiato, dagli elettori, per salvatore della patria. Lo afferma Thierry Meyssan, analizzando le prime mosse del nuovo presidente. «Dopo l’incidente cerebrale di Jacques Chirac, la Francia è rimasta senza un presidente», scrive, su “Megachip”. «Durante gli ultimi due anni in cui ha ricoperto la carica, Chirac ha lasciato che i suoi ministri Villepin e Sarkozy si sbranassero a vicenda. In seguito: il popolo francese ha scelto due personalità che non sono riuscite a essere all’altezza dell’ufficio presidenziale: Nicolas Sarkozy e François Hollande». Alla fine hanno scelto di portare Macron all’Eliseo, «ritenendo così che questo giovane impetuoso fosse capace di riprendere il timone». Errore. Una spia evidente è l’atteggiamento verso la Ue, apertamente sostenuta dai grandi candidati, che anziché Bruxelles hanno attaccato genericamente “la corruzione”, colpendo in particolare François Fillon. «Una narrazione tipica delle “rivoluzioni colorate”».L’opinione pubblica, senza eccezioni, «reagisce sostenendo la “rottamazione”: tutto quel che è vecchio è corrotto, mentre tutto quel che è nuovo è giusto e buono», scrive Meyssan. «Tuttavia, non c’erano basi per dimostrare nessuno dei crimini di cui tutti stavano parlando». E’ uno schema, che funziona sempre: «Nelle rivoluzioni colorate precedenti, l’opinione pubblica ci metteva tra i tre mesi (la Rivoluzione dei Cedri in Libano) e i due anni (la Rivoluzione delle Rose in Georgia) prima di svegliarsi e scoprire di essere stata manipolata». L’arte di coloro che organizzano le “rivoluzioni colorate” consiste «nel realizzare senza aspettare un istante tutti i cambiamenti che i loro sponsor intendevano operare nelle istituzioni». Emmanuel Macron, già dirigente della Banca Rothschild, ha annunciato in anticipo le sue intenzoni: riforma d’urgenza del Codice del Lavoro, modifica del Consiglio economico e sociale, dimezzamento del numero degli eletti a tutti i livelli, nonché “moralizzazione” della vita politica. Tutti questi progetti, osserva Meyssan, ricalcano il solco tracciato dalla relazione pubblicata dalla Commissione per la liberalizzazione della crescita francese del 2008, di cui era presidente Jacques Attali, mentre Emmanuel Macron era il vice segretario generale.Il rapporto della Commissione Attali (creata dal presidente Sarkozy) inizia con queste parole: «Questo non è un rapporto, né uno studio, ma un manuale per le riforme urgenti e fondanti. Non è né partisan né bi-partisan: è non partisan». Per quanto riguarda il codice del lavoro, scrive Meyssan, «si punta ad abbandonare il sistema giuridico romano e alla sua sostituzione con il sistema attualmente in vigore negli Stati Uniti: un dipendente e il suo padrone potrebbero così entrare in negoziati bilaterali e concludere un contratto in contrasto con la legge». E il sistema educativo «dovrà produrre studenti bilingui (francese/inglese) già alla fine della scuola primaria». Eppure, aggiunge l’analista, questo cambiamento di paradigma non è mai stato discusso in Francia: «Tutt’al più, è stato evocato durante i dibattiti parlamentari sulla legge El-Khomri/Macron del 2016», detta anche “Loi Travail”, che di fatto “americanizza” la situazione, come il Jobs Act renziano in Italia. E le riforme istituzionali annunciate da Macron? «Nessuna di esse era attesa dai francesi», nonostante una certa insofferenza per «la stratificazione amministrativa (Comuni, Comunità di Comuni, Dipartimenti, Regioni, Stato) e la proliferazione di commissioni inconcludenti».In realtà, sostiene Meyssan, «il presidente Macron avanza indossando una maschera». E spiega: «Il suo obiettivo a medio termine, ampiamente annunciato nel 2008, è quello di abolire Comuni e Dipartimenti. Si tratta di omogeneizzare le collettività locali francesi con il modello già imposto ovunque in altri paesi dall’Unione Europea. L’Eliseo, nel rifiutare l’esperienza storica del popolo francese, considera che possa essere governato come tutti gli altri europei». La riforma del Consiglio economico e sociale, invece, «rimane vaga». Tuttalpiù, «sappiamo che si tratterebbe sia di sciogliere le innumerevoli commissioni inutili, sia di affidargli il dialogo sociale». Aggiunge Meyssan: «Il fallimento di Charles de Gaulle nel raggiungere questo obiettivo nel 1969 ci fa pensare che, qualora questa riforma venisse realizzata, non sarebbe per risolvere un problema, ma per seppellirlo una volta per tutte». In realtà, la proposta di riforma del Codice del Lavoro «priverà questo dialogo del suo oggetto concreto». Nel 1969, ricorda Meyssan, il presidente de Gaulle «si era rassegnato ad abbandonare ancora una volta il suo vecchio progetto di “partecipazione”, cioè di ridistribuzione della crescita del capitale delle imprese tra i loro proprietari e i loro lavoratori», e in cambio aveva proposto «di far partecipare il mondo del lavoro al processo legislativo».Per farlo, de Gaulle aveva pensato di fondere il Consiglio economico e sociale con il Senato, in modo che la Camera Alta riunisse sia i rappresentanti regionali sia quelli del mondo professionale. In particolare, aveva proposto che questa Camera non potesse più redigere essa stessa le leggi, ma che emettesse un parere su ogni testo prima che questo fosse discusso dall’Assemblea Nazionale. «Si trattava dunque di concedere un potere che consisteva in un parere legislativo alle organizzazioni rurali e cittadine, ai sindacati degli operai e del padronato, alle università, alle associazioni familiari, sociali e culturali». Macron si sta muovendo in direzione opposta. Le due priorità che il neopresidente intende perseguire «prima che i suoi elettori si risveglino» possono essere riassunte come segue: «Reggere il mercato del lavoro secondo i principi dell’ordinamento giuridico statunitense; conformare gli enti locali alle norme europee e incistare le organizzazioni rappresentative del mondo del lavoro in un assemblea puramente onorifica. Oltre a cancellare (a vantaggio dei soli capitalisti) qualsiasi traccia proveniente da diversi secoli di lotte sociali, Emmanuel Macron dovrebbe quindi allontanare gli eletti dai loro elettori e scoraggiare questi ultimi dall’impegnarsi nella cosa pubblica».Dal lontano 2005, la Francia non ha più un vero presidente: all’Eliseo si sono succeduti soltanto dei pallidi figuranti. Compreso l’ultimo arrivato, Emmanuel Macron, “fabbricato” dal supemassone reazionario Jacques Attali e inizialmente scambiato, dagli elettori, per salvatore della patria. Lo afferma Thierry Meyssan, analizzando le prime mosse del nuovo presidente. «Dopo l’incidente cerebrale di Jacques Chirac, la Francia è rimasta senza un presidente», scrive, su “Megachip”. «Durante gli ultimi due anni in cui ha ricoperto la carica, Chirac ha lasciato che i suoi ministri Villepin e Sarkozy si sbranassero a vicenda. In seguito: il popolo francese ha scelto due personalità che non sono riuscite a essere all’altezza dell’ufficio presidenziale: Nicolas Sarkozy e François Hollande». Alla fine hanno scelto di portare Macron all’Eliseo, «ritenendo così che questo giovane impetuoso fosse capace di riprendere il timone». Errore. Una spia evidente è l’atteggiamento verso la Ue, apertamente sostenuta dai grandi candidati, che anziché Bruxelles hanno attaccato genericamente “la corruzione”, colpendo in particolare François Fillon. «Una narrazione tipica delle “rivoluzioni colorate”».
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La Truffa dei Sei Giorni: così Israele eliminò l’Ataturk arabo
La Truffa dei Sei Giorni: «In realtà la guerra-lampo del 1967 durò appena 6 minuti, il tempo che impiegò l’aviazione israeliana per annientare quella egiziana, ancora a terra», senza che un solo aereo del Cairo avesse potuto decollare. E i famosi Sei Giorni? «Servirono solo a occupare e annettere territori non-israeliani, che da allora – con la sola eccezione del Sinai – fanno parte di Israele». Parola dello storico statunitense Norman Filkenstein, intervistato da Aaron Mate per l’emittente “The Real News” nel cinquantesimo anniversario della Guerra dei Sei Giorni, giugno 1967, evento fondante del mito vittimistico dell’autodifesa di Israele, paese “attaccato dagli arabi”. Un falso storico, accusa l’autore del bestseller “Palestine: Peace Not, Apartheid”, tradotto in 50 paesi. Fu Israele a provocare il conflitto, afferma Filkenstein: abbattè deliberatamente alcuni aerei siriani, ben sapendo che l’Egitto sarebbe stato costretto a schierarsi con la Siria, cui era legato da un patto di mutua assistenza. Obiettivo segreto di Tel Aviv: conquistare falcilmente territori, sapendo (da Cia e Mossad) che gli arabi non avrebbero potuto resistere. E soprattutto: demolire il leader politico egiziano Nasser, temutissimo come possibile “Ataturk arabo”, capace di guidare lo sviluppo laico del Medio Oriente, superando la storica arretratezza della regione.A partire dal 5 giugno del 1967, ricorda Filkenstein, Israele «ha catturato il Sinai egiziano, le alture del Golan siriano, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Con l’eccezione del Sinai, Israele controlla ancora tutti questi territori. Di fatto l’occupazione militare israeliana della Cisgiordania e di Gaza è la più lunga dei tempi moderni». La versione ufficiale del mainstream è quella ancora oggi rilanciata dal “New York Times”, che scrive: «Quest’anno segna mezzo secolo dalla guerra arabo-israeliana del 1967, nella quale Israele ha resistito vittoriosamente a una minaccia di annientamento da parte dei suoi vicini arabi». Tutto falso, replica lo storico: «E’ un grosso problema, è ciò che noi chiamiamo “falsificare la storia”». E spiega: sia la Cia che il Mossad – è documentato – sapevano perfettamente che gli eserciti arabi non avrebbero potuto resistere all’attacco di Israele, la cui unica preoccupazione era: come avrebbe reagito il presidente americano Lyndon Jonhson? «Nel 1957, dieci anni prima, gli Usa avevano agito con molta severità. Dwight Eisenhower aveva dato a Israele un ultimatum: uscite dal Sinai, o dovrete affrontare una forte reazione del governo degli Stati Uniti. Nel 1967 gli israeliani avevano paura che si ripetesse la situazione del 1957».Sicché, Tel Aviv mandò emissari a tastare il polso di Washington. Come il generale Meir Amit, capo del Mossad. La risposta degli Usa: nessun indizio che il presidente egiziano Abdel Gamal Nasser stesse per attaccare Israele. Nasser, disse Johnson, sa benissimo che, «se vi attacca, voi israeliani gli darete una batosta». Una valutazione Cia, identica a quella del Mossad. Tel Aviv sapeva perfettamente che non aveva nulla da temere, dall’Egitto. Il segretario alla difesa, Robert McNamara, fu ancora più preciso: disse a Israele che, in caso di guerra, avrebbe vinto in 7 giorni, 10 al massimo. Era vero: la guerra sarebbe terminata «non solo in 6 giorni, ma letteralmente in 6 minuti circa», afferma Filkenstein. «Nel momento in cui Israele ha lanciato il suo attacco-lampo e distrutto la flotta aerea egiziana, che era ancora al suolo, ha tolto tutti gli appoggi aerei alle truppe al suolo. Era finita. L’unica ragione per la quale questa guerra è durata sei giorni, è perché volevano impadronirsi dei territori. Era un’occupazione violenta delle terre». Come sono riusciti a coinvolegere l’Egitto, sapendo che mai Nasser – di sua iniziativa – avrebbe aperto le ostilità? Semplice: attaccando la Siria, alleata dell’Egitto. Fu lo stesso Moshe Dayan ad ammettere che, nell’aprile del 1967, Israele abbattè 6 aerei siriani, uno dei quali nel cielo sopra Damasco.Ammise Dayan, poi uomo-chiave del governo Begin a partire dal 1977: «Vi dirò perché noi avevamo tutti questi conflitti con la Siria. C’era una zona smilitarizzata tracciata dopo la guerra del 1948 tra la Siria e Israele. Almeno l’80% del tempo noi mandavamo dei bulldozer in questa zona smilitarizzata perché Israele era impegnata a occupare territori con la forza». Israele, quindi, cercava di impadronirsi di terre nella zona smilitarizzata. Racconta Filkenstein: «Mandava dei bulldozer, i siriani reagivano, e questo aumentava la tensione. Nel aprile 1967 questo è sfociato in un combattimento aereo tra siriani e israeliani. Dopodiché Israele ha cominciato a minacciare, verbalmente, di lanciare un attacco contro la Siria. La dichiarazione più celebre in quel momento la fece Yitzhak Rabin, ma numerosi responsabili israeliani minacciavano la Siria». Lo storico israeliano Ami Gluska, nel suo libro “L’esercito israeliano e le origini della guerra del 1967”, scrive: «La valutazione sovietica della metà di maggio 1967, che Israele stava per colpire la Siria, era giusta e ben fondata». C’erano voci attendibili, dunque, secondo le quali Israele avrebbe aggredito gli arabi. Gluska «conferma che gli israeliani avevano preso la decisione di attaccare».L’Egitto aveva un patto di difesa con la Siria: sapendo che era imminente un attacco israeliano aveva l’obbligo di andare in aiuto di Damasco. Per questo, Nasser ha schierato – a scopo dissuasivo – delle truppe egiziane nel Sinai, zona allora presidiata da una forza di pace dell’Onu, l’Unef. La United National Emergency Force divideva l’Egitto da Israele. Nasser ha chiesto a U Thant, segretario generale dell’Onu, di ritirarla. In forza della legge, U Thant era obbligato a ritirare quelle truppe. «Ma c’era una risposta molto semplice alla richiesta di Nasser: spostate le truppe dell’Onu sul versante israeliano», ricorda Filkenstein. «Nel 1957, quando era stata schierata l’Unef, si erano accordati per disporla sia sul lato egiziano della frontiera, sia sul lato israeliano. Così, nel 1967, quando Nasser ha detto: “Ritirate l’Unef dalla nostra parte”, tutto quello che Israele doveva dire era: “Bene, noi la riposizioniamo dalla nostra parte della frontiera”, sul versante israeliano. Ma non lo hanno fatto». Ragiona lo storico: «Se l’Unef avrebbe veramente potuto evitare un attacco egiziano, come suggerisce Israele quando dice che U Thant ha commesso un errore monumentale ritirando la forza dell’Onu, perché gli israeliani non l’hanno semplicemente schierata dall’altra parte della frontiera?». Ovvio: perché erano loro a volere la guerra.Altro piccolo casus belli: c’erano degli attacchi di guerriglia contro la frontiera israeliana lanciati dalla Giordania e dalla Siria, descritti nella storia ufficiale come una grande minaccia per la sicurezza di Israele. Si trattava di incursioni di commandos palestinesi, sostenuti principalmente dal regime siriano. «Ma come hanno riconosciuto anche gli ufficiali superiori israeliani – obietta Filkenstein – la ragione per la quale la Siria incoraggiava questi raid di commandos era l’occupazione delle terre nelle zone smilitarizzate da parte di Israele». Inoltre si trattava di «azioni coraggiose ma estremamente inefficaci», peraltro «compiute da persone che erano state private della loro patria nel 1948». In alre parole, quei palestinesi «erano dei rifugiati». Avverte lo storico: «Ricordatevi che era passato poco tempo tra il 1948 e il 1967, meno di una generazione». Ma, appunto, quegli attacchi erano poco più che simbolici. A confermarlo è uno dei capi dello spionaggio israeliano, Yehosafat Harkabi, che dopo il 1967 li ha descritto come «ben poco significativi, secondo tutti i metri di giudizio».L’altro incidente storico importante che viene citato er giustificare la guerra-lampo di Israele è la chiusura, da parte dell’Egitto, dello Stretto di Tiran, all’imbocco del Mar Rosso, strategico per accedere al porto israeliano di Eilat. Passaggio marittimo chiuso effettivamente da Nasser a metà maggio. «Israele adesso respira con un solo polmone», protestò il diplomatico Abba Eban, allora rappresentante israeliano all’Onu, poi ministro degli esteri. Era vero? Non proprio, osserva Filkenstein: intanto, Israele disponeva di riserve di petrolio che garantivano allo Stato ebraico un’autonomia di mesi. «Ma la cosa più importante è che non c’è stato un blocco. Nasser era un fanfarone: ha annunciato il blocco, lo ha applicato per ciò che si stima abitualmente essere due o tre giorni, poi ha cominciato a lasciar passare tranquillamente le navi israeliane. Non c’era blocco, il problema non era un blocco fisico effettivo, il problema era politico. E cioè che Nasser aveva sfidato pubblicamente Israele. La chiusura di un canale navigabile non è un attacco armato. Comunque la si guardi, Israele non aveva alcuna valida ragione».L’Egitto aveva reagito in modo prevedibile – con il blocco (solo simbolico) del Mar Rosso – per “difendere a distanza” la Siria attaccata un mese prima dall’aviazione israeliana, agevolando così la “regia occulta” della guerra, progettata unilateralmente da Tel Aviv, travestitasi da vittima. Domanda Aaron Mate: perché Israele ha preso delle misure così straordinarie per iniziare quella guerra e impadronirsi di così tanti territori? Risponde Norman Finkelstein: perché il vero incubo di Israele era il presidente egiziano Nasser. Un politico arabo laico, indipendente, autorevole. Fin dalla sua fondazione nel 1948, il leader fondatore di Israele, David Ben Gurion, «si è sempre preoccupato che potesse arrivare al potere nel mondo arabo quello che lui chiamava un Ataturk arabo. Cioè qualcuno come il personaggio turco Kemal Ataturk, che ha modernizzato la Turchia, ha introdotto la Turchia nel mondo moderno; Ben Gurion ha sempre avuto paura che una figura come Ataturk potesse emergere nel mondo arabo, e quindi il mondo arabo si sottraesse allo Stato di arretratezza e di dipendenza dall’Occidente e potesse diventare una potenza con la quale bisognava fare i conti nel mondo e nella regione». La paura del regime sionista si impersonificò nel 1952, quando emerse Nasser come leader della rivoluzione attraverso cui l’Egitto si liberò del dominio europeo post-coloniale.Nasser, continua Filkenstein, era una figura emblematica di quell’epoca «molto inebriante», chiamata “decolonizzazione”: «L’epoca del dopoguerra, dei non-allineati, del terzomondismo». Anti-imperialismo e decolonizzazione: leader come Nehru in India, Tito in Jugoslavia. E Nasser. «Non erano ufficialmente compresi nel blocco sovietico. Erano una terza forza. Non allineata». Più incline a rivolgersi al blocco sovietico perché «ufficialmente antimperialista», ma solo a scopo difensivo: nel 1956, quando Nasser aveva sbarrato il Canale di Suez per protestare contro la mancata concessione del maxi-prestito della Banca Mondiale (Usa) per costruire sul Nilo la Diga di Assuan che averebbe dato respiro all’agricoltura egiziana, francesi e inglesi sbarcarono in armi a Port Said minacciando di deporre Nasser. Intervenne direttamente l’Urss, rivolgendo un ultimatum agli eserciti europei, tacitamente avallato dagli Stati Uniti: se le truppe anglo-francesi non avessero lasciato il litorale egiziano, Mosca le avrebbe colpite con la bomba atomica. Questo consacrò Nasser come grande leader arabo, senza farne – per forza – un satellite dei russi. Inutile aggiungere che il crescente prestigio internazionale del carismatico leader egiziano faceva paura soprattutto a Israele: sembrava davvero arrivato “l’Atarurk arabo”, il modernizzatore paventato da Ben Gurion.«Israele era considerato non senza ragione, come una postazione occidentale nel mondo arabo, e veniva ugualmente interpretato come il tentativo di mantenere nell’arretratezza il mondo arabo», osserva Filkenstein. C’era dunque una sorta di conflitto e di contrapposizione tra Nasser e Israele. E questo ha dato il via, come viene documentato anche stavolta assai scrupolosamente non da Finkelstein ma da uno storico importante molto considerato, cioè Benny Morris. Nel libro “Le guerre di frontiera di Israele”, che parla del periodo tra il 1949 ed il 1956, Morris dimostra che «intorno al 1952-53 Ben Gurion e Moshe Dayan erano veramente determinati a provocare Nasser, a continuare a stuzzicarlo fino a che avessero un pretesto per distruggerlo: volevano sbarazzarsi di lui». Insistettero, in modo che a un certo punto il leader egiziano non potesse fare a meno di rispondere: «Sostanzialmente Nasser è stato preso in trappola». Per Morris, la stessa crisi di Suez del 1956 era nata da «un complotto ordito dagli israeliani per rovesciarlo, con il concorso degli inglesi e dei francesi», con i quali Israele collaborò invadendo il Sinai.Gli americani non si opposero alla ferma difesa di Nasser da parte dell’Urss. «Eisenhower pensava che non fosse ancora il momento adatto», per abbattere il “raiss” egiziano. «Ma anche gli americani sicuramente volevano sbarazzarsi di Nasser», aggiunge Filkenstein: «Lo vedevano tutti come una spina nel fianco». Sicché, la guerra-lampo del 1967 non sarebbe altro che «una ripetizione del 1956, con una differenza fondamentale: il sostegno americano». Alla Guerra dei Sei Giorni, infatti, «gli Stati Uniti non si sono opposti», restando «molto prudenti e cauti nelle loro dichiarazioni». Non hanno sostenuto apertamente la guerra di Israele, «perché era illegale». E gli Usa erano già impantanati nella tragedia del Vietnam, estremamente impopolare: «Non volevano impegnarsi anche nel sostegno a Israele, che sarebbe stato visto allo stesso modo come il colonialismo occidentale che tenta di prevalere sul Terzo Mondo, sul mondo non-allineato». Ma c’era un comune interesse strategico: eliminare Nasser. «Era un obiettivo a lungo termine, mantenere il mondo arabo nell’arretratezza. Mantenerlo in uno stato subordinato, primitivo».Perfettamente funzionali, in questo, il “falchi” israeliani come Ariel Sharon: «Dobbiamo attaccare adesso, perché altrimenti perdiamo la nostra capacità di dissuasione». Frase storica, rimasta – da allora – a fondamento della “dottrina” politico-militare di Israele, la propaganda vittimistica che ha giustificato massacri come quello della popolazione della Striscia di Gaza. «La “capacità di dissuasione” – traduce Filkenstein – significa: “la paura che di noi ha il mondo arabo”». La “colpa” di Nasser? «Risollevava il morale degli arabi, i quali non avevano più paura». E per gli israeliani la paura «è una carta molto forte, per tenere gli arabi al loro posto». A questo, ovviamente, si aggiunge la “necessità”, per Israele, di incrementare i propri territori a spese degli arabi. E in tutto questo, chiarisce lo storico, la religione non c’entra: «Bisogna ricordare che il movimento sionista era per la maggior parte secolare, per la grandissima parte ateo. Una larga parte si considerava socialista e comunista e non aveva nessun aggancio con la religione. Ma consideravano lo stesso di avere un titolo legale di proprietà sulla terra perché nel loro pensiero la Bibbia non era solo un documento religioso, era un documento storico». Una mentalità “secolare”, «profondamente radicata e fanatica». Al punto da falsificare la storia, inventare un’aggressione araba mai avvenuta e organizzare la Truffa dei Sei Giorni per metter fine alla carriera di Nasser, il temutissimo Ataturk arabo.La Truffa dei Sei Giorni: «In realtà la guerra-lampo del 1967 durò appena 6 minuti, il tempo che impiegò l’aviazione israeliana per annientare quella egiziana, ancora a terra», senza che un solo aereo del Cairo avesse potuto decollare. E i famosi Sei Giorni? «Servirono solo a occupare e annettere territori non-israeliani, che da allora – con la sola eccezione del Sinai – fanno parte di Israele». Parola dello storico statunitense Norman Finkestein, intervistato da Aaron Mate per l’emittente “The Real News” nel cinquantesimo anniversario della Guerra dei Sei Giorni, giugno 1967, evento fondante del mito vittimistico dell’autodifesa di Israele, paese “attaccato dagli arabi”. Un falso storico, accusa l’autore del bestseller “Palestine: Peace Not, Apartheid”, tradotto in 50 paesi. Fu Israele a provocare il conflitto, afferma Finkestein: abbattè deliberatamente alcuni aerei siriani, ben sapendo che l’Egitto sarebbe stato costretto a schierarsi con la Siria, cui era legato da un patto di mutua assistenza. Obiettivo segreto di Tel Aviv: conquistare falcilmente territori, sapendo (da Cia e Mossad) che gli arabi non avrebbero potuto resistere. E soprattutto: demolire il leader politico egiziano Nasser, temutissimo come possibile “Ataturk arabo”, capace di guidare lo sviluppo laico del Medio Oriente, superando la storica arretratezza della regione.
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Tino Aime, il timido maestro che ha fatto parlare l’invisibile
Quando un maestro trasloca, tace il rumore e l’aria si popola di parole sospese, che restano lì e non se ne andranno. Tino Aime, riconosciuto caposcuola ed elegantissimo incisore, cresciuto nella Torino del dopoguerra, quella di Casorati, fu iniziato alla Libera Accademia sotto la guida di Idro Colombi. Era nato a Cuneo 86 anni fa. Discendeva da una stirpe di pastori annidata sulle impervie alture di Roaschia, valle Gesso, zona Nuto Revelli. Memorabile il primo incontro tra i due, in alta val Maira: lo scrittore a caccia di sopravvissuti in carne e ossa, il pittore in cerca di altre sopravvivenze, ancora più impalpabili. Nuto Revelli e poi anche Davide Lajolo, Nico Orengo, Massimo Mila, finissimi cantori come Francesco Biamonti. Tutti innamorati del segno inimitabile dell’ex ragazzo di Roaschia. Fino al grande Mario Rigoni Stern, vera e propria anima gemella, accomunato dallo stesso amore per i silenzi del bosco, la montagna scabra e nuda, la lingua nitida e sincera della neve. Il vero nome di Aime, Battista, rivela quasi una vocazione: un battesimo della luce, fatto di nuovi occhi per scrutare l’orizzonte e scoprire che, volendo, la meraviglia abita ovunque.Chi l’ha conosciuto ha potuto constatare la perfetta coincidenza tra l’opera e la vita: stessa capacità di dire tutto, con pochissimo, senza parlare quasi mai. Arte figurativa, in apparenza, ma con dentro le stimmate del vasto Novecento, il codice cifrato dei Sironi, dei Morandi. Le tele degli esordi raccontano periferie desolate, urbane, travolte dall’industria. Lo spirito del tempo: un carotaggio nel dolore, tra le macerie della guerra appena spentasi – tanto più vivo nell’artista giovanissimo, scampato con terrore (per due volte, da bambino) alle bombe degli alleati. Poi, però, Tino ha lasciato la città. Ha scelto la montagna, seguendo l’istinto: il ritorno alla terra magra degli antenati. E non ne ha fatto un’elegia, ma un cantico, riuscendo sempre a far vibrare l’aria. Schivo e ritroso, timidissimo, si è avventurato nel sua homeland che non ha confini, ha per frontiera solo il cielo. Niente alpinismo, nessuna cartolina. Terra vissuta, scura e primordiale, dentro un’archeologia di case diroccate, un’antropologia di assenze. Un viaggio nel silenzio, rischiarato dalla luna. Un’armonia di essenze indecifrabili e misteri, oltre il fraseggio elementare della geografia, dell’apparenza.Vedere quello che non c’è. Mostrare quel che c’è, ma non si vede. Una missione: condotta fino in fondo, per tutta la vita, come un dovere segreto, una promessa impossibile da estinguere. Tutto nasce da una strana confidenza, che avvicina all’invisibile. Narrazioni sottili, la finezza laconica dell’haiku. Ovunque espressa: nella solarità mediterranea del Ponente ligure, nei deserti spagnoli dell’Estremadura, nel bianco abbacinante dell’Andalusia. E tra le lande dell’amatissima Provenza dove Tino, ancora giovane, fu scelto – per elezione – dalla chiassosa banda dei gitani, il favoloso popolo migrante, alle prese coi festeggiamenti della loro regina, sulla spiaggia che ricorda il leggendario sbarco delle Marie venute dal mare, appena dopo il supplizio del Calvario. Tra i misteri di Tino Aime, il Battista cuneese, la passione con la quale – da laico irriducibile – ha offerto la sua arte alla simbologia spirituale, religiosa, con Cristi crocefissi – plastici, inteneriti – che adornano abbazie, chiese, cappelle di montagna.Si è spinto in Romania, tra le selve dei germani, nella laguna di Venezia – ricamando l’intarsio dei palazzi che si specchiano in un cielo d’acqua. Ma la sua vera casa è stata soprattutto la montagna piemontese, dalle natìe vallate d’Occitania fino alla patria di più recente acquisizione, la tormentata val di Susa, esplorata in profondità e fatta parlare in modo insospettabile, sciorinando storie e lingue sconosciute. Un’epica silente, che ricorda le cadenze di Neruda, l’attitudine domestica alla gioia, là dove non l’aspetti. Compaiono giganti, ma sono solo pettirossi, merli, ortensie. E tutto è misteriosamente sacro, in Tino Aime. Le sue notti incantate, i suoi inverni. L’impenetrabile splendore delle cose, recitato col cuore, rispondendo a una chiamata antica.Era anche amaro, a volte, il vecchio Tino. Scoraggiato, dalla barbarie incorreggibile del mondo. Siate onesti, ha mandato a dire – di recente – a una scolaresca di artisti in erba. E state in guardia: non fidatevi di quel che vi raccontano. Tino ha ascoltato tutti, ma poi ha sempre scelto in solitudine. Sapeva cosa fare, dove andare. Che verità evocare, sapendole tacere. Usava specchi, per incidere le lastre. Come Leonardo, conosceva l’arte del contrario – certo che il tutto, poi, si rivelasse alla distanza, senza strappi. Niente e nessuno in prima fila, mai, nel suo mosaico: parti dell’armonia, l’insieme risuonante. Amava lavorare a suon di musica, spesso sceglieva Bach. Ha frequentato – in buona compagnia, la sua – il gran paese da cui scendono silenzi e sogni. Quelli rimasti qui non svaniranno, grazie a lui.Quando un maestro trasloca, tace il rumore e l’aria si popola di parole sospese, che restano lì e non se ne andranno. Tino Aime, riconosciuto caposcuola ed elegantissimo incisore, cresciuto nella Torino del dopoguerra, quella di Casorati, fu iniziato alla Libera Accademia sotto la guida di Idro Colombi. Era nato a Cuneo 86 anni fa. Discendeva da una stirpe di pastori annidata sulle impervie alture di Roaschia, valle Gesso, zona Nuto Revelli. Memorabile il primo incontro tra i due, in alta val Maira: lo scrittore a caccia di sopravvissuti in carne e ossa, il pittore in cerca di altre sopravvivenze, ancora più impalpabili. Nuto Revelli e poi anche Davide Lajolo, Nico Orengo, Massimo Mila, finissimi cantori come Francesco Biamonti. Tutti innamorati del segno inimitabile dell’ex ragazzo di Roaschia. Fino al grande Mario Rigoni Stern, vera e propria anima gemella, accomunato dallo stesso amore per i silenzi del bosco, la montagna scabra e nuda, la lingua nitida e sincera della neve. Il vero nome di Aime, Battista, rivela quasi una vocazione: un battesimo della luce, fatto di nuovi occhi per scrutare l’orizzonte e scoprire che, volendo, la meraviglia abita ovunque.
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Al funerale di Kohl i becchini di quest’Europa germanizzata
Per l’addio all’ex cancelliere tedesco Helmuth Kohl, l’Ue ha organizzato nell’Europarlamento di Strasburgo il primo funerale di Stato. Le élite che governano l’Europa e il mondo non potevano non assumere la sua figura come fondativa del presente, della nuova Europa e della nuova realtà globalizzata. Perché indissolubilmente legata alla caduta del Muro di Berlino. Fu lui nel dicembre 1989, a quasi un mese dal crollo del Muro, che al Bundestag annunciò la possibile riunificazione tra le due Germanie (le «due patrie», l’altra era la Ddr) divise per mezzo secolo con sullo sfondo l’ombra delle responsabilità tedesche nella Seconda guerra mondiale e simbolo della Guerra fredda. Quel «dopo-Muro» fu un’epoca ricca di promesse, per gran parte non mantenute, ma certo inconfrontabile con l’attuale stagione. Il piano della riunificazione e poi la decisione del «cambio uno a uno tra marco dell’est e dell’ovest» presa da Kohl – sempre sostenuto a testa bassa dal suo ministro degli interni che si chiamava Wolfgang Schaeuble – sconvolsero e stupirono il quadro politico internazionale di sinistra e di destra, protagonisti Gorbaciov, Mitterrand e Andreotti, Thatcher, Bush padre e Reagan. E perfino autorità economiche e monetarie a partire dalla stessa Bundesbank.Fu dalla riunificazione a tappe forzate che alla fine emerse evidente la nuova pesante centralità della Germania. Tornata grande – con il marco al centro del mercato europeo – così tanto da dover accettare, sul tavolo della trattativa con l’Unione europea che appena nasceva, come contrappeso l’avvio dell’integrazione europea e dell’adozione dell’euro. Questa «epoca delle promesse» ieri è stata ricordata non a caso da un personale politico che – senza confronto col nuovo Corbyn – più vintage non si può: c’erano infatti in mezzo a tanti incredibili leader attuali, come l’ex monarchico berlusconiano Tajani, diventato chissà come presidente dell’Europarlamento, Bill Clinton, Romano Prodi e perfino Silvio Berlusconi. Tutti a contendersi le spoglie del «dopo-Muro» che fu. Ma non c’è più il dopo-Muro di una volta. Da quel crollo inziale, precipitò l’Unione sovietica che con Michail Gorbaciov proponeva la «casa comune europea», un’idea straordinaria fatta a pezzi dai leader occidentali che preferirono la sua caduta e l’avvento a Mosca di Boris Eltsin, piuttosto che corrispondere positivamente.Adesso, al contrario, è tornata la guerra fredda ai confini della Russia-nazione, con l’incendio in Ucraina, nel Donbass, e con gli eserciti atlantici dislocati tutti sulla frontiera russa. Mentre la guerra calda infuria nell’inferno mediorientale e l’Africa torna a vocazione post-coloniale. E soprattutto l’erede di Kohl, Angela Merkel, pur avendo sviluppato le tematiche democristiane della Cdu in chiave socialdemocratico-cristiana, si muove proprio al contrario del grande padre Kohl che l’ha introdotta nel partito e nel potere. Lo ha affermato con durezza il nuovo leader della Spd Martin Schulz, quando all’ultimo congresso straordinario della Spd di pochi giorni fa, ha così accusato l’ex ragazza dell’est «mutti»: «L’idea dell’ex cancelliere Helmuth Kohl era quella della Germania europea, non dell’Europa germanizzata». Un attacco frontale che fotografa lo stato delle cose. Con una Germania che, dopo la Brexit, si candida apertamente a guidare i destini d’Europa, surrogata dalla Francia di Macron che annuncia nuova grandeur.Insomma la Grande Germania è tornata, si sceglie i profughi, privilegia le sue banche, decide sanzioni, marginalizza le aree da escludere come la Grecia, guida i rapporti con l’Asia, fa guerre a destra e a manca, ingloba truppe dell’est nella Bundeshweher. Subalterni i restanti 26 paesi europei. Mentre quelli dell’Est, a proposito della Cortina di ferro, diventati appendice di Berlino e della Nato, vanno per proprio conto a destra, cancellando diritti umani e democrazia. Mentre solo in Europa di muri ne sono stati eretti almeno altri dieci. No, non c’è più il dopo-Muro di una volta.(Tommaso Di Francesco, “L’addio a Kohl e il dopo-Muro di una volta”, dal “Manifesto” del 2 luglio 2017).Per l’addio all’ex cancelliere tedesco Helmuth Kohl, l’Ue ha organizzato nell’Europarlamento di Strasburgo il primo funerale di Stato. Le élite che governano l’Europa e il mondo non potevano non assumere la sua figura come fondativa del presente, della nuova Europa e della nuova realtà globalizzata. Perché indissolubilmente legata alla caduta del Muro di Berlino. Fu lui nel dicembre 1989, a quasi un mese dal crollo del Muro, che al Bundestag annunciò la possibile riunificazione tra le due Germanie (le «due patrie», l’altra era la Ddr) divise per mezzo secolo con sullo sfondo l’ombra delle responsabilità tedesche nella Seconda guerra mondiale e simbolo della Guerra fredda. Quel «dopo-Muro» fu un’epoca ricca di promesse, per gran parte non mantenute, ma certo inconfrontabile con l’attuale stagione. Il piano della riunificazione e poi la decisione del «cambio uno a uno tra marco dell’est e dell’ovest» presa da Kohl – sempre sostenuto a testa bassa dal suo ministro degli interni che si chiamava Wolfgang Schaeuble – sconvolsero e stupirono il quadro politico internazionale di sinistra e di destra, protagonisti Gorbaciov, Mitterrand e Andreotti, Thatcher, Bush padre e Reagan. E perfino autorità economiche e monetarie a partire dalla stessa Bundesbank.
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Wall Street promuove Le Pen. Sondaggi: vincerà al 1° turno
Marine Le Pen sembra ormai a un passo dall’Eliseo: secondo l’ultimo sondaggio Elabe, realizzato per la televisione francese “Bfm”, la leader del Front National potrebbe battere già al primo turno i suoi avversari, François Fillon ed Emmanuel Macron. «Ma, più che i sondaggi, a essere determinante nella partita delle presidenziali francesi è l’appoggio della finanza internazionale», scrive “Diario del Web”: «Ora a scommettere sulla vittoria di Marine Le Pen sono nientepopodimenoché le grandi banche d’affari», le prime a “fiutare il vento” del cambiamento che potrebbe scuotere l’Unione Europea dalle fondamenta. Non molto tempo fa, aggiunge il newsmagazine, tutte le banche francesi, marciando unite e compatte «si erano rifiutate energicamente di concedere prestiti al Front National, snobbando con la puzza sotto il naso l’invisa europarlamentare». E i media mainstream, a ruota, se la ridevano: «In mancanza di meglio – scrivevano – Marine ha dovuto farsi prestare 6 milioni di euro dalla “banca” di suo papà», Jean-Marie Le Pen, fondatore del Fn, che trent’anni fa, nel 1988, mise in piedi la Cotolec (che sta per “Cotisation Electorale”), una struttura finanziaria che raccoglie donazioni e presta il suo denaro al 5% di interesse.La Cotolec, spiega “Diario del Web”, funziona come una piccola banca. Ed è il presidente in persona, papà Jean-Marie, a tenere i cordoni della borsa, scegliendo come impiegare il denaro della sua cassaforte. «Nulla di strano, dunque, che con i denari a disposizione abbia scelto di contribuire alla causa del suo partito e di sua figlia», anche se proprio da quest’ultima era stato espulso mesi or sono dal Front National per le sue intemperanze xenofobe e antisemite. Ora però tutto sta cambiando: i sondaggi iniziano a credere in Marine Le Pen come prossima inquilina dell’Eliseo. E così, la grande finanza già corre in soccorso della (possibile) vincitrice: «La grande novità che probabilmente muterà le sorti delle presidenziali francesi, infatti, riguarda l’incontro tra gli emissari di BlackRock, Ubs e Barclays e il team degli esperti economici del Front National che avrebbe avuto luogo proprio nei giorni scorsi», scrive il blog. Le grandi banche d’affari hanno allungato le loro antenne verso Marine per capire «le strategie d’investimento» del Fn in caso di vittoria. I nomi dei protagonisti non sono trapelati, ma “Bloomberg” riferisce che i banchieri sono rimasti «sorpresi dalla competenza del personale economico del Front National».Si tratterebbe di persone che «capiscono i mercati, anche se da essi sono ideologicamente molto lontani». Non solo. Il giudizio di BlackRock, Ubs e Barclays alla fine sembra essere stato più che positivo nei confronti del team della Le Pen: «La macchina politica del partito è molto più sofisticata di quanto pensassimo. Le vedute del Fn sull’euro, anche se radicali, possono essere il riflesso della realtà, la direzione in cui l’euro deve sviluppare», riporta “Bloomberg”. A questo punto, forse, la “Frexit” è davvero più vicina, «soprattutto se la finanza internazionale e i mercati iniziano a credere seriamente che Marine Le Pen possa imporsi alle presidenziali su candidati filo-europeisti come Macron e Fillon». Dentro e fuori la Francia, aggiunge “Diario del Web”, la leader del Front National sta incrementando la sua credibilità raccogliendo voti e consenso, in particolar modo dal bacino della classe lavoratrice, rimasta orfana in tutto il continente europeo di benessere economico e sociale. Il programma elettorale di Marine, sulla carta, è rivoluzionario: fuori dall’euro, da Schengen e pure dalla Nato. In nome dell’amor di patria, e brandendo una frase di Victor Hugo: “Non abbiamo ancora finito di essere francesi”.Marine Le Pen sembra ormai a un passo dall’Eliseo: secondo l’ultimo sondaggio Elabe, realizzato per la televisione francese “Bfm”, la leader del Front National potrebbe battere già al primo turno i suoi avversari, François Fillon ed Emmanuel Macron. «Ma, più che i sondaggi, a essere determinante nella partita delle presidenziali francesi è l’appoggio della finanza internazionale», scrive “Diario del Web”: «Ora a scommettere sulla vittoria di Marine Le Pen sono nientepopodimenoché le grandi banche d’affari», le prime a “fiutare il vento” del cambiamento che potrebbe scuotere l’Unione Europea dalle fondamenta. Non molto tempo fa, aggiunge il newsmagazine, tutte le banche francesi, marciando unite e compatte «si erano rifiutate energicamente di concedere prestiti al Front National, snobbando con la puzza sotto il naso l’invisa europarlamentare». E i media mainstream, a ruota, se la ridevano: «In mancanza di meglio – scrivevano – Marine ha dovuto farsi prestare 6 milioni di euro dalla “banca” di suo papà», Jean-Marie Le Pen, fondatore del Fn, che trent’anni fa, nel 1988, mise in piedi la Cotolec (che sta per “Cotisation Electorale”), una struttura finanziaria che raccoglie donazioni e presta il suo denaro al 5% di interesse.
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Su euro e Nato, battaglie giuste: e a farle è Marine Le Pen
La mia prima manifestazione, oltre cinquanta anni fa, fu contro la guerra degli Usa in Vietnam e uno di primi slogan che ho gridato era: fuori l’Italia dalla Nato, fuori la Nato dall’Italia. Non ho mai cambiato idea e non la cambio ora che la candidata presidenziale della destra francese, Marine Le Pen, propone la stessa scelta per il suo paese. Questo non mi fa paura, anzi. Il no alla Nato in Europa è stato sempre una discriminante nel mondo della sinistra. Quelle moderate, socialdemocratiche, di governo, son sempre state schierate con gli Stati Uniti e l’Alleanza Atlantica. Quelle radicali, comuniste, di opposizione, erano contro. Lo stesso, anche se la memoria storica ricostruita dalle élites ora ha cancellato questa realtà, avveniva contro l’Euro e la sua creatura: l’Unione Europea. Nel 1979 il Pci di Enrico Berlinguer dichiarò la crisi della politica di unità nazionale con la Dc, partendo dal no a due decisioni che avrebbero cambiato la storia del continente: l’istituzione dello Sme, il sistema europeo di cambi quasi fissi che preparava l’euro, e l’installazione di una nuova generazione di missili in Europa Occidentale, missili puntati contro l’Unione Sovietica.Le motivazioni con le quali allora i comunisti italiani rifiutarono quelle due scelte potrebbero essere usate oggi contro i guasti della moneta unica e contro la folle decisione della Nato di espandersi aggressivamente fino ai confini della Russia. A tale scopo finanziando anche la guerra al popolo del Donbass da parte del governo ucraino infarcito di ministri nazifascisti. Quegli argomenti di allora sono ancora più validi oggi, ma ora non sono più sostenuti dalla maggioranza della sinistra, ma, in Francia soprattutto, dalla nuova destra populista. Che è sempre stata euroscettica, ma spesso, e in contrapposizione alla Ue, Natofanatica. Oggi invece gran parte di ciò che ufficialmente è sinistra in Europa sostiene la Nato, l’euro e l’Unione Europea. E non perché queste istituzioni siano cambiate, né tantomeno migliorate, ma perché è la sinistra stessa che è cambiata e per questo sta scomparendo.Le socialdemocrazie di governo sono state conquistate dalle politiche liberiste, se ne sono fatte complici e le hanno amministrate assieme alla vecchia destra conservatrice e liberale, di cui alla fine sono diventate una variante. Variante sul piano dei diritti civili, non di quelli sociali. Giusto battersi per il diritto al matrimonio tra coppie dello stesso sesso, ma perché contemporaneamente distruggere il diritto al lavoro e la tutela contro i licenziamenti ingiusti? Bene l’Erasmus, per chi può permetterselo, ma perché strangolare finanziariamente la scuola pubblica? E perché privatizzare la sanità e finanziare le banche? La sinistra di governo, proprio quando questa tornava ad essere al centro di tutto, ha abbandonato la questione sociale, che è stata così occupata dalla nuova destra, che nel frattempo rompeva con la sua anima liberale e di governo. Non c’è stata sinora simmetria.Mentre la nuova destra faceva sue antiche parole d’ordine della sinistra radicale – ovviamente storpiandole dentro il suo contenitore di sempre: dio, patria, famiglia – quest’ultima si rifugiava in astratti principi di buona volontà. La resa di Tsipras e Siryza alla Troika e alla Nato ha poi tolto dal campo europeo la possibilità che la rottura a destra avesse il suo immediato corrispondente a sinistra. Podemos in Spagna e il M5S in Italia, seppur partendo da collocazioni differenti, sinora son giunti alla medesima conclusione di non misurarsi esplicitamente con la rottura con euro, Ue, Nato. Rottura che così oggi è diventata ufficialmente un obiettivo della nuova destra. Che pare aver rovesciato a suo favore l’antica parola d’ordine della politica comunista dei fronti popolari antifascisti del secolo scorso: raccogliere, dal fango in cui era stata gettata dalla borghesia, la bandiera della democrazia e della indipendenza nazionale.L’Unione Europea muove scandalo per Trump che vuol concludere il muro contro i migranti iniziato da Clinton, ma poi subappalta quello stesso muro al governo fantoccio libico e a quello autoritario di Erdogan. La delocalizzazione delle fabbriche è seguita da quella degli assassinii di massa dei migranti, restaurando la così più pura tradizione coloniale del vecchio continente. Di fronte alla crisi economica permanente del sistema euro, la Germania propone l’Unione a due velocità, una per sé una per le colonie del Sud Europa, e il governo italiano acconsente. Intanto tutti i parlamenti europei tranne uno, quello tedesco, sono sottoposti ai diktat e agli arbitri della tecnoburocrazia comunitaria. Trump chiede agli europei di pagarsi la Nato, cioè di accrescere le spese e gli interventi militari mentre si distrugge lo stato sociale, e la destra e la sinistra liberale fanno improvvisamente di quell’alleanza militare un baluardo dei diritti umani.Alla base di questi sconvolgimenti politici sta la crisi irreversibile della globalizzazione, non a caso dichiarata dai governi dei due paesi, Gran Bretagna e Stati Uniti, che quaranta anni fa avevano dato a essa il massimo impulso. Crisi che in Europa sta finora proponendo solo due alternative, quella della rottura da destra e quella della conservazione ipocrita dello statu quo da parte delle vecchie élites e della loro doppia morale. Un’alternativa progressista oggi non è in campo perché gran parte della sinistra è stata condotta in un binario morto da gruppi dirigenti o venduti, o subalterni alla globalizzazione liberista. Persino nell’antagonismo radicale è comparso improvvisamente l’amore per la Ue e speriamo che ora ci sia risparmiato quello per la Nato. La sinistra comunista e anticapitalista, se vuole ancora avere un ruolo e una funzione, deve prima di tutto riprendersi i suoi obiettivi. Fuori dalla Nato, dall’euro e dalla Ue dunque, con ancora maggiore convinzione oggi che questi stessi obiettivi vengono riproposti dalla parte opposta. Solo così la sinistra può ridare attualità al socialismo e competere con, e smascherare il, nazional liberismo della nuova destra.(Giorgio Cremaschi, “Fuori dalla Nato, euro e Ue. Non cambio idea anche se Marine la pensa così”, dall’“Huffington Post” del 6 febbraio 2017).La mia prima manifestazione, oltre cinquanta anni fa, fu contro la guerra degli Usa in Vietnam e uno di primi slogan che ho gridato era: fuori l’Italia dalla Nato, fuori la Nato dall’Italia. Non ho mai cambiato idea e non la cambio ora che la candidata presidenziale della destra francese, Marine Le Pen, propone la stessa scelta per il suo paese. Questo non mi fa paura, anzi. Il no alla Nato in Europa è stato sempre una discriminante nel mondo della sinistra. Quelle moderate, socialdemocratiche, di governo, son sempre state schierate con gli Stati Uniti e l’Alleanza Atlantica. Quelle radicali, comuniste, di opposizione, erano contro. Lo stesso, anche se la memoria storica ricostruita dalle élites ora ha cancellato questa realtà, avveniva contro l’Euro e la sua creatura: l’Unione Europea. Nel 1979 il Pci di Enrico Berlinguer dichiarò la crisi della politica di unità nazionale con la Dc, partendo dal no a due decisioni che avrebbero cambiato la storia del continente: l’istituzione dello Sme, il sistema europeo di cambi quasi fissi che preparava l’euro, e l’installazione di una nuova generazione di missili in Europa Occidentale, missili puntati contro l’Unione Sovietica.
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Trump e il Muro: il lavoro viene prima del business parassita
Prove generali di protezionismo: una crepa nel muro della globalizzazione, che ha finora premiato le multinazionali “impunite”, libere di delocalizzare il lavoro moltiplicando i profitti a spese dell’occupazione nei paesi d’origine? Il problema, con Donald Trump, è che per abbattere quel muro se ne erige un altro, contro la mobilità dei migranti. E a pagare sono innanzitutto loro, i poveri, quelli del sud del mondo. Donald Trump appare duro, spietato. Ma quello che propone (anzi, impone) è un rovesciamento di valori: il lavoro viene prima del profitto. Ovvero: la Casa Bianca agevola il business delle multinazionali, tagliando le tasse, ma solo a patto che la grande industria torni a investire in patria, sanando la piaga della disoccupazione che ha devastato i lavoratori e impoverito la classe media. Scenari che il neopresidente Usa lascia intravedere da subito, con l’annuncio della barriera anti-immigrazione messicana finanziata con super-dazi per colpire le importazioni dal paese confinante. «Prima lezione: qui si fa sul serio», avverte Federico Rampini su “Repubblica”. «Arrivati al settimo giorno dell’era Trump, almeno una cosa dovremmo averla imparata. Lui fa quello che dice». Credevate fossero solo promesse elettorali? Errore: «Trump va preso addirittura alla lettera».Prima vittima del neopresidente, i poveri emigranti: bloccati, a quanto pare, dall’estensione del Muro (che già esiste, per ampi tratti, lungo le frontiere di California e Texas). «E adesso arriva l’altra metà della promessa: lo pagheranno i messicani. Da oggi sappiamo pure il come: con un dazio del 20% sui prodotti che varcheranno la frontiera, ogni merce “made in Mexico” importata negli Stati Uniti». Due le domande, osserva Rampini. La prima: è lecito? Il Messico fa parte del trattato Nafta che istituì con Usa e Canada il mercato unico nordamericano nel 1994. Ma se un presidente Usa vuole recedere dall’accordo, gli basta annunciarlo con preavviso unilaterale di sei mesi. Seconda domanda: cosa può fare il Messico per difendersi? «Certo è sempre possibile immaginare una serie di ritorsioni e rappresaglie a cominciare da un analogo dazio sul “made in Usa”. Qui però entra in gioco l’evidente asimmetria: il Messico esporta sul mercato Usa più di quanto i vicini settentrionali riescano a vendere ai consumatori messicani».L’asimmetria – che si traduce in un deficit commerciale visto dagli Stati Uniti – fa sì che nella guerra commerciale il Sud abbia molto più da perdere, scrive Rampini, secondo cui «l’unica vera incognita riguarda le multinazionali americane». Molte di loro, ricorda il giornalista, cominciarono a delocalizzare in Messico negli anni ‘90 per sfruttare i costi di produzione inferiori (soprattutto salariali) nelle cosiddette “maquiladoras”, stabilimenti che assemblano per riesportare negli Usa. Di fatto, quindi, «buona parte del commercio tra le due nazioni è in realtà commercio “interno” ad aziende transnazionali che hanno il quartier generale e gli azionisti negli Stati Uniti. Sono loro a trovarsi “prese in mezzo”, e di certo si muoveranno per ridurre i danni». Ai colossi dell’automobile, Trump ha già proposto un do ut des: voi la smettete di costruire fabbriche oltre confine, tornate a produrre negli Stati Uniti, e io in cambio vi riduco le tasse sui profitti e le regole anti-inquinamento.«Vedremo se può proporre contropartite attraenti anche ad altri settori industriali», aggiunge Rampini, sapendo che, in ogni caso, «per le multinazionali Usa si pone il problema delle fabbriche già esistenti». Esempio: Ford può cancellare, come ha fatto, il progetto di costruirne una nuova in Messico, «ma su quelle che ha già, subirà la mannaia del superdazio, 20% di sovrapprezzo se prova a rivendere quelle Ford “messicane” ai suoi clienti americani». E’ un problema enorme, «che riguarda una lunga lista di aziende», le cui voci «ora è presumibile che si faranno sentire». Per la cronaca: è anche la prima volta, dopo almeno trent’anni, che un politico al vertice dell’Occidente antepone l’occupazione al super-reddito dell’élite, vincolandolo alla protezione sociale della comunità nazionale.E’ il contrario esatto del dogma neoliberista spacciato per Vangelo da tutte le destre (e le sinistre) che si sono avvicendate, in apparente alternanza, al governo dei nostri paesi, “sbriciolati” proprio dal crollo della domanda interna (meno lavoro e quindi meno redditi e meno consumi, meno gettito fiscale e dunque più tasse e più debito) fino a gonfiare l’ondata di “populismo”, in cui è presente anche il rifiuto democratico dell’attuale gestione tecnocratico-finanziaria presentata come “inevitabile”, ad esempio nell’Europa del rigore “tedesco” imposto attraverso Bruxelles con la politica dell’euro. Quella di Donald Trump (“gli americani prima di tutto”) è una politica di assoluta rottura, di cui oggi l’inquilino della Casa Bianca si presenta come il nuovo campione mondiale. Un virus che potrebbe contagiare l’Unione Europea? Se si dovesse invertire anche da noi l’ordine delle priorità strategiche – il lavoro prima del business – è evidente che l’euro salterebbe: senza moneta sovrana e piena autonomia fiscale, nessun governo avrebbe la possibilità di incrementare, con investimenti e sgravi, la domanda interna, unica possibile soluzione per ridare fiato alle aziende, al lavoro, al paese.Prove generali di protezionismo: una crepa nel muro della globalizzazione, che ha finora premiato le multinazionali “impunite”, libere di delocalizzare il lavoro moltiplicando i profitti a spese dell’occupazione nei paesi d’origine? Il problema, con Donald Trump, è che per abbattere quel muro se ne erige un altro, contro la mobilità dei migranti. E a pagare sono innanzitutto loro, i poveri, quelli del sud del mondo. Donald Trump appare duro, spietato. Ma quello che propone (anzi, impone) è un rovesciamento di valori: il lavoro viene prima del profitto. Ovvero: la Casa Bianca agevola il business delle multinazionali, tagliando le tasse, ma solo a patto che la grande industria torni a investire in patria, sanando la piaga della disoccupazione che ha devastato i lavoratori e impoverito la classe media. Scenari che il neopresidente Usa lascia intravedere da subito, con l’annuncio della barriera anti-immigrazione messicana finanziata con super-dazi per colpire le importazioni dal paese confinante. «Prima lezione: qui si fa sul serio», avverte Federico Rampini su “Repubblica”. «Arrivati al settimo giorno dell’era Trump, almeno una cosa dovremmo averla imparata. Lui fa quello che dice». Credevate fossero solo promesse elettorali? Errore: «Trump va preso addirittura alla lettera».
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Smascherato il Bomba, l’Italia crederà al prossimo Renzi?
Ha perso Renzi, questo è certo. E’ importante? Forse: Renzi è stato smascherato, si era venduto come salvatore della patria. Uno strano salvatore: sbrigativo, facilone, e pure attaccabrighe. Come se i nemici dell’Italia fossero ragazzotti, anche loro, da sfidare al bar. Ma gli elettori hanno scoperto il gioco: non c’erano altri ragazzotti in circolazione, a parte quello auto-insediatosi a Palazzo Chigi. In giro c’erano, e ci sono, solo squali. E che squali: Juncker, la Merkel, Draghi, la Bundesbank, BlackRock e compagnia privatizzante. Hanno fiutato l’imbroglio, gli elettori: il fiorentino dalla parola svelta (e mai mantenuta) serviva, sottobanco, proprio loro, i grandi poteri che da sempre “coltivano” l’Italia, in modo che il Belpaese non potesse rappresentare un pericolo per i supremi interessi in gioco. Era peggiore di altri, Renzi? Sicuramente più sfrontato. Ma lo schema è sempre uguale: allevare una classe dirigente docile, corrotta e quindi ricattabile, oppure finto-ribelle (che è lo stesso, se non peggio). Poi nel frattempo le cose vanno male? C’è crisi, si capisce: bisogna soffrire. E magari fustigare gli antichi vizi italici, la pigrizia, l’opportunismo. O, ancora: additare nemici immaginari, evitando di inquadrare quelli veri, che non abitano nemmeno lontano da casa. Sono regole di guerra: senza collaborazionisti, l’esercito invasore è nei guai. Ma chi li vota, i collaborazionisti?Sono bravi, i tribuni della plebe, a fare in modo che il popolo invaso prenda lucciole per lanterne: madornale, il 40% rimediato dal Pd renziano alle europee 2014, appena un anno e mezzo fa. Un mandato troppo grande, evidentemente, per il piccolo fiorentino, l’uomo del bar specializzato nel gioco su più tavoli. Ti può andar bene una volta, ma non sempre: alla lunga, diventi antipatico. Bel problema: per te, ma soprattutto per i tuoi capi, già al lavoro per trovare una soluzione di ripiego che risulti indolore, per i loro sovrani interessi. A caldo, dovranno sicuramente punire la plebe insubordinata: colpirne uno per educarne cento, come scrive Paolo Barnard sul “Daily Express” di Londra, perché guai se gli italiani la passano completamente liscia dopo aver detronizzato l’amico di Angela e Hillary, di Obama e del Ttip – guai, perché gli inglesi post-Brexit potrebbero pensare di uscire indenni anche loro dalla morsa dei neo-feudatari, e a maggior ragione i francesi si sentirebbero incoraggiati, nel 2017, a licenziare i collaborazionisti di casa, eleggendo all’Eliseo una outsider come la signora Le Pen a cui nessuno, a Bruxelles e Berlino, ha finora potuto dare ordini.Si mette male? I signori dello spread picchieranno sodo? Fino a che punto, è da vedersi: vista la situazione – con i media mainstream che non controllano più l’opinione pubblica – quanto conviene, ai dominus, trasformare l’Italia in una specie di Grecia? La storia insegna che i sommi manovratori prediligono di gran lunga l’illusionismo, un po’ come fu per lo stesso Renzi, il super-rinnovatore che ha semplicemente tagliato i diritti del lavoro, come richiesto dalla cupola di Bruxelles, in ossequio al piano di svalutazione interna (salari, pensioni, welfare) imposto dalla moneta unica. Per introdurlo, l’euro, in Italia è stato necessario lo tsunami di Mani Pulite, che ha tolto di mezzo personaggi come Craxi e Andreotti, che mai avrebbero calato le brache a Maastricht. Gli italiani, allora, gridarono alla liberazione, alla rivoluzione. Oggi, la crisi ha colpito in modo devastante: i giovani del 2016 non sono quelli degli anni ‘90, che un futuro a casa ce l’avevano. Il bisogno di riscostruzione è percepito in modo lancinante, come conferma lo stesso consenso accordato fino a ieri persino a Renzi, che infatti ha perso solo quando ha voluto spaccare il paese in due. Comunque vada, dicono molti osservatori, sarà dura. Molte favole sono state archiviate come frottole. Ma una narrazione veritiera per ora si fa strada solo in negativo, a suon di No.Ha perso Renzi, il Bomba, questo è certo. E’ importante? Forse: Renzi è stato smascherato, si era venduto come salvatore della patria. Uno strano salvatore: sbrigativo, facilone, e pure attaccabrighe. Come se i nemici dell’Italia fossero ragazzotti, anche loro, da sfidare al bar. Ma gli elettori hanno scoperto il gioco: non c’erano altri ragazzotti in circolazione, a parte quello auto-insediatosi a Palazzo Chigi. In giro c’erano, e ci sono, solo squali. E che squali: Juncker, la Merkel, Draghi, la Bundesbank, BlackRock e compagnia privatizzante. Hanno fiutato l’imbroglio, gli elettori: il fiorentino dalla parola svelta (e mai mantenuta) serviva, sottobanco, proprio loro, i grandi poteri che da sempre “coltivano” l’Italia, in modo che il Belpaese non possa mai rappresentare un pericolo per i supremi interessi in gioco. Era peggiore di altri, Renzi? Sicuramente più sfrontato. Ma lo schema è sempre uguale: allevare una classe dirigente docile, corrotta e quindi ricattabile, oppure finto-ribelle (che è lo stesso, se non peggio). Poi nel frattempo le cose vanno male? C’è crisi, si capisce: bisogna soffrire. E magari fustigare gli antichi vizi italici, la pigrizia, l’opportunismo. O, ancora: additare nemici immaginari, evitando di inquadrare quelli veri, che non abitano nemmeno lontano da casa. Sono regole di guerra: senza collaborazionisti, l’esercito invasore è nei guai. Ma chi li vota, i collaborazionisti?
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Strana morte del Papa ‘antifascista’. Il suo medico? Petacci
Tutti si ricorderanno di Papa Giovanni Paolo I, al secolo Albino Luciani, «che occupa il soglio pontificio per soli 33 giorni (magari il numero vi dice qualcosa…) prima di morire improvvisamente, il 29 settembre 1978, secondo la versione ufficiale, per un infarto miocardico». La verità è probabilmente ben diversa, scrive Marcus Mason sul blog “Lo Sciacallo”: il nuovo Papa aveva in testa di realizzare una sorta di “grande repulisti” all’interno del voluminoso apparato burocratico ecclesiastico, eliminando «corruzione e malaffare all’interno delle Mura Leonine». Nel mirino, «alcuni esponenti di rilievo della finanza vaticana». Probabile quindi che «si sia deciso di uscire dall’imbarazzo risolvendo il problema alla base: mettendo Luciani in condizioni di non nuocere». Ma attenzione: quarant’anni prima, c’era stato un altro pontefice «la cui dipartita dà ancora adito a più di un dubbio: si tratta di Achille Ratti, salito al soglio col nome di Pio XI». La sua “colpa”? Non piaceva a Mussolini e men che meno a Hitler: il pontefice si stava preparando a una dichiarazione clamorosa contro l’adozione delle leggi razziali che sancirono il genocidio degli ebrei anche in Italia.Ratti nasce a Desio, nel milanese, il 31 maggio 1857, ricorda lo “Sciacallo”. Si dedica alla carriera religiosa a partire dal 1867, quando inizia a frequentare il seminario di Seveso e successivamente quello di Monza, fino ad entrare nell’ordine terziario francescano nel ‘74. Viene ordinato sacerdote a Roma nel dicembre ‘79 dal cardinale La Valletta. Si occupa di istruzione, prima come prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano e in seguito come insegnante, fino al suo ingresso nell’élite ecclesiastica negli anni ‘90 del XIX secolo. Arriva ad ottenere, sotto Benedetto XV, il prestigioso incarico di prefetto della Biblioteca Vaticana. Dopo una serie di incarichi diplomatici all’estero (anche “visitatore apostolico” in Polonia), viene nominato nel 1921 arcivescovo di Milano, dove fonda l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Alla morte di Benedetto XV, è eletto nuovo pontefice. Una volta in carica, Ratti si adopera per dirimere la cosiddetta “questione romana”, cioè l’ostilità tra Italia e Vaticano, ancora irrisolta dai tempi di Porta Pia. Il Papa «si mostra in più di un’occasione in contrasto con i provvedimenti del regime fascista», ma poi cambia posizione nel 1929, anno in cui, l’11 febbraio, Stato italiano e Chiesa Cattolica firmano i celeberrimi Patti Lateranensi, «in cui a quest’ultima vengono concessi privilegi economici e gestionali spropositati».Da lì in poi, continua Mason, la Chiesa si mostra quasi totalmente in linea con la politica mussoliniana, «non proferendo parole sulle atrocità italiane nelle colonie nordafricane, né sull’azzeramento delle libertà di pensiero e di stampa in patria». Poi però le cose si complicano in seguito all’alleanza organica col nazismo: «L’atteggiamento ambiguo di Ratti non può proseguire a partire dal 1938 quando l’Italia, su imbeccata di Hitler, promulga le aberranti leggi razziali», scrive Mason. «Pio XI, che mai ha avuto in simpatia il dittatore nazista (nel maggio 1938, quando Hitler era venuto in visita in Italia, non aveva voluto incontrarlo), individua nella cerimonia per il decennale dei Patti Lateranensi, che si sarebbe tenuta l’11 febbraio 1939, il momento giusto per pronunciare un forte discorso». Secondo Bianca Penco, una dirigente dell’epoca della Fuci, la Federazione Universitaria Cattolica Italiana, il pontefice «avrebbe condannato apertamente la deriva politica che Mussolini aveva intrapreso, evidenziando una violazione palese degli stessi Patti che l’Italia si era impegnata ad onorare, oltre alla denuncia delle persecuzioni antisemite e anticristiane ormai dilaganti in Germania».E’ superfluo rimarcare quale enorme danno d’immagine tutto ciò avrebbe rappresentato per il Duce e per lo stesso Hitler, sottolinea Mason. Ma, del resto, Pio XI non avrebbe mai pronunciato quel discorso: nella notte del 10 febbraio, secondo la versione ufficiale, viene colpito da un attacco cardiaco e muore. «Casualmente», frattanto, il cardinale segretario di Stato, Eugenio Pacelli (il futuro Papa, Pio XII) «fa distruggere le copie esistenti del discorso in questione». I conti tornano, sostiene Mason, anche perché l’operato di Pacelli come pontefice durante la Seconda Guerra Mondiale è sotto accusa da settant’anni, «tacciato di viltà, ignavia e connivenza nei confronti delle atrocità che venivano compiute». Va da sé che, «alla luce di questi fatti, la morte fulminea di Pio XI si circonda di un’aura di mistero». E dunque: «Se davvero è stato ucciso, chi può aver commesso il delitto?». In un suo memoriale, nel 1972 il cardinale Eugène Tisserant scrive, a proposito di Ratti: «Lo hanno eliminato, lo hanno assassinato». E individua il presunto colpevole nel medico personale del Papa, Saverio Petacci, nientemeno che il padre di Claretta, l’appassionata amante del Duce che poi morirà fucilata insieme a lui nel ‘45. «Un’incredibile coincidenza, naturalmente».Ma c’è di più: la donna, continua Mason, era solita annotare su un diario la cronaca delle sue giornate più importanti. Ma la pagina inerente al 5 febbraio 1939 è incompleta. Termina con la frase: «Legge i biglietti e si inquieta per una cosa che segna… Poi dice: questi sanno…».Silenzio fino al 12 febbraio, quando il diario prosegue senza però fare il minimo accenno ai fatti in questione. C’è solo una frase del Duce, che annuncia a Claretta che si recherà alle esequie di Ratti in compagnia della moglie. «Ci pare lapalissiano che alcune pagine scottanti del diario della Petacci siano state fatte scientemente sparire», scrive Mason. Pagine in cui, «forse si trovava la prova del fatto che quella di Pio XI fu una morte su commissione». Certezze? Nessuna. Dubbì, però, sì. E tanti. «Chissà, forse un giorno scopriremo questo grande cimitero dei libri dove sono conservate le risposte ai grandi misteri della storia; e tra le “Guerre di Yahweh” e la versione integrale della “Steganographia” di Tritemio, magari troveremo le pagine del diario di una giovane donna italiana».Tutti si ricorderanno di Papa Giovanni Paolo I, al secolo Albino Luciani, «che occupa il soglio pontificio per soli 33 giorni (magari il numero vi dice qualcosa…) prima di morire improvvisamente, il 29 settembre 1978, secondo la versione ufficiale, per un infarto miocardico». La verità è probabilmente ben diversa, scrive Marcus Mason sul blog “Lo Sciacallo”: il nuovo Papa aveva in testa di realizzare una sorta di “grande repulisti” all’interno del voluminoso apparato burocratico ecclesiastico, eliminando «corruzione e malaffare all’interno delle Mura Leonine». Nel mirino, «alcuni esponenti di rilievo della finanza vaticana». Probabile quindi che «si sia deciso di uscire dall’imbarazzo risolvendo il problema alla base: mettendo Luciani in condizioni di non nuocere». Ma attenzione: quarant’anni prima, c’era stato un altro pontefice «la cui dipartita dà ancora adito a più di un dubbio: si tratta di Achille Ratti, salito al soglio col nome di Pio XI». La sua “colpa”? Non piaceva a Mussolini e men che meno a Hitler: il pontefice si stava preparando a una dichiarazione clamorosa contro l’adozione delle leggi razziali che sancirono il genocidio degli ebrei anche in Italia.
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Il potere è guerra. E pretende il nostro Sì al referendum
Pensate che si tratti di un referendum normale, di quelli indetti in tempo di pace? «Cari amici, poiché ho 85 anni devo dirvi come sono andate le cose», premette Raniero La Valle, veterano della sinistra italiana. Molti credono che il mondo abbia cambiato volto dopo l’11 Settembre? Errore. Tutto è esploso almeno dieci anni prima, quando – alla caduta dell’Urss – si è deciso di «rispondere alla fine del comunismo portando un capitalismo aggressivo fino agli estremi confini della terra», promuovendolo «da ideologia a legge universale, da storicità a trascendenza». Vi spaventa Renzi con la sua riforma, da cui la battaglia sul referendum? Non è che l’ultimo gradino di una lunghissima scala in discesa: «Avevamo preteso di superare il conflitto di classe smontando i sindacati», e di «sfruttare la fine della contrapposizione militare tra i blocchi facendo del Terzo Mondo un teatro di conquista». La scelta decisiva? «Restauratrice e totalmente reazionaria». Questa: «Disarmare la politica e armare l’economia – non in un solo paese, ma in tutto il mondo». Globalizzazione a mano armata. Inaugurata da un sacrificio simbolico: la Guerra del Golfo del 1991. L’era della guerra totale come nuova normalità: la guerra dell’Occidente contro il resto del mondo.In un lungo intervento su “Repubblica” ripreso da “Micromega”, La Valle parte dall’Italia, dove «succede che undici persone al giorno muoiono annegate o asfissiate nelle stive dei barconi nel Mediterraneo, davanti alle meravigliose coste di Lampedusa». Qualcuno dice che nel 2050 i trasmigranti saranno 250 milioni. «E l’Italia che fa? Sfoltisce il Senato». L’ex parlamentare della Sinistra Indipendente non usa giri di parole: «E’ in corso una terza guerra mondiale non dichiarata, ma che fa vittime in tutto il mondo. Aleppo è rasa al suolo, la Siria è dilaniata, l’Iraq è distrutto, l’Afganistan devastato, i palestinesi sono prigionieri da cinquant’anni nella loro terra, Gaza è assediata, la Libia è in guerra». In Africa, in Medio Oriente e anche in Europa «si tagliano teste e si allestiscono stragi in nome di Dio. E l’Italia che fa? Toglie lo stipendio ai senatori». Nel resto del mondo, peraltro, lo spettacolo non è migliore: è appena fallito il G20 ad Hangzhou, in Cina. I “grandi della terra”, «che accumulano armi di distruzione di massa e si combattono nei mercati in tutto il mondo», non sanno che fare «per i profughi, per le guerre», non vogliono «evitare la catastrofe ambientale», né tantomeno «promuovere un’economia che tenga in vita sette miliardi e mezzo di abitanti della terra».L’unica cosa che decidono «è di disarmare la politica e di armare i mercati, di abbattere le residue restrizioni del commercio e delle speculazioni finanziarie, di legittimare la repressione politica e la reazione anticurda di Erdogan in Turchia e di commiserare la Merkel che ha perso le elezioni amministrative in Germania». E in tutto questo l’Italia che fa? «Fa eleggere i senatori dai consigli regionali». Ed è l’Italia a crescita zero, col 39% di giovani disoccupati, il lavoro precario, i licenziamenti in aumento: «I poveri assoluti sono quattro milioni e mezzo, la povertà relativa coinvolge tre milioni di famiglie e otto milioni e mezzo di persone». Il governo Renzi «fa una legge elettorale che esclude dal Parlamento il pluralismo ideologico e sociale, neutralizza la rappresentanza e concentra il potere in un solo partito e una sola persona». Si dice: ce lo chiede l’Europa, cioè il fantasma di un sogno lontano e completamente abortito. «Se questa è la distanza tra la riforma costituzionale e i bisogni reali del mondo, dell’Europa, del Mediterraneo e dell’Italia, la domanda è perché ci venga proposta una riforma così».La verità è rivoluzionaria, certo, ma bisogna conoscerla per tempo: «Il guaio della verità è che essa si viene a sapere troppo tardi, quando il tempo è passato». Esempio: «Se si fosse saputa in tempo la bugia sul mai avvenuto incidente del Golfo del Tonchino, la guerra del Vietnam non ci sarebbe stata, l’America non sarebbe diventata incapace di seguire la via di Roosevelt, di Truman, di Kennedy, e avrebbe potuto guidare l’edificazione democratica e pacifica del nuovo ordine mondiale inaugurato venti anni prima con la Carta di San Francisco». Idem: «Se si fosse conosciuta prima la bugia di Bush e di Blair, e saputo che le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein non c’erano, non sarebbe stato devastato il Medio Oriente, il terrorismo non avrebbe preso le forme totali dei combattenti suicidi in tutto il mondo». E ancora: «Se si fosse saputa la verità sul delitto e sui mandanti dell’uccisione di Moro, l’Italia si sarebbe salvata dalla decadenza in cui è stata precipitata».Dunque, insiste La Valle, la verità del referendum anti-Renzi va conosciuta “finché si è in tempo”. Il vantato risparmio sui costi della politica? Ridicolo: per la Ragioneria Generale dello Stato, il taglio della paga dei senatori vale appena 58 milioni, mentre il costo del Senato resta. Il risparmio sui tempi della politica? Illusione: il bicameralismo rimane, perché «si introducono sei diversi tipi di leggi e di procedure che ricadono su ambedue le Camere», creando «un intrico di passaggi tra Camera e Senato e un groviglio di competenze». Non è la legge Boschi il vero oggetto della consultazione: la verità è nascosta dietro le urne. Il referendum è «un evento di rivelazione che squarcia il velo sulla situazione com’è: è uno svelamento della vera lotta che si sta svolgendo nel mondo e della posta che è in gioco». Il voto è rivelatore dello stato del mondo. Bisogna trovare la sua verità nascosta, il suo vero “movente”, la sua vera premeditazione, partendo proprio da Renzi: ha ammesso che la riforma gli è stata “suggerita” da Napolitano. E prima ancora dalla Jp Morgan, che già nel 2013 accusava la nostra Costituzione di tutelare eccessivamente i diritti del lavoro e «la libertà di protestare contro le scelte non gradite del potere».E’ il diktat storico della Commissione Trilaterale fondata da Rockefeller: limitare la democrazia. «La stessa cosa vogliono ora i grandi poteri economici e finanziari mondiali, tanto è vero che sono scesi in campo i grandi giornali che li rappresentano, il “Financial Times” e il “Wall Street Journal”, i quali dicono che il No al referendum sarebbe una catastrofe come il Brexit inglese». Ci si è messo anche l’ambasciatore americano a Roma: se in Italia vincesse il No, gli “investitori” scapperebbero. I diritti del lavoro Renzi li ha già “sistemati” col Jobs Act. “Spegnendo” il Senato diverrebbe padrone dell’agenda parlamentare. E con l’Italicum – 340 deputati su 615 al partito di maggioranza, a prescindere dal numero di voti ottenuti – ne farebbe “un uomo solo al comando”: sfiduciare il governo, se pessimo, sarebbe prerogativa esclusiva del partito stesso, non più degli eletti. In più le nuove procedure introdotte «renderanno più difficili le forme di democrazia diretta come i referendum o le leggi di iniziativa popolare». Risultato: «Ci sarà una diminuzione della possibilità per i cittadini di intervenire nei confronti del potere». Si accorgeranno, “i cittadini”, che sono stati proprio loro a spingere Renzi fin lassù?Tra gli “indizi” che svelano la vera natura della sfida, Raniero La Valle cita la risposta di Romano Prodi, interrogato sul voto: non mi pronuncio, ha detto, perché altrimenti turbo i mercati e destabilizzo l’Italia in Europa. «Dunque non è una questione italiana, è una questione che riguarda l’Europa, è una questione che potrebbe turbare i mercati. Insomma è qualcosa che ha a che fare con l’assetto del mondo». Mondo che, continua La Valle, era già cambiato – in modo drastico – ben prima dell’11 settembre 2001. Per lo storico britannico Eric Hobsbawm, il “secolo breve” finì già nel 1991: lì fu dato inizio «a un nuovo secolo, a un nuovo millennio e a un nuovo regime che nella follia delle classi dirigenti di allora doveva essere quello definitivo», tant’è vero che l’economista Francis Fukuyama, beniamino della Trilaterale, lo definì come la “fine della storia”: il capitalismo senza più freni, che si finanziarizza e impone in tutto il mondo la legge del più forte. Un potere totalitario che abbatte diritti, conquiste sociali e sovranità democratiche. E attenzione: secondo La Valle «c’è una teoria molto attendibile secondo cui all’inizio di un’intera epoca storica, all’inizio di ogni nuovo regime, c’è un delitto fondatore».Ed ecco il punto: il sacrificio simbolico. Secondo l’antropololo francese René Girard, fin dall’inizio della storia della civiltà, il “delitto fondatore” è l’uccisione della vittima innocente. «Ossia c’è un sacrificio, grazie al quale viene ricomposta l’unità della società dilaniata dalle lotte primordiali». Per un padre dell’Illuminismo come il filosofo inglese Thomas Hobbes, lo Stato stesso viene fondato dall’atto di violenza con cui il Leviatano assume il monopolio della forza, ponendo fine alla lotta di tutti contro tutti e assicurando ai sudditi la vita in cambio della libertà. Anche secondo Freud, all’origine della società civile c’è un “delitto fondatore”: quello dell’uccisione del padre. «Se poi si va a guardare la storia – continua La Valle – si trovano molti “delitti fondatori”. Cesare molte volte viene ucciso, il delitto Matteotti è il delitto fondatore del fascismo, l’assassinio di Kennedy apre la strada al disegno di dominio globale della destra americana che si prepara a sognare, per il Duemila, “il nuovo secolo americano”». Da noi, «l’uccisione di Moro è il “delitto fondatore” dell’Italia che si pente delle sue conquiste democratiche e popolari».E qual è il “delitto fondatore” dell’attuale regime del capitalismo globale? Qual è il crimine sacrificale che “battezza” il nuovo regime planetario basato sul governo del denaro? Quale grande evento sdogana questa “economia che uccide”, istituzionalizzando un sistema in base al quale, perché qualcuno stia meglio, altri “devono” stare peggio? E’ la guerra, naturalmente: per la precisione la prima Guerra del Golfo, quella del 1991. «È a partire da quella svolta che è stato costruito il nuovo ordine mondiale», scrive Raniero La Valle, che cita una data precisa: il 26 novembre 1991. Quel giorno, il nuovo “regime” si presentò in Italia. Il ministro della difesa Rognoni illustrò in commissione, alla Camera, il Nuovo Modello di Difesa. La “nuova” guerra, quella di oggi. Svanito il nemico sovietico, la vecchia Nato non serviva più: tramontata la guerra fredda, veniva meno anche la deterrenza nucleare. Opportunità storica: investire nella pace e nello sviluppo i miliardi fino ad allora destinati ad armamenti ormai inutili. «Ma l’Occidente fa un’altra scelta: si riappropria della guerra e la esibisce a tutto il mondo nella spettacolare rappresentazione della prima Guerra del Golfo del 1991».Ci siamo: cambia la natura della Nato, il nemico non è pià l’Est ma il Sud. L’Occidente «cambia la visione strategica dell’alleanza e ne fa la guardia armata dell’ordine mondiale cercando di sostituirla all’Onu». Tramontano anche «gli ideali della comunità internazionale, che erano la sicurezza e la pace». Meglio la guerra, per assicurarsi in modo permanente l’accesso privilegiato alle materie prime, come il petrolio. Riflesso italiano: via l’esercito di leva, serve una milizia di professionisti. Da impiegare non più in Italia ma all’estero, nelle missioni “umanitarie”. Mediterraneo, Somalia, Medio Oriente, Golfo Persico: «La nuova contrapposizione è con l’Islam», a partire dal conflitto israelo-palestinese. «Chi ha detto che non abbiamo dichiarato guerra all’Islam? Noi l’abbiamo dichiarata nel 1991». Col Nuovo Modello di Difesa imposto all’Italia «non cambia solo la politica militare ma cambia la Costituzione, l’idea della politica, la ragion di Stato, le alleanze, i rapporti con l’Onu: viene istituzionalizzata la guerra e annunciato un periodo di conflitti ad alta probabilità di occorrenza che avranno l’Islam come nemico». In Parlamento «non si dovrebbe parlare d’altro», e invece «nessuno se ne accorge, il Modello di Difesa non giungerà mai in aula».Un modello-fantasma, sotterraneo ma pienamente operativo da subito: «Tutto quello che è avvenuto in seguito – dalla guerra nei Balcani alle Torri Gemelle all’invasione dell’Iraq, alla Siria, fino alla terza guerra mondiale a pezzi che oggi, come dice il Papa, è in corso – ne è stato la conseguenza e lo svolgimento». E allora, meglio si capisce, oggi, la verità del referendum renziano: «La nuova Costituzione è la quadratura del cerchio», avverte La Valle. «Gli istituti della democrazia non sono compatibili con la competizione globale, con la guerra permanente: chi vuole mantenerli è considerato un conservatore. Il mondo è il mercato; il mercato non sopporta altre leggi che quelle del mercato. Se qualcuno minaccia di fare di testa sua, i mercati si turbano». La politica? Si faccia da parte: «Non deve interferire sulla competizione e i conflitti di mercato. Se la gente muore di fame, e il mercato non la mantiene in vita, la politica non può intervenire, perché sono proibiti gli aiuti di Stato. Se lo Stato ci prova, o introduce leggi a difesa del lavoro o dell’ambiente, le imprese lo portano in tribunale e vincono la causa. Questo dicono i nuovi trattati del commercio globale».Si scrive referendum, ma si legge: ultimo appello. Per Raniero La Valle, votare No «è l’unica speranza di tenere aperta l’alternativa, di non dare per compiuto e irreversibile il passaggio dalla libertà della democrazia costituzionale alla schiavitù del mercato globale». Perché «sia la società selvaggia che, con il No, sia dichiarata in difetto e attraverso la lotta sia rimessa in pari con la Costituzione, la giustizia e il diritto». E’ toccato a Renzi indossare quella maschera, ma al suo posto poteva esseci chiunque altro. Certo, l’attuale premier si è dimostrato l’uomo giusto al posto giusto: «Ci vogliono poteri spicci e sbrigativi», per sgombrare il campo dagli ultimi inciampi rappresentati dalle Costituzioni che “ripudiano la guerra”. Tutto è guerra, ormai. Questa economia è guerra. Pefettamente mondializzata, a partire dal fatidico 1991, l’anno del “sacrificio” dell’Iraq che spalancò le porte alla nuova epoca fondata sulla violenza internazionale. Da allora, «la guerra è lo strumento supremo per difendere il mercato e far vincere nel mercato».Pensate che si tratti di un referendum normale, di quelli indetti in tempo di pace? «Cari amici, poiché ho 85 anni devo dirvi come sono andate le cose», premette Raniero La Valle, veterano della sinistra italiana. Molti credono che il mondo abbia cambiato volto dopo l’11 Settembre? Errore. Tutto è esploso almeno dieci anni prima, quando – alla caduta dell’Urss – si è deciso di «rispondere alla fine del comunismo portando un capitalismo aggressivo fino agli estremi confini della terra», promuovendolo «da ideologia a legge universale, da storicità a trascendenza». Vi spaventa Renzi con la sua riforma, da cui la battaglia sul referendum? Non è che l’ultimo gradino di una lunghissima scala in discesa: «Avevamo preteso di superare il conflitto di classe smontando i sindacati», e di «sfruttare la fine della contrapposizione militare tra i blocchi facendo del Terzo Mondo un teatro di conquista». La scelta decisiva? «Restauratrice e totalmente reazionaria». Questa: «Disarmare la politica e armare l’economia – non in un solo paese, ma in tutto il mondo». Globalizzazione a mano armata. Inaugurata da un sacrificio simbolico: la Guerra del Golfo del 1991. L’era della guerra totale come nuova normalità: la guerra dell’Occidente contro il resto del mondo.