Archivio del Tag ‘partiti’
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Realfonzo: un referendum contro il pareggio di bilancio
Noi riteniamo che le politiche di austerità, con i tagli indiscriminati alla spesa pubblica e gli aumenti della pressione fiscale, siano una sciagura per l’Italia e più in generale per l’Europa. Già nel 2010 io ed altri promuovemmo una lettera contro l’austerità che fu sottoscritta da circa 300 economisti italiani e stranieri, tra cui autorevolissimi studiosi, ma i governi italiani non hanno mutato di una virgola la loro azione. Ci siamo quindi convinti che di fronte a questa sciagura ed emergenza nazionale ed europea, sia necessario mettere in campo il più ampio schieramento possibile di forze politiche e sociali, con un referendum. Da qui abbiamo definito un comitato promotore largo e eterogeneo, con personalità molto diverse per formazione culturale e sensibilità politica. I quattro quesiti propongono di abrogare alcune disposizioni della legge 243 del 2012, la legge ordinaria che applica la riforma costituzionale del pareggio di bilancio spingendo sulla linea di austerità addirittura più del Fiscal Compact e dei trattati europei.
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Grillo accusa tutti, tranne i veri colpevoli del disastro
Grillo? Ottimo, anzi pessimo. Ha sparato contro i corrotti di casa, senza però mai – neppure una sola volta, in sette anni – alzare il mirino contro i “mandanti” della grande crisi, di cui i partiti dell’establishment sono i semplici maggiordomi. Netto il giudizio di Federico Zamboni, editorialista del “Ribelle” diretto da Massimo Fini, che si esprime «a sette anni esatti dall’annuncio, nel giugno 2007, del primo V-Day, che poi si svolse il successivo 8 settembre», e a quasi cinque dalla costituzione ufficiale, il 4 ottobre 2009, del “Movimento 5 Stelle”. L’accusa principale: nonostante l’impegno, Grillo non ha saputo affrontare il vero nodo della crisi, che dal 2007 «ha fatto emergere con ancora più forza la questione fondamentale del nostro tempo: il rapporto tra società ed economia “di mercato”». In altre parole, la “guerra” «tra la libertà di autodeterminazione dei singoli governi, e quindi dei rispettivi popoli, e i condizionamenti imposti dal modello dominante, incardinato sugli interessi delle oligarchie che gestiscono la finanza internazionale».In prima linea, sugli schermi, ci sono i soliti partiti, quelli che «si accapigliano su tutto» ma, alla resa dei conti, «non smettono mai di assecondare l’odierno assetto delle democrazie occidentali, sull’asse che lega i vertici di Usa e Ue». Il punto da affrontare, scrive Zamboni in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è quello della loro credibilità o meno «come rappresentanti degli interessi popolari, nella prospettiva non già di una mera attenuazione nelle iniquità esistenti, ma di un loro superamento». Il che implica, ovviamente, «la rimozione delle cause profonde che hanno determinato tali disparità, che sono talmente forti, deliberate e persistenti da costituire delle vere e proprie ingiustizie». La situazione è ormai talmente grave «da esigere che i responsabili di una sopraffazione così cinica e insistita vengano quantomeno identificati e denunciati con estrema chiarezza, in attesa di poterli neutralizzare come meritano».Puntare il dito contro la “casta” italiana? Non basta: «Si tratta di un’espressione equivoca e fuorviante», perché secondo Zamboni «la chiave di volta del disastro italiano non risiede nel malgoverno esercitato a colpi di privilegi ingiustificati e di autentiche ruberie da codice penale: per quanto gravi, e da sanzionare duramente, queste condotte non sono altro che fenomeni collaterali». Per l’analista del “Ribelle”, «la colpa essenziale, la colpa “storica”, consiste nell’aver lasciato che le sovranità nazionali venissero sacrificate ai diktat finanziari, lanciati ora dalle banche centrali, ora da quello che potremmo definire “il fronte della speculazione”, includendovi tanto gli operatori di Borsa quanto i media più o meno specializzati, le agenzie di rating e ogni altro soggetto che si dia da fare per puntellarne le attività – e il terrificante potere».Grillo? E’ rimasto lontanissimo dalla meta. In questi anni «si è certamente scagliato contro molti degli abusi in corso, mettendo nel mirino anche alcune misure-capestro sovrannazionali come il Fiscal Compact e sollecitando un referendum sulla permanenza dell’euro», ma tuttavia «si è sempre astenuto dal tracciare un quadro complessivo delle sue chiavi di lettura e dei suoi obiettivi», al punto che «a tutt’oggi non è dato sapere, con la dovuta certezza, se lui e il M5S rifiutino il modello neoliberista in quanto tale, o se invece si accontentino di auspicarne una variante migliorativa». Una versione “light” che, «pur introducendo qualche limite all’azione dei privati a caccia di lucro e pur esercitando un controllo assai più stringente sui politici», rischia di restare imperniata sui principi e sui dogmi «dello sviluppo infinito e della ricerca incessante del profitto».«Ciò che resta indefinito, quindi, è proprio l’aspetto cruciale», conclude Zamboni. «E da questo mancato chiarimento derivano, per forza di cose, le contraddizioni e le divergenze anche interne che si sono manifestate soprattutto negli ultimi sedici mesi, dopo il grande successo alle politiche del febbraio 2013 e il massiccio ingresso in Parlamento». Se il movimento si è diviso fra trattativisti e oltranzisti dell’opposizione, oggi deve confrontarsi con l’ultima svolta di Grillo per provare a sfidare il Pd sulle riforme: «Se si tratta di un riposizionamento, che mette fine all’epoca del “Tutti a casa”, allora è una decisione strategica: al posto della rivoluzione, la collaborazione», per di più «con personaggi omologatissimi e infidi alla Renzi». Tutto questo, però, è solo tattica. La domanda a monte resta inevasa: cosa pensa, Grillo, del modello di dominio economico-finanziario che ha sequestrato la sovranità nazionale puntando a far sparire lo Stato (e la democrazia) privatizzando tutto, e arrivando per questo a manomettere la Costituzione?Grillo? Ottimo, anzi pessimo. Ha sparato contro i corrotti di casa, senza però mai – neppure una sola volta, in sette anni – alzare il mirino contro i “mandanti” della grande crisi, di cui i partiti dell’establishment sono i semplici maggiordomi. Netto il giudizio di Federico Zamboni, editorialista del “Ribelle” diretto da Massimo Fini, che si esprime «a sette anni esatti dall’annuncio, nel giugno 2007, del primo V-Day, che poi si svolse il successivo 8 settembre», e a quasi cinque dalla costituzione ufficiale, il 4 ottobre 2009, del “Movimento 5 Stelle”. L’accusa principale: nonostante l’impegno, Grillo non ha saputo affrontare il vero nodo della crisi, che dal 2007 «ha fatto emergere con ancora più forza la questione fondamentale del nostro tempo: il rapporto tra società ed economia “di mercato”». In altre parole, la “guerra” «tra la libertà di autodeterminazione dei singoli governi, e quindi dei rispettivi popoli, e i condizionamenti imposti dal modello dominante, incardinato sugli interessi delle oligarchie che gestiscono la finanza internazionale».
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Addio democrazia, Renzi e Silvio i manovali del piano
Le chiamano “riforme”, come fossero sinonimo di “migliorie”, secondo la vulgata mainstream accettata dai media come verità di fede. Ma sono soltanto le “indicazioni” – leggasi: diktat – che l’oligarchia euroatlantica da anni reitera all’Italia, a colpi di spread (Mario Monti) oppure confidando nell’appeal demiurgico di Renzi, che attraverso il ministro Padoan (Ocse) e con la collaborazione dell’immancabile “uomo di sinistra”, il ministro Poletti, propone la stessa cura-Monti spacciandola per innovazione entusiasmante. Tutto molto semplice: smantellare i punti cardine della Costituzione antifascista, quella che Jamie Dimon (Jp Morgan) ritiene obsoleta, perché tutela l’interesse pubblico di cittadini e lavoratori contro la legge del business. Quella che – con l’applicazione del Ttip, il Trattato Transatlantico voluto dai padroni di Obama e imposto a Renzi – farà sparire in tutta Europa le ultime garanzie di tutela su ambiente, salute, lavoro e sicurezza alimentare, liquidando la qualità del made in Italy. Logica traduzione: sbaraccare lo Stato di diritto e il “rischio” che possa essere governato dai cittadini tramite politici onesti e responsabili.Marco Travaglio lo chiama “il patto Renzi-Berlusconi”, individuandone la declinazione italiana di oggi, i suoi manovali. Ma è un “patto” che viene da lontano, a metà strada tra Wall Street, Bruxelles e Berlino. «Unendo i puntini delle varie riforme vaganti tra governo e Parlamento, costituzionali e ordinarie, ma anche di certe prassi quotidiane passate sotto silenzio per trasformarsi subito in precedenti pericolosi, come le continue interferenze del Quirinale nell’autonomia del Parlamento, della magistratura e della stampa, viene fuori un disegno che inquieta», scrive Travaglio sul “Fatto Quotidiano”. «Una democrazia verticale, cioè ben poco democratica: sconosciuta, anzi opposta ai principi ispiratori della Costituzione, fondata invece su un assetto orizzontale in ossequio alla separazione e all’equilibrio dei poteri». Svolta autoritaria: «All’insaputa del popolo italiano, mai consultato sulla riscrittura della Costituzione, e fors’anche di molti parlamentari ignoranti o distratti, il combinato disposto di leggi, decreti e prassi – di per sé all’apparenza innocue – rischia di costruire un sistema illiberale e piduista fondato sullo strapotere del più forte e sul depotenziamento degli organi di controllo e garanzia».Il pericolo, sintetizza Travaglio, è una «dittatura della maggioranza». Una “democratura”, come direbbe Giovanni Sartori, «a disposizione del primo “uomo solo al comando” che se ne impossessa, diventando intoccabile, incontrollabile, non contendibile, dunque invincibile». Unendo l’ultimo dei “puntini” – il più importante, anche se Travaglio lo sfuma, forse dandolo per scontato – si scopre che il cervello della manovra per liquidare la residua democrazia italiana non risiede a Roma, ad Arcore o a Firenze, ma nei centri di potere economico-finanziari e tecnocratici che negli ultimi trent’anni hanno logorato senza sosta i gangli vitali della fragile e sgangherata democrazia italiana, per assoggettarla a regole scritte altrove, nei santuari del neoliberismo: fine della sovranità nazionale, debito pubblico ostaggio della speculazione finanziaria, demonizzazione del deficit, taglio della spesa pubblica e del welfare, attacco ai salari, flessibilità e precarizzazione del lavoro (Jobs Act), massacro delle pensioni (riforma Fornero). Tutto questo è avvenuto grazie all’alibi del debito, in realtà esploso dopo il divorzio tra Bankitalia e Tesoro nel 1981, che privò di colpo il paese della possibilità di finanziare il deficit – cioè l’investimento pubblico – a costo zero.Da allora, tutti i “tecnici” al potere (in prima linea e nelle retrovie: Draghi, Ciampi, Amato, Andreatta, Prodi, Dini, Padoa Schioppa, Visco, Treu, Bassanini, Monti) hanno proseguito la missione: dire agli italiani che “bisogna” suicidare lo Stato, cioè spillare più soldi – in tasse – di quanti lo Stato non sia disposto a spendere per i cittadini. “Lo vuole l’Europa”, naturalmente, ovvero la Germania, interessata a sbarazzarsi della concorrenza industriale italiana, e lo vuole – da sempre – l’élite economica euroatlantica, insofferente alla relativa autonomia di paesi come l’Italia, capaci di sviluppare benessere diffuso (nonostante la casta corrotta dei politici) proprio grazie alla spesa pubblica strategica dello Stato, che finisce per fare concorrenza al “mercato”, ovvero ai signori delle multinazionali. Sono loro, i “padroni dell’universo”, gli unici a comandare oggi – a fare le leggi che contano – grazie alle lobby insediate a Bruxelles e a organismi sovranazionali pressoché onnipotenti, dal Wto alla Banca Mondiale, dal Fmi alla Bce, dal Bilderberg alla Banca dei Regolamenti Internazionali. Tutto il potere che conta è verticalizzato, nel sistema neo-feudale dell’euro, in mano a poche “menti raffinatissime” che vogliono la morte per fame dello Stato democratico e la impongono mediante rigore e austerity, Fiscal Compact, unione bancaria europea, pareggio di bilancio.Nella sua lunga analisi, Travaglio osserva la traduzione italiana del piano, affidato a Renzi e Berlusconi con la regia di Napolitano sin dai tempi di Monti (Goldman Sachs, Commissione Trilaterale) e Letta (Aspen, Bilderberg). Il fondatore del “Fatto” individua i punti-chiave della definitiva archiviazione della macchina democratica così come l’abbiamo conosciuta finora. La spaventosa legge elettorale, battezzata “Italicum”, che impedirebbe ai cittadini di eleggere i loro candidati. Il Senato, ridotto a comparsa della democrazia. La fine dell’opposizione, con l’emarginazione dei parlamentari scomodi nelle commissioni (il caso Mineo) e una riforma costituzionale che «disarma le minoranze, istituzionalizzando la “ghigliottina” calata dalla presidente Laura Boldrini contro il M5S che tentava di impedire la conversione in legge del decreto-regalo alle banche». E mentre vengono falciati i poteri di controllo, il capo dello Stato abdica al suo storico ruolo di garanzia per ripiegare su una «funzione gregaria del governo», se per eleggerlo basteranno 33 senatori, dopo che il premier – con la legge-truffa per le elezioni – disporrà «del 55% dei deputati da lui nominati».Chi andrà al governo con l’Italicum, continua Travaglio, controllerà anche la Corte Costituzionale, il Csm, i procuratori della Repubblica: un’ingerenza mai vista prima del potere esecutivo, che – con le nuove regole – metterà al guinzaglio il potere giudiziario, proprio come sognava di fare Licio Gelli. Su tutto, resta ovviamente in piedi l’immunità parlamentare anche per i neo-senatori “nominati”, cioè sindaci e consiglieri regionali: «Basterà che un consiglio regionale li nomini senatori, e nel tragitto dalla loro città a Roma verranno coperti dallo scudo impunitario, che impedirà ai magistrati di arrestarli, intercettarli e perquisirli senza l’ok di Palazzo Madama». Tutto questo proviene dal giovane Renzi: interessato a “rottamare” la democrazia, si guarda bene dal toccare le due leggi-vergogna sull’informazione, la Gasparri sulla televisione e la Frattini sul conflitto d’interessi, mentre i grandi giornali italiani restano in mano a editori impuri come «imprenditori, finanzieri, banchieri, palazzinari (per non parlare di veri o finti partiti, con milioni di fondi pubblici), perlopiù titolari di aziende assistite e/o in crisi e dunque ricattabili dal governo, anche per la continua necessità di sostegni pubblici». Non è strano, quindi, che non raccontino ciò che sta davvero accadendo.Addio, cittadini italiani: «Espropriati del diritto di scegliersi i parlamentari, scippati della sovranità nazionale (delegata a misteriose e imperscrutabili autorità europee), i cittadini non ancora rassegnati a godersi lo spettacolo di una destra e di una sinistra sempre più simili e complici, che fingono di combattersi solo in campagna elettorale, possono rifugiarsi in movimenti anti-sistema ancora troppo acerbi per proporsi come alternativa di governo (come il M5S); o inabissarsi nel non-voto (che sfiora ormai il 50%)». In teoria, la Costituzione prevede alcuni strumenti di democrazia diretta, come i referendum abrogativi: «Che però, prevedibilmente, saranno sempre più spesso bocciati dalla Consulta normalizzata». Restano le leggi d’iniziativa popolare, peraltro quasi mai discusse dal Parlamento, ma i “padri ricostituenti” hanno pensato anche a queste, «quintuplicando la soglia delle firme necessarie, da 50 a 250 mila. Casomai qualcuno s’illudesse ancora di vivere in una democrazia».Nella peggiore delle ipotesi, l’allarme di Travaglio sarà costretto a impallidire se il Trattato Transatlantico che avanza a porte chiuse fosse davvero approvato, come vogliono Obama e Renzi, entro la fine del 2015: i giudici italiani non avrebbero più nessun potere contro le pretese delle multinazionali, pronte a chiedere maxi-risarcimenti a Stati e governi che oseranno opporre leggi a tutela del territorio, dei lavoratori, delle persone. E se a qualcuno il “nuovo ordine” non starà bene, l’Unione Europea – ora guidata dall’impresentabile oligarca Juncker – sta già addestrando in gran segreto l’Eurogendfor, polizia militare antisommossa e multinazionale, incaricata di reprimere le proteste: a caricare i cortei italiani potranno essere agenti francesi e olandesi, poliziotti spagnoli e portoghesi. Entro due o tre anni, secondo i critici più pessimisti, la Costituzione italiana sarà ricordata soltanto sui libri di storia.Le chiamano “riforme”, come fossero sinonimo di “migliorie”, secondo la vulgata mainstream accettata dai media come verità di fede. Ma sono soltanto le “indicazioni” – leggasi: diktat – che l’oligarchia euroatlantica da anni reitera all’Italia, a colpi di spread (Mario Monti) oppure confidando nell’appeal demiurgico di Renzi, che attraverso il ministro Padoan (Ocse) e con la collaborazione dell’immancabile “uomo di sinistra”, il ministro Poletti (Lega Coop), propone la stessa cura-Monti spacciandola per innovazione entusiasmante. Tutto molto semplice: smantellare i punti cardine della Costituzione antifascista, quella che Jamie Dimon (Jp Morgan) ritiene obsoleta, perché tutela l’interesse pubblico di cittadini e lavoratori contro la legge del business. Quella che – con l’applicazione del Ttip, il Trattato Transatlantico voluto dai padroni di Obama e imposto a Renzi – farà sparire in tutta Europa le ultime garanzie di tutela su ambiente, salute, lavoro e sicurezza alimentare, liquidando la qualità del made in Italy. Logica traduzione: sbaraccare lo Stato di diritto e il “rischio” che possa essere governato dai cittadini tramite politici onesti che abbiano a cuore l’Italia.
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Il business avverte Obama: basta sanzioni contro Putin
«Nessuno al mondo ha una vera ragione per amare gli Stati Uniti, meno che mai gli stessi americani dissanguati per le pretese di dominio di Washington sul mondo». Mentre 3 russi su 4 vorrebbero che Putin restasse al Cremlino anche dopo il 2018, il tasso di popolarità di Obama scivola al 41%. E l’economia americana traballa: la strombazzata crescita del primo trimestre 2014, di almeno il 2,6% secondo gli economisti mainstream, viene sbriciolata dalla dura realtà, che rivela uno scivolone pari al -2,9%. Non se ne stupisce Paul Craig Roberts, già viceministro del Tesoro di Reagan: «Qualsiasi economista libero e non a libro paga di Wall Street, del governo e dei poteri forti sapeva che il 2,6% era una buffonata». La verità è che «l’economia americana non può crescere perché le multinazionali spinte da Wall Street hanno portato l’economia reale fuori dai confini Usa: tutta la produzione americana è stata trasferita all’estero». E ora – questa la notizia – i poteri forti chiedono a Obama di cessare l’offensiva contro la Russia di Putin, prima che l’America ci rimetta l’osso del collo.«Le povere previsioni per l’economia americana – segnala Craig Roberts in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – hanno indotto due tra le più grandi lobby d’affari, la Camera di Commercio degli Stati Uniti e l’associazione nazionale dei produttori (o quello che rimane di essa) a prendere posizione contro l’amministrazione Obama per la paura di ulteriori sanzioni contro la Russia». E’ stata “Bloomberg News” ad annunciare la campagna promossa dai gruppi d’affari con pagine su “New York Times”, “Wall Street Journal” e “Washington Post” contro ulteriori sanzioni nei confronti del Cremlino. «Queste organizzazioni dicono che le sanzioni diminuiranno i loro profitti avendo come risultato la perdita di posti di lavoro americani». Si tratta delle due maggiori corporazioni commerciali Usa, «fonti importantissime di finanziamento delle campagne elettorali dei vari partiti politici», e ora «hanno finalmente aggiunto la loro voce a quella del mondo degli affari tedesco, francese e italiano».«Tutti, tranne l’opinione pubblica americana – dice Craig Roberts – sanno che la crisi in Ucraina è totalmente un “business” creato da Washington. Gli imprenditori europei e americani si stanno chiedendo “perché i nostri profitti e i nostri lavoratori debbano soffrire a causa della propaganda di Washington contro la Russia”». Secondo l’ex viceministro di Reagan, «Obama non sa cosa dire». Magari qualche risposta verrà dalla «feccia neocon» imbarcata alla Casa Bianca: Victoria Nuland, Samantha Powers, Susan Rice. «Obama può affidarsi al “New York Times”, al “Washington Post”, al “Wall Street Journal” e al “Weekly Standard” per spiegare perché milioni di americani ed europei debbano soffrire affinché il “ratto” dell’Ucraina vada a buon fine». In realtà, «le bugie di Washington si stanno ritorcendo contro Obama». Se la cancelliera Merkel «è completamente assoggettata ai voleri Usa», in compenso «l’industria tedesca sta dicendo all’amica americana che il valore dei propri affari in Russia è maggiore del valore sofferto a causa delle pretese imperialistiche del governo Usa».Idem il mondo imprenditoriale francese: «Sta chiedendo a Hollande cosa voglia fare con la mancanza di posti di lavoro e se lui stesso porta avanti gli interessi americani». Le sanzioni contro la Russia, inoltre, «costituiscono un colpo mortale al settore italiano più famoso e universalmente riconosciuto al mondo, quello del lusso e della moda». Così, in Europa «si sta spandendo a macchia d’olio il dissenso nei confronti di Washington». Secondo recenti sondaggi, 3 tedeschi su 4 «sono contrari alla permanenza delle basi Nato in Polonia e negli Stati baltici». L’ex Cecoslovacchia, attualmente divisa in Slovacchia e Repubblica Ceca, benché membro Nato si è opposta alla presenza americana sul suo territorio. «Recentemente, un ministrro tedesco ha detto che fare un piacere a Washington è come fare sesso orale senza ricevere nulla in cambio». Di fatto, «la pressione che i pazzi a Washington stanno mettendo sulla Nato potrebbe mandare in frantumi l’organizzazione: preghiamo perché sia così», dichiara Craig Roberts. «La scusa all’esistenza della Nato è scomparsa 23 anni anni fa con il collasso dell’Unione Sovietica. Washington ha fatto espandere la Nato molto oltre i limiti segnati dal Trattato del Nord-Atlantico».La Nato ora interviene su un territorio che va dal Baltico all’Asia Centrale: «Quindi, per giustificare la continua espansione delle operazioni, Washington ha dovuto fare della Russia un nemico». Il problema? «La Russia non vuole assolutamente essere un nemico della Nato o di Washington». A premere per lo scontro è il complesso apparato militare di sicurezza statunitense, che assorbe più di un trilione di dollari dalle tasche degli americani: la lobby della guerra «ha bisogno di una scusa per continuare a far lievitare i profitti». Avverte Craig Roberts: «Sfortunatamente, gli imbecilli di Washington hanno scelto un nemico pericoloso: la Russia è una potenza nucleare, un paese di vaste dimensioni che vanta un’alleanza strategica con la Cina. Solo un governo imbevuto di arroganza e hybris, o gestito da psicopatici e sociopatici, sceglierebbe un nemico del genere».Per fortuna, al Cremlino c’è Putin, forte del consenso del 76% dei russi «nonostante le forti opposizioni delle Ong russe finanziate da Washington». Putin ha più volte fatto notare all’Europa come le politiche americane in Medio Oriente e in Libia non siano state solo un completo fallimento, ma anche devastanti e pericolose per l’Europa e la Russia. «I pazzi a Washington hanno rimosso dei governi che tenevano a bada gli jihadisti, e ora questi violenti sono sguinzagliati e senza alcun tipo di controllo». In Medio Oriente, gli jihadisti «sono al lavoro per ridefinire i confini stabiliti dagli inglesi e dai francesi dopo la Prima Guerra Mondiale». Attenzione: «Europa, Russia e Cina hanno tutte una percentuale di popolazione musulmana e ora si preoccupano che la violenza che Washington ha scatenato in Medio Oriente possa destabilizzare anche loro stesse».Per di più, il dollaro americano è nei guai: il biglietto verde «è tenuto a galla attraverso la manipolazione del mercato finanziario e Washington sta mettendo sotto pressione i suoi Stati vassalli perché sostengano il valore del dollaro attraverso la stampa delle loro monete e il conseguente acquisto di dollari». Per tenere il dollaro in vita, aggiunge Craig Roberts, larga parte del mondo patirà le conseguenze dell’inflazione: «Quando la gente finalmente lo capirà e correrà a comprare oro, in quel momento ce lo avranno tutto i cinesi». A sentire Sergej Glazyeb, un consigliere del Cremlino, «solo un’alleanza contro il dollaro potrebbe fermare le ambizioni degli Stati Uniti». Anche per Craig Roberts «non ci può essere pace fino a che Washington continua a stampare moneta per finanziare nuove guerre: come ha detto il governo cinese, è tempo di “de-americanizzare il mondo”». Secondo Roberts, la leadership degli Stati Uniti ha completamente fallito, producendo null’altro che bugie, violenze e morte, devastando 7 paesi nel XXI secolo. «A meno che la leadership degli Stati Uniti non venga sostituita con una più a misura d’uomo, la vita sulla Terra non ha futuro».«Nessuno al mondo ha una vera ragione per amare gli Stati Uniti, meno che mai gli stessi americani dissanguati per le pretese di dominio di Washington sul mondo». Mentre 3 russi su 4 vorrebbero che Putin restasse al Cremlino anche dopo il 2018, il tasso di popolarità di Obama scivola al 41%. E l’economia americana traballa: la strombazzata crescita del primo trimestre 2014, di almeno il 2,6% secondo gli economisti mainstream, viene sbriciolata dalla dura realtà, che rivela uno scivolone pari al -2,9%. Non se ne stupisce Paul Craig Roberts, già viceministro del Tesoro di Reagan: «Qualsiasi economista libero e non a libro paga di Wall Street, del governo e dei poteri forti sapeva che il 2,6% era una buffonata». La verità è che «l’economia americana non può crescere perché le multinazionali spinte da Wall Street hanno portato l’economia reale fuori dai confini Usa: tutta la produzione americana è stata trasferita all’estero». E ora – questa la notizia – i poteri forti chiedono a Obama di cessare l’offensiva contro la Russia di Putin, prima che l’America ci rimetta l’osso del collo.
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Gladio, spie e oligarchi: chi è Juncker, il nuovo capo Ue
Leali e obbedienti, soprattutto perché ricattabili: è la regola d’oro in base alla quale il super-potere sceglie i suoi ineffabili candidati. Jean-Claude Juncker, l’anonimo politico democristiano per 18 anni alla guida del Lussemburgo, non è stato solo alla guida della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, prima di presiedere l’Eurogruppo dal 2005 al 2013. E’ stato anche l’uomo che, per anni, ha messo illegalmente sotto sorveglianza i tre quinti dei suoi concittadini, spiati segretamente dallo Srel, l’intelligence lussemburghese. Per questo, accusato nel 2013 da una commissione d’inchiesta, è stato costretto alle dimissioni. Ombre lunghe, dunque, sulla nomina di Juncker al vertice della Commissione Europea: Angela Merkel, che l’ha imposto alla Gran Bretagna con la collaborazione di Renzi e Hollande, sa di poter sempre contare sulla fedeltà di un uomo molto chiacchierato, storica pedina dei poteri forti e accusato, nel suo paese, di aver fatto schedare migliaia di persone a loro insaputa, dopo aver coperto la strategia della tensione di marca Gladio, cioè Usa.Juncker, «inamovibile primo ministro lussemburghese per 18 anni», ha presentato le sue dimissioni al Granduca dopo sette ore di dibattito alla Camera, scriveva “Rete Voltaire” il 19 luglio 2013. Il Parlamento lussemburghese ha esaminato il ruolo del primo ministro nella gestione dell’intelligence, in seguito alla pubblicazione della relazione della commissione d’inchiesta sullo Srel. In sostanza, per anni «i parlamentari hanno fatto finta di credere che Gladio fosse stata effettivamente sciolta nel 1990 e le successive azioni di Srel fossero spiegabili come derivanti dal mancato controllo del primo ministro, che nel frattempo – non potendo riconoscere la perpetuazione del sistema segreto dell’Alleanza atlantica – è stato costretto a cercare di minimizzare la questione delle sue responsabilità in seno all’Eurogruppo». Una versione «smentita dal fatto che Juncker aveva infiltrato il suo autista nello Srel, affinché l’informasse sul suo lavoro». In realtà, secondo l’accusa, Juncker avrebbe «illegalmente proceduto nella schedatura di tre quinti della popolazione del Granducato e in diverse operazioni di spionaggio e di ricatto».La Gladio in Lussemburgo era stata sciolta ufficialmente nel 1990, come in altri paesi europei. «Tuttavia – aggiunge “Rete Voltaire” – i funzionari dei servizi segreti avrebbero poi continuato a spiare illegalmente singoli individui per motivi privati senza che il premier intervenisse. Così, il direttore operativo ha creato una società d’intelligence economica, Sandstone, utilizzando risorse statali». Citando il giornale lussemburghese “Wort”, Corrado Belli su “Informare per resistere” ricorda che proprio l’intelligence del Granducato fu pesantemente coinvolta in operazioni di destabilizzazione e strategia della tensione, con attentati “false flag” progettati con la collaborazione dei servizi segreti tedeschi: «Negli anni tra il 1984 e il 1986, il Lussemburgo fu preso di mira con diversi attentati dinamitardi che colpivano per lo più l’industria dell’energia CeCedel, caserme e commissariati di polizia, tribunali, fabbriche di bombole di gas, la piscina olimpica, la redazione del giornale “Luxemburger Wort” e l’aeroporto Findel».Sempre citando la stampa lussemburghese, Belli rivela che l’establishment politico tentò di fermare la magistratura che stava cercando di far luce su quegli strani episodi di terrorismo. Per zittire il giudice Robert Biever, che era giunto ad accusare direttamente il ministro della giustizia Luc Frieden di sabotare le indagini, fu scatenata una campagna di disinformazione e discredito, arrivando a incolpare il magistrato di turismo pedofilo in Thailandia. Gli oscuri attentati degli anni ‘80 contro l’innocuo Lussemburgo, dice Belli, in realtà «servivano a creare una tensione allarmante nella popolazione, al fine di far accettare leggi restrittive e un controllo totale su ogni singola persona», come afferma lo storico svizzero Daniel Ganser, che denuncia i contatti “coperti” tra l’intelligence lussemburghese e il Bnd, il servizio segreto della Germania. La storia processuale della Gladio del Lussemburgo ricorda quella delle tante stragi italiane: processi rinviati, amnesie, testimoni scomparsi, sparizione delle prove.Nel compassato Lussemburgo, «l’affare Gladio diventava una guerra interna tra il governo, la magistratura e le diverse famiglie di alto rango implicate». Chiamato a deporre insieme al ministro Frieden, lo stesso Juncker «come al solito disse di non sapere nulla e che non era suo dovere sapere cosa facessero i servizi segreti». A smentirlo provvide Marco Mille, direttore dell’intelligence, che attirò Juncker in una trappola: doveva essere un colloquio privato, ma fu registrato con una microspia nascosta nell’orologio del generale – cosa che scatenò le proteste di Juncker, indispettito per la registrazione “illegale” e la diffusione di informazioni “protette da segreto di Stato”. Non fece mistero delle ombre lunghe di Glaido, invece, un altro politico lussemburghese, Jacques Santer, precedessore di Juncker sia come premier che come presidente della Commissione Ue. Juncker però è noto per lo stile tutto suo. Sempre Belli racconta che alla rivista “Focus” dichiarò: «Nulla deve essere portato in pubblico, noi del gruppo Europa Unita discutiamo tutto in segreto, e quando la cosa diventa seria dobbiamo dire esclusivamente le bugie».Lo “stile” Juncker, secondo i molti detrattori, si richiama direttamente a quello dei “padri” dell’Unione Europea: prendiamo una decisione e aspettiamo di vedere cosa succede, ha detto di recente allo “Spiegel”; se nessuno protesta – magari perché la gente non capisce bene cosa significa quello che abbiamo deciso – allora procediamo, spingendoci al punto da non poter più tornare indietro. Questo è il personaggio a cui oggi è affidata la guida della Commissione Europea, all’indomani di elezioni in cui tutti i partiti in lizza avevano invocato meno rigore, più democrazia e più trasparenza. Inoltre, le sue provvidenziali “amnesie” sul ruolo ambiguo dei servizi segreti Nato rappresentano un’ottima credenziale sul piano geopolitico, proprio ora che gli Usa premono su Bruxelles per coinvolgerla nelle ostilità contro la Russia. L’Europa senza una politica estera? Niente paura, ora c’è l’uomo giusto al posto giusto: grazie ad Angela Merkel, François Hollande e Matteo Renzi.Leali e obbedienti, soprattutto perché ricattabili: è la regola d’oro in base alla quale il super-potere sceglie i suoi ineffabili candidati. Jean-Claude Juncker, l’anonimo politico democristiano per 18 anni alla guida del Lussemburgo, non è stato solo al vertice della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, prima di presiedere l’Eurogruppo dal 2005 al 2013. E’ stato anche l’uomo che, per anni, ha messo illegalmente sotto sorveglianza i tre quinti dei suoi concittadini, spiati segretamente dallo Srel, l’intelligence lussemburghese. Per questo, accusato nel 2013 da una commissione d’inchiesta, è stato costretto alle dimissioni. Ombre lunghe, dunque, sulla nomina di Juncker al vertice della Commissione Europea: Angela Merkel, che l’ha imposto alla Gran Bretagna con la collaborazione di Renzi e Hollande, sa di poter sempre contare sulla fedeltà di un uomo molto chiacchierato, storica pedina dei poteri forti e accusato, nel suo paese, di aver fatto schedare migliaia di persone a loro insaputa, dopo aver coperto la strategia della tensione di marca Gladio.
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Renzi, atroce imbroglio: la faccia allegra della catastrofe
Quanti disoccupati produrrà la sciagurata privatizzazione della Fincantieri, che sinora proprio perché pubblica ha permesso all’Italia di essere competitiva nella costruzione delle grandi navi, assieme alla Germania? Vogliamo parlare della privatizzazione di Ilva, Telecom, Italtel e Alitalia, dei disastri che hanno prodotto in tutte le direzioni senza un centesimo di guadagno, anzi con gigantesche perdite, per lo Stato? Vogliamo parlare dello scandalo della Fiat delocalizzata e che fugge il fisco, con il governo muto e complice? Quanti nuovi disoccupati e precari produrrà la cosiddetta riforma della pubblica amministrazione che, dietro la misura demagogica del taglio dei permessi sindacali (che alla fine sarà un boomerang per i suoi autori perché rafforzerà chi lotta sul serio), dietro la propaganda attua il taglio lineare del personale e la deresponsabilizzazione pubblica nella catena degli appalti? E soprattutto quanti disoccupati produrrà la continuazione delle politiche di austerità che già ora hanno creato 7 milioni di senza lavoro?E non si venga a dire che gli 80 euro sono una rottura di questa politica. Chi fa credere questo è in totale malafede. Quell’assegno è stato concordato tra Renzi e Merkel per indorare la pillola del rigore alla vigilia delle elezioni, e verrà restituito con gli interessi, con le tasse i ticket e i tagli ulteriori alla spesa sociale. Però bisogna ammettere che l’operazione gattopardesca per il momento è riuscita. Durante i governi Monti e Letta si parlava sempre più di vincoli europei e di austerità. Ora non se ne parla più, le questioni economiche e sociali vengono dopo il calcio. Si parla di legge elettorale e di abolizione del Senato elettivo, di riforme di tutti i tipi, ma di austerità non si parla più, la si attua e basta. Gli scandali delle grandi opere non provocano più nessuna pubblica discussione sulla loro necessità, ma solo uno stanco ritorno delle campagne di moralizzazione ipocrita e inconcludente, con Renzi naturalmente alla loro testa. Anche Grillo pare esserci cascato in pieno… la crisi economica si risolve con le riforme… Ma va, son venti anni che i liberisti fanno questa propaganda e attuano questa politica e la crisi si aggrava sempre di più.Comunque con ben maggiore efficacia rispetto al suo ammiratore invidioso e frustrato, Berlusconi, Renzi può compiere un’opera di distrazione di massa. Naturalmente non c’è la fa da solo, con lui stanno tutti i poteri forti nazionali e internazionali e un sistema informativo vergognoso, che è saltato sul suo carro come quei giornalisti “embedded” che stavano in Iraq sui carri armati di Bush e raccontavano quelle menzogne che han fatto danno sino ad oggi. Qualcuno parla ancora di Fiscal Compact? Nel nuovo Pd di Renzi che vuol battere i pugni in Europa, qualcuno propone forse di abolire quella mostruosità unica che è il pareggio di bilancio costituzionale? Cameron, quando quella riforma fu approvata, disse che Keynes, cioè lo stato sociale, erano stati messi fuori legge. Nelle elezioni locali qualche candidato del Pd si è forse impegnato a mettere in discussione il patto di stabilità? No di certo, perché Renzi spinge a fare i primi della classe in Europa. Forse anche per questo il vertice europeo torinese è stato rinviato: vuoi mai che per colpa delle parole di qualche sconsiderato burocrate i temi dell’austerità potessero tornare di pubblico confronto?Bisogna depistare e nascondere, noi siamo la seconda cavia di Europa dopo la Grecia. Si mette in atto la stessa politica, ma con un metodo diverso, quello di Renzi. Che si paragona a Obama ma in realtà è un epigono di Blair, che ha distrutto in Gran Bretagna tutto ciò che aveva resistito alla signora Thatcher. Compreso il suo partito. Attenti, sostenitori esultanti e anestetizzati del Pd: alla fine sarà proprio il vostro partito a pagare la politica del suo leader. Intanto però si festeggia e le fragili e tremebonde opposizioni ufficiali di destra e sinistra si inchinano al regime. Berlusconi e la Lega son sempre più parte del gioco. La Cgil ha adottato come massima forma di protesta il borbottio, anche se riceve uno schiaffone al giorno. Grillo dialoga sulle riforme e la lista Tsipras ha già le prime scissioni verso il Pd. Il presidente del consiglio sta sbancando.Eppure, nonostante i clamorosi successi attuali, il progetto di Renzi è destinato a fallire per due ragioni di fondo. La prima è che la crisi economica si trasforma in stagnazione e continuerà così, senza nessuna luce in fondo al tunnel. D’altra parte la politica di Renzi non serve ad uscire dalla crisi, ma solo ad abituarci a convivere con essa. Dobbiamo accettare la disoccupazione di massa e la distruzione dello stato sociale, e imparare a sopravvivere arrangiandoci. Ci dobbiamo rassegnare alla ingiustizia e alla diseguaglianza, questo insegnano il Jobs Act o il feroce articolo 5 del decreto Lupi, che colpisce con crudeltà da Ottocento vittoriano i senza casa. Il punto non è la soluzione della crisi, impossibile con l’austerità, ma la passività sociale. È su questa che contano Renzi e la signora Merkel per andare avanti. Ed è su questo che falliranno.Certo ora sfiducia e rassegnazione sono massimi, mai in Italia si è fatto così tanto danno alle persone con così poche reazioni. Ma questa situazione finirà, il conflitto ripartirà e Renzi rischierà allora di apparire per come lo dipinge il suo unico oppositore televisivo, il comico Maurizio Crozza. La seconda ragione è che l’Europa della signora Merkel che ha benedetto Renzi ha rivelato tutta la sua subalternità e fragilità mondiale. Il governo ucraino con i suoi ministri nazifascisti ha rotto il disegno della Germania di portare l’Europa da essa dominata alla intesa cordiale con Putin e ad una maggiore autonomia dagli Stati Uniti. La nuova guerra, anzi la guerra mai finita in Iraq, rafforza la stessa spinta di fondo. Gli Usa hanno ripreso il controllo del blocco occidentale con la vecchia Nato e ancor di più lo faranno con il Ttip, il patto liberista tra le due sponde dell’Atlantico che vuole trasformare la Ue in appendice di Usa e Canada, mentre di fronte si delinea la nuova alleanza globale di Russia e Cina.Forse non ce ne siamo accorti nel teatrino della nostra politica, ma la globalizzazione è morta, si torna ai grandi schieramenti di potenze e un’Europa indebolita da anni di austerità viene assorbita nel vecchio impero americano. Povero Renzi, che c’entra la sua politica con tutto questo? Nulla, e ancora una volta il conto di un potere politico gattopardesco, che sta indietro rispetto alla realtà del mondo, lo pagheremo tutti noi. Bisogna augurarsi allora che il regime di Renzi non ci metta i venti anni di quello berlusconiano per farci scoprire tutti i suoi danni. Bisogna augurarselo e bisogna agire perché questo regime fallisca il prima possibile. Solo con la sconfitta di Renzi e del renzismo si ridà un futuro a questo paese.(Giorgio Cremaschi, estratto dall’intervento “Facciamo fallire il regime renziano”, da “Micromega” del 20 giugno 2014).Quanti disoccupati produrrà la sciagurata privatizzazione della Fincantieri, che sinora proprio perché pubblica ha permesso all’Italia di essere competitiva nella costruzione delle grandi navi, assieme alla Germania? Vogliamo parlare della privatizzazione di Ilva, Telecom, Italtel e Alitalia, dei disastri che hanno prodotto in tutte le direzioni senza un centesimo di guadagno, anzi con gigantesche perdite, per lo Stato? Vogliamo parlare dello scandalo della Fiat delocalizzata e che fugge il fisco, con il governo muto e complice? Quanti nuovi disoccupati e precari produrrà la cosiddetta riforma della pubblica amministrazione che, dietro la misura demagogica del taglio dei permessi sindacali (che alla fine sarà un boomerang per i suoi autori perché rafforzerà chi lotta sul serio), dietro la propaganda attua il taglio lineare del personale e la deresponsabilizzazione pubblica nella catena degli appalti? E soprattutto quanti disoccupati produrrà la continuazione delle politiche di austerità che già ora hanno creato 7 milioni di senza lavoro?
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Magia di Renzi: stop alle bonifiche dei siti militari
un favore ai vertici militari, si alzano i limiti per l’inquinamento dei suoli di 100 volte», scrivono il Coordinamento Nazionale Siti Contaminati, il Forum Italiano Movimenti per l’Acqua, “Stop Biocidio Lazio” e “Stop Biocidio Abruzzo”: «Il governo Renzi moltiplica le aree industriali del paese, ma l’obiettivo non è creare occupazione ma mettere sotto il tappeto la contaminazione dei suoli delle aree militari alzando anche di 100 volte i limiti di legge». In altre parole è un colpo di spugna sullo stato di contaminazione delle aree militari del paese. Il decreto, pubblicato ieri nella Gazzetta ufficiale, prevede che nelle aree militari si deve far riferimento ai limiti della colonna B della tabella relativa alle soglie di contaminazione dei suoli del decreto legislativo 152/2006, quella relativa alle aree industriali, e non già alla colonna A, quella con i limiti per le aree residenziali e a verde.I comitati forniscono alcuni esempi: nelle aree a verde la soglia per il cobalto è 20 mg/kg mentre per le aree industriali è 250 mg/kg, più di 10 volte. Per la sommatoria dei composti policiclici aromatici (tra cui diversi tossici e/o cancerogeni) addirittura il limite per le aree industriali è più alto di 100 volte (1 mg/kg contro 100 mg/kg). Il benzene, cancerogeno di prima classe per lo Iarc, ha un limite più alto di venti volte (0,1 mg/kg contro 2 mg/kg). Per il tetracloroetilene, un altro sospetto cancerogeno e tossico per il fegato, il limite è 40 volte più alto. Il tutto in aree che spesso appaiono come ampie zone verdi coperte da macchia mediterranea e boschi! Si pensi a Capo Teulada e Quirra (Perdasdefogu) in Sardegna, oppure a Monte Romano in Lazio (vasto 5000 ettari!). Con buona pace di comuni e regioni che da tempo aspettavano di riprendersi quelle aree per usi civili. Non risultano, al momento, levate di scudi da parte di settori ecologisti fiancheggiatori del governo, i sedicenti eco-dem, né chiamate alla mobilitazioni da parte di prestigiosi colossi dell’ambientalismo.(Checchino Antonini, “Magia di Renzi: stop alle bonifiche dei siti militari”, da “Popoff” del 26 giugno 2014).Quando si candidò alla presidenza della Regione Emilia-Romagna, Gian Luca Galletti sussurrò ai microfoni di “Radio Città del Capo” l’idea balzana di poter ospitare una bella centrale nucleare. L’uomo sbagliato nel posto sbagliato, visto che questo esponente dell’Udc, il partito che più spesso è sembrato un club di indagati, è stato voluto da Renzi al ministero dell’ambiente. Da lì ha emanato ieri un decreto, il 91/2014, dal titolo grottesco di “Ambiente protetto”. Bene, come pensa di proteggere l’ambiente questo ministro? Semplice: decine di migliaia di ettari, circa 30mila, distribuiti in tutto il paese [in grande prevalenza in Sardegna] vengono equiparati ad aree industriali per i quali la legge prescrive soglie di contaminazione molto più alte. Si tratta di terreni occupati da poligoni militari, campi di addestramento, caserme, e in cui sono state svolte per decenni attività che possono aver liberato sostanze pericolose (si pensi ai continui brillamenti di cariche nei poligoni).
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Sull’Italia un patto tra iene e sciacalli, diretto dall’estero
Dopo tutte le campagne giudiziarie, dopo l’euro, dopo Maastricht, l’Ue, il rigore, il sistema paese Italia rimane ad alta corruzione, bassa legalità, bassa efficienza del settore pubblico, alto clientelismo, tendenza declinante in molti settori, forte emigrazione degli elementi migliori, umani e aziendali. Irrazionale pertanto fare progetti di integrazione europea sul presupposto che il sistema Italia cambi, che si corregga. Ciò non sta avvenendo affatto, e sono decenni che doveva avvenire e non avviene. Anzi, oramai, tra il continuo scoppio di scandali sistemici dell’apparato pubblico e degli stessi organi di controllo, perfino i partiti che lottano contro il sistema e che vogliono mandare tutti a casa e che gridavano “arrendetevi, siete circondati!”, perfino questi finiscono per venire a termini con l’espressione partitica di questo sistema e per riconoscergli una più o meno esistente legittimazione “democratica”.Quindi, prima si accetta che un corpo sociale non cambia la sua mentalità e le sue abitudini consolidate per l’effetto di un decreto o per l’azione esterna di una nuova moneta, prima si accetta il principio che bisogna organizzarlo per ciò che esso è e non per ciò che qualcuno vorrebbe che fosse, prima si accetta che il partito che va al potere ci arriva (anche) grazie alle ruberie del suo apparato di gestione, e che pertanto il paese sarà ancora a lungo amministrato da questo tipo di gente – prima si prende atto di tutto questo, cioè della realtà, e meglio è per tutti. O per quasi tutti. Razionale è quindi chiedersi: date le caratteristiche di questa società reale, in attesa che prima o poi se possibile migliorino, come la si deve organizzare per farla vivere al meglio?Per vivere decentemente, un paese che ha le caratteristiche dell’Italia deve innanzitutto tornare a una spesa pubblica larga, elastica e sostenibile,che crei, come creava in passato, coesione sociale contenendo al contempo il conflitto di interesse Nord-Sud; che dia la precedenza al lavoro (dipendente e autonomo) rispetto alle rendite finanziarie, quindi stimoli gli investimenti privati con piani di investimenti pubblici di lungo termine, sostenga il reddito e la domanda, e assorba la disoccupazione involontaria; che renda possibile un fisiologico aggiustamento del cambio (svalutazione competitiva per mantenere le quote di mercato estero); che alimenti un’inflazione idonea a rendere sopportabile l’indebitamento, agganciando ad essa i salari; che si finanzi senza rischio di default e a bassi tassi di interesse, come prima del 1981 (ossia bisogna ritornare a una banca centrale propria, una moneta propria, un controllo del Tesoro di Stato su entrambe, un vincolo per la banca centrale di comperare i titoli del debito pubblico invenduti, un vincolo di portafoglio per le banche a detenere quote di debito pubblico).Quella sopra delineata non è una stampella per un paese malato, ma una razionale e funzionale organizzazione per la generalità dei paesi, ossia anche per quelli poco corrotti e molto efficienti. Soltanto che questi ultimi possono vivere abbastanza bene anche senza di essa e con la cosiddetta austerità, mentre un paese come l’Italia, con l’impostazione monetaria e finanziaria attuale, semplicemente consuma le sue risorse interne e poi muore. Se non si attuano queste condizioni, la grande intesa tra tutti i partiti intorno al leader oggi o domani trionfante si tradurrà in un’alleanza consociativa per salire tutti sul carro del vincitore e spremere ulteriormente i cittadini e la repubblica, senza più limiti né pudori, dato che non c’è più opposizione, cioè concorrenza e contrasto: un patto fra jene e sciacalli, sotto la direzione dell’avvoltoio d’oltralpe.(Marco Della Luna, “L’Italia: come farla funzionare”, dal blog di Della Luna del 16 giugno 2014).Dopo tutte le campagne giudiziarie, dopo l’euro, dopo Maastricht, l’Ue, il rigore, il sistema paese Italia rimane ad alta corruzione, bassa legalità, bassa efficienza del settore pubblico, alto clientelismo, tendenza declinante in molti settori, forte emigrazione degli elementi migliori, umani e aziendali. Irrazionale pertanto fare progetti di integrazione europea sul presupposto che il sistema Italia cambi, che si corregga. Ciò non sta avvenendo affatto, e sono decenni che doveva avvenire e non avviene. Anzi, oramai, tra il continuo scoppio di scandali sistemici dell’apparato pubblico e degli stessi organi di controllo, perfino i partiti che lottano contro il sistema e che vogliono mandare tutti a casa e che gridavano “arrendetevi, siete circondati!”, perfino questi finiscono per venire a termini con l’espressione partitica di questo sistema e per riconoscergli una più o meno esistente legittimazione “democratica”.
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De Benedetti scarica Renzi, l’eroe di ieri è già un bidone
Scalfari non è tipo che scriva a caso e, quando usa le parole, le sceglie una per una e le combina affilandole al meglio. Domenica, la sua abituale articolessa di un ettaro si intitolava: “Quanto è bravo il premier, ma chi ripara gli errori che sta facendo?”. Che è un bel “buongiorno!”. Il pezzo si apre con una interminabile disquisizione sulla modernità che parte da Montaigne ed arriva a Nietzsche, per poi planare su Walter Veltroni. Come dire, dall’Imperatore Tiberio e Leonardo da Vinci al pizzicagnolo sotto casa. Ma fin qui, nulla di importante. Il meglio viene dopo, quando Scalfari, intinto il pennino nel cianuro, viene «al nostro vissuto di questi ultimi giorni». Anche qui una lunga introduzione sulle sorti del sogno europeo, per poi iniziare a parlare dell’occasione che hanno gli italiani di avere un leader «di notevole capacità, che è riuscito nel giro di pochi mesi a trasformare in forza le sue qualità e i suoi difetti». Quel che sembra mettere il vento in poppa all’Italia, cosa che però è vera solo in parte.«La sola vera conseguenza è il suo rafforzamento personale a discapito della democrazia, la cui fragilità sta sfiorando il culmine, senza che il cosiddetto popolo sovrano ne abbia alcuna percezione». Come dire che gli concede una caramella per poi rifilargli una frustata sulle costole. Poi parla delle «esibizioni» di Renzi a Ypres e di Bruxelles, di «dazione» degli 80 euro che non ha funzionato, perché i consumi sono fermi (parola scelta con rara perfidia: “dazione” è il termine che Di Pietro usò nel suo celebre saggio per parlare della corruzione, e qui sembra che Scalfari voglia dire che si è trattato di una mancia elettorale, un modo per comprarsi i voti). Infine viene al dunque: Renzi vuole fare i comodi suoi per mandare la Mogherini a fare l’alto rappresentante della politica estera europea, carica che non conta assolutamente nulla, perché vuole fare i fatti suoi all’interno del partito, e in nome di questo fa un danno incalcolabile bocciando Letta ad un incarico ben altrimenti importante.Poi, gli dice che non capisce nulla di Europa, che non è vero che ha ottenuto lo spostamento del pareggio di bilancio al 2016, perché di fatto deve farlo al 2015 e che deve prepararsi ad una finanziaria di fuoco e che della riforma elettorale e di quella del Senato, all’Europa ed agli italiani non frega assolutamente nulla. Pesante direi, vi pare? Due giorni prima è uscito l’“Espresso” con la copertina che dice: “5 miliardi di tasse in più. Renzi aveva promesso di abbassare la pressione fiscale, ma ora le famiglie dovranno fare i conti con imposte sulla casa molto più alte che in passato. Vanificando così il bonus di 80 euro”. Direi che non c’è bisogno di commenti. Nel numero non c’è un pezzo che riprenda la cover, ma ce n’è un altro acidissimo dedicato alle “quote rosa” del piano di Renzi: Mogherini in Europa, Pinotti al Colle, ecc, ma solo per fare un po’ di raccolta consensi e liberare qualche poltrona, per i giochi interni. Infine sia “La Repubblica” che l’“Huffinghton Post” presentano le imprese europee di Renzi come un mezzo fiasco.Insomma, tutte le cannoniere della flotta De Benedetti sparano ad alzo zero sul vascello renziano. Come mai? Che si siano improvvisamente accorti che Renzi non è l’astuto stratega di cui parlavano solo un mese fa, ma solo un autentico bidone, che vuol mandare la Mogherini in Europa? Per una volta ci sembra che la scelta di Renzi sia felice, perché la carica di Alto rappresentante ecc ecc non conta assolutamente nulla, la Mogherini è come se non esistesse: sono fatti l’una per l’altra. E allora perché tanto e così repentino astio? Una prima ragione è quella che dice esplicitamente Scalfari: Letta. Probabilmente il giullare di Firenze sottovaluta troppo il suo predecessore, che ha amici molto potenti che già hanno mal digerito il suo siluramento a Palazzo Chigi. Poi il modo della sua esternazione («Letta? Nessuno ha fatto il suo nome») deve essere sembrato a lorsignori un insopportabile effetto di rincaro. «Fassina chi?» lo può dire, appunto, a Fassina, ma quando tocca un membro della nobile schiatta dei Letta, vicepresidente dell’Aspen Italia, certe cose non se le deve permettere. E questo stile un po’ tanghero comincia a dare sui nervi a molti.In secondo luogo, si sa che il tamarro di Firenze vuole spedire la Mogherini in Europa per fare un rimpasto di governo che azzeri la presenza di montiani e alfaniani, in modo da liberare sedie per operazioni interne di partito. Solo che, in questo gioco, non tiene presente che montiani e alfaniani sono un pezzo importante del “partito del Colle” e Napolitano ha fatto capire che la cosa non gli va. Il Presidente sa si essere avviato sulla via dell’uscita, ma vuole pilotare la successione, magari a favore di un suo candidato o, quantomeno, per bloccare la strada a quelli più sgraditi. Gli oltre 150 voti di montiani, casiniani e alfaniani sono un pacchetto troppo importante, che va ad aggiungersi agli alleati lettiani, ai senatori a vita e ai pochi fedelissimi nel Pd. Un blocco che sfiora i 200 voti, che può fare la differenza in un Parlamento-spezzatino come quello attuale. Ma nel frattempo occorre tutelare questi amici; per cui niente rimpasto, che Renzi se lo metta bene in testa.Poi la riforma del Senato sta andando in modo diverso da quello auspicato da Scalfari, che vorrebbe un bel Senato «dei talenti e delle competenze» di nomina regia: docenti universitari, finanzieri, alti burocrati, “tecnici” e specialisti vari. Insomma, una cosa di mezzo fra una specie di “governo Monti” allargato e una commissione di saggi come quelle che il Presidente ama nominare. Qui, invece, si minaccia un Senato di sindaci e consiglieri comunali: gente poco fine. Quindi, questa riforma del Senato non interessa agli italiani. Sarebbe diverso se si trattasse del Senato dei talenti e delle competenze, cui gli italiani si appassionerebbero. Poi Renzi ha aperto agli insopportabili cinquestelle. Beninteso: magari non lo fa per simpatia verso di loro o per scrupolo democratico, ma per una sorta di aggiornamento della politica dei due forni di andreottiana memoria, ma non va affatto bene neanche così, perché l’uomo si sta troppo allargando, cercando di giocare a tutto campo (quell’accenno scalfariano al “suo rafforzamento personale a discapito della democrazia” parla molto chiaro).Insomma, il ragazzo poteva anche andare sino ad un certo punto, anche perché si è rivelato efficace nello sbarrare la strada ai barbari antisistema del M5S, ma ora deve stare al suo posto e occuparsi di flessibilità, che è la vera riforma che “l’Europa ci chiede”. E deve fare bene i compiti a casa. Magari ne ha trascurato qualcuno cui era particolarmente interessato l’ingegner De Benedetti. E non sta bene, torni più preparato la prossima volta. Insomma, mi pare che la luna di miele con i poteri forti stia finendo. Accade a volte che dalla primavera si passi all’autunno di colpo, saltando l’estate. Neanche le stagioni sono più quelle di una volta, signora mia…(Aldo Giannuli, “Ma come mai Renzi è cascato antipatico a De Benedetti & C?”, dal blog di Giannuli del 30 giugno 2014).Scalfari non è tipo che scriva a caso e, quando usa le parole, le sceglie una per una e le combina affilandole al meglio. Domenica, la sua abituale articolessa di un ettaro si intitolava: “Quanto è bravo il premier, ma chi ripara gli errori che sta facendo?”. Che è un bel “buongiorno!”. Il pezzo si apre con una interminabile disquisizione sulla modernità che parte da Montaigne ed arriva a Nietzsche, per poi planare su Walter Veltroni. Come dire, dall’Imperatore Tiberio e Leonardo da Vinci al pizzicagnolo sotto casa. Ma fin qui, nulla di importante. Il meglio viene dopo, quando Scalfari, intinto il pennino nel cianuro, viene «al nostro vissuto di questi ultimi giorni». Anche qui una lunga introduzione sulle sorti del sogno europeo, per poi iniziare a parlare dell’occasione che hanno gli italiani di avere un leader «di notevole capacità, che è riuscito nel giro di pochi mesi a trasformare in forza le sue qualità e i suoi difetti». Quel che sembra mettere il vento in poppa all’Italia, cosa che però è vera solo in parte.
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Travaglio: Gelli un dilettante, nella monarchia di Giorgio I
«Chiediamo umilmente scusa a Gelli e ai suoi fratelli per aver demonizzato il loro progetto di Repubblica presidenziale: i piduisti, compreso il povero B. che ci sta ancora provando, erano soltanto dei precursori, tra l’altro piuttosto timidi e minimalisti, della nostra bella Monarchia presidenziale». Così Marco Travaglio commenta l’ultima doppia iniziativa di Napolitano, che il 18 giugno «ha riunito il Consiglio Supremo di Difesa per esautorare ancora una volta il Parlamento, ridurlo a scendiletto del governo Usa e ordinare di non ridurre di un centesimo gli stanziamenti miliardari per acquistare gli inutili anzi dannosi F-35». Non solo, l’uomo del Colle «ha inviato una lettera segreta al fido vicepresidente del Csm Michele Vietti» per bloccare l’azione disciplinare invocata da ben due commissioni parlamentari contro il procuratore di Milano, Bruti Liberati. «Gli F-35 si comprano perché lo dice lui, Bruti si salva perché lo dice lui». Protesta Travaglio: «In una democrazia parlamentare degna di questo nome, fondata sulla divisione dei poteri, i presidenti delle Camere reagirebbero all’istante contro l’ennesima invasione di campo».Allo stesso modo, continua Travagalio, il Csm «accoglierebbe la lettera del presidente come l’interessante parere del primus inter pares, il cui voto vale 1 esattamente come quello degli altri consiglieri». Invece, «tutti si comportano come in una monarchia assoluta, dove il sovrano può tutto». Anche con Renzi, che all’inizio «vantava una certa autonomia» dal Quirinale, ora secondo “Repubblica” «è scoccata una scintilla, una strana alchimia, una singolare emulsione di sintonie e affinità». Aggiunge Travaglio: il bello è che la lettera di Napolitano al Csm «è più misteriosa del terzo segreto di Fatima: la conoscono Lui, Vietti e due giornali amici ammessi agli arcana imperii (“Corriere” e “Repubblica”, che ne anticipano il contenuto ma non il testo)». Bei tempi, prosegue Travaglio, quando i presidenti «parlavano con messaggi alle Camere, comunicati ufficiali, esternazioni pubbliche». Ora invece «piovono pizzini scritti in codice iniziatico e riservati a pochi adepti in grado di decrittarli, al di fuori di ogni controllo democratico, tanto anche gli esclusi dal cerchio magico eseguono senza fiatare».Altri tempi, quando – il 14 novembre ’91 – il presidente Cossiga proibì al vicepresidente del Csm Galloni di mettere all’ordine del giorno del plenum alcune pratiche a lui sgradite e mandò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli a far sgombrare l’aula in caso di disobbedienza ai suoi ordini: «Violante avviò le pratiche per l’impeachment, accusandolo di alto tradimento e attentato alla Costituzione, Napolitano ne chiese le dimissioni e l’Anm scese in sciopero contro la grave violazione costituzionale». Oggi invece il mainstream politico e giornalistico tace e acconsente, senza dimenticarsi di bastonare Grillo e il M5S, «trattati come appestati da sempre», ma ancor più da quando hanno annunciato l’accordo tecnico, al Parlamento Europeo, coi nazionalisti inglesi dell’Ukip e con altri esponenti di destra svedesi, francesi e lituani. «Intanto il segretario e premier del Pd Matteo Renzi annuncia tra carnevali di Rio e gridolini di giubilo l’accordo politico-istituzionale, al Parlamento italiano, per la riforma del Senato (e dunque della Costituzione) con Forza Italia, guidata da un frodatore fiscale».Riforma «ideata da un pregiudicato per mafia», Dell’Utri, «recluso nello stesso carcere di Riina». Le manovre per il nuovo Senato sono appoggiate dalla Lega Nord, di cui i media evitano accuratamente di ricordare che è alleata in Europa col Front National di Marine Le Pen, che lo stesso mainstream definisce populista, xenofobo, razzista e fascista. Pesi e misure: «L’anno scorso Adam Kabobo uccise a picconate tre passanti a Milano: il segretario della Lega Nord Matteo Salvini gli augurò di “marcire in prigione”. Martedì Davide Frigatti ha ucciso un passante a coltellate e ne ha feriti altri due a Cinisello Balsamo: Salvini ha educatamente chiesto se non sia “il caso di riaprire delle strutture dove accogliere e curare i malati di mente”. Il fatto che Kabobo sia ghanese e Frigatti padano è puramente casuale», ironizza Travaglio. E che dire di Alfano? «Un mese fa il leader Ndc ha candidato alle europee il governatore dimissionario della Calabria, Giuseppe Scopelliti, condannato in primo grado per abuso d’ufficio, con la decisiva motivazione che “è un presunto innocente” e “noi siamo garantisti”. Lunedì il ministro garantista Alfano ha annunciato via Twitter la cattura dell’“assassino di Yara Gambirasio”, mai condannato in primo grado né imputato, ma solo indagato. Però, non trattandosi di un politico e non militando (che si sappia, almeno) nell’Ncd, è già colpevole prim’ancora del processo».Il 28 marzo 2013 “L’Unità”, organo del Pd, titolò a tutta prima pagina: “Patto Grillo-Berlusconi: fermare il cambiamento”. «La notizia era palesemente falsa – protesta Travaglio – ma non fu mai rettificata dall’house organ allora bersaniano e ora renziano». Neppure quando, il 20 aprile 2013, fu siglato il “patto Pd-Berlusconi” per “fermare il cambiamento” con la rielezione dell’ottantottenne Napolitano, o quando – il 24 aprile 2013 – fu firmato il “patto Pd-Berlusconi” sempre per “fermare il cambiamento” col governo Letta di larghe intese. Nessun soprassalto di sincerità neppure il 19 gennaio 2014, quando al Nazareno fu sottoscritto il “patto Pd-Berlusconi” per “fermare il cambiamento” con l’Italicum (liste bloccate, peggio ancora che col Porcellum) e il Senato delle Autonomie (non più eletto dai cittadini, ma nominato dalla Casta). Silenzio anche nei giorni scorsi «quando una telefonata fra Renzi e il Caimano ha confermato il “patto Pd-Berlusconi” per “fermare il cambiamento”», conclude Travaglio: «Coraggio, compagni dell’ “Unità”, siete ancora in tempo».«Chiediamo umilmente scusa a Gelli e ai suoi fratelli per aver demonizzato il loro progetto di Repubblica presidenziale: i piduisti, compreso il povero B. che ci sta ancora provando, erano soltanto dei precursori, tra l’altro piuttosto timidi e minimalisti, della nostra bella Monarchia presidenziale». Così Marco Travaglio commenta l’ultima doppia iniziativa di Napolitano, che il 18 giugno «ha riunito il Consiglio Supremo di Difesa per esautorare ancora una volta il Parlamento, ridurlo a scendiletto del governo Usa e ordinare di non ridurre di un centesimo gli stanziamenti miliardari per acquistare gli inutili anzi dannosi F-35». Non solo, l’uomo del Colle «ha inviato una lettera segreta al fido vicepresidente del Csm Michele Vietti» per bloccare l’azione disciplinare invocata da ben due commissioni parlamentari contro il procuratore di Milano, Bruti Liberati. «Gli F-35 si comprano perché lo dice lui, Bruti si salva perché lo dice lui». Protesta Travaglio: «In una democrazia parlamentare degna di questo nome, fondata sulla divisione dei poteri, i presidenti delle Camere reagirebbero all’istante contro l’ennesima invasione di campo».
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I ladri spolpano il paese e gli italiani credono a un bugiardo
Il Mose di Venezia, la ricostruzione dell’Aquila, l’Expo di Milano, il villaggio della Maddalena, il sistema Sesto (San Giovanni), gli scandali della protezione civile, le mangerie sulla sanità e sui rifiuti nel meridione e nel Lazio, le ruberie sulla Tav e le porcate nei consigli regionali di mezza Italia (tutti quelli su cui si indaga), gli sprechi nei palazzi siciliani: «Tutto questo mostra che gli apparati dei partiti politici e della burocrazia sono strutturalmente dediti a queste cose, che la politica e l’amministrazione vivono di questo». Accusa Marco Della Luna: «La partitocrazia equivale alla mafia: controllo del territorio, lavoro, istituzioni, spesa pubblica». Grazie all’apparato dei partiti, è inevitabile che da noi le opere pubbliche costino il doppio o il triplo. Ed è infantile sperare in qualche politico salvatore della patria: «Qualsiasi premier, qualsiasi statista politico poggia per il potere e per la fiducia in Parlamento su quegli apparati di partito e di burocrazia, che non lo appoggerebbero se egli impedisse i loro traffici».Affarismo generalizzato, sistemico. «Irrazionale è anche pensare che la magistratura di un cosiffatto paese possa risanare il sistema», scrive Della Luna nel suo blog. Il potere giudiziario può colpire singoli imbrogli, non il sistema. Prima di Tangentopoli, la giustizia non interveniva. «Si è mossa solo nel ’92 a seguito del Britannia Party, quando si trattò di arrivare ad altri scopi, soprattutto coprire operazioni di svendita del paese», la super-privatizzazione per la quale fu cooptato Mario Draghi. Dal “sistema”, inoltre, non sono esenti spezzoni della magistratura: dopo lo scandalo Mose, lo stesso Cacciari ha rivelato di aver a suo tempo «presentato un dossier su questo scandalo in una pubblica seduta della Corte dei Conti, senza raccogliere interesse». E un giudice di questa stesa Corte «ha denunciato di aver redatto un rapporto sulle mangerie del Mose già nel 2009, ma di essere stato semi-silenziato da un superiore». Piove sul bagnato: «Gli uomini della casta si riciclano sempre tra di loro, e smettono solo se muoiono». I “Compagni G” sono inarrestabili, «non li fermi con l’interdizione dalle attività pubbliche, ma solo rinchiudendoli a vita», perché «agiscono sott’acqua e non hanno bisogno di assumere cariche pubbliche».Finché vivranno questi uomini, circa 400.000 secondo il libro “La Casta” di Aldo Rizzo e Gian Antonio Stella e almeno un milione secondo altri, «l’Italia continuerà a declinare e non inizierà alcun risanamento». Mose, in fondo, fa rima con Vajont e con Tav: opere inutili, pericolose, inquinate. Idem per lo stillicidio dell’aumento indiscriminato della cementificazione, motivato con la riduzione delle piogge: le precipitazioni sono sì calate su base annua, ma si sono concentrate in periodi rischiosi, moltiplicando le alluvioni. Ma il cemento, si sa, fa comodo al “sistema”. Per non parlare del problema numero uno, la finanza pubblica “privatizzata” dai signori dell’euro. Perché non indagare penalmente anche lì, continua Della Luna, dal momento che l’Italia continua a non avvalersi dell’articolo 123 del Trattato di Maastricht che consente agli Stati di finanziarsi presso la Bce attraverso una banca pubblica? In quel modo, il nostro paese «pagherebbe interessi dello 0,25 o 0,15 % anziché del 5% sul debito pubblico, risparmiando 80 miliardi l’anno». Meglio invece «prelevare 57 miliardi con le tasse dagli italiani già colpiti dalla recessione solo per darle ai banchieri predoni francesi e tedeschi onde assicurare i loro profitti nei prestiti fraudolentemente da loro concessi a Grecia, Spagna e Portogallo».E ancora: «Perché non indagare i cancellieri europei che hanno premuto in tal senso, forse ricattando e limitando nella loro libertà le nostre istituzioni, appoggiati dai banchieri e dalle società di rating? Perché non aprire un fascicolo sull’imposizione all’Italia dell’euro, che si sapeva, tecnicamente, che avrebbe causato ciò che ha poi causato? Lo si era già visto con lo Sme, molti economisti di vaglia l’avevano predetto e gli effetti del blocco dei cambi erano descritti nei libri di testo». Già, perché non indagare? Il solo divorzio tra Stato e Banca d’Italia, nel 1981, ha raddoppiato in pochi mesi il rapporto tra debito pubblico e Pil, cessando la funzione di Bankitalia come “bancomat” del governo a costo zero, per favorire l’interesse speculativo della finanza privata. «La politica italiana degli ultimi decenni è piena di simili scelte distruttive per il paese e lucrative per determinati soggetti finanziari, in termini sia di denaro che di potere». Dunque, «perché non indagare se costituiscano crimini contro gli interessi nazionali? Alto tradimento? Attentato alla sovranità e indipendenza nazionali mediante violenza economico-finanziaria sulla popolazione e sull’economia del paese?». E cosa si scoprirebbe, «rovistando nei circuiti di compensazione bancaria semi-segreti» come Clearstream, Euroclear e Swift? Magari che «i nostri politici, ministri, altri statisti, oltre a prendere soldi dalle grandi imprese per i grandi appalti, hanno preso soldi o altre utilità da finanzieri o statisti stranieri per fare quelle operazioni disastrose per l’Italia».Forse, continua Della Luna, «agli italiani non interessa nulla di ciò che riguarda la sfera della legalità e della moralità, e accettano che i loro governanti siano sleali e traditori». Un nome a caso, Matteo Renzi: «Oggi riscuote successo e consenso un personaggio che ha pugnalato alle spalle il suo compagno di partito, allora premier, dicendoli di stare tranquillo, che non gli avrebbe tolto Palazzo Chigi. Un personaggio che ha violato la promessa fatta pochi giorni prima alla nazione, dicendo che non avrebbe accettato il premierato se non passando per le urne». Davvero ottime credenziali, per un moralizzatore: in qualsiasi altro paese, la sua carriera politica sarebbe finita. In Italia, invece, quei vizi capitali diventano virtù. Lo sanno bene «i poteri che lo hanno scelto», spianandogli la strada con tutta la potenza dei media mainstream. Sapevano che gli italiani ci sarebbero cascati, magari con l’aiutino degli 80 euro – carota per gonzi, immediatamente compensata con più tasse e meno servizi.Chi se ne importa se Renzi «non ha una strategia macroeconomica per rimediare», pazienza se «la disoccupazione, la domanda interna, gli investimenti, il debito pubblico continuano a peggiorare». Tutto ciò che il governo fa è «autofinanziarsi prendendo i soldi del risparmio degli italiani per ridistribuirli senza creare nuove fonti di reddito al paese». L’apparato del partito pigliatutto ha una storia analoga a quella degli altri partiti di potere: il Pd «non ha chiarito come i suoi uomini hanno gestito o lasciato gestire il Monte dei Paschi di Siena, saccheggiando di oltre 10 miliardi». Tutto ciò «non impedisce al novello statista di dichiarare, con la massima e più virginale serietà di espressione, che se fosse per lui condannerebbe per alto tradimento tutti i pubblici funzionari e amministratori che si lascino corrompere. Davvero il personaggio giusto, per ridare la moralità alla Repubblica!». In Italia, chi fa davvero sul serio resta isolato. Come il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, titolare dell’indagine sul Mose: quando nel 1997 scrisse il saggio “Giustizia” che metteva alla berlina il sistema Tangentopoli, permettendosi anche «alcune benevole e mitigatissime critiche alle lobbies dei suoi colleghi e ai parteggiamenti filocomunisti di certuni», secondo Della Luna l’Anm «attaccò il dottor Nordio con toni e contenuti molto preoccupanti, esagerati e sorprendentemente minacciosi per un paese in cui vige libertà di espressione». Avanti Renzi, dunque. Show must go on.Il Mose di Venezia, la ricostruzione dell’Aquila, l’Expo di Milano, il villaggio della Maddalena, il sistema Sesto (San Giovanni), gli scandali della protezione civile, le mangerie sulla sanità e sui rifiuti nel meridione e nel Lazio, le ruberie sulla Tav e le porcate nei consigli regionali di mezza Italia (tutti quelli su cui si indaga), gli sprechi nei palazzi siciliani: «Tutto questo mostra che gli apparati dei partiti politici e della burocrazia sono strutturalmente dediti a queste cose, che la politica e l’amministrazione vivono di questo». Accusa Marco Della Luna: «La partitocrazia equivale alla mafia: controllo del territorio, lavoro, istituzioni, spesa pubblica». Grazie all’apparato dei partiti, è inevitabile che da noi le opere pubbliche costino il doppio o il triplo. Ed è infantile sperare in qualche politico salvatore della patria: «Qualsiasi premier, qualsiasi statista politico poggia per il potere e per la fiducia in Parlamento su quegli apparati di partito e di burocrazia, che non lo appoggerebbero se egli impedisse i loro traffici».
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Disastro Tsipras, una sinistra senza idee contro la crisi
«Compagni della base di Sel e di Rifondazione, ma che aspettate a darvi una mossa e ruzzolare dalle scale tutti i vostri dirigenti?». Per Aldo Giannuli, l’ennesima rovinosa sconfitta elettorale della cosiddetta sinistra radicale è una condanna senza appello: una sinistra senza idee e senza proposte. Per un motivo semplicissimo: non ha capito la crisi, non “vede” quello che sta succedendo, non sa articolare un’analisi. Ovvio, quindi, che non proponga rimedi credibili. Numeri impietosi: con la sola eccezione di Grecia e Portogallo, la sinistra radicale europea è ormai solo un voto di testimonianza. E tocca il fondo in Italia con la Lista Tsipras al 4%. «Il dato evidente e schiacciante è che la sinistra radicale non ha intercettato niente della protesta che monta». Le europee sono state un referendum sull’euro, e infatti «la protesta ha premiato i partiti che si sono dichiarati apertamente contro l’euro e la Ue». La sinistra? Non pervenuta: non ha nemmeno sfiorato il tema cruciale dell’insostenibilità della moneta unica “privatizzata” dalla Bce.Per Giannuli, quello della sinsitra radicale è un profilo «a dir poco ambiguo e sfumato», dal momento che «non ha avuto il coraggio di schierarsi contro l’euro, limitandosi a un generico appello alla fine dell’austerità». In sostanza, tutta la compagnia – Linke, comunisti francesi, Tsipras – ha «accettato il dogma europeista che identifica senza residuo l’unità europea con la Ue, salvo lanciare un fumosissimo slogan dell’“Altra Europa” che non si capisce in cosa si traduca sul piano politico». E anche volendo concedere che non siano l’euro e l’Unione Europea il nemico contro cui schierarsi, «la sinistra “radicale” non è riuscita a indicare nessun altro nemico, salvo le solite genericissime geremiadi contro la speculazione finanziaria, cui non ha fatto seguito alcuna proposta di lotta». La sinistra “radicale” è mancata completamente al suo ruolo nella crisi: «Non poteva avere nessuna proposta, perché non aveva alcuna analisi della crisi. Semplicemente non ha capito nulla di quello che stava e sta succedendo».Il punto è che da almeno un quarto di secolo questa sinistra “radicale” «non produce un grammo di cultura politica», aggiunge Giannuli: «In tutta Europa, non conosco una sola rivista di qualche spessore teorico prodotta da quest’area, né ricordo un convegno che abbia lasciato tracce durevoli». Quello che ancora viene etichettato come “radicale” è «un aggregato di organizzazioni residuali che hanno fuso rimasugli di partiti comunisti con pezzi di sinistra socialdemocratica e che ha cercato di sopperire alla débacle ideologica della socialdemocrazia: una sorta di “socialdemocrazia vicaria” che ha condotto solo battaglie difensive e spesso di retroguardia». E’ un ceto politico residuale, fatto di dirigenti «sempre più scadenti e opportunisti, spesso cooptati», che si è semplicemente adattato all’ondata neoliberista, limitandosi a una “resistenza passiva”. «E quando la crisi è arrivata a scuotere il sistema liberista, in cui si era scavata una confortevole nicchia, la sinistra “radicale” non ha avuto nulla da dire».La Lista Tsipras? Un progetto senza futuro. «Se raggiungeranno il quorum – profetizzava Giannuli alla vigilia – cominceranno a litigare tra loro già l’indomani». Detto fatto. «Non mi facevo illusioni – dice oggi Giannuli – ma sono riusciti ad andare al di là delle mie più pessimistiche previsioni», con la Spinelli che non mantiere la parola data (riunciare al seggio) e la rottura inevitabile con Sel. In pole position i “garanti”, che dovevano tutelare gli equilibri e armonizzate le varie anime: «Ovadia si è dimesso, ma solo per fare posto a Curzio Maltese (altro membro dell’area dei garanti), Rea si è dimesso a favore di Spinelli che, per parte sua, non si dimette affatto. Morale: i 2/3 degli eletti sono della redazione di “Repubblica”». La Spinelli inoltre è stata la compagna di Tommaso Padoa Schioppa, con il quale si è spesso accompagnata alle riunioni del Bilderberg. «Mi sapete dire che diavolo c’entra un frequentatore del Bilderberg con la sinistra radicale? Allo stesso modo, mi sapete dire che c’entra “Repubblica” con la sinistra radicale?».Se lo scopo era attrarre voti diversi e trasversali, quelli della società civile, il risultato è stato un disastro: un anno fa, Sel e Rivoluzione Civile ottennero quasi 2 milioni di voti, la Lista Tsipras appena 1 milione. Inoltre, «tutti hanno fatto quello che potevano per fare disastri: Sel ha mostrato di crederci molto poco (a proposito: non è che mi fossi inventato io la notizia della pronta confluenza di Migliore e dei suoi nel Pd: era nell’aria come le notizie più recenti confermano) e infatti Vendola ci ha messo il carico da undici, un minuto dopo i risultati, per dire che era una “lista di scopo” e che non se ne parla di Syriza italiana». Il che significa che la prospettiva è quella di entrare nel Pd, «sempre che Renzi ce li voglia». Quanto a Rifondazione, «si accontenta del seggio che è riuscita a portare a casa e non esiste politicamente». Giannuli non ha dubbi: «Il disegno complessivo è a pezzi: la decisione della Spinelli manda a pezzi tutto, perché induce Sel (tutta Sel, compreso Fratoianni, temo) a prendere il largo. E, senza Sel, questa lista è solo il residuo di Rifondazione + “Repubblica”, con “Repubblica” in posizione dominante». E non è tutto, infierisce Giannuli: «Ora vedrete le liti per la divisione dei rimborsi, dei funzionari, poi verranno quelle per l’attribuzione dei dossier». In altre parole: la sinistra radicale è tecnicamente finita.«Compagni della base di Sel e di Rifondazione, ma che aspettate a darvi una mossa e ruzzolare dalle scale tutti i vostri dirigenti?». Per Aldo Giannuli, l’ennesima rovinosa sconfitta elettorale della cosiddetta sinistra radicale è una condanna senza appello: una sinistra senza idee e senza proposte. Per un motivo semplicissimo: non ha capito la crisi, non “vede” quello che sta succedendo, non sa articolare un’analisi. Ovvio, quindi, che non proponga rimedi credibili. Numeri impietosi: con la sola eccezione di Grecia e Portogallo, la sinistra radicale europea è ormai solo un voto di testimonianza. E tocca il fondo in Italia con la Lista Tsipras al 4%. «Il dato evidente e schiacciante è che la sinistra radicale non ha intercettato niente della protesta che monta». Le europee sono state un referendum sull’euro, e infatti «la protesta ha premiato i partiti che si sono dichiarati apertamente contro l’euro e la Ue». La sinistra? Non pervenuta: non ha nemmeno sfiorato il tema cruciale dell’insostenibilità della moneta unica “privatizzata” dalla Bce.