Archivio del Tag ‘patria’
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L’antifascismo dei cretini: puro odio, in assenza di fascismo
Abbiamo sempre avuto pazienza con i cretini non cattivi e con i cattivi ma intelligenti. Non riusciamo però ad averne con i cretini cattivi, magari in origine solo cretini poi incattiviti oppure solo cattivi poi rincretiniti. Ma sono cresciuti a dismisura e si sono aggravati. Sto parlando del nuovo antifascismo, collezione autunno-inverno, che si alimenta di fascistometri per misurare il grado di fascismo che è in ciascuno di noi e di istruzioni per (non) diventare fascisti, di Anpi posticce che sventolano l’antifascismo anche il 4 Novembre, non più costituite da partigiani ma da militanti dell’odio perenne; e poi di mobilitazioni, manifestazioni e mascalzonate, veicolate da giornaloni, telegiornaloni, talk show e da tante figurine istituzionali. Come quel Figo che alterna dichiarazioni d’antifascismo a dichiarazioni surreali d’amore a proposito degli stupri e i massacri tossico-migranti. Per lui le violenze si combattono con l’amore, come dicevano i più sfigati figli dei fiori mezzo secolo fa. Lui ci arriva adesso, cinquant’anni dopo e a proposito di un fatto così terribile come uno stupro mortale a una ragazzina.
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Abolire le lezioni di storia: i docenti non insegnano niente
Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di Stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici, eccetera. La commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto. Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi? Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è Internet, eccetera eccetera; il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.E questo si inserisce nel problema più generale dei troppi insegnanti che, magari, conoscono la materia ma non la sanno insegnare, e questo vale per tutte le discipline. In estate lessi di una classe di un istituto livornese dove erano stati bocciati o rimandati 40 studenti su 41, e un imbecille di docente confessava come giustificazione: «Non riusciamo a farli studiare». Come dire che “non sappiamo fare il nostro mestiere”, visto che il compito del docente è proprio quello di motivare i ragazzi a studiare. Morale: licenziamo in blocco i docenti di quella classe e faremo una cosa santa. Ma, si dice, della storia ha bisogno non solo la cultura ma anche la democrazia, perché, si dice, la storia ha un alto valore formativo. Ecco: il punto è proprio questo: la storia, così come viene insegnata, ha ancora questo valore formativo? Direi proprio di no. Per il modo in cui è ora mal insegnata non ha alcun valore culturale e, meno che mai, professionale. La storia non serve a “far bella figura in società” o ad assecondare una qualche voglia individuale di intrattenimento. La storia ha una funzione precisa nella spiegazione e critica del presente e, solo a questa condizione, è elemento utile al dibattito politico e culturale.Frugare a caso nel passato non serve a niente, quello che serve è risalire lungo la catena dei nessi causa effetto-che spieghino l’attuale stato di cose e servano da lente di ingrandimento per individuare cosa va conservato e cosa mutato nell’attuale ordinamento. Ora, c’è qualcuno che ha il coraggio di sostenere che l’attuale insegnamento serva a questo? Quanti docenti sarebbero in grado di spiegare il passaggio dalla formula merce-denaro-merce a quella denaro1-merce-denaro2 e spiegarne la portata storica? Quale insegnante saprebbe spiegare le conseguenze della decisione di Nixon sulla non convertibilità del dollaro nel 1971? Quanti docenti hanno una pur vaga idea del pensiero politico di Gandhi, Sukarno, Kemal Ataturk o sanno chi sono stati Nasser, Al Qutb o Franz Fanon? E chi saprebbe presentare adeguatamente il processo di codificazione dello Stato moderno europeo o il passaggio dalla decretazione alla legge? Ne dubito fortemente, perché i nostri docenti in massima parte sono filosofi o letterati che non capiscono nulla di diritto o economia e poco di sociologia o politologia.D’altro canto, i libri di testo che hanno a disposizione non parlano di certe cose e ripropongono la solita sbobba identica a se stessa da almeno 60 anni. Sì, ci abbiamo appiccicato a forza qualche capitolo sulla storia delle donne, dei giovani o dell’ambiente (che nessun docente trova il tempo di spiegare e che sono posti senza alcun legame con tutto il resto) ma la struttura resta quella di sempre, nella quale è possibile distinguere con chiarezza i suoi vari strati alluvionali: alla base il catechismo della “religione della Patria” con i suoi martiri (Menotti, Speri, Bandiera) e il suo glorioso cammino verso l’unità; poi il capitolo sulla Prima Guerra Mondiale per lo più di derivazione fascista; quindi la grande cupola dell’insegnamento crociano con il suo culto per l’analogia e il suo insopportabile moralismo, per cui il fine della storia è il giudizio morale (insomma, il voto in condotta a chi ci ha preceduto) e la sua totale insensibilità ai dati istituzionali ed economici; infine un po’ di catechismo antifascista.Beninteso: sono antifascista da sempre, non ritengo affatto che l’antifascismo sia un valore superato, ma non sopporto alcun tipo di catechismo. Si può capire che nel primo trentennio della Repubblica fosse necessario radicare la condanna del fascismo, ma vogliamo capire che la storia del fascismo va studiata in riferimento al tipo di modernità che si è costruita in questo paese? E che dopo il fascismo ci sono stati 70 anni di storia che sono bellamente ignorati dai nostri manuali? E senza che questo attenui di un etto la condanna del fascismo. L’antifascismo va benissimo, ma facciamolo vivere nel quadro del presente e non trasformiamolo in un polveroso museo di memorie. Insomma, è accettabile che il nostro insegnamento ignori cose come la decolonizzazione, la strategia della tensione, il Sessantotto, i mutamenti dell’ordine monetario, il crollo dell’Urss e dell’ordinamento bipolare, la trasformazione imperiale della presidenza americana, le rivoluzioni di Cina, Indonesia, Algeria, Vietnam, le guerre mediorientali, eccetera eccetera? Caro colleghi, ma in che secolo vivete?E non si tratta solo di recuperare il passato più recente, ma di leggere con altri occhi anche tutto il resto della storia alla luce dell’attuale ordinamento del mondo. Ad esempio, siamo sicuri che la storia degli Assiri, dei Babilonesi, dei Fenici sia così importante, mentre si trascurano del tutto le ben più importanti civiltà di India e Cina? Certo che la storia romana dobbiamo studiarla, ma è necessario beccarsi tutta la solfa delle dinastie gallo-romane, l’elenco completo delle battaglie di Cesare, gli imperatori più insignificanti, e non tentare una comparazione con le parallele vicende dell’India? Il medioevo va studiato, ma è così fondamentale dare tanto spazio alla lotta per le investiture, piuttosto che dare uno sguardo all’evoluzione dell’economia cinese a metà del XIV secolo, con il passaggio all’economia del riso e con il parallelo affermarsi del dispotismo asiatico? E, nella storia moderna, si potrebbe restringere un po’ il solito elenco di guerre e battaglie, ma dare più spazio alla nascita del diritto commerciale o al colbertismo. Quanto alla storia contemporanea, va bene che si parli della Shoà, ma non sarebbe più urgente e importante parlare del colonialismo e del suo residuo permanente? Magari ci riuscirebbe di capire meglio un fenomeno come il terrorismo jhadista.Tutto questo, però, presupporrebbe un corpo docente ben altrimenti formato. Anche l’istituzione del corso di laurea in storia è stato un vero disastro: nessun insegnamento di economia, diritto, scienza della politica, una infarinatura appena di sociologia, psicologia e antropologia e, in cambio, una valanga delle storie più minute e meno utili. Solito schema per le storie generali all’interno del solito eurocentrismo. Un marziano che scendesse sulla Terra e leggesse i nostri manuali di storia per farsi unìidea, capirebbe che l’unico protagonista della storia è sempre stato l’uomo bianco, salvo qualche rapida comparsata di qualche altro; che la storia umana ha seguito un unico cammino rettilineo, e che gli umani si sono sempre preoccupati solo dell’aspetto ideologico, dedicando di tanto in tanto qualche cenno di attenzione ai processi materiali. Cari colleghi, diciamolo, voi non fate storia, fate una noiosissima antiquaria. E non parliamo dell’aspetto metodologico: quanti docenti hanno idea di cosa sia la scienza della complessità o sarebbero spiegare cosa è un modello di simulazione e come funziona (anche un semplice wargame)? Quanti se la sentirebbero di accennare un approccio comparatistico? E quanti potrebbero provare una spiegazione dei processi storici in termini di psicoanalisi di massa? Lasciamo perdere.Già sento la risposta: «Dobbiamo rispettare i programmi ministeriali». Già, l’annosa piaga dei programmi ministeriali che mi fanno pensare che sia arrivato il momento di sbarazzarci della scuola statale (non ho detto della scuola pubblica, ma di quella statale): un modello organizzativo che ha avuto i suoi meriti ma che oggi, forse, è il caso di superare. In ogni caso, non mi è capitato di leggere di nessuna protesta dei docenti, dei loro sindacati, delle loro associazioni disciplinari contro i famigerati programmi ministeriali, pecoronescamente applicati. Tutto ciò premesso, come si fa a sostenere che l’attuale insegnamento della storia abbia una qualche utilità e possa riscuotere più di qualche sbadiglio dei ragazzi? Capisco la difesa più che della storia, degli impiegati statali incaricati di spiegare la “storia” da cui cercano “di tirare quattro paghe per il lesso”, ma se l’insegnamento della storia deve essere questo, forse è meglio che lo aboliamo del tutto. E forse i ragazzi odieranno di meno la storia e qualcuno inizierà a studiarla per proprio conto.(Aldo Giannuli, “Una modesta proposta sull’insegnamento della storia: aboliamolo. Lettera aperta ai colleghi storici”, dal blog di Giannuli del 30 ottobre 2018).Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di Stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici, eccetera. La commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto. Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi? Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è Internet, eccetera eccetera; il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.
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Io rossobruno come il Che, contro la sinistra delle banche
La premessa scontata è che il rossobrunismo è una bufala inventata dalla sinistra globalista e genuflessa al capitale finanziario, quella millantata sinistra che ha svenduto le ragioni dei lavoratori e dei ceti produttivi agli interessi dell’estremismo capitalista e della finanza speculativa, quella sinistra che ha colpevolmente confuso e incentivato a confondere l’inter-nazionalismo dei lavoratori con il cosmopolitismo del capitale, quella stessa sinistra incidentata e sinistrata che ha barattato i diritti reali delle persone con i diritti civili degli individui, la sinistra che oggi, con un pizzico di spudoratezza, manifesta contro un un governo certamente discutibile e contraddittorio anche se oggettivamente in discontinuità con i governi che lo hanno preceduto del corso della cosiddetta Seconda Repubblica. Ma codesta “sinistra” è dimentica di aver bollato come plebee e cialtrone le istanze legittime di ceti popolari che invocavano semplicemente lavoro e giustizia sociale, mentre i carrieristi a tinte rosse, pasdaran del pareggio di bilancio, accumulavano patrimoni e posizioni di privilegio, e, in ossequio agli ordini del capitale, condannavano alla miseria e alla nullità esistenziale intere generazioni.Ma andiamo al dunque, e al mio polemico riconoscermi nella definizione di revisionista rossobruno. Sono rossobruno perché lo fu Che Guevara, quando nel discorso all’Assemblea Generale dell’Onu dell’11 dicembre 1964 pronunciò il famoso motto “Patria o muerte!”. Pochi sinistroidi sono a conoscenza del fatto che la Rivoluzione Cubana (oggetto della mia tesi di laurea) fu innanzitutto una rivoluzione nazionale, patriottica e anti-imperialista, pur riconoscendo il contributo de Partito Comunista Cubano, e che Fidel Castro diventò comunista successivamente alla presa del potere. Sono rossobruno perché l’autodeterminazione dei popoli, ovvero il diritto di un popolo a decidere del proprio destino nella propria terra, è la premessa della sovranità popolare, a sua volta premessa per lo sviluppo di una prospettiva di una società socialista, di libertà ed uguaglianza sociale. Sono rossobruno perché sono un populista, e affermo il populismo come una opzione, alternativa ad altre populiste, unica per la costruzione del politico verso il socialismo. Populista fu Che Guevara quando scrisse: «La caduta di Peron mi tocca molto. Con lui l’Argentina svolgeva, per noi che localizziamo il nemico a nord, il ruolo di paladino del nostro pensiero». Populisti sono stati Chàvez, Evo Morales, Lula da Silva, e io mi dichiaro populista insieme a loro.Sono talmente rossobruno da considerare la Costituzione italiana del 1948 come il documento politico più evolutivo e ideologicamente pregnante di tutto il Novecento italiano, faro luminoso a indicare la rotta verso la democrazia e il socialismo, mentre i sinistri italiani agli ordini della finanza di Jp Morgan hanno provato a rottamarla. Sono rossobruno come lo fu Pier Paolo Pasolini, quando la sua geniale e profetica diffidenza gli fecero prendere le distanze dai sessantottini figli di papà schierandosi con i poliziotti proletari; anni dopo i ribelli dell’illimitatezza del desiderio diventarono classe dirigente nella sinistra e nel paese, contro il paese e gli interessi nazionali e popolari e a difesa del capitale globalizzato. Sono e resterò rossobruno fin quando gli imbecilli in pantofole, al riparo dei loro privilegi, non comprenderanno le ragioni di una richiesta di giustizia sociale e di riscossa nazionale che passa attraverso la definitiva sepoltura, nel nome del socialismo e della democrazia, della sinistra che ha tradito e della oligarchia finanziaria a cui essa è asservita.(Franz Altomare, “Sono un rossobruno”, dalla pagina Facebook di Altomare del 30 settembre 2018).La premessa scontata è che il rossobrunismo è una bufala inventata dalla sinistra globalista e genuflessa al capitale finanziario, quella millantata sinistra che ha svenduto le ragioni dei lavoratori e dei ceti produttivi agli interessi dell’estremismo capitalista e della finanza speculativa, quella sinistra che ha colpevolmente confuso e incentivato a confondere l’inter-nazionalismo dei lavoratori con il cosmopolitismo del capitale, quella stessa sinistra incidentata e sinistrata che ha barattato i diritti reali delle persone con i diritti civili degli individui, la sinistra che oggi, con un pizzico di spudoratezza, manifesta contro un governo certamente discutibile e contraddittorio anche se oggettivamente in discontinuità con i governi che lo hanno preceduto del corso della cosiddetta Seconda Repubblica. Ma codesta “sinistra” è dimentica di aver bollato come plebee e cialtrone le istanze legittime di ceti popolari che invocavano semplicemente lavoro e giustizia sociale, mentre i carrieristi a tinte rosse, pasdaran del pareggio di bilancio, accumulavano patrimoni e posizioni di privilegio, e, in ossequio agli ordini del capitale, condannavano alla miseria e alla nullità esistenziale intere generazioni.
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Foa in Rai: che succede quando un eretico sale al potere?
Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.C’è qualcosa di meta-politico, di profondamente eversivo, nella sola idea di aver pensato a un cavaliere solitario e coltissimo come Foa, giornalista di razza e gentiluomo, per la presidenza della televisione di Stato, vera e propria fabbrica del consenso, per decenni affidata il più delle volte a mani servili e mediocri. È antropologicamente eversiva, la figura del liberale Foa al vertice della Rai: è il bambino che non può fare a meno di svelare l’imbarazzante nudità del sovrano, del monarca che si gloria nel celebrare una pace apparente, mentre intorno infuria la peggiore delle guerre. La guerriglia di oggi, nella quale Marcello Foa si trova coinvolto – dopo aver dato la sua avventurosa disponibilità a quell’ipotesi democratica chiamata “governo gialloverde” – non è un conflitto come quelli che l’hanno preceduto: è un sordido massacro quotidiano perpetrato ovunque, senza frontiere, senza più neppure le bandiere di un tempo. È una guerra orwelliana, affidata a mercenari. Navi corsare, che combattono (per lo più in incognito) per conto di padroni potentissimi, protetti dall’anonimato. Non c’è più neppure il triste onore della battaglia: si viene sopraffatti in modo subdolo, sistematicamente sommersi da menzogne spacciate per verità di fede, che il sistema mediatico non si cura più di verificare. Ed è proprio per questo che l’attuale sistema mediatico italiano detesta, e teme, Marcello Foa.Ascoltando solo e sempre un’unica campana, il sistema mainstream ci ha raccontato in questi anni che le poderose, ciclopiche Torri Gemelle di Manhattan sono crollate su se stesse, come se fossero state di cartone anziché di acciaio, solo perché colpite – con una manovra proibitiva persino per i migliori “top gun” – da normalissimi e leggerissimi jet di linea fatti di alluminio, dirottati da apprendisti piloti arabi, di cui tuttora non si sa nulla: non un’immagine, al fatale imbarco, di nessuno dei 19 presunti dirottatori (salvo poi rintracciare i loro passaporti, nientemeno, nell’inferno fumante di Ground Zero). Finge di credere sempre e soltanto alla versione ufficiale, il mainstream media, anche quando dimentica di ricordare che furono gli Usa a incoraggiare Saddam Hussein a invadere il Kuwait, dopo averlo spinto a combattere contro l’Iran. Dà retta unicamente al super-governo universale, il club dei telegiornali, anche quando assicura che Saddam disponeva di micidiali armi di distruzione di massa. E tace, invece, quando l’Onu dimostra che quelle armi erano pura fantasia, come i gas siriani di Assad, le fosse comuni di Gheddafi, le violenze della polizia di Yanukovich in Ucraina. E poi applaude a reti unificate, la consorteria mediatica, quando in Italia appaiono i cosiddetti salvatori della patria – i Monti, i Cottarelli – armati del bisturi che useranno per amputare carne viva, risparmi e pensioni, economia italiana di aziende e famiglie, oscurando il futuro dei giovani.All’epoca in cui Marcello Foa lavorava al “Giornale” di Indro Montanelli, il mondo probabilmente appariva infinitamente più semplice – più chiaro, più visibile nei suoi errori e orrori: la guerra fredda, il Medio Oriente e gli sconquassi africani della decolonizzazione, la strategia della tensione organizzata per gambizzare l’Italia e impedirle di prendere il volo come autonoma potenza euromediterranea fondata sulla forza formidabile dell’economia mista, pubblico-privata. In quella redazione milanese, dove Foa è cresciuto professionalmente, su una parete c’era appesa una carta geografica di Israele che indicava come capitale Gerusalemme, già allora, anziché Tel Aviv. Se Enrico Berlinguer impiegò anni per ammettere che si sentiva più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che tra i carri armati del Patto di Varsavia, Marcello Foa e il suo maestro Montanelli non avevano mai avuto dubbi sul fatto che niente di buono potesse venire, per l’Occidente, da un’oligarchia sedicente comunista che aveva soppresso sul nascere i primi vagiti democratici della Russia, cambiando semplicemente look all’antico dispotismo zarista. L’eroico sacrificio dell’Unione Sovietica, decisivo nell’abbattere il nazifascismo, non poteva cancellare né i Gulag di Stalin né l’esilio di Aleksandr Solženicyn. Era fatto di certezze, il mondo di Foa e Montanelli: la libertà (inclusa quella d’impresa) come fondamento irrinunciabile di qualsiasi comunità civile degna di chiamarsi democratica.Ed è questo che rende Foa insopportabile al potere economico di oggi, dove la libertà d’impresa cede il passo al dominio di immensi oligopoli finanziari globalizzati, privilegiati da legislazioni truccate come quelle dell’Unione Europea ordoliberista. È tanto più sgradevole e insidioso, Foa, perché non proviene – come invece molti anchorman televisivi – dalla contestazione giovanile del capitalismo: credeva, Foa, negli stessi valori professati dall’élite economica di un tempo, orientata pur sempre alla promozione della mobilità sociale, in sostanziale accordo con le forze sindacali dell’allora sinistra. Una dialettica anche aspra, ma vocata in ogni caso al miglioramento complessivo del sistema-paese. E mediata – sempre – dalla politica, letteralmente scomparsa dai radar italiani per 25 lunghissimi anni. Solo oggi, alla distanza, ci si mette le mani tra i capelli nel rivedere il film dell’euforia generale con la quale i cittadini avevano accolto il Trattato di Maastricht e, dieci anni dopo, l’ingresso nell’Eurozona disegnata dalle banche e governata dalla Bce con modalità feudali, imperiali, senza la supervisione di alcun controllo democratico. Succedeva negli anni cui, con la caduta del Muro di Berlino benedetta da Gorbaciov, l’umanità si era illusa che il fantasma della guerra sarebbe stato semplicemente cancellato dalla storia del pianeta.Magari fosse un comune complottista, Marcello Foa: sarebbe più comodo liquidarlo, come velleitario chiacchierone. Chi oggi gli promette guerra, invece, sa benissimo che l’ex caporedattore del “Giornale”, nonché docente universitario, nonché feroce critico del sub-giornalismo odierno, è un vero e proprio disertore. Non era un eretico: lo è diventato negli ultimi anni, disgustato dallo spettacolo al quale è stato costretto ad assistere. Per questo, al di là del reale potere che gli conferisce la carica di presidente Rai, Marcello Foa rappresenta un vero pericolo, per i malintenzionati che oggi gli danno del traditore. Nell’Italia corporativa delle caste, ha osato “sparare” contro la sua – quella dei giornalisti – definendoli “stregoni della notizia”, bugiardi e omertosi spacciatori di “fake news” di regime. E non c’è niente di peggio, per i servi, che l’ex schiavo che si libera delle catene: la sua rivolta personale, intellettuale, suona umiliante per chi si ostina a raccontare che la Terra è piatta, e che è il Sole a orbitarle attorno.Chi l’avrebbe detto? Oggi l’Italia riesce incredibilmente a piazzare una persona autorevole, onesta e competente, alla guida della televisione pubblica. Marcello Foa non è infallibile: ma quando ha sbagliato – anche di recente, prendendo per buona la notizia di presunte istruzioni che il governo tedesco avrebbe impartito alla polizia, per enfatizzare il terrorismo “casereccio” targato Isis – non ha esitato ad ammetterlo, tempestivamente. Quanti, al suo posto, avrebbero avuto lo stesso coraggio? E ora, questo volto pulito del nostro giornalismo è alle prese con una sfida estremamente impegnativa. È davvero impossibile fare molta strada, in politica, se non si è almeno in parte ricattabili, e quindi controllabili, in quanto complici dell’apparato da cui si è stati promossi? Così almeno ebbe a dire un protagonista della vita pubblica italiana come Giuliano Ferrara. Qualcuno – sincero o meno – obietterà che questa regola non vale necessariamente per tutti. Ma è sicuro che, una volta entrati in cabina di regia, le proprie virtù possono trasformarsi in problemi: in un ambiente non esattamente cristallino, le qualità naturali dell’eretico diventano un’enorme seccatura, se non un ostacolo da rimuovere prima che possa mettere in pericolo la sopravvivenza del sistema stesso.Questa è la sfida di Marcello Foa, nella quale è in gioco l’Italia intera: restare fedeli alla propria coscienza significa contribuire a riaccendere la luce sulle notizie. Senza un’informazione trasparente, lo sappiamo, non c’è neppure vera democrazia. Lo sostiene con vigore, Marcello Foa, che resta innanzitutto un uomo leale e garbato – anche quando si permette di dissentire in modo netto sull’operato del presidente della Repubblica: chi oggi lo accusa di aver addirittura insolentito Sergio Mattarella, dopo la bocciatura di Paolo Savona al ministero dell’economia, più che il prestigio del capo dello Stato sembra aver a cuore la disciplina sociale dell’ossequio, da imporre al popolo nei confronti di chiunque rivesta funzioni di potere. Non è questa la democrazia per la quale il giovane liberale Foa tifava, quando polemizzava con quel comunismo da cui provengono moltissimi dei suoi attuali, smemorati detrattori. Non sappiamo come si svilupperà, la sua avventura negli uffici della Rai. Ma sappiamo che – contro ogni previsione – è tornata sotto i riflettori, in Italia, un’antropologia che si credeva estinta. Quella delle persone per bene, a cui il governo in carica affida addirittura la guida della televisione.(Giorgio Cattaneo, “Marcello Foa alla guida della Rai: che succede quando un eretico sale al potere?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 27 settembre 201).Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.
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Carpeoro: per gli ipocriti, la colpa è tutta della massoneria
Qualcuno si lamenta, oggi, di avere il diritto di votare? C’è qualcuno a cui non sta bene la libertà di opinione, compresa quella che si esprime nella libertà di stampa? Domande retoriche, ovviamente, ma che acquistano un significato diverso alla luce del ragionamento che Gianfranco Carpeoro oppone alle contestazioni di Fabio Frabetti, in web-streaming su YouTube. Ovvero: piaccia o no, lo Stato di diritto basato sulla laicità è una “invenzione” storica della massoneria, per la quale i grembiulini lottarono, a rischio del carcere. Diritti, democrazia, suffragio universale: mica esistevano, all’epoca dell’Ancien Régime. E’ stata la massoneria a coltivare, e poi imporre, le idee su cui si fonda la nostra modernità. Non piace che poi la stessa massoneria sia degenerata in occhiuta sovrastruttura di potere? Giusto, è inaccettabile. Ma possibile che si accusino solo e sempre le logge? Che dire delle multinazionali, delle gerarchie vaticane, delle grandi famiglie del capitalismo? Uno scambio vivace, su vizi e virtù della massoneria, quello tra il giornalista Frabetti e l’avvocato Carpeoro, saggista e scrittore, esponente del Movimento Roosevelt. Massone (33° grado) ma iper-critico verso l’attuale libera muratoria: unico caso al mondo, Carpeoro arrivò a disciogliere la “Serenissima” comunione massonica di cui era “sovrano gran maestro”, depositaria della tradizione italiana del Rito Scozzese.Personaggi come il laburista Jeremy Corbyn e il democratico statunitense Bernie Sanders, ma anche il greco Alexis Tsipras e la tedesca Katia Kipping, leader della Linke, sarebbero vicini a Ur-Lodges progressiste come la “Thomas Paine” e la “Fraternité Verte”? In Italia c’è qualcuno che si sta facendo strada?In Italia c’è Gioele Magaldi. Fa parte della “Thomas Paine”. L’ha rivelato lui stesso, nel suo libro “Massoni”.Ma perché le grandi decisioni devono essere prese fuori dai circuiti della democrazia?La “Thomas Paine” condivide opinioni, non prende decisioni – a farlo sono le altre Ur-Lodges. La “Thomas Paine” è una loggia di opinione, di pensiero.E come fa a incidere?Non incide, infatti: non conta nulla. Chi sta comandando, oggi, nel mondo? Per adesso la “Thomas Paine” non incide. Poi, se un giorno inciderà lo vedremo. Ma sulla parola “incidere” ci dobbiamo mettere d’accordo. Se per “incidere” si intende supportare, esprimere una linea di pensiero che poi deve ispirare coloro che possono essere d’accordo, non c’è niente di male. Se invece ci sono delle persone che si riuniscono in cantina e decidono di imporre che cosa bisogna fare domani, allora è un altro tipo di discorso. Un conto è diffondere opinoni, un conto è creare un meccanismo per cui si danno ordini. Ci sarà una bella differenza, no?E poi, la maggior parte delle decisioni, nel mondo, si prendono fuori dai circuiti elettivi. Le grandi aziende, come tutto ciò che è privato, prendono decisioni al di fuori dei circuiti elettivi. E’ chiaro che, se una grande azienda è amministrata da un signore che fa parte di un determinato movimento d’opinione, si sarà scelto collaboratori che di quel movimento d’opinione fanno parte, e seguirà una linea. E io in questo non vedo niente di male. Il male sta nel comandare gli altri.Qui però non parliamo di aziende, parliamo di Stati.E chi ha detto che una Ur-Lodge progressista debba per forza ingerire nello Stato? Ingerisce sull’opinione, che poi si può tradurre in voto. Anzi, una delle lamentele principali, nella “Thomas Paine”, è che il voto non vale più niente…Lo stesso Magaldi, però, in alcune dichiarazioni, ha fatto intendere di aver avuto un ruolo nel cosiddetto back-office del potere.Ma anch’io l’ho avuto, quel ruolo lì. Però poi ce ne siamo anche andati, no? Se uno se ne va, vuol dire che quello che vede non gli piace.Ma perché soggetti che non sono stati eletti (e che non sono neppure previsti dalla Costituzione) devono avere un ruolo nel back-office, foss’anche a fin di bene?E’ mai successo che qualcuno non si sia fermato a uno stop, provocando un incidente? Bene. Ti sei chiesto il perché?A volte non c’è risposta.Bravo. Il sistemi funzionano, oppure non funzionano. Quando funzionano, il perché lo sai. Quando non funzionano, quasi mai lo sai. Perché c’è una serie di variabili indipendenti.La massoneria ha una regola: all’interno del tempio e delle logge non si parla di politica. E questa è una regola pratica. Dato che la massoneria rispetta tutte le dottrine politiche, non vuole che la gente finisca per litigare, in un tempio. Quella è una regola pragmatica. Poi, come tutte le associazioni di esseri umani, anche la massoneria finisce per la farla, la politica. Ma poi, chi è che non fa politica? Qualunque organizzazione di esseri umani finisce per avere influenza sulla politica. Perché la politica è la “polis”, la comunità, e all’interno della comunità ci sono tante altre piccole comunità che operano. La massoneria pone semplicemente una regola pratica: in loggia non si parla né di politica né di religione, perché quelle sono le cose su cui normalmente si litiga. Punto.Anche questo argomento, comunque, viene utilizzato per alimentare dubbi sul ruolo della massoneria: forse perché si è interessata un po’ troppo, in modo indebito, delle vicende politiche e istituzionali?Ha cominciato a interessarsene quando ce n’era bisogno. Quando la massoneria ha iniziato a occuparsi di politica c’erano i monarchi assoluti. C’era la pena di morte, non si votava. C’erano le famiglie nobiliari che comandavano e avevano tutto. Qualcuno si è lamentato, allora, quando la massoneria si occupava di politica? Qualcuno si lamenta, oggi, del fatto che può votare, perché c’è stata la massoneria? Qualcuno si lamenta di avere la libertà di stampa, perché c’è stata la massoneria? Si lamenta di avere le istituzioni democratiche e le Costituzioni, perché c’è stata la massoneria? Qualcuno di voi si è lamentato? Si può lamentare, di questo? Poi, dopo, la massoneria ha funzionato peggio. Ma questo non c’entra con la sua origine. Perché la massoneria è nata così. Ed è nata anche segreta: perché i massoni li arrestavano, li perseguivano. Avrebbe dovuto evolversi, certo, e questa evoluzione non si è compiuta. Magari si compirà, non lo so. Per adesso non si è compiuta.Ma questo ruolo di salvatrice della patria se l’è dato da sola, non gliel’ha mica attribuito nessuno.E certo. Ma se non se lo dava da sola, tu oggi non votavi. Non eri un giornalista. Non potevi scrivere liberamente, e non potevi fare una serie di altre cose, se quel ruolo la massoneria on se lo fosse attribuito. C’è sempre qualcuno che se lo attribuisce. E ci dovrebbe essere sempre – anche se purtroppo non è così – qualcuno che interviene per evitare il peggio, se vede un torpedone che sta precipitando in una scarpata. E tu a quello andresti a dirgli che non sei d’accordo, se è intervenuto? Era meglio lasciarlo precipitare, il torpedone?C’è sempre il problema del controllo, però. Se sfugge di mano una realtà di questo tipo, poi come la fermi?Tu sei iscritto all’ordine dei giornalisti?Purtroppo sì.Sei andato a controllare cosa fa, il tuo ordine, prima di controllare la massoneria? Sei andato a vedere cosa combina, l’ordine dei giornalisti?Appunto: non combina niente.Sei sicuro che non combini niente? E sei anche sicuro che non faccia politica?La farà sicuramente.E allora, di fronte a una società così complessa, qual è il problema che ti poni? Pensi davvero che, se non ci fosse la massoneria, non ci sarebbe qualcosa di analogo?Sicuramente. Ma per “massoneria” intendo anche la sua deriva.Sì, ma se anche non ci fosse questo tipo di deriva, ce ne sarebbe un’altra equivalente. Perché è l’intera società a essere alla deriva.Questa però non è una giustificazione.Ma che c’è da giustificare? Io indico il motivo. La giustificazione sarebbe qualcosa di posticcio. Questo è il motivo per cui tutte le cose vanno a puttane, in questa società.Però a una certa massoneria piace far intendere che le cose passino attraverso di essa.Chi te l’ha detto che le piace, a tutta la massoneria?Un po’ le piace. Lo fa comunque intendere.Ma insomma, che ci sia un compiacimento della peggior massoneria nel far vedere che conta, quando invece non conta nulla, è l’aspetto cialtronesco della massoneria. Ma non è di tutti. E quando qualcuno ti vuole far capire che la massoneria ha un peso, non è cambiata la connotazione – perché un peso l’ha avuto – ma purtroppo il peso che ha adesso è quello tipico di questa società, cioè un sovrappeso. E’ una società di obesi, come me. Sono finiti i pesi, e sono arrivati gli obesi. E questo non va tanto bene, sai.Però – e parlo anche di quando in massoneria c’eri pure tu – il far parte di una loggia quanto era vantaggioso, per poi ottenere degli incarichi?A livelli bassi lo era, a livelli alti non lo so. Ci volevano altre appartenenze.Di che tipo?Realtà sovranazionali, gerarchie religiose particolari. E l’appartenenza a famiglie particolari – vale ancora oggi: questa è una società familistica. E io non capisco perché la gente interpreta in maniera più scandalosa il fatto di ottenere un posto perché si fa parte di una loggia, piuttosto che il fatto di ottenerlo perché si fa parte di una famiglia – almeno, uno che è appartenuto a una loggia qualcosa l’ha fatto, di suo. Ma uno che prende un posto solo perché si chiama Piripicchio, che meriti ha?Ma questo ci scandalizza altrettanto.Mica tanto. Nessuno dice nulla.Purtroppo, l’Italia in gran parte funziona così.Ma la gente di scaglia soprattutto contro la massoneria, non contro le famiglie.Va be’, anche su certi “figli di” ci sono state tante campagne, anche di stampa.Ma non come nei confronti della massoneria. Quella contro la massoneria è un’attività quotidiana. Fa comodo, che questa massoneria sia così. Chi voleva cambiarla? Gioele Magaldi era candidato a diventare il gran maestro del Grande Oriente d’Italia, cioè della più grossa massoneria italiana, e ha sbattuto la porta. Però questi gesti nessuno li va a vedere. Lui era il pupillo di Gustavo Raffi. Tutti quanti dicevano che, alla prima elezione, sarebbe diventato il gran maestro dopo Raffi. E lui ha sbattuto la porta – su un problema enorme: perché lui, la porta, l’ha sbattuta sulle donne. La massoneria (quella massoneria) si rifiutava di aprire alle donne. Però nessuno lo valuta, questo. Si vanno a valutare le cose più folkloristiche, ma non la vicenda di uno che stava per diventare Re e invece ha scelto di non diventare Re. Chiedetevi perché.Qualcuno si lamenta, oggi, di avere il diritto di votare? C’è qualcuno a cui non sta bene la libertà di opinione, compresa quella che si esprime nella libertà di stampa? Domande retoriche, ovviamente, ma che acquistano un significato diverso alla luce del ragionamento che Gianfranco Carpeoro oppone alle contestazioni di Fabio Frabetti, in web-streaming su YouTube. Ovvero: piaccia o no, lo Stato di diritto basato sulla laicità è una “invenzione” storica della massoneria, per la quale i grembiulini lottarono, a rischio del carcere. Diritti, democrazia, suffragio universale: mica esistevano, all’epoca dell’Ancien Régime. E’ stata la massoneria a coltivare, e poi imporre, le idee su cui si fonda la nostra modernità. Non piace che poi la stessa massoneria sia degenerata in occhiuta sovrastruttura di potere? Giusto, è inaccettabile. Ma possibile che si accusino solo e sempre le logge? Che dire delle multinazionali, delle gerarchie vaticane, delle grandi famiglie del capitalismo? Uno scambio vivace, su vizi e virtù della massoneria, quello tra il giornalista Frabetti e l’avvocato Carpeoro, saggista e scrittore, esponente del Movimento Roosevelt. Massone (33° grado) ma iper-critico verso l’attuale libera muratoria: unico caso al mondo, Carpeoro arrivò a disciogliere la “Serenissima” comunione massonica di cui era “sovrano gran maestro”, depositaria della tradizione italiana del Rito Scozzese.
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Non temete i sovranisti, in quest’Europa fondata sulla paura
Anche in Svezia l’onda sovranista cresce, ma non abbastanza da rovesciare gli assetti di governo. Si ripete lo schema Le Pen, col Front National primo nei consensi ma non in grado di essere maggioranza né in grado di trovare alleati. E a quel punto scatta la coalizione antisovranista, tutti contro uno, e nascono governi stentati su fragili alleanze (come in Germania o in Spagna), con presidenti indesiderati dai due terzi della popolazione (Francia) o coalizioni spurie come da noi. O nascono perfino due, tre partiti “nazionali” che si cannibalizzano a vicenda (caso inglese coi conservatori biforcati più l’Ukip). Il vero problema è che siamo nel mezzo del guado, e dunque la situazione rischia la paralisi tra il non ancora e il non più. Perché poi i governi europeisti tra moderati e progressisti uniscono due debolezze e due declini, trascinano i paesi in coalizioni politiche di mera sopravvivenza, dentro sistemi fatiscenti, subordinati ai potentati economici, lontani dal popolo, dentro un’Europa ridotta a unione monetaria nel nome degli apparati di comando. Ma torniamo alla rappresentazione e alla percezione che ne ha la gente, ne danno i media, ne dà il potere.L’Europa di oggi è fondata sulla paura. Paura dello straniero per taluni, paura dei nazionalisti per talatri. Xenofobia e nazionefobia sono le due categorie politiche dominanti, le twin towers dell’Europa. Ma con la paura non si compiono scelte assennate. Fino a ieri nominavi la Svezia, l’Olanda, i paesi scandinavi e i paesi bassi, e spuntavano le immagini del socialismo democratico, della società aperta, permissiva, globale e spregiudicata, della droga libera, dell’eutanasia, delle coppie omosessuali esibite e parificate alle famiglie. Adesso nomini quei paesi e senti dire xenofobia, razzismo, nazionalismo. Fino a oggi appena nomini l’estrema destra ti viene fuori la solita genealogia: l’Austria reazionaria, asburgica e patria di Hitler, la Germania del Terzo Reich, la Francia di Vichy. Più l’aggravante cattolico-tradizionalista. E ora come la mettiamo che pure la permissiva, la protestante, la mai fascista Svezia, si rivolge a quella destra, dopo la Norvegia, l’Olanda e altri paesi nordeuropei?E come la mettiamo con paesi che hanno subito il nazismo e soprattutto il comunismo e ora si votano al sovranismo, come l’Ungheria, la Polonia, i cechi e gli slovacchi, cioè i paesi di Visegrad? Lasciamo stare i demoni fuori dalla porta, e lasciamo stare le paure. Ragioniamo con realismo. Sgomberiamo subito il campo da un’ossessione. L’antisemitismo e il razzismo non c’entrano con questa ondata populista, sovranista e nazionalista. Se conati antiebraici affiorano in Europa sono legati alla presenza islamica o alla questione palestinese; il resto è marginale periferia, patetico folclore, fuori dalla politica. C’è un tasso preoccupante di xenofobia in Europa? Ma non bisogna ridurla a patologia. Anche perché è paura, non odio razziale; è preoccupazione, non disprezzo etnico. C’è paura, umanissima e giustificatissima paura per l’ignoto e per l’estraneo, per la difficile convivenza, per il disagio sociale, per la criminalità legata a tutti questi fattori di instabilità. Quando la paura colpisce in modo così massiccio popoli maturi e civili non si può gridare al demonio, bisogna porsi il problema e affrontarlo fuori dai codici ideologici.La xenofobia attraversa oggi ceti sociali diversi, a cominciare dai più deboli e dai più popolari, e colpisce a destra come a sinistra. Vedete i travasi di voti in tutta Europa, compreso da noi, dalla sinistra al populismo, per rendervene conto. Allora rispetto allo straniero si devono portare a rigore due posizioni divergenti ma entrambi giustificate e rispettabili: quella di chi dice accoglienza punto e basta, viva la società multiculturale; e quella di chi dice accoglienza limitata e condizionata, e tutela prioritaria della comunità locale e nazionale e dei suoi confini. Sono due posizioni nettamente opposte, entrambi comprensibili e legittime se condotte con realismo e senza fanatismo. Se si accolgono nell’agone politico della democrazia entrambe le posizioni si spuntano le armi agli estremismi, ai fondamentalismi, alle violenze. Perché i fanatici stanno da entrambi le parti, e bisogna costringere entrambe a fare i conti con la realtà. I sovranisti crescono perché non hanno cittadinanza nella democrazia; e usano linguaggi duri e netti perché non sono ammessi nel gioco democratico.Finora la loro risorsa è proprio l’essere fuori, outsider, estranei e dunque critici radicali del sistema, a cominciare dal gergo usato. Non resta che scommettere a immetterla nel gioco, a pieno titolo, senza dichiararla criminale e illegale appena cresce (caso italiano docet): è una scelta che comporta rischi e incognite, ma complessivamente minori della scelta opposta, di escluderla e lasciarla inselvatichire, creando abissi tra popoli e istituzioni. Sarebbe un rischio anche per loro, perché si giocherebbero il loro ruolo di antagonisti anti-sistema. Larga parte di questi movimenti sovranisti non sono contro l’Europa ma contro l’Eurocrazia, ovvero contro le oligarchie finanziarie, tecnocratiche o ideologiche che decidono i destini dell’Europa a prescindere dai popoli e dalla loro realtà concreta. Sono movimenti fondati sull’importanza decisiva del confine e sulla priorità delle popolazioni autoctone e degli Stati nazionali rispetto al mondo esterno.Uscendo dal demagogico populismo antisistema, queste forze sarebbero costrette a rendere ragionevole, realista e compatibile la loro posizione: e questo si può convertire in un rafforzamento della base democratica e popolare dell’Europa al suo interno e di una maggiore incisività strategica e politica all’esterno. Anzi, queste spinte, opportunamente metabolizzate, possono alimentare un patriottismo europeo, o un patriottismo dei cerchi concentrici, che va dalla piccola patria alla nazione fino alla patria europea. Questi movimenti invocano, seppure a volte con rozzezza e demagogia, il ritorno della politica e delle passioni comunitarie, il ritorno ai popoli e alle loro sovranità, la salvaguardia della civiltà e della continuità con la storia. Non mi sembra una cosa terribile, o negativa.Dicono che queste forze rappresentino una minaccia per la democrazia e per la libertà. Ma oggi la democrazia come sovranità popolare è minacciata più da chi vuole invalidare i verdetti elettorali piuttosto che da chi vuole rispettarli. Quanto alla libertà vorrei ricordare che molti di questi partiti sovranisti sono di estrazione liberale, si presentano come partiti democratici del progresso, dell’Occidente, della modernità contro le invasioni islamiche, l’africanizzazione dei popoli. Il leader della destra olandese, l’omosessuale Pim Fortuyn, aveva scritto un saggio, “L’influenza islamica sulla nostra cultura”, in cui sosteneva l’incompatibilità tra l’Islam e la civiltà liberale d’Occidente. Posizione alla Oriana Fallaci, per intenderci. Fortuyn non si appellava alla difesa della tradizione europea o peggio al razzismo, ma al fatto che l’islamismo mette in pericolo la modernità liberale e democratica, la tolleranza e i costumi europei.Si può concordare o no con questa tesi (a me per esempio non piace), ma si deve riconoscere che si tratta di una posizione ultramoderna, liberale, occidentalista e perfino progressista. Che trova oggi molti seguaci nel nord Europa. Tesi non dissimili affiorano in difesa di Israele, rispetto al mondo arabo che lo circonda. Insomma, smettiamola di ingabbiare la mente e sprigionare le paure; proviamo a fare il contrario. Il futuro riserva sorprese e non è detto che siano amare. E tra le sorprese, la meno probabile mi sembra il ritorno al nazismo, al razzismo, al fascismo, e archeologia varia. Esortate ogni giorno a non innalzare muri; provate anche voi a non erigere muri dentro casa, contro l’onda sovranista.(Marcello Veneziani, “Non abboate paura dei sovranisti”, dal “Tempo” dell’11 settembre 2018, articolo ripreso sul blog di Veneziani).Anche in Svezia l’onda sovranista cresce, ma non abbastanza da rovesciare gli assetti di governo. Si ripete lo schema Le Pen, col Front National primo nei consensi ma non in grado di essere maggioranza né in grado di trovare alleati. E a quel punto scatta la coalizione antisovranista, tutti contro uno, e nascono governi stentati su fragili alleanze (come in Germania o in Spagna), con presidenti indesiderati dai due terzi della popolazione (Francia) o coalizioni spurie come da noi. O nascono perfino due, tre partiti “nazionali” che si cannibalizzano a vicenda (caso inglese coi conservatori biforcati più l’Ukip). Il vero problema è che siamo nel mezzo del guado, e dunque la situazione rischia la paralisi tra il non ancora e il non più. Perché poi i governi europeisti tra moderati e progressisti uniscono due debolezze e due declini, trascinano i paesi in coalizioni politiche di mera sopravvivenza, dentro sistemi fatiscenti, subordinati ai potentati economici, lontani dal popolo, dentro un’Europa ridotta a unione monetaria nel nome degli apparati di comando. Ma torniamo alla rappresentazione e alla percezione che ne ha la gente, ne danno i media, ne dà il potere.
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Sapelli: Usa inerti, ma così l’Italia affonda nel Mediterraneo
Dove sono gli Usa? È un interrogativo che inizia a proporsi e a riproporsi, mano a mano che si dipana la lotta di potenza e di egemonia nel Mediterraneo, “lago atlantico” ormai contendibile all’egemonia nordamericana che aveva sostituito quella britannica nel 1956, quando gli Usa – con una mossa del cavallo – appoggiarono Nasser e la sua nazionalizzazione del canale di Suez. Schierandosi contro i paracadutisti sul Sinai lanciati da Regno Unito, Francia e Israele, gli Usa avevano finito per strappare ai sovietici il controllo dell’Egitto, per poi abbattere i partiti “baathisti” in Siria e in Iraq, e infine Gheddafi in Libia dopo l’11 Settembre. Un flashback che l’economista e storico Giulio Sapelli, sul “Sussidiario”, rievoca per richiamare l’attenzione sull’attuale disastro libico, specchio della debolezza mediterranea di un’Italia “abbandonata” dall’alleato americano. I contendenti degli Usa? Oggi non sono più solo i russi, scrive Sapelli, ma anche i francesi: hanno infatti saldato la loro influenza economica (con il Cfa, il franco francese-africano imposto a 14 paesi) a quella militare (dal genocidio dei Tutsi in Ruanda da parte degli Hutu pro-francesi, all’esercito schierato nel sub-Sahara).Proprio i francesi, aggiunge Sapelli, hanno sconvolto antichi equilibri di potenza post-coloniali (anche per contenere la crescente influenza cinese, da Gibuti a Suez, fino a Tripoli). Dal canto suo, Pechino si protende nel Mediterraneo, dove sembra propensa a negoziare con la Russia e con l’Egitto «per aver meglio a disposizione la via verso l’Alto Adriatico passando per Suez e continuare così sino all’Artico indebitando Stati e impiegando il lavoro forzato in infrastrutture mai finite e pericolose». E l’Italia? «E’ il vaso di coccio tra i vasi di ferro», scrive Sapelli. «La stella di Mattei brillò quando gli Usa si allearono con Nasser e scacciarono gli inglesi dal Mediterraneo, proteggendo di fatto gli italiani in Libia e in Algeria: provocarono l’odio e la vendetta francese, di cui l’eroico e mai compreso Enrico Mattei fu la vittima sacrificale». Ora, secondo Sapelli, la storia si ripete: Russia e Cina si riavvicinano con manovre militari, a cui gli Usa non oppongono alcuna strategia di contenimento. «L’unica via utile alla sicurezza mondiale sarebbe un’alleanza nordamericana con la Russia contro la nascente egemonia cinese, ma questo è assai difficile».Secondo Sapelli, «la Cina crolla egemonicamente in Asia perché disvela un volto imperialista, ma trionfa ancora in Europa grazie ai Quisling innumerevoli di cui dispone nell’eurocrazia e in molte nazioni europee, Francia e Italia in testa». Gli Usa? «Sono troppo divisi nel loro establishment per poter condurre una politica di potenza che comprenda l’importanza strategica del Mediterraneo». La prima nazione a patirne – va da sé – è proprio l’Italia, «stretta appunto tra la sua borghesia “vendidora” che vive sull’erosione della sovranità e del potenziale di ciò che dovrebbe essere la patria, e invece per costoro è un suk con clienti stranieri». Per questo, pesa ancora di più l’assenza strategica degli Stati Uniti: «Solo l’Italia può garantire gli Usa per un nuovo equilibrio di potenza in Africa del nord e nell’Africa sub-sahariana». Per Sapelli, è assolutamente necessaria una urgente discussione pubblica su questo tema, visto che «rischiamo la decadenza dell’Italia».Dove sono gli Usa? È un interrogativo che inizia a proporsi e a riproporsi, mano a mano che si dipana la lotta di potenza e di egemonia nel Mediterraneo, “lago atlantico” ormai contendibile all’egemonia nordamericana che aveva sostituito quella britannica nel 1956, quando gli Usa – con una mossa del cavallo – appoggiarono Nasser e la sua nazionalizzazione del canale di Suez. Schierandosi contro i paracadutisti sul Sinai lanciati da Regno Unito, Francia e Israele, gli Usa avevano finito per strappare ai sovietici il controllo dell’Egitto, per poi abbattere i partiti “baathisti” in Siria e in Iraq, e infine Gheddafi in Libia dopo l’11 Settembre. Un flashback che l’economista e storico Giulio Sapelli, sul “Sussidiario”, rievoca per richiamare l’attenzione sull’attuale disastro libico, specchio della debolezza mediterranea di un’Italia “abbandonata” dall’alleato americano. I contendenti degli Usa? Oggi non sono più solo i russi, scrive Sapelli, ma anche i francesi: hanno infatti saldato la loro influenza economica (con il Cfa, il franco francese-africano imposto a 14 paesi) a quella militare (dal genocidio dei Tutsi in Ruanda da parte degli Hutu pro-francesi, all’esercito schierato nel sub-Sahara).
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Ma gli italiani stanno con Salvini: pensano di essere capiti
A chi vive da decenni tra i sindaci leghisti, nel mitico Nordest, fa sempre una certa impressione vedere gente commossa e che si spella le mani in quel di Viterbo per applaudire il leader della Lega Matteo Salvini. La scena del ministro degli interni che fatica a farsi largo tra uomini e donne che vogliono stringergli la mano è diventata virale sul “tubo”. Sia bene inteso: io vado matto per il vino “est est est” e ora come ora vorrei sguazzare tra le calde acque delle terme viterbesi piuttosto che trovarmi tra le zanzare del Prosecco, e dunque so bene che Viterbo non è il profondo sud. Ma fidatevi: le scene di giubilo in Lazio per un politico nell’Italia 2018 fanno sgranare gli occhi e alzare le orecchie. Neanche Churchill dopo aver vinto la seconda guerra mondiale era stato accolto così. Sul web le cose stanno diversamente. Tra le fila degli euroscettici e simpatizzanti del governo gialloverde ora c’è molta rabbia sui social, o almeno sarcasmo: il Def, cioè il documento che programma gli investimenti e le spese per il prossimo anno manterrà un deficit attorno al 2 per cento. Più o meno quel che faceva l’ex ministro delle finanze Padoan quando sedeva sullo scranno più alto di Via XX Settembre.Sotto il profilo degli investimenti e della redistribuzione della ricchezza, Padoan è come Tria. Conte è come Renzi. Lasciamo per carità da parte gli zero virgola: la felpa con la scritta “basta euro” di Salvini ce la ricordiamo tutti, e molti avevano trattenuto il fiato alla nascita del governo pur consapevoli che non si sarebbe fatta cadere la Ue (mancava un piano B), ma che con lo sforamento del deficit… forse, forse, qualche vantaggio per noi e una bella botta a Juncker sarebbero arrivati. E invece niente. Come mai allora Salvini viene accolto trionfante, ovunque vada? E, soprattutto, come mai il consenso ai gialloverdi non calerà affatto nei prosssimi mesi, nonostante una politica d’intervento economico piuttosto piatta? Qualche aficionado dice “perchè la strategia è di lungo respiro”, qualcun altro pensa con il cuore palpitante alla nomina tattica dell’antieuro Alberto Bagnai. Invece, i motivi del consenso sono ben altri. E che siano da lezione a tutti quelli che aspirano a prendere decisioni in questo paese, siano essi i postcomunisti alla Rizzo, Giulietto Chiesa con i filorussi, i piddini con le tette rifatte, quelli di CasaPound o i sovranisti dell’Fsi.Un paese si conquista solo se ne viene conquistato prima il cuore, il senso di appartenenza e di identità. Se la mettano in tasca gli avventisti del marxismo 3.0: Fidel Castro ha vinto la sua battaglia perchè urlava “o patria o muerte”, e non perchè aveva previsto la caduta tendenziale del saggio di profitto. Ma non lo sto dicendo in senso tattico, dispregiativo, o proccupato. Anzi: il senso di appartenenza e di indentità – i simboli – sono tra le cose più importanti della vita di un uomo. Non riesco a pensare ad una evoluzione dell’umanità senza i simboli (posta la sussistenza materiale alla base, ovviamente). Salvini sta fornendo i simboli che gli italiani cercavano. Ogni pensiero che formuliamo dentro di noi ha un aspetto cognitivo, ma anche e regolarmente un aspetto affettivo ed emotivo. Ogni idea è anche una rappresentazione. Le idee di una persona possono essere giuste o sbagliate, vere o false, confortevoli per noi oppure no, ma sono le idee di quella persona, e gli “servono” per sopravvivere. Sono i chiodi ai quali egli è attaccato, come l’alpinista in montagna quando percorre l’alta via con le corde ed i ramponi. Senza quei chiodi, cade.Certe volte, quelle idee ci danneggiano, e allora è giusto che proviamo a sradicarle con tutte le nostre forze. Come nel mito della caverna di Platone, le cose che contemplavano gli uomini erano immagini false, e giustamente il filosofo tentava di mostrare la verità contro la menzogna e le false illusioni. Però c’è anche il caso che le idee, i chiodi degli uomini, non ci danneggino affatto, che siano un dono per noi e costituiscano quella che viene chiamata tradizione. Le tradizioni non vanno sempre cancellate, ad esse vanno semmai aggiunte altre “cose” e altre “idee”, ma non vanno sempre e comunque buttate via. Le tradizioni sono, in fondo, il dono che ci hanno lasciato quelli che sono venuti prima di noi. Dunque, prima di buttare via le tradizioni (cosa senz’altro necesssaria, talvolta) occorre riflettere bene se è il caso di farlo: magari sono un’eredità ben più ricca di quanto noi stessi abbiamo saputo accumulare.Nel caso italiano, una parte interessante della tradizione che abbiamo ereditato consiste nella lingua, nella varietà impressionante di manufatti ed espressioni artistiche, cibi e architetture. Inoltre, c’è lo spirito inventivo, dato dalla fantasia. Una fantasia ed un’inventiva che gli stranieri ci hanno sempre riconosciuto e che ci invidiano. La lista sarebbe lunga. Anche la religione cattolica compare nella lista delle cose a cui gli italiani tengono, anche se atei, ed anche se non è in cima alla lista. Si può camminare per una strada di una città come Roma, o Palermo, o Venezia, o persino Gallarate, senza capire nulla di cristianità occidentale? Si che si può, ma allora non sei un italiano. Essere italiani è una condizione che esiste e che capiamo cosa significa quando usciamo al di fuori dei confini nazionali. C’è poco da fare. E’ così anche se non sappiamo spiegare che cos’è. Ma alla fin fine si tratta di simboli. Appartenenza e identità sono gli assi portanti della psiche umana.Le idee che abbiamo, noi le facciamo nostre, cioè le interiorizziamo, anche e soprattutto per appartenenza. E appartenenza significa affetto e sicurezza. Appartenenza significa famiglia; comunità. Siccome aveva ragione Aristotele, nel senso che gli uomini sono esseri per natura socievoli, appartenere a qualcosa significa restare vivi e dotati di senso. Non appartenere a nulla significa invece essere esclusi, cioè morti. Il fallimento del progetto Ue è dovuto proprio alla mancanza di questa creazione di simboli e l’assenza di tradizioni da ereditare. Che piaccia o no, Salvini (molto più di Gigetto Di Maio) questa cosa l’ha capita bene. Possono gli italiani cambiare idea per l’economia? Ma certo che si! L’ho detto prima: nell’uomo la materia non può che accompagnare lo spirito. Dobbiamo infatti sopravvivere per avere idee. Ma in economia oggi noi italiani non stiamo subendo evidenti scossoni. Qualche anno cresciamo, altri no: siamo un paese dallo zero virgola e faremo – economicamente – la fine della rana bollita. E’ troppo poco per un repentino cambio di consenso contro chi sa usare molto bene identità e appartenenza, come Matteo Salvini.(Massimo Bordin, “Salvini nella Tuscia: ecco perchè il suo consenso non calerà nonostante l’economia sia la stessa di Renzi”, dal blog “Micidial” del 6 settembre 2018).A chi vive da decenni tra i sindaci leghisti, nel mitico Nordest, fa sempre una certa impressione vedere gente commossa e che si spella le mani in quel di Viterbo per applaudire il leader della Lega Matteo Salvini. La scena del ministro degli interni che fatica a farsi largo tra uomini e donne che vogliono stringergli la mano è diventata virale sul “tubo”. Sia bene inteso: io vado matto per il vino “est est est” e ora come ora vorrei sguazzare tra le calde acque delle terme viterbesi piuttosto che trovarmi tra le zanzare del Prosecco, e dunque so bene che Viterbo non è il profondo sud. Ma fidatevi: le scene di giubilo in Lazio per un politico nell’Italia 2018 fanno sgranare gli occhi e alzare le orecchie. Neanche Churchill dopo aver vinto la seconda guerra mondiale era stato accolto così. Sul web le cose stanno diversamente. Tra le fila degli euroscettici e simpatizzanti del governo gialloverde ora c’è molta rabbia sui social, o almeno sarcasmo: il Def, cioè il documento che programma gli investimenti e le spese per il prossimo anno manterrà un deficit attorno al 2 per cento. Più o meno quel che faceva l’ex ministro delle finanze Padoan quando sedeva sullo scranno più alto di Via XX Settembre.
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Haaretz: Israele “Stato ebraico”, cioè non più democratico
Il Parlamento israeliano, la Knesset, ha approvato una delle leggi più importanti della sua storia, oltre che quella più conforme alla realtà. La legge sullo Stato-nazione (che definisce Israele come la patria storica del popolo ebraico, incoraggia la creazione di comunità riservate agli ebrei, declassa l’arabo da lingua ufficiale a lingua a statuto speciale) mette fine al generico nazionalismo di Israele e presenta il sionismo per quello che è. La legge mette fine anche alla farsa di uno Stato israeliano “ebraico e democratico”, una combinazione che non è mai esistita e non sarebbe mai potuta esistere per l’intrinseca contraddizione tra questi due valori, impossibili da conciliare se non con l’inganno. Se lo Stato è ebraico non può essere democratico, perché non esiste uguaglianza. Se è democratico, non può essere ebraico, poiché una democrazia non garantisce privilegi sulla base dell’origine etnica. Quindi la Knesset ha deciso: Israele è ebraica. Israele dichiara di essere lo Stato-nazione del popolo ebraico, non uno stato formato dai suoi cittadini, non uno Stato di due popoli che convivono al suo interno, e ha quindi smesso di essere una democrazia egualitaria, non soltanto in pratica ma anche in teoria. È per questo che questa legge è così importante. È una legge sincera.Il presidente della repubblica, Reuven Rivlin, e il procuratore generale di Stato, i difensori pubblici della moralità, avevano protestato, ottenendo le lodi del campo progressista. Il presidente aveva gridato che la legge sarebbe stata «un’arma nelle mani dei nemici di Israele», mentre il procuratore generale aveva messo in guardia contro le sue «conseguenze internazionali». La prospettiva che la verità su Israele si riveli agli occhi del mondo li ha spinti ad agire. Rivlin, va detto, si è scagliato con grande vigore e coraggio contro la clausola che permette ai comitati di comunità di escludere alcuni residenti e contro le sue implicazioni per il governo, ma la verità è che a scioccare la maggior parte dei progressisti non è stato altro che vedere la realtà codificata in legge. Anche il giurista Mordechai Kremnitzer ha denunciato invano il fatto che la proposta di legge avrebbe «scatenato una rivoluzione, né più né meno. Sancirà la fine di Israele come Stato ebraico e democratico». Ha poi aggiunto che la legge avrebbe reso Israele un paese guida «per Stati nazionalisti come Polonia e Ungheria», come se non fosse già così da molto tempo. In Polonia e Ungheria non esiste un popolo che esercita la tirannia su un altro popolo privo di diritti, un fatto che è diventato una realtà permanente e un elemento inscindibile del modo in cui agiscono Israele e il suo governo, senza che se ne intraveda la fine.Tutti questi anni d’ipocrisia sono stati piacevoli. Era bello dire che l’apartheid riguardava solo il Sudafrica, perché lì tutto il sistema si basava su leggi razziali, mentre noi non avevamo alcuna legge simile. Dire che quello che succede a Hebron non è apartheid, che quello che succede in Cisgiordania non è apartheid e che l’occupazione in realtà non faceva parte del regime. Dire che eravamo l’unica democrazia della regione, nonostante i territori occupati. Era piacevole sostenere che, poiché gli arabi israeliani possono votare, la nostra è una democrazia egualitaria. O fare notare che esiste un partito arabo, anche se non ha alcuna influenza. O dire che gli arabi possono essere ammessi negli ospedali ebraici, che possono studiare nelle università ebraiche e vivere dove meglio credono (sì, come no). Ma quanto siamo illuminati. La nostra corte suprema ha stabilito, nel caso dei Kaadan, che una famiglia araba poteva comprare una casa a Katzir, una comunità ebraica, solo dopo anni di dispute. Quanto siamo tolleranti nel consentire agli arabi di parlare arabo, una delle lingue ufficiali. Quest’ultima è chiaramente una menzogna. L’arabo non è mai stato neanche remotamente trattato come una lingua ufficiale, come succede invece per lo svedese in Finlandia, la cui minoranza è nettamente più piccola di quella araba in Israele.Era comodo ignorare che i terreni di proprietà del Fondo nazionale ebraico, che includono buona parte delle terre dello Stato, erano riservati ai soli ebrei, una posizione sostenuta dalla Corte Suprema, e affermare che fossimo una democrazia. Era molto più piacevole considerarci egualitari. Adesso ci sarà uno Stato che dice la verità. Israele è solo per gli ebrei, anche sulla carta. Lo Stato-nazione del popolo ebraico, non dei suoi abitanti. I suoi arabi sono cittadini di seconda classe e i suoi abitanti palestinesi non hanno statuto, non esistono. Il loro destino è determinato da Gerusalemme, ma non sono parte dello Stato. È più facile per tutti così. Rimane un piccolo problema con il resto del mondo, e con l’immagine d’Israele che questa legge in parte macchia. Ma non è un grave problema. I nuovi amici d’Israele saranno fieri di questa legge. Per loro sarà una luce che illumina le nazioni. Tanto le persone dotate di coscienza di tutto il mondo conoscono già la verità, e da tempo devono farci i conti. Sarà un’arma nelle mani del movimento Bds (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele)? Sicuramente. Israele se l’è guadagnata, e ora ne ha fatto una legge.(Gideon Levy, “Una legge che dice la verità su Israele”, dal quotidiano istaeliano “Haaretz” del 12 luglio 2018; articolo tradotto da Federico Ferrone e ripreso da “Internazionale”).Il Parlamento israeliano, la Knesset, ha approvato una delle leggi più importanti della sua storia, oltre che quella più conforme alla realtà. La legge sullo Stato-nazione (che definisce Israele come la patria storica del popolo ebraico, incoraggia la creazione di comunità riservate agli ebrei, declassa l’arabo da lingua ufficiale a lingua a statuto speciale) mette fine al generico nazionalismo di Israele e presenta il sionismo per quello che è. La legge mette fine anche alla farsa di uno Stato israeliano “ebraico e democratico”, una combinazione che non è mai esistita e non sarebbe mai potuta esistere per l’intrinseca contraddizione tra questi due valori, impossibili da conciliare se non con l’inganno. Se lo Stato è ebraico non può essere democratico, perché non esiste uguaglianza. Se è democratico, non può essere ebraico, poiché una democrazia non garantisce privilegi sulla base dell’origine etnica. Quindi la Knesset ha deciso: Israele è ebraica. Israele dichiara di essere lo Stato-nazione del popolo ebraico, non uno stato formato dai suoi cittadini, non uno Stato di due popoli che convivono al suo interno, e ha quindi smesso di essere una democrazia egualitaria, non soltanto in pratica ma anche in teoria. È per questo che questa legge è così importante. È una legge sincera.
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Ci sfruttiamo l’un l’altro: questa civiltà è destinata a crollare
La nostra civiltà scomparirà. Come l’impero egiziano, con le sue monumentali piramidi, i suoi faraoni, il suo commercio, la sua cultura, la sua religione millenaria.Come l’impero babilonese con le sue imponenti ziqqurat, i suoi re, le sue tradizioni, le sue biblioteche e il suo commercio. Come l’impero fenicio, le sue invenzioni, la sua arte raffinata, le sue filosofie. Insomma, la nostra civiltà scomparirà. Anzi sta già scomparendo. Perché le civiltà sono come gli organismi: nascono, si sviluppano, decadono e muoiono. E poi perché le nazioni, le civiltà, le culture sono in realtà delle invenzioni. Invenzioni per cui la gente uccide, sogna, si dispera, combatte, ma pure sempre invenzioni. E sono irrazionali. Un po’ come il tifo calcistico: non c’è un motivo razionale per tifare Inter, Milan, Roma, Lazio, Juve… Eppure si è disposti a menare, a litigare, a spendere molti soldi, perfino a uccidere (o vi siete già dimenticati di Genny ‘a Carogna?). I confini tra Italia e Francia sono invenzioni. I confini tra Belgio e Germania sono invenzioni. I confini tra Usa e Canada sono invenzioni. I confini tra qualsiasi nazione e qualsiasi altra nazione sono invenzioni. Lo si vede con chiarezza guardando la cartina geografica dell’Africa: linee tirate giù con il righello. Non si presero neppure la briga di seguire il profilo idrogeologico.Oggi chi nasce a Roma è italiano. Fino a qualche decennio fa era cittadino vaticano. Oggi chi nasce in Corsica è francese. Prima era piemontese. Prima ancora era fenicio… I confini sono un’invenzione. E noi uccidiamo per quell’invenzione. Uccidiamo per la Patria. Uccidiamo per la Religione. Uccidiamo per l’Ideologia. La nostra civiltà – intendo la civiltà a livello mondiale, la civiltà umana – è al collasso. Perché ci sono dei circuiti perversi che accettiamo passivamente, dandoli per scontati, senza rifletterci. Pensateci: gente che si vende, tradisce, si abbrutisce, uccide per delle entità irreali. I numeri della Borsa – i milioni di miliardi che si muovono nei “mercati” ogni giorno – non corrispondono a niente. Il denaro stesso – che un tempo era il corrispettivo delle riserve auree – non corrisponde più a niente. Ma già l’oro in sé non corrispondeva a niente di veramente prezioso. Cos’è l’oro? Si mangia? Si beve? Ci si ripara? Gli Aztechi e i Maya pensavano che gli spagnoli se ne nutrissero, non capivano tanta avidità per un metallo.Pensateci: per questa concezione perversa dell’economia ci ritroviamo con vaste aree del globo terrestre ricchissime di tutto ciò che è prezioso (acqua, terreno, colture, clima, minerali…) che sono in miseria. E ci sono invece posti in mezzo al deserto, dove non cresce nulla e si vive a stento, in cui costruiscono piste da sci tra la sabbia, in cui fontane d’acqua dolce zampillano in ogni angolo e in cui la gente muore per il colesterolo alto. Vi sembra normale, questo? Pensateci: intere classi sociali, anche in Italia, si fanno a guerra per i pochi beni a disposizione. «Non c’è lavoro per tutti», si dice. «Non ci sono risorse per tutti», si dice. «È una guerra tra poveri», si dice. Ogni giorno i bar, le pasticcerie, i supermercati, le pizzerie, i ristoranti buttano via tonnellate di cibo. Ogni giorno. Tonnellate di cibo ogni giorno. Non ci sono risorse per tutti? Ogni stagione vengono lasciati marcire o schiacciati con i trattori tonnellate di pomodori, arance, zucchine, mele… Ettolitri di latte versato nel terreno. Non ci sono risorse per tutti? È una guerra tra poveri? Ma siamo davvero così poveri? Pensateci: non c’è lavoro per tutti. No. Siamo nel 2016.Un tempo per coltivare un campo che rendeva 100 dci volevano 20 persone. Oggi bastano 3 persone e un trattore. E il campo rende 300, grazie alle biotecnologie. Ci sono 19 persone di troppo. Certo, alcuni di quei contadini di troppo andranno a costruire i trattori. Ma sono comunque troppi. Ma il punto non è questo. Il punto è che il salario per il lavoro è un’invenzione. Se fossimo davvero nel 2016 e se fossimo davvero avanzati come civiltà, non ci sarebbe una cosa come “il salario”. Le ore di lavoro non sarebbero per la sopravvivenza – quella dovrebbe essere garantita dal fatto che sei un essere umano e hai diritto di vivere. Le ore di lavoro sarebbero il tuo contributo alla comunità nella quale sei nato. Perché lavorare non è una condanna ma un’opportunità di senso, di crescita personale, di identità. È diventato una schiavitù perché l’attuale lavoro è un ricatto e le condizioni di lavoro sono spesso da schiavitù. Lavoreremmo tutti, 4-5 ore al giorno. E il resto del tempo? Lo vivremmo. Lo passeremmo a coltivare le amicizie, a occuparci degli affetti, all’arte, alla crescita personale, al progresso della civiltà.Lo scriveva già quasi un secolo fa Bertrand Russell. Ma questo presupporrebbe, oltre a un radicale cambiamento di prospettiva, un controllo delle nascite. Le società animali lo fanno in modo naturale: dove c’è abbondanza di risorse si moltiplicano, dove c’è scarsità di risorse diminuiscono. Anche gli esseri umani lo fanno in modo naturale: dove le risorse sono distribuite e c’è un buon livello di benessere le comunità umane hanno meno figli. O meglio, fanno il numero di bambini proporzionato alle risorse. Nei paesi in cui l’aspettativa di vita è scarsa si fanno molti più figli perché il “gene egoista” cerca di sopravvivere dandosi più chance. Come le tartarughine: sono tantissime ma solo poche testuggini raggiungono il mare e sopravvivono. Per questo fanno tante uova. Il controllo delle nascite (come il controllo della sessualità, dell’alimentazione, etc.) negli uomini è regolato non dall’istinto ma dalla cultura. Infatti tutte le religioni controllano sessualità, cibo e desideri. E tutte le “culture” hanno norme su cosa è giusto o sbagliato in campo di sessualità, cibo e desideri.Il collasso della civiltà quindi non è solo una questione di “corsi e ricorsi storici” ma una questione di cultura. Ma secondo voi la nostra cultura ha fatto molti progressi? Sì, non c’è più la schiavitù. E le baraccopoli di braccianti africani in Puglia che raccolgono le tue cicorie bio? Non c’è più la schiavitù. E i capannoni alla periferia di Prato e di Roma in cui donne incinte e bambini cinesi cuciono la maglietta che indossi? Non c’è più la schiavitù. E i contratti precari con cui i lavoratori di oggi vengono tenuti sotto ricatto? Non c’è più la schiavitù. E le migliaia di ragazze deportate sulle nostre strade costrette a farsi violentare ogni giorno per qualche decina di euro “di divertimento”? Guardando la civiltà ateniese del III secolo ac, siete proprio sicuri che la nostra cultura ha fatto così tanti progressi? Guardando le comunità di nativi americani, siete proprio sicuri che la nostra cultura ha fatto molti progressi?(Chistian Giordano, “Il collasso della civiltà”, dal blog di Giordano del 14 luglio 2016).La nostra civiltà scomparirà. Come l’impero egiziano, con le sue monumentali piramidi, i suoi faraoni, il suo commercio, la sua cultura, la sua religione millenaria. Come l’impero babilonese con le sue imponenti ziqqurat, i suoi re, le sue tradizioni, le sue biblioteche e il suo commercio. Come l’impero fenicio, le sue invenzioni, la sua arte raffinata, le sue filosofie. Insomma, la nostra civiltà scomparirà. Anzi sta già scomparendo. Perché le civiltà sono come gli organismi: nascono, si sviluppano, decadono e muoiono. E poi perché le nazioni, le civiltà, le culture sono in realtà delle invenzioni. Invenzioni per cui la gente uccide, sogna, si dispera, combatte, ma pure sempre invenzioni. E sono irrazionali. Un po’ come il tifo calcistico: non c’è un motivo razionale per tifare Inter, Milan, Roma, Lazio, Juve… Eppure si è disposti a menare, a litigare, a spendere molti soldi, perfino a uccidere (o vi siete già dimenticati di Genny ‘a Carogna?). I confini tra Italia e Francia sono invenzioni. I confini tra Belgio e Germania sono invenzioni. I confini tra Usa e Canada sono invenzioni. I confini tra qualsiasi nazione e qualsiasi altra nazione sono invenzioni. Lo si vede con chiarezza guardando la cartina geografica dell’Africa: linee tirate giù con il righello. Non si presero neppure la briga di seguire il profilo idrogeologico.
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Migranti? Salvini ci distrae dal Mostro: il pareggio di bilancio
Se c’è qualcosa di “vomitevole”, nella politica italiana – per usare un’espressione cara al soave Macron – è l’ipocrita cinismo con cui la sinistra (politica, stampa, establishment) azzanna Salvini in materia di migranti. L’altro problema? Enorme: facendo tutto quel rumore solo sul problema degli sbarchi, non così importante nei numeri, il leader della Lega – messi da parte gli economisti sovranisti Claudio Borghi e Alberto Bagnai – sta letteralmente oscurando il vero dramma nel quale si dibatte il paese. Ovvero: il rigore finanziario imposto da Bruxelles fino al pareggio di bilancio, inserito nella Costituzione dal governo Monti con la complicità di Berlusconi e Bersani. Lo afferma Paolo Barnard, giornalista scomodo e acuminato polemista, il primo a denunciare “l’economicidio” del paese pianificato dalle élite europee neo-aristocratiche. Oligarchi, padroni della finanza e delle multinazionali: sono stati loro a progettare la catastrofe di questa Eurozona, allo scopo di amputare la spesa pubblica per privatizzare tutto e far crollare il sistema economico delle piccole e medie imprese, soffocate dalle tasse. Sempre meno, per tutti noi: “pareggio di bilancio” significa che lo Stato recupera, sotto forma di imposte, tutto quello che ha speso per i cittadini. Peggio ancora, il “surplus di bilancio”: lo Stato anticipa 100, ma poi riscuote 120 (non solo non lascia nulla, ma addirittura impoverisce attivamente il paese). Riuscirà a parlarne, Salvini, quando avrà finito di sbraitare a reti unificare contro “l’invasione” degli africani?Senza una drastica inversione di tendenza, scrive Barnard nel suo blog, l’Italia farà la fine della Svezia: pur essendo dotato di moneta sovrana, il paese scandinavo (patria storica del welfare avanzato) per reggere l’accoglienza dei migranti – tantissimi, 600.000 negli ultimi 5 anni, in un paese di 10 milioni di abitanti, «che in proporzione è come se l’Italia ne avesse avuti 3.600.000» – il governo di Stoccolma, socialdemocratico ma plagiato dal dogma neoliberista dell’Ue, ha letteralmente massacrando la popolazione svedese a suon di tasse. Risultato: le imminenti elezioni rischiano di vincerle a mani basse i populisti Democratici Svedesi, feroci sui migranti ma letteralmente muti sul vero dramma, il pareggio di bilancio. Proprio come Salvini, accusa Barnard, che di fronte all’esodo africano sembra «il vigile tonto che con la paletta pensa di fermare lo tsunami in spiaggia». La sinistra? «Fa venir da vomitare, usa i neri con un cinismo da impiccagione sul posto: non sanno proporre una soluzione sistemica al motivo per cui migrano, e predicano invece la loro accoglienza (a casa e a spese degli italiani sfigati, non certo a casa loro). Questo insulto alla geopolitica gli lava l’anima, ma poi lascia 389 milioni di africani nella disperazione e non risolve un cazzo da 26 anni». Sono almeno 500 milioni, scrive Barnard, gli esseri umani a rischio di migrazione: per ogni sorta di motivo, dal neo-colonialismo europeo all’emergenza climatica, «e non li fermerai mai coi divieti di Salvini». La soluzione? «Deve essere un accordo economico sistemico internazionale».In ogni caso, sottolinea Barnard, i migranti sono il problema numero 300 del nostro “portafoglio”: prima vengono sanità, pensioni, scuola e lavoro. Ben prima dei migranti ci cadono addosso le “chemiotasse” imposte dall’euro, il credito che le banche non concedono, l’Italia che non cresce più da vent’anni. Il problema numero uno è lui: il pareggio di bilancio, «cioè la dittatura Ue che dice che lo Stato deve darti 100 e poi tassarteli tutti e 100, cioè lasciarti nulla nel portafoglio – sanità, pensione, scuola, crescita». Eppure, fateci caso: «La lotta della Lega al nero che sbarca è diventata una tempesta solare», mentre l’opposizione leghista al vero nemico – il pareggio di bilancio – ormai «assomiglia sempre più a un petardo». Salvini? «Sta facendo sbiadire la mostruosità del pareggio di bilancio, che è la prima causa delle pene degli italiani, e li incoraggia a cercare da un’altra parte un capro espiatorio per la loro rabbia da crescente povertà e insicurezza: nell’immigrazione». Per Barnard «è un bypass velenoso, che Salvini alimenta ogni minuto». Il meccanismo «ha una presa micidiale sulla gente» ma è anche «distruttivo», come sta accadendo in Svezia, cioè il paese in crisi verso cui ci starebbe spingendo la Lega, con la sua miopia. Il paradosso, aggiunge Barnard, è che la Lega sulla carta doveva fare l’esatto contrario: mantenerci tutti concentrati sul pericolo numero 1, il pareggio appunto, non distrarci da esso con l’ossessione del pericolo numero 300, cioè gli sbarchi dei migranti.In Svezia ne hanno accolti una quota enorme, sopra il 5% della popolazione nazionale. Tutti assorbiti nel sistema produttivo: industria, sanità, servizi sociali. Economia in crescita, quindi: il Pil è salito del 3,3%, contro la media europea del 2%. Ottimo? No, niente affatto, spiega Barnard: perché poi, dati alla mano, nelle zone meno popolate (il 90% del paese) stanno chiudendo ospedali e consultori. «Ne soffrono le donne, a cui ora le autorità stanno insegnando come partorire in auto perché spesso la maternità più vicina è a oltre 100 km di distanza. Non solo: a volte le partorienti svedesi vengono respinte dai consultori perché sono stipati di pazienti, fra cui anche migranti». Le liste d’attesa in sanità sono letteralmente esplose: non per colpa dei migranti, però, ma per via dei tagli decisi – a monte – dal governo, preoccupato in modo demenziale di raggiungere ogni anno il pareggio di bilancio imposto dall’Ue. Ormai, «quello che viene vantato nel mondo come un sistema di welfare che assiste “dalla culla alla tomba” e che mantiene chi perde il lavoro in relativo agio, oggi fa acqua da tutte le parti». Idem il lavoro: «La disoccupazione svedese, che dovrebbe essere inesistente, è al 7%, e questo nonostante la già citata crescita». Un dato che «fa vergognare la nazione scandinava a confronto con la spietata America, dove i disoccupati sono al 3,9%».Crisi da rigore di bilancio, in salsa nordica: «Gli svedesi non trovano abbastanza case, e se le trovano costano una fortuna. In parte il problema è dovuto al fatto che i 600.000 migranti hanno assorbito alloggi, ma molto di più è dovuto a un mercato immobiliare selvaggio causato da politiche di governo e banca centrale che hanno permesso liquidità a costo quasi zero, quindi incentivato acquisti sempre più frenetici che hanno alzato i prezzi alle stelle, che a loro volta hanno costretto gli svedesi a indebitarsi con le banche da pazzi per avere una casa. Nel frattempo lo Stato non è affatto intervenuto con edilizia popolare per aiutare gli esclusi». Ecco allora il vero motivo del disastro che sta esasperando gli svedesi: e cioè «l’ossessione da parte del governo, persino in una nazione sovrana nella moneta, di pareggiare i bilanci, e addirittura di fare il surplus di bilancio». Per cosa, poi? «Solo poter vantare nelle casse dello Stato un assurdo bottino che contabilmente non ha senso, ma soddisfa i “numerini degli economisti europei”. Ecco come agiscono i pareggi e surplus di bilanci, cioè la macchina d’impoverimento peggiore della storia, in Svezia». E questa, aggiunge Barnard, è «la vera fucina dell’esasperazione dei cittadini, che poi sbagliano clamorosamente target e se la prendono coi migranti (come da noi)».Follia: il governo svedese «non solo pareggia i bilanci da anni, ma ora addirittura fa surplus di bilancio da 4 anni, e intende insistere in questa strage delle tasche dei cittadini fino al 2021 almeno». Questo, sottolinea Barnard, «è il motivo dei drastici tagli governativi a sanità, alloggi pubblici per gli ultra-indebitati, sicurezza e persino welfare. I fondi ai migranti, qui, sono irrilevanti». Altra follia: «Mentre il governo spende 100 per gli svedesi e li tassa 120, ha avuto la buona idea di aumentare le tasse, con l’aliquota massima oltre il 70%, e di tagliare a raffica una serie di sconti fiscali». Chi sta quindi sta assassinando i redditi svedesi? «Risposta: svedesi con pelle bianchissima seduti a Stoccolma, non stranieri di pelle scura (per noi italiani invece è il contrario: gli assassini economici sono in effetti stranieri, ma sempre di pelle bianca, e stanno a Bruxelles)». Terza follia: «Questa idrovora di tassazione e tagli di spesa pubblica nel portafoglio di aziende e famiglie svedesi accade mentre, secondo i dati del ministero delle finanze, il costo per ogni nativo svedese per l’accoglienza dei migranti è di 6.800 euro all’anno in ulteriori tasse. E questo grida vendetta, perché la Svezia è paese a moneta sovrana, e per definizione non necessita di tasse per spendere per qualsiasi cosa, inclusi i migranti. Quindi, se i migranti pesano in parte sui portafogli degli svedesi, la colpa è tutta e solo della scelta di governo di ubbidire ai diktat imperanti in Europa».Ed ecco che scatta il micidiale bypass delle colpe, conclude Barnard: un numero sempre maggiore di svedesi «mica se la prendono col loro demenziale governo e con le sue devastanti politiche fiscali». Al contrario, «se la prendono coi migranti». In pole position, nei sondaggi per le vicinissime elezioni, c’è il partito «di estrema desta e rabbiosamente anti-immigrazione», i Democratici Svedesi, dato addirittura vincente. E qui sta il dramma: se si osserva la piattaforma politica dei Democratici Svedesi, si scopre che il nazionalismo, la patria, l’identità e la xenofobia sono il 98%, mentre il resto «è un’accozzaglia di belle intenzioni su lavoro, anziani, sanità, commercio, ma nulla di specifico sulla vitale necessità di demolire ciò che davvero sta devastando famiglie e aziende svedesi, che è il pareggio (o surplus) di bilancio». Nel loro programma non esiste la voce “abolizione pareggi e surplus di bilancio”. «Strombazzano solo contro le politiche troppo generose sui migranti». Risultato? «Il dramma nordico rimarrà inalterato, esattamente come rimarrà inalterato il dramma italiano se Matteo Salvini, come i Democratici Svedesi, continua a gonfiare l’ipertrofica bolla delle navi nei porti, mentre pacatamente sta costruendo un nulla di fatto su “no euro”, “no pareggio di bilancio”, e su Italexit». E siatene certi, chiosa Barnard: «Dopo le roboanti boutade “macho” dell’uomo forte italiano, nel vostro portafoglio, nella sanità, nelle pensioni, nelle scuole, nel lavoro tuo e dei figli, nelle ‘chemiotasse’, nei crediti che non ti danno, e nell’Italia che non cresce da 20 anni non ci sarà un nero. Ci sarà Salvini».Se c’è qualcosa di “vomitevole”, nella politica italiana – per usare un’espressione cara al soave Macron – è l’ipocrita cinismo con cui la sinistra (politica, stampa, establishment) azzanna Salvini in materia di migranti. L’altro problema? Enorme: facendo tutto quel rumore solo sul problema degli sbarchi, non così importante nei numeri, il leader della Lega – messi da parte gli economisti sovranisti Claudio Borghi e Alberto Bagnai – sta letteralmente oscurando il vero dramma nel quale si dibatte il paese. Ovvero: il rigore finanziario imposto da Bruxelles fino al pareggio di bilancio, inserito nella Costituzione dal governo Monti con la complicità di Berlusconi e Bersani. Lo afferma Paolo Barnard, giornalista scomodo e acuminato polemista, il primo a denunciare “l’economicidio” del paese pianificato dalle élite europee neo-aristocratiche. Oligarchi, padroni della finanza e delle multinazionali: sono stati loro a progettare la catastrofe di questa Eurozona, allo scopo di amputare la spesa pubblica per privatizzare tutto e far crollare il sistema economico delle piccole e medie imprese, soffocate dalle tasse. Sempre meno, per tutti noi: “pareggio di bilancio” significa che lo Stato recupera, sotto forma di imposte, tutto quello che ha speso per i cittadini. Peggio ancora, il “surplus di bilancio”: lo Stato anticipa 100, ma poi riscuote 120 (non solo non lascia nulla, ma addirittura impoverisce attivamente il paese). Riuscirà a parlarne, Salvini, quando avrà finito di sbraitare a reti unificare contro “l’invasione” degli africani?
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Zingales a Mattarella: decide la democrazia, non i mercati
«La decisione del presidente italiano di respingere un governo eletto non ha senso né dal punto di vista economico né da quello politico». Lo afferma l’economista bocconiano Luigi Zingales, docente universitario a Chicago e, nel 2011, favorevole al rigore imposto all’Italia dall’Ue attraverso Mario Monti. Oggi Zingales non è più un teorico dell’austerity. Lo dimostra nel modo più esplicito, firmando un’analisi su “Foreign Policy” dopo l’inaudito siluramento del governo Conte attuato in prima battuta da Mattarella. «Nel 20° secolo, quando i risultati elettorali non risultarono graditi all’élite dominante e ai suoi alleati internazionali, scesero in strada i carri armati», scrive il professore. «Nel 21° secolo la reazione è meno cruenta, ma non per questo meno aggressiva. Invece dei carri armati, viene usato il mercato delle obbligazioni». È quello che è successo in Italia il 27 maggio, «quando un governo appoggiato da una maggioranza parlamentare è stato bloccato dal presidente della Repubblica, per il timore di come il mercato obbligazionario avrebbe potuto reagire alla nomina dell’ex dirigente della Banca d’Italia, Paolo Savona, di ottantuno anni, designato come ministro dell’economia». La colpa di Savona? «Avere sviluppato un piano di emergenza per l’uscita dall’euro, nel caso che questa avvenisse. È come se il presidente degli Stati Uniti licenziasse un ministro della difesa perché appronta un piano di emergenza in caso di guerra nucleare con la Corea del Nord».Al contrario, scrive Zingales, «entrambi avrebbero dovuto invece essere elogiati per la loro previdenza». Ma ammettiamo pure che Mattarella avesse ragione, e che la nomina di Savona potesse scatenare il panico nel fragile mercato obbligazionario italiano. Allo stesso modo, aggiunge il professore, ammettiamo pure che la Costituzione gli desse il diritto di farlo. Sarebbe stata una buona scelta? È giusto che la paura dei mercati annulli il processo decisionale democratico? E’ vero, agli economisti piace l’efficienza dei mercati nell’allocazione delle risorse. «I buoni economisti, tuttavia, sanno che, per funzionare correttamente, i mercati dovrebbero operare in regime di piena concorrenza e che gli operatori sul mercato dovrebbero essere informati in modo simmetrico». Al contrario, «il mercato del debito sovrano in Europa non soddisfa nessuna delle due condizioni», sottolinea Zingales, nella riflessione ripresa da “Voci dall’Estero”: «In un mercato concorrenziale, ogni singolo attore dovrebbe essere un price-taker, ovvero la sua attività di scambio non dovrebbe avere alcun impatto sui prezzi di mercato. E invece, per sua stessa ammissione, la Bce ha un impatto sui prezzi di mercato». Si impegna infatti nell’acquisto di obbligazioni sovrane per ridurne il rendimento, pratica nota come “quantitative easing”.Di conseguenza, prosegue Zingales, il mercato obbligazionario europeo non si muove più in base al risultato delle decisioni di migliaia di operatori indipendenti è invece diventato «un “concorso di bellezza”, in cui si cerca di anticipare la prossima decisione della Bce». In un simile mercato, «la dichiarazione di un membro della Bce che il “quantitative easing” dovrebbe concludersi prima del previsto» (come ha fatto Sabine Lautenschläger, membro del comitato esecutivo della banca centrale europea) «può essere sufficiente per creare timore e aumentare lo spread tra obbligazioni italiane e tedesche». Si domanda Zingales: «È saggio vincolare le decisioni politiche di qualsiasi altro paese ai capricci di un simile mercato? Il presidente italiano, evidentemente, lo pensa. Ma farlo è pericoloso: sia dal punto di vista economico sia politico». È pericoloso dal punto di vista economico, sostiene Zingales, «perché gli economisti preparati sanno che il mercato delle obbligazioni sovrane può avere più punti di equilibrio. Di conseguenza, quando il rapporto tra debito e Pil è alto, è sufficiente che si sparga una voce per spostare il mercato obbligazionario da un punto di equilibrio a un altro, con il rischio di default».In generale, questa eventualità è impedita dalla banca centrale nazionale. «Quando è stata creata la Bce, tuttavia, i meccanismi necessari a una banca centrale non furono previsti appositamente, con lo scopo di lasciare ai mercati l’imposizione di un vincolo disciplinare ai paesi membri». Ma questa, osserva Zingales, «è stata una decisione cattiva dal punto di vista economico, che ha reso obbligatorio che la Bce alla fine fosse costretta a intervenire attivamente». Il risultato, per gli Stati, membri è che «non sono stati disciplinati da un mercato adeguatamente funzionante, ma dalla Bce – un’istituzione composta da individui che, anche se animati dalle migliori intenzioni, possono sbagliare». Il che, sempre secondo il professore, ci porta ai pericoli dal punto di vista politico. «Qualsiasi sistema istituzionale che attribuisca a un organismo non eletto come la Bce un ruolo prevalente rispetto agli organismi eletti, senza controllo, solleva seri problemi di legittimità», scrive l’economista. Immaginiamo l’ipotesi in cui il commento di un dirigente della Bce tedesco scateni involontariamente una crisi sul mercato obbligazionario italiano, che costringa l’Italia a ricorrere a un programma del Mes e del Fmi. «Che tipo di legittimità politica avrebbe un simile risultato in Italia? Anche un paese meno affascinato da poco plausibili teorie complottiste comincerebbe a sospettare una trama tedesca».Questo sospetto «diventerebbe poi certezza», scrive Zingales, «se un commissario europeo tedesco dichiarasse che i mercati finanziari insegneranno agli italiani a non votare per i populisti». Fortunatamente, aggiunge, quest’ultimo punto è ipotetico, ma non troppo: il commissario europeo alle finanze, Günther Oettinger, ha dichiarato che sperava che «lo sviluppo negativo dei mercati» fornisse «agli elettori un segnale di non votare per i populisti di destra o di sinistra». Precisa Zingales: «Sto negando il diritto dei partner europei degli italiani di essere preoccupati per il bilancio pieno di promesse (e nessuna misura per pagarle) concordato dal Movimento Cinque Stelle e dalla Lega? Assolutamente no. Mi associo anche alle preoccupazioni espresse dall’economista tedesco Hans-Werner Sinn sul cosiddetto debito Target2 che l’Italia sta accumulando nel sistema dell’euro: debito che è il risultato di un maggior numero di investitori stranieri che vendono obbligazioni italiane piuttosto che acquistarle». Entrambe le preoccupazioni, tuttavia, «riflettono gli errori di concezione fondamentali dell’euro», sottolinea il professore. «Lo Stato dell’Indiana non si preoccupa di quanto è spendaccione lo Stato dell’Illinois, né del debito che la Federal Reserve Bank di Chicago accumula con la Federal Reserve centrale».L’Illinois è libero di scegliere i suoi governatori senza interferenze dell’Indiana (anche se alcuni conservatori fiscali preferirebbero diversamente), proprio come lo Stato dell’Illinois è libero di fare default senza trascinare con sé tutte le sue banche locali e l’intera economia locale. «Il motivo è che ci sono sufficienti istituzioni federali, dall’assicurazione contro la disoccupazione all’assicurazione sui depositi, per assorbire lo shock. E c’è un’autorità politica comune – in particolare, il Congresso degli Stati Uniti, in cui gli Stati più piccoli sono in proporzione più rappresentati – per risolvere eventuali controversie che potrebbero sorgere». Le tensioni politiche in Europa non sono quindi inevitabili, insiste Zingales. «La moneta comune europea, tuttavia, è stata creata prima delle istituzioni necessarie per sostenerla. La speranza – formulata esplicitamente da alcuni politici italiani – era che una crisi alla fine avrebbe accelerato la creazione di queste istituzioni. Ma quasi vent’anni dopo l’introduzione dell’euro e dieci anni dopo una crisi economica di quelle che si scatenano una volta in un secolo, i progressi verso la creazione di queste istituzioni in Europa sono stati minimi».Molti europei non sono d’accordo? E’ vero: considerano “incoraggianti” i progressi dell’ultimo decennio, soprattutto se confrontati con la totale immobilità dei primi dieci anni dell’euro. «Certo, per chi vive all’ultimo piano la costruzione di una pompa per drenare l’acqua non appare urgente come per chi vive in cantina. L’Italia, in Europa, vive in cantina: e sta affogando», scrive Zingales. Beninteso: «Nessun governo italiano può riformare l’Eurozona da solo». Eppure, aggiunge, «le riforme non si faranno, se non ci si prova». Il presidente francese Emmanuel Macron sembra disposto a spendere un po’ di capitale politico per promuovere una riforma dell’Eurozona, «ma ha bisogno di un alleato in Italia – la terza maggiore economia dell’area economica – per renderla una priorità». Questo, spiega Zingales, sarebbe il principale vantaggio di una coalizione tra Lega e 5 Stelle: «Entrambe le parti hanno promesso di combattere per le riforme in Europa – una promessa su cui scommettono il loro futuro politico». E quindi: «Piuttosto che criminalizzare le richieste di aiuto – conclude Zingales – l’Europa dovrebbe rimboccarsi le maniche e proporre un piano per il cambiamento. Altrimenti, non solo il “Belpaese” – come gli italiani chiamano la nostra patria – affonderà, ma affonderà l’idea stessa che nel continente si possa convivere in pace e prosperità».«La decisione del presidente italiano di respingere un governo eletto non ha senso né dal punto di vista economico né da quello politico». Lo afferma l’economista bocconiano Luigi Zingales, docente universitario a Chicago e, nel 2011, favorevole al rigore imposto all’Italia dall’Ue attraverso Mario Monti. Oggi Zingales non è più un teorico dell’austerity. Lo dimostra nel modo più esplicito, firmando un’analisi su “Foreign Policy” dopo l’inaudito siluramento del governo Conte attuato in prima battuta da Mattarella. «Nel 20° secolo, quando i risultati elettorali non risultarono graditi all’élite dominante e ai suoi alleati internazionali, scesero in strada i carri armati», scrive il professore. «Nel 21° secolo la reazione è meno cruenta, ma non per questo meno aggressiva. Invece dei carri armati, viene usato il mercato delle obbligazioni». È quello che è successo in Italia il 27 maggio, «quando un governo appoggiato da una maggioranza parlamentare è stato bloccato dal presidente della Repubblica, per il timore di come il mercato obbligazionario avrebbe potuto reagire alla nomina dell’ex dirigente della Banca d’Italia, Paolo Savona, di ottantuno anni, designato come ministro dell’economia». La colpa di Savona? «Avere sviluppato un piano di emergenza per l’uscita dall’euro, nel caso che questa avvenisse. È come se il presidente degli Stati Uniti licenziasse un ministro della difesa perché appronta un piano di emergenza in caso di guerra nucleare con la Corea del Nord».