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Addio Merkel, euro e Nato: il voto francese cambia il mondo
La Francia al bivio: Atlantico o Eurasia. «Se il 2017 ha tutte le caratteristiche per essere definito “l’anno della frattura”, lo spartiacque tra il vecchio ordine mondiale “liberale” a guida angloamericana e l’avvento di un nuovo assetto internazionale, ebbene, c’è un appuntamento più decisivo degli altri, quello capace di dispiegare tutto il potenziale rivoluzionario dell’anno in corso: le presidenziali francesi». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, il voto transalpino (primo turno, 23 aprile) è «l’appuntamento chiave del 2017, capace di innescare e/o accelerare dinamiche che travalicano i confini dell’Esagono per abbracciare l’intero scacchiere mondiale». Motivo: «Il malessere sociale e le drammatiche condizioni in cui versa l’economia della Francia, pienamente ascrivibile tra i paesi dell’europeriferia, hanno sgretolato il sistema politico transalpino, aprendo lo scenario di un inedito ballottaggio tra populisti di destra e populisti di sinistra: Marine Le Pen contro Jean-Luc Mélenchon». Secondo Dezzani, la sconfitta dei candidati europeisti accelererà la dissoluzione della moneta unica e dell’Unione Europea, compromettendo irreparabilmente l’intera architettura euro-atlantica edificata negli ultimi 70 anni: «Lo speculare rafforzamento della Russia dopo la vittoria di Marine Le Pen e l’ingrossarsi del blocco euroasiatico rischiano di portare il sistema internazionale al carico di rottura».In un’analisi pubblicata sul suo blog, Dezzani colloca le presidenziali francesi in una più ampia cornice geopolitica: «Solo chi nascondesse la testa sotto terra, potrebbe infatti affermare che l’imminente voto sia scollegato dalle rinnovate tensioni tra Nato e Russia e dai venti di guerra nella Corea del Nord». La Francia ripropone il medesimo schema politico che travaglia l’intera Europa: i partiti tradizionali, «legati a doppio filo all’establishment euro-atlantico», riusciranno o meno a respingere l’assalto “populista”, cioè l’avanzata di quei movimenti che predicano ricette economiche e una politica estera diametralmente opposta a quella dell’oligarchia al potere? «La risposta è quasi certamente “no”», sostiene Dezzani. «Di fronte all’eurocrisi scoppiata nel lontano 2009 e progressivamente incancrenitasi avendo mancato l’obiettivo di fondo (strappare il Tesoro Unico europeo e gli Stati Uniti d’Europa)», la Francia «è scivolata giorno dopo giorno verso l’euro-periferia, mostrando l’illusorietà del “motore franco-tedesco”». A collocare il paese «più vicino al Mediterraneo che al Reno» è ormai, «la galoppante crescita del debito pubblico francese, che dall’introduzione dell’euro è passato dal 60% al 97% del Pil», insieme ad altri indicatori sfavorevoli: «Gli alti deficit in funzione anti-ciclica, il cronico disavanzo della bilancia commerciale e la disoccupazione record (quella ufficiale si attesta attorno al 10% della forza lavoro)».Tra Parigi e Berlino, sottolinea Dezzani, c’è ancora una «parità formale», che attualmente scongiura quelle politiche di austerità imposte al resto dell’europeriferia: misure di austerity che potrebbero «innescare esplosive rivolte in una società come quella francese, abituata a ricevere generose prestazioni dallo Stato». Questo però «non impedisce che qualche “riforma strutturale” sia somministrata anche alla Francia: il “Job Act” gallico, la legge El Khomri, provoca reazioni impensabili in Italia, mobilitando sindacati e lavoratori per settimane e paralizzando diversi settori strategici dell’economia». L’assaggio di neoliberismo, il crescere incessante della disoccupazione e la parallela caduta verticale del presidente François Hollande in termini di popolarità, continua Dezzani, sono accompagnati dall’esplosione del terrorismo “islamista” che, avviato nel gennaio 2015 con la strage di Charlie Hebdo, semina morti fino alla strage di Nizza dello scorso luglio: «E’ la classica strategia della tensione utile a “sedare” un’opinione pubblica sul piede di guerra, a causa dell’impoverimento generalizzato e dei tagli allo Stato sociale».La strategia della tensione, però, secondo Dezzani ha fallito: doveva «compattare i francesi attorno al capo di Stato», quell’Hollande che – dopo aver ripeuto che «la France est en guerre» – è il primo presidente, dall’avvento della Quinta Repubblica, a scegliere di “abdicare”, rinunciando a correre per un secondo mandato: «L’obiettivo è quello di arrestare l’avanzata dei “populisti”, relegando il quinquennio di Hollande ad una triste parentesi, e puntando su volti nuovi». Ma ormai, aggiunge Dezzani, la ribellione dell’elettorato è troppo impetuosa per essere incanalata: «Il “filo-russo” François Fillon conquista la candidatura del centro-destra battendo l’esponente dell’establishment, Alain Juppé. Segue quindi una feroce campagna mediatica-giudiziaria per stroncare la corsa di Fillon verso l’Eliseo e lanciare verso il ballottaggio del 7 maggio il centrista e “outisider” Emmanuel Macron, ex-banchiere Rothschild: il calcolo politico si basa sulla convinzione che tutti i voti moderati si coaguleranno attorno all’europeista e filo-atlantico Macron, sancendo così la sconfitta della populista e filo-russa Marine Le Pen».Nella Francia del 2017, però, come nel resto dell’Occidente, i voti “moderati” sono ormai merce rara: «Il malessere diffuso, tre milioni di disoccupati (che salgono a sei considerando i lavoratori iscritti ad un corso di ricollocamento), l’insofferenza generalizzata verso la cricca di privilegiati che ruota attorno all’Eliseo e ai salotti buoni di Parigi, spinge l’elettorato sulle ali estreme dello schieramento politico: la candidatura del centrista Emmanuel Macron, presentato dalla maggior parte dei sondaggi e dei media compiacenti come il presidente in pectore, rischia di sgonfiarsi addirittura al primo turno, schiantandosi contro lo scoglio dell’elettorato». Ferma restando la possibile vittoria di Marine Le Pen, crescono infatti le probabilità che lo sfidante al ballottaggio del 7 maggio non sia l’ex-banchiere di Rothischild, ma il “populista rosso” Jean-Luc Mélenchon: storico esponente dell’ala sinistra del Partito socialista, fondatore del movimento “France insoumise” (la Francia ribelle). «Abile oratore e figura piuttosto carismatica, Mélenchon è la declinazione “giacobina” di Marine Le Pen». Tanti i tratti i comune: tra questi, «l’avversione all’ortodossia finanziaria di Bruxelles, l’intenzione di manovre fiscali espansive in forte deficit, il rifiuto dei dogmi liberisti e l’apertura al protezionismo».In politica estera, Le Pen e Mélenchon condividono anche «l’intenzione di traghettare la Francia fuori dalla Nato», che dimostra «la volontà di riconciliarsi con Mosca superando le varie discrepanze, in primis sulla Siria». Dezzani scommette che sarà Marine Le Pen a uscire vincitrice dal ballottaggio del 7 maggio, sospinta da diversi fattori: la voglia di cancellare la disastrosa presidenza Hollande, la crisi migratoria, l’emergenza-sicurezza nelle città e il vento nazionalista, sempre più forte a livello europeo. «Nelle attuali condizioni in cui versa l’Unione Europea – ragiona Dezzani – è però chiaro che, se dalle urne del 23 aprile dovesse emergere una sfida tra forze anti-sistema di sinistra e di destra, Bruxelles incasserebbe il colpo di grazia anche senza conoscere il verdetto finale delle presidenziali francesi». Si tratta pur sempre di «istituzioni europee così lacerate da assistere inermi alla ribellione degli Stati alla politica migratoria comune, alla puntuale disapplicazione di norme fino a poco tempo fa presentate come ineludibili (Fiscal Compact e bail-in), al tramonto di qualsiasi ulteriore integrazione necessaria a garantire la sopravvivenza dell’euro (in primis la garanzia unica sui depositi)».L’affermazione dei “populisti” Le Pen e Mélenchon al primo turno, continua Dezzani, «sancirebbe la rottura definitiva del motore franco-tedesco da tempo in panne». Rottura che, «aprendo una drammatica faglia nel cuore dell’Europa, porterebbe al collasso finale le già pericolanti istituzioni di Bruxelles». Al che, la dissoluzione dell’Unione Europea e il simultaneo ricollocamento di Parigi su posizioni filo-russe «sarebbero un vero terremoto geopolitico, scuotendo alle fondamenta l’intera architettura politico-militare consolidatasi in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale: le istituzioni di Bruxelles, sinonimo di Ue ma anche di Nato, sono infatti lo strumento con cui l’impero angloamericano ha prima blindato, e poi allargato, la testa di ponte sul continente euroasiatico, conquistata con due guerre mondiali». Scopo strategico del blocco Ue-Nato, infatti, «è attrarre verso l’Atlantico il maggior numero possibile di potenze europee», impedendo «il sorgere di qualsiasi alleanza tra la Russia e l’Europa occidentale». Il terremoto sovranista francese, quindi, stravolgerebbe «la settantennale strategia dell’establishment atlantico sul Vecchio Continente, incentratala sulla cooperazione franco-tedesca con la benedizione di Londra e Washington, e sul progressivo ampliamento verso est delle organizzazioni “transatlantiche”».Si materializzerebbe così il peggior scenario possibile per gli strateghi angloamericani, tratteggiato da Zbigniew Brzezinski nel suo libro “La Grande Scacchiera”, del 1997: vedremmo all’opera «una Francia nazionalista che, oppressa dall’egemonia della Germania schierata su posizioni filo-atlantiche, parte alla riconquista del primato continentale alleandosi con la Russia e riconoscendo a quest’ultima una legittima zona d’influenza nell’Est europeo». Sarebbe, in sostanza, «un patto franco-russo», progettato «per ridimensionare la Germania» e ridimensionare l’egemonia Usa sull’Europa. «Il quadro – aggiunge Dezzani – si farebbe ancora più drammatico per gli strateghi angloamericani se la Francia “nazionalista” non si saldasse soltanto alla Russia, ma al blocco euro-asiatico, che comprende anche la Cina e l’Iran e si irrobustisce giorno dopo giorno: la Francia, anziché lavorare per la caduta di Assad e il puntellamento del regime filo-saudita in Yemen, passerebbe così ad una condizione di neutralità o larvata ostilità nei confronti degli alleati regionali di Washington e Londra, compromettendo ulteriormente l’opera angloamericana di “contenimento” delle potenze euro-asiatiche».Gli Usa a quel punto, «espulsi dalla massa continentale anche grazie alla cooperazione francese, perderebbero automaticamente lo status di superpotenza mondiale». Per Dezzani, stiamo assistendo al manifestarsi di «una doppia minaccia mortale per l’impero angloamericano: il saldarsi della coalizione tra Russia, Cina e Iran, unito al nascere di un’intesa franco-russa». Si tratta di «quattro potenze distinte, unite dalla comune volontà di archiviare l’egemonia degli Usa e dell’oligarchia atlantica, per ridisegnare l’assetto mondiale». Meglio si spiega, quindi, «il clima di elevata tensione internazionale, caratterizzato dal precipitare delle relazioni russo-americane e dai concomitanti venti di guerra in Corea». La posta in gioco, insiste Dezzani, «supera i confini dell’Esagono». La probabile vittoria di Marine Le Pen «è in grado di compromettere ulteriormente la presa angloamericana sull’Europa, a beneficio di Mosca e delle altre potenze continentali». Attenzione: questo scenario «lascia supporre un ulteriore aumento della tensione in vista del ballottaggio del 7 maggio e negli immediati mesi successivi al voto: più la Ue si sfalda e il blocco euroasiatico si ingrossa, maggiori sono i rischi che il sistema internazionale raggiunga il carico i rottura, imprimendo agli eventi quella drammatica svolta che si sarebbe evitata soltanto se Donald Trump avesse mantenuto le promesse neo-isolazioniste della campagna elettorale».La Francia al bivio: Atlantico o Eurasia. «Se il 2017 ha tutte le caratteristiche per essere definito “l’anno della frattura”, lo spartiacque tra il vecchio ordine mondiale “liberale” a guida angloamericana e l’avvento di un nuovo assetto internazionale, ebbene, c’è un appuntamento più decisivo degli altri, quello capace di dispiegare tutto il potenziale rivoluzionario dell’anno in corso: le presidenziali francesi». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, il voto transalpino (primo turno, 23 aprile) è «l’appuntamento chiave del 2017, capace di innescare e/o accelerare dinamiche che travalicano i confini dell’Esagono per abbracciare l’intero scacchiere mondiale». Motivo: «Il malessere sociale e le drammatiche condizioni in cui versa l’economia della Francia, pienamente ascrivibile tra i paesi dell’europeriferia, hanno sgretolato il sistema politico transalpino, aprendo lo scenario di un inedito ballottaggio tra populisti di destra e populisti di sinistra: Marine Le Pen contro Jean-Luc Mélenchon». Secondo Dezzani, la sconfitta dei candidati europeisti accelererà la dissoluzione della moneta unica e dell’Unione Europea, compromettendo irreparabilmente l’intera architettura euro-atlantica edificata negli ultimi 70 anni: «Lo speculare rafforzamento della Russia dopo la vittoria di Marine Le Pen e l’ingrossarsi del blocco euroasiatico rischiano di portare il sistema internazionale al carico di rottura».
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5 Stelle (e strisce), come la Lega: oggi Grillo, ieri Bossi
Ogni fase politica della Repubblica italiana è stata scandita da un partito “di protesta”, funzionale agli interessi dell’establishment atlantico: si comincia con L’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini per terminare col Movimento 5 Stelle di Gianroberto Casaleggio, passando per il Partito Radicale di Marco Pannella e la Lega Nord di Umberto Bossi. Fino alla recente svolta nazionalista, filorussa e anti-euro, il Carroccio è infatti stato uno dei tanti prodotti di Washington e Londra, schierato su posizioni “thatcheriane” ed europeiste. E’ la tesi di Federico Dezzani, analista geopolitico, impegnato in una ricostruzione “non convenzionale” della storia recente del nostro paese. Nei primi anni ‘90, ricorda, la Lega Nord avrebbe dovuto essere lo strumento per attuare un ambizioso disegno geopolitico: la frantumazione dello Stato unitario e la nascita di una confederazione di tre “macroregioni”, così da cancellare l’Italia come attore del Mar Mediterraneo. Questo, secondo Dezzani, il vero ruolo della Lega Nord durante Tangentopoli, a cominciare dalla figura, allora determinante, del suo ideologo, il professor Gianfranco Miglio.«Non si muove foglia che Washington non voglia: anche in Padania». In politica, sostiene Dezzani nel suo blog, ogni segmento della domanda deve essere coperto, come in ogni altro settore di mercato: l’offerta deve essere costantemente rinnovata e nuovi prodotti possono essere lanciati grazie a un’adeguata campagna pubblicitaria. Basta considerare i partiti alla stregua di ogni altro prodotto di consumo. «L’abilità di chi tira i fili della democrazia consiste nel rifornire gli scaffali dalla politica dei partiti giusti, al momento giusto: ad ogni tornata elettorale, i votanti acquisteranno i loro prodotti preferiti, con grande soddisfazione di chi controlla il grande supermercato della democrazia». Negli ultimi anni, va crescendo la “specialità” dei partiti di protesta. Ma la loro origine non è recente, ricorda Dezzani: «Risale agli albori della Repubblica Italiana, quando Washington e Londra foggiarono per l’Italia una singolare democrazia, dove la seconda forza politica del paese, il Pci, era esclusa “de iure” dal governo», ovviamente per ragioni geopolitiche (la sua contiguità con l’Urss, avversaria della Nato).«Per ovviare a questo opprimente immobilismo, che un po’ stona con le logiche del mercato», in 70 anni sono state immesse diverse sigle per intercettare il malcontento dell’elettorato e la domanda di cambiamento: «Si comincia, prima delle elezioni del 1948, con l’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini e si termina oggi con il Movimento 5 Stelle di Davide Casaleggio». Annota Dezzani: «Sia Giannini che Casaleggio sono, incidentalmente, inglesi da parte materna». Tra i due estremi, l’analista annovera anche il Partito Radicale di Marco Pannella, «che prestò non pochi servigi all’establishment atlantico: la campagna per le dimissioni del presidente Giovanni Leone, quella per l’aborto e il divorzio, i referendum del 1993 contro “la partitocrazia” e “lo Stato-Padrone”». E poi c’è anche il caso della Lega Nord, nata e cresciuta nei travagliati primi anni ‘90, nutrendosi dei voti in uscita dal Psi e soprattutto dalla Dc. Ma come? Anche il folkloristico Carroccio, i raduni di Pontida, il “dio Po” e il leggendario Alberto da Giussano, sarebbero un prodotto dell’establishment atlantico? Ebbene sì, scrive Dezzani: «È una verità che probabilmente spiazzerà molti leghisti della prima ora», ma è indispensabile per capire, ad esempio, «perché Umberto Bossi, padre-padrone della primigenia Lega Nord, contesti la recente svolta nazionalista, anti-euro e filorussa di Matteo Salvini».Salvini appare deciso a trasformare (con esiti incerti) il Carroccio nella versione italiana del Front National? Non a caso, il redivivo Bossi oggi gli si oppone, chiedendo un congresso. «Bruxelles è sempre stata ed è tuttora il faro di Umberto Bossi, sebbene il suo obiettivo fosse agganciarsi all’Unione Europea non attraverso l’Italia, ma tramite la “Padania”, in ossequio a quella “Europa della macroregioni” tanto cara all’establishment atlantico», sostiene Dezzani. Il progetto: «Smembrare gli Stati nazionali per sostituirli, al vertice, con un governo sovranazionale e, alla base, con una costellazione di cantoni, regioni e feudi: l’oligarchia libera di comandare indisturbata su 500 milioni di persone ed i paesani appagati delle loro effimere autonomie». La storia della Lega Nord, continua l’analista, è indissolubilmente legata al crollo del Pentapartito. Cioè alle manovre, iniziate con la firma del Trattato di Maastricht, per traghettare l’Italia verso la nascente Unione Europea a qualsiasi costo: vergognose privatizzazioni, saccheggi del risparmio privato, attentati terroristici e giustizialismo spiccio. «Studiare l’origine della Lega Nord significa quindi completare l’analisi dell’infamante biennio 1992-1993 che travolse la Prima Repubblica e forgiò la Seconda, dove Umberto Bossi ha giocato un ruolo di primo piano».La Lega Nord nasce ufficialmente nel febbraio del 1991, come federazione della Lega Lombarda, della Liga Veneta, di Piemont Autonomista e dell’Union Ligure: «Chi volesse indagare sul periodo proto-leghista, scoprirebbe quasi certamente che anche questi movimenti autonomisti nascono nel medesimo humus massonico-atlantista da cui germoglierà poi il Carroccio». La Liga Veneta, quella più radicata e “antica”, compie i primi passi presso l’istituto privato linguistico Bertrand Russell di Padova, dove nel 1978 è istituito un corso di storia, lingua e civiltà veneta. «Chi volesse scavare più indietro ancora – ipotizza Dezzani – potrebbe riallacciarsi alla lunga serie di attentati destabilizzanti, di matrice autonomista e secessionista, che colpiscono tra gli anni ‘50 e ‘60 il Nord-Est dove, è bene ricordarlo, la concentrazione delle forze armante angloamericane è più alta che in qualsiasi altra parte dell’Italia continentale», come nel caso della caserma Ederle di Vicenza e della base di Aviano, fuori Udine. «L’idea di superare le leghe su base “etnica” e di federarle in un’unica Lega allargata all’intero Nord, ribattezzato all’occorrenza come “Padania”, è comunque ufficialmente attribuita ad Umberto Bossi». Ma il “senatur” ne è stato l’unico padre o è stato “aiutato” da una regia più ampia, «sofisticata e altolocata», come quella che starebbe dietro ai 5 Stelle?«Diversi elementi fanno propendere per la seconda ipotesi», continua Dezzani, «declassando Umberto Bossi al ruolo di capo carismatico di facciata, di semplice tribuno e di arringatore: la stessa funzione, per intendersi, svolta da Beppe Grillo nel M5S». Siamo infatti nel febbraio 1991, il Muro di Berlino è crollato da due anni e l’Unione Sovietica collasserà entro pochi mesi: «L’oligarchia atlantica ha già stilato i suoi piani per il “Nuovo Ordine Mondiale” che, calati nella realtà italiana, significano l’abbattimento della Prima Repubblica, l’archiviazione della Dc e del Psi, lo smantellamento dell’economia mista e, se possibile, anche un nuovo assetto geopolitico per la penisola», da attuare attraverso i movimenti indipendentisti. Segnale importante: «L’accoglienza che la grande stampa anglosassone riserva al neonato Carroccio, simile a quella che il Movimento 5 Stelle riceverà a distanza di 15 anni, non lascia adito a dubbi circa l’interessamento che Londra e Washington nutrono per la neonata formazione nordista: il 4 ottobre 1991 il “Wall Street Journal” definisce la formazione di Umberto Bossi come “il più influente agente di cambiamento della scena politica italiana”».Poco dopo, nel gennaio 1992, il settimanale statunitense “Time” definisce Bossi come il leader più popolare e temuto della politica italiana. E il 28 marzo, il settimanale inglese “The Economist”, megafono della City, accomuna la Lega Nord al Partito Repubblicano di Ugo La Malfa, definendolo come «l’unico fattore di rinnovamento nel decadente panorama politico italiano». Sono le stesse settimane in cui Mario Chiesa, esponente socialista e presidente del Pio Albergo Trivulzio, è arrestato a Milano per aver intascato una bustarella: è il primo atto di quell’inchiesta giudiziaria, Mani Pulite, destinata a travolgere il Pentapartito e la Prima Repubblica. «Non c’è dubbio che la Lega Nord debba “completare”, nei piani angloamericani, l’inchiesta di Tangentopoli», sostiene Dezzani: «Il pool di Mani Pulite è incaricato di smantellare la Dc ed il Psi, mentre il Carroccio ha lo scopo di intercettare i voti in fuga dai vecchi partiti prossimi al collasso». E il trait d’union tra il palazzo di giustizia milanese e la Lega Nord, sempre secondo Dezzani, è fisicamente incarnato dal console americano Peter Semler, cioè il funzionario statunitense che, alla fine del 1991, un paio di mesi prima dell’arresto di Mario Chiesa, “incontra” Antonio Di Pietro nei suoi uffici per discutere delle imminenti inchieste giudiziarie. E’ lo stesso funzionario che, «quasi contemporaneamente, “incontra” i dirigenti della Lega Nord».In una recente intervista a “La Stampa”, Semler ammette di aver pranzato con due dirigenti leghisti il 1° gennaio 1992: «Quello che mi colpì di più era un ex poliziotto, ex militare. Giocammo al golf club di Milano e mi dissero: “Cambierà tutto”». Rileva Dezzani: «C’è da scommettere che non siano stati i due leader della Lega Nord ad avvertire il console americano che tutto sarebbe cambiato, bensì l’opposto». Il Carroccio, infatti, all’epoca «è parte integrante della manovra angloamericana per smantellare il Psi e la Dc», con la sua corrosiva e talvolta violenta retorica contro la partitocrazia della Prima Repubblica, lo Stato clientelare ed assistenzialista (indimenticabile il cappio sventolato nel 1993 a Montecitorio, per “appendervi” i politici corrotti). Ma perché mai, continua Dezzani, l’attacco è sferrato “su base regionale”, attraverso una formazione che inneggia alla Padania onesta e laboriosa, contro la Roma corrotta e la ladrona, sede di “un Parlamento infetto”? Ovvero: perché la stessa funzione non è assolta da un partito di protesta “nazionale”, come è oggi il Movimento 5 Stelle?«Compito della Lega Nord – riprende Dezzani, parlano al presente storico – è anche quello di attuare il piano geopolitico che l’establishment atlantico ha in serbo per l’Italia in questa drammatica fase della vita nazionale: passare dall’Italia unita all’unione, o confederazione, di tre macroregioni», ovvero la Repubblica del Nord (o Padania), una repubblica del Centro e una del Sud: «E’ il periodo, infatti, delle “stragi mafiose” e Cosa Nostra ed il Carroccio sembrano lavorare all’unisono (d’altronde, la regia a monte è comune) per ritagliarsi ognuno il proprio feudo, cannibalizzando lo Stato nazionale». Da qui, Dezzani mette in luce l’entrata in scena di una figura-chiave del leghismo delle origini, il personaggio politico che avrebbe dovuto essere “la mente” del processo di secessione della Repubblica dal Nord: Gianfranco Miglio, classe 1918 (scomparso poi nel 2001). Allievo del filosofo liberale Alessandro Passerin d’Entrèves (a lungo docente all’Università di Oxford e quella di Yale) e del giurista Giorgio Balladore Pallieri (primo giudice italiano alla Corte europea dei diritti dell’uomo).Docente all’Università Cattolica di Milano, teorizzatore del decisionismo, studioso del federalismo e ascoltato consulente in materia di riforme costituzionali, vero e proprio “giacobino di destra”, Gianfranco Miglio è un intellettuale molto gettonato dai politici e dagli alti manager della Prima Repubblica in cerca di consigli. Miglio comincia coll’assistere l’uomo più potente d’Italia, Eugenio Cefis: presidente dell’Eni dal 1967, dopo la morte di Enrico Mattei, fino al 1971, e poi numero uno della Montedison dal 1971 al 1977. Secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016, Cefis è stato il capo della Loggia P1, vero dominus delle strategie coperte per la manipolazione occulta dell’Italia. Carpeoro la chiama “sovragestione”: un intreccio di poteri fortissimi eterodiretti dagli Usa, reti massoniche e servizi segreti deviati. Un livello di potere assai più alto e protetto di quello rappresentato dalla P2 di Gelli, che infatti all’occorrenza fu sacrificato sull’altare dell’opinione pubblica, a differenza del potentissimo Cefis, che è anche l’uomo-ombra di “Petrolio”, il romanzo incompiuto sulla fine di Mattei che forse è costato la vita a Pasolini. Tornando alla ricostruzione di Dezzani sulle mosse di Miglio: dopo aver collaborato con Cefis, l’ideologo della Padania ha fatto anche da consulente al primo ministro Bettino Craxi.Nei tumultuosi anni che seguono la caduta del Muro di Berlino – scrive Dezzani – il professor Miglio compie una spettacolare e singolare metamorfosi: nel giugno del 1989, constata la precarietà delle finanze pubbliche e del panorama politico italiani, suggerisce nientemeno che «sospendere le prove elettorali per un certo periodo, dar vita a un lungo Parlamento, bloccare il ricambio parlamentare, che so, per 8-10 anni», affidando quindi poteri speciali al Pentapartito per fronteggiare le emergenze. Dopo nemmeno due anni, Miglio è invece diventato “l’ideologo” della costituenda Lega Nord, nonché il più severo e spietato censore della partitocrazia, dello Stato parassitario e della deriva mafiosa del Meridione: «E’ difficile spiegare questo repentino cambiamento e il suo “affiancamento” a Umberto Bossi, se non come un’operazione studiata a tavolino, concepita da quegli “ambienti liberali ed anglofoni” che Miglio frequenta sin dalla gioventù».Gianfranco Miglio, annota Dezzani, è l’architetto di quelle riforme costituzionali che dovrebbero scardinare l’assetto geopolitico dell’Italia, servendosi della Lega Nord e di Umberto Bossi come semplici grimaldelli. Esisterebbero, secondo il professore, due Italie: una europea, da agganciare alla nascente Unione Europea, e una mediterranea, da abbandonare alla deriva verso il Levante e il Nord Africa. Lo Stato unitario ha fatto il suo tempo e sulle sue macerie bisogna edificare uno Stato federale, o meglio ancora confederale, costruito da tre entità separate: una Repubblica del Nord, una del Centro e una del Sud. Al governo centrale della neo-costituita Unione Italiana, spetterebbero soltanto la difesa e parte della politica estera. «Il disegno sottostante alle ricette di Miglio è chiaro: sfruttare l’inchiesta di Tangentopoli che sta sconquassando la politica, il crollo del Pentapartito, la strategia della tensione e l’emergenza finanziaria, per cancellare l’Italia unitaria come soggetto geopolitico. Un’Italia che, con Enrico Mattei, Aldo Moro e le politiche filo-arabe di Bettino Craxi e Giulio Andreotti, ha dimostrato di poter infastidire gli angloamericani nello strategico bacino mediterraneo».Le elezioni politiche del 5 aprile 1992 vedono la Lega Nord raccogliere una discreta percentuale dei voti in uscita dalla Dc e dal Psi: in Lombardia il Carroccio raccoglie il 23% delle preferenze, ad un solo punto dai democristiani, ma si ferma all’8,65% a scala nazionale, mentre le varie leghe del Sud non decollano. «Non è andata così bene, dovevamo essere determinanti», ammette Bossi, ben sapendo che la secessione del Nord dal resto d’Italia implicherebbe una forza elettorale che la Lega dimostra di non avere. Bottino elettorale: 55 deputati e 25 senatori. Sono abbastanza, «per portare a compimento la demolizione della Prima Repubblica e il rapido smantellamento dell’economia mista, come auspicato dai croceristi del Britannia». Ecco il punto, per Dezzani: «Non c’è una singola mossa del Carroccio, infatti, che si discosti dall’agenda che l’establishment atlantico ha in serbo per l’Italia: la Lega è decisiva per bloccare l’elezione di Giulio Andreotti al Quirinale, si schiera contro l’ipotesi di una presidenza del Consiglio affidata a Bettino Craxi, è favorevole ad un aggressivo piano di privatizzazioni».«Gli economisti di Bossi credono nella Thatcher», titola la “Repubblica”, riportando che la Lega vuole «privatizzare tutte le imprese di Stato, dall’Iri all’Eni, all’Efim. Senza risparmiare le banche pubbliche come Bnl, Comit, Credito italiano, San Paolo di Torino. Largo ai privati anche per le Ferrovie, l’Enel e le Poste». La Lega di Bossi, aggiunge Dezzani, è fautrice di un “liberismo spinto” contrapposto allo Stato-padrone, definito ovviamente come «parassitario, bizantino, romano-centrico, corrotto, ladrone». Non solo, il Carroccio «gioca di sponda con le “menti raffinatissime” che stanno attuando una spietata strategia di destabilizzazione per meglio saccheggiare i risparmi degli italiani e l’industria pubblica: mentre i servizi segreti “deviati” piazzano bombe in tutt’Italia e gli squali dell’alta finanza si accaniscono sui Btp, la Lega Nord getta altra benzina sul fuoco, incitando allo sciopero fiscale, sconsigliando di comprare i titoli di Stato, evocando la separazione del Sud mafioso dal resto dell’Italia, gridando all’imminente secessione della Padania».«Ma se la casa crolla, il Nord deve andarsene», è un sintomatico titolo della “Repubblica” del 31 dicembre 1992. Nell’articolo, il professor Miglio dipinge un futuro a tinte fosche per l’Italia. E pronostica un imminente, drammatico peggioramento della situazione economica, anticamera della secessione della Repubblica del Nord: «Se si arrivasse a non riuscire a controllare più niente, se non si riuscisse più ad avere i servizi, se la sicurezza e le garanzie crollassero, è evidente che ciascuno penserebbe a se stesso. Probabilmente anche il Sud se ne andrebbe per conto suo». Bingo: per Dezzani, «le parole dell’ideologo del Carroccio sono musica per chi, a Washington e Londra, lavora per tenere l’Italia in costante fibrillazione». Poco dopo, nel 1993, l’inchiesta di Mani Pulite ha sortito gli effetti sperati: Dc e Psi, che l’analista definisce «i vincitori morali della Guerra Fredda», sono stati spazzati via dal pool di Milano. «L’unico grande partito risparmiato dalle inchieste giudiziarie è stato il Pci, riverniciato ora come Pds, cui gli angloamericani contano di affidare il governo facendo affidamento sulla sua ricattabilità», dato che «nella Russia allo sfascio si comprano gli archivi del Kgb a prezzo di saldo».Se dalle successive elezioni uscisse un Nord saldamente in mano al Carroccio e un Centro-Sud in mano alla sinistra, «si concretizzerebbe lo scenario di una secessione “de facto” della Padania dal resto dell’Italia». Per la Lega Nord non che resta, a questo punto, che «ricevere la benedizione “ufficiale” da parte dell’establishment atlantico, dopo lunghi rapporti reconditi ed opachi». Così, il 18 ottobre 1993 una delegazione del Carroccio si reca in visita al quartier generale della Nato a Bruxelles. E il 23 ottobre è la volta degli Stati Uniti: una prima tappa a New York, per incontrare il milieu dell’alta finanza e di Wall Street, e una seconda tappa a Washington, dove sono in programma pranzi di lavoro con deputati e senatori repubblicani ed esponenti della National Italian American Foundation. Ma ecco che accade qualcosa di inatteso: «La “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, annunciata nell’autunno del 1993, è un evento non previsto dall’establishment atlantico», che secondo Dezzani puntava sulla bipartizione Lega (Nord) e sinistra (Centro-Sud). In più, il Cavaliere vince: «La neonata Forza Italia si impone alle elezioni politiche del 27-28 marzo 1994, drenando buona parte dei voti in uscita dal Psi e dalla Dc e imponendosi come primo partito del Nord Italia».La Lega, ferma all’8% delle preferenze su scala nazionale, dimostra ancora di non avere una forza sufficiente per strappare la secessione della Padania e attuare gli ambiziosi cambiamenti costituzionali sognati da Gianfranco Miglio. Forte di 122 deputati e 59 senatori, il Carroccio dispone però di un manipolo di parlamentari sufficienti per staccare la spina al primo governo Berlusconi, di cui è entrata a far parte nella cornice del Popolo della Libertà. Per Dezzani, riemerge quindi la vera natura della Lega Nord «come strumento politico nelle mani di Londra e Washington». E quando Berlusconi, durante la conferenza mondiale dell’Onu contro la criminalità organizzata, riceve un invito a comparire dal pool di Milano, Umberto Bossi «completa l’operazione per disarcionare il Cavaliere, togliendogli la fiducia e avvallando il “ribaltone” che insedia l’ex-Bankitalia Lamberto Dini a Palazzo Chigi». Si marcia così rapidamente verso nuove elezioni, e «ancora una volta il Carroccio agisce in perfetta sintonia con l’establishment atlantico: scegliendo di correre da solo e di non rinnovare l’alleanza col Popolo della Libertà, spiana la strada ai governi di Romano Prodi e Massimo D’Alema: seguirà “il contributo straordinario per l’Europa”, la scandalosa privatizzazione della Telecom, “la marchant bank” di Palazzo Chigi, la liquidazione finale dell’Iri, il vergognoso cambio di 2.000 lire per ogni nuovo euro, l’avvallo alle operazioni militari della Nato contro la Serbia».E così, mentre «quel che rimane dell’economia mista è smantellato a prezzi di saldo e i risparmi degli italiani sono immolati sull’altare della moneta unica», Umberto Bossi continua a blaterare di secessione, di camice verdi, di milizie armate del Nord, di rivolta fiscale. Dezzani lo definisce «utile idiota manovrato dall’oligarchia atlantica». La Lega tornerà al governo solo dopo le elezioni del 2001, quando i giochi “europei” saranno ormai fatti. Morale: «Le vicende della Lega Nord, di Gianfranco Miglio e di Umberto Bossi sono legate a doppio filo alla nascita Seconda Repubblica, alla perdita di qualsiasi sovranità nazionale e all’avvento della moneta unica». Secondo Dezzani, il Senatùr ne è perfettamente cosciente. Intervistato recentemente dal “Corriere della Sera”, dichiara: «Se venisse giù l’euro, verrebbe giù tutto, una situazione che nessuno saprebbe gestire. Tra l’altro, pagheremmo di più le materie prime, cosa che per un paese di trasformazione come l’Italia sarebbe un disastro. Berlusconi parla di doppia moneta, il che è una presa per il culo. Ma non è che Berlusconi non sia in grado di capire le cose». Per Dezzani, «sono le ultime battute dell’ennesima “stampella del potere”», sia pure in camicia verde.Ogni fase politica della Repubblica italiana è stata scandita da un partito “di protesta”, funzionale agli interessi dell’establishment atlantico: si comincia con L’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini per terminare col Movimento 5 Stelle di Gianroberto Casaleggio, passando per il Partito Radicale di Marco Pannella e la Lega Nord di Umberto Bossi. Fino alla recente svolta nazionalista, filorussa e anti-euro, il Carroccio è infatti stato uno dei tanti prodotti di Washington e Londra, schierato su posizioni “thatcheriane” ed europeiste. E’ la tesi di Federico Dezzani, analista geopolitico, impegnato in una ricostruzione “non convenzionale” della storia recente del nostro paese. Nei primi anni ‘90, ricorda, la Lega Nord avrebbe dovuto essere lo strumento per attuare un ambizioso disegno geopolitico: la frantumazione dello Stato unitario e la nascita di una confederazione di tre “macroregioni”, così da cancellare l’Italia come attore del Mar Mediterraneo. Questo, secondo Dezzani, il vero ruolo della Lega Nord durante Tangentopoli, a cominciare dalla figura, allora determinante, del suo ideologo, il professor Gianfranco Miglio.
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Davide Casaleggio, poco o nulla di fronte a problemi epocali
La recente convention di Ivrea, fatta per ricordare Casaleggio senior e lanciare i lineamenti di visione della società da parte di Casaleggio junior, è sembrata, a molti osservatori non certo pro Pd, piuttosto deludente. Visto il filo conduttore della giornata di Ivrea, il futuro, non si può dire però che questa dimensione temporale sia stata fatta intravedere agl italiani. Non è venuta fuori un’idea di società, verso la quale un eventuale governo M5S tenderebbe, quanto una serie di immagini da proporre a differenti segmenti di pubblico. Niente di male, solo che qui non si cerca di proporre una nuova serie di paste da cucina (gli spaghetti a un tipo di pubblico, le pennette lisce ad un altro e il brand per tutti) ma si è davanti a una crisi economica storica, ad un Pil in declino da un trentennio ad una società con problemi drammatici ed inediti. Un’idea di futuro invece deve connettere, e mobilitare, un’intera società. Non per il rispetto dell’etichetta ma perché il M5S vuol governare da solo e che, per farlo secondo la legge elettorale attuale, deve raggiungere il 40% ovvero almeno 1/3 in più in più dei voti attuali. Sempre, s’intende, seguendo le stime delle attuali intenzioni di voto.Per arrivare a questo risultato la mobilitazione deve essere inedita, almeno per questi anni, e per ora questo non si è visto. La stessa definizione che Davide Casaleggio dà del Movimento 5 Stelle («siamo Netflix, mentre i partiti sono ancora Blockbuster») non pare adatta a suscitare questa mobilitazione. Confonde, infatti, l’immaginario dell’impresa della comunicazione con quello dell’impresa tout court e quello dell’impresa tout court con quello della società. L’idea di futuro di una impresa e quello di una società, per quanto intrisa di aziendalismo come la nostra, vanno separate. Lo stesso Berlusconi, che scese in campo portandosi dietro un immaginario di ricchezza non comparabile con quello della Casaleggio, per prendere voti di massa a livello di opinione dovette ricorrere alla coltivazione, reiterata, di un immaginario di maschio-alfa che stava molto più nel profondo della società italiana di quello dell’impresa. Cercare di costruire un futuro con un immaginario da start-up è, infatti, prepararlo allo stesso rischio di fine precoce che corrono questo tipo di aziende.Davide Casaleggio aveva poi aperto, sul “Corriere della Sera”, all’interrogativo principale della giornata di Ivrea: la rivoluzione robotica e il suo impatto nella società. Roba un po’ schematica, sulla velocità della rivoluzione tecnologica ci sarebbe più da ragionare che fare marketing, ma che sicuramente tocca la struttura della società italiana: dall’organizzazione del lavoro a quella dell’amministrazione dello Stato, della formazione, della ricerca scientifica e del diritto. Per non parlare del tipo di economia che si vuole, e in che modo produce ricchezza (e che tipo di ricchezza produce), in una società a forte tasso di invecchiamento. Questioni da far tremare i polsi, sulle quali non si è visto un lineamento di risposta, sempre tenute sullo sfondo grazie alla questione del “come” finanziare il reddito di cittadinanza. Quella del possibile impatto – sociale, economico, amministrativo – di questa misura rimane invece taciuta. E, essere generico su questi temi, non è solo un difetto di Casaleggio ma anche di tanta sinistra: pensare che il reddito di cittadinanza, misura comunque inevitabile, sia una sorta di derivato della carità (che una volta assolta fa sentire la società uguale a prima solo piu’ solidale) o una misura che riguarda comunque la periferia del corpo sociale.Non siamo più nel ‘900: il reddito di cittadinanza, se erogato davvero, non è una misura di equilibrio sociale che sta tra welfare e mercato. Di fronte a una rivoluzione tecnologica, che distrugge strutturalmente più posti di lavoro di quanti ne produce (a differenza, appunto, del ‘900), il reddito di cittadinanza ha un impatto fortissimo sul mercato del lavoro, sulla forma delle istituzioni e dell’amministrazione. Fa uscire strutturalmente dal lavoro, se è reddito di cittadinanza, non più una nicchia ma una parte consistente di società. In maniera inedita dalla rivoluzione industriale. Presupponendo cambiamenti tali da mettere in discussione anche la presa della forma impresa nelle pieghe della società e nella estrazione della ricchezza. È uno dei motivi, oltre al fatto che la ricchezza in Europa va nei paesi “core” come finiva nel nord ricco dell’Italia postunitaria, per cui questo paese non ha mai trasformato la propria struttura di welfare consociativo, tra le parti sociali come si era configurato nella sua epoca matura, in welfare di cittadinanza. Sarebbe saltata la struttura del potere reale tanto che gli attori in campo hanno preferito trasformare, di volta in volta, il welfare consociativo in uno strumento, in parte borbonico in parte neoliberista, di allineamento alle esigenze di sviluppo della Ue e dell’Eurozona. Insomma, problemi epocali ai quali è impossibile rispondere con un immaginario da start-up. Ma quando ti nutri, in modo totemico, del sapere dell’impresa certi salti in avanti non li puoi fare.Oltretutto, quando in tv Casaleggio jr. si è trovato davanti alla classica domanda, sul come finanziare il reddito di cittadinanza come antidoto alla disoccupazione tecnologica, ha risposto non cercando di conquistare nuovo pubblico ma parlando a quello già conquistato. Ha parlato infatti di «partire dal taglio delle pensioni d’oro», eccetera, ovvero la già vincente retorica sugli sprechi che, anche se fosse praticata allo spasimo, non arriverebbe mai a finanziare una posta di spesa così grande. Segno, perlomeno, di grande confusione, prima di tutto su cosa fare dopo l’evento epocale (e lo è) della rivoluzione tecnologica. Segno che, nonostante i desideri sul futuro, non si arriva a produrre novità politiche e non resta che parlare il solito linguaggio della “casta che ruba”. Davide Casaleggio ha anche aggiunto che, sul finanziamento del reddito di cittadinanza, in fondo, è una questione dei tecnici. Nel migliore dei casi siamo alla visione naif della politica che traccia un’idea e i tecnici la praticano. Quando invece ogni “dettaglio” tecnico porta, nel momento in cui va risolto, a drammatiche scelte politiche, oltretutto quando il provvedimento è destinato a produrre (complesse) ondate di impatto sulla struttura sociale e amministrativa.Qui ci vogliono non i tecnici ma idee di indirizzo politico chiare, e robustamente organizzate, per arrivare a praticare una riforma del welfare, dell’amministrazione e degli obiettivi dello Stato, tale è il reddito di cittadinanza altro che misura “tecnica”, che entrerebbero sicuramente in conflitto con Bruxelles e Francoforte (per non dire Berlino). Insomma, l’evento dell’associazione Gianroberto Casaleggio, che è distinta dal Movimento 5 Stelle, si è impantanato nei difetti della solita convegnistica di impresa che un giorno tocca l’idea di banda ultralarga e l’altro di Industria 4.0: un po’ di spettacolo, un tema di fondo magari azzeccato e tanta genericità a contorno dell’evento. L’invito al Ceo di Google Italia, al direttore della Trilateral e a quello del Tg7 (nonché a qualche sociologo che questa convegnistica se l’è fatta tutta in area Pd-Bassolino), da parte di Casaleggio, stavano in questa cornice. Il problema è che questo genere di convegnistica è fatta, soprattutto, per sviluppare il capitalismo di relazione in settori specializzati. Se il format viene riproposto per delineare il futuro di un paese, le crepe si vedono tutte. La forma start-up non è in grado di rappresentare la profondità di un paese come il nostro. Ma difficile che su quelle rive si cambi idea.Certo se dall’associazione Casaleggio c’è questa confusione in campo 5 Stelle, e ci riferiamo alla politica monetaria, le turbolenze non mancano. Il referendum, previsto come consultivo dal M5S, sulla permanenza nell’euro o meno assumerebbe, in questa cornice, i tratti della più spettacolare manna dal cielo per la speculazione finanziaria (che le borse “banchino” i referendum ormai è prassi consolidata) e quello della paralisi delle politiche di un paese in attesa del risultato. Sicuramente in tutto questo c’è molta propaganda ma anche occhi molto smaliziati stentano a trovarci coerenza e sostanza. Nessuno si augura un domani di riveder di nuovo pascolare i Gentiloni, i Renzi, gli Alfano, le Camusso. Ma bisogna anche essere consapevoli di cosa sta accadendo anche da altre parti della politica. Perché si sta preparando l’ennesima turbolenza per questo paese, comunque vada. E i convegni del genere “imprese per un paese che cambia” queste turbolenze non le governano, al massimo ne vengono governati. Oppure vengono spazzati via e avanti il prossimo.(“Davide Casaleggio, poco o nulla di fronte a problemi epocali”, da “Senza Soste” dell’11 aprile 2017).La recente convention di Ivrea, fatta per ricordare Casaleggio senior e lanciare i lineamenti di visione della società da parte di Casaleggio junior, è sembrata, a molti osservatori non certo pro Pd, piuttosto deludente. Visto il filo conduttore della giornata di Ivrea, il futuro, non si può dire però che questa dimensione temporale sia stata fatta intravedere agl italiani. Non è venuta fuori un’idea di società, verso la quale un eventuale governo M5S tenderebbe, quanto una serie di immagini da proporre a differenti segmenti di pubblico. Niente di male, solo che qui non si cerca di proporre una nuova serie di paste da cucina (gli spaghetti a un tipo di pubblico, le pennette lisce ad un altro e il brand per tutti) ma si è davanti a una crisi economica storica, ad un Pil in declino da un trentennio ad una società con problemi drammatici ed inediti. Un’idea di futuro invece deve connettere, e mobilitare, un’intera società. Non per il rispetto dell’etichetta ma perché il M5S vuol governare da solo e che, per farlo secondo la legge elettorale attuale, deve raggiungere il 40% ovvero almeno 1/3 in più in più dei voti attuali. Sempre, s’intende, seguendo le stime delle attuali intenzioni di voto.
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Massoni al potere? Magaldi: chiedete a Monti e Napolitano
«Dal punto di vista giuridico, ha detto bene il gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Stefano Bisi: non si capisce perché la commissione antimafia pretenda gli elenchi degli iscritti al Goi e non anche quelli dei partiti o dei sindacati. Sono tutte associazioni legali. E lo Stato di diritto, che si vuole garantire con la lotta alla mafia, si tutela anche con il rispetto della privacy di chi – i massoni ordinari e per lo più inoffensivi – troppo spesso in Italia sono stati oggetto di demonizzazione e caccia alle streghe». Così Gioele Magaldi, leader del Grande Oriente Democratico, interpellato da Fabrizio Caccia del “Corriere della Sera” sulla polemica tra la massoneria italiana e Rosy Bindi, che Magaldi – presidente del Movimento Roosevelt – accusa di guidare una «caccia alle streghe antimassonica» col pretesto della lotta alla mafia. «I mafiosi, peraltro, si possono annidare anche in organizzazioni religiose, cui però non si chiedono liste». Magaldi contrattacca: se proprio vuole saperne di più, riguardo ad affiliazioni massoniche, perché la Bindi non si rivolge a Monti e Napolitano?«Inviterei Rosy Bindi a chiedere conto al senatore a vita Mario Monti e all’ex presidente Giorgio Napolitano delle influenze nefaste che le loro rispettive superlogge di appartenenza, “Babel Tower” e “Three Eyes”, hanno avuto sulla vita istituzionale e socio-economica dell’Italia», dichiara Magaldi, che chiede alla commissione antimafia di acquisire, agli atti, il suo libro “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere), nel quale rivela il ruolo di 36 Ur-Lodges internazionali (logge madri) indicate come “grandi manovratrici” delle maggiori trame di potere, in tutti i paesi, fino al pesante condizionamento dei governi, incluso quello italiano. «Senatori (Laura Bottici in particolare) e deputati M5S hanno presentato interrogazioni parlamentari sugli inquietanti legami massonici sovranazionali di ispirazione neoaristocratica che hanno ispirato l’incarico di governo dato dal “fratello” Napolitano al “fratello” Monti nel 2011, inaugurando uno degli esecutivi più rovinosi della storia della repubblica», dichiara Magaldi al giornalista del “Corriere”.In Italia, ricorda Magaldi, le principali comunioni massoniche sono il Goi, la Gran Loggia d’Italia, la Gran Loggia Regolare d’Italia e la Camea, «guidata dal mio fraterno amico Roberto Luongo». Poi, aggiunge, vi sono una moltitudine di comunioni (obbedienze) minori, per un totale di qualche decina di migliaia di massoni “ordinari”. «Ma, in Italia, come altrove – precisa Magaldi – a contare davvero non sono più queste comunioni (federazioni di logge su base nazionale), bensì le reti delle superlogge sovranazionali (Ur-Lodges)», a cui è dedicato l’esplosivo saggio uscito a fine 2014, in uscita in Spagna e in via di pubblicazione anche in inglese, francese, tedesco, russo, cinese e arabo. Magaldi, che nel suo libro ha “messo in piazza” i nomi dei massimi responsabili della svolta autoritaria e “neo-aristocratica” della politica internazionale, dominata da un’élite super-massonica “reazionaria”, denuncia al tempo stesso «i pregiudizi italioti verso la massoneria», e nel suo libro ricorda che «i massoni delle reti sovranazionali», in passato, hanno «costruito la contemporaneità, le società aperte, libere e democratiche, laiche, tolleranti e fondate sullo Stato di diritto». I giornali cadono dalle nuvole, quando si parla di massoneria di potere? «Li invito alla lettura del mio libro – conclude Magaldi – il cui sottotitolo “Società a responsabilità illimitata” lascia intuire qualcosa su cui i media faranno bene a riflettere con minore superficialità di quella adottata sinora».«Dal punto di vista giuridico, ha detto bene il gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Stefano Bisi: non si capisce perché la commissione antimafia pretenda gli elenchi degli iscritti al Goi e non anche quelli dei partiti o dei sindacati. Sono tutte associazioni legali. E lo Stato di diritto, che si vuole garantire con la lotta alla mafia, si tutela anche con il rispetto della privacy di chi – i massoni ordinari e per lo più inoffensivi – troppo spesso in Italia sono stati oggetto di demonizzazione e caccia alle streghe». Così Gioele Magaldi, leader del Grande Oriente Democratico, interpellato da Fabrizio Caccia del “Corriere della Sera” sulla polemica tra la massoneria italiana e Rosy Bindi, che Magaldi – presidente del Movimento Roosevelt – accusa di guidare una «caccia alle streghe antimassonica» col pretesto della lotta alla mafia. «I mafiosi, peraltro, si possono annidare anche in organizzazioni religiose, cui però non si chiedono liste». Magaldi contrattacca: se proprio vuole saperne di più, riguardo ad affiliazioni massoniche, perché la Bindi non si rivolge a Monti e Napolitano?
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Magaldi: chi spegne verità e democrazia se la vedrà con noi
Esplodono bombe, interi paesi sprofondano nella crisi, i missili di Trump piovono sulla Siria. E i media non raccontano la verità: tacciono, mentono, restano reticenti. C’è un piano mondiale, in atto da trent’anni: finanziare guerre, terremotare le economie e silenziare l’informazione. «Ebbene, vi dico: non prevarranno. I manovratori saranno pubblicamente denunciati e fermati». Parola di Gioele Magaldi, gran maestro del “Grande Oriente Democratico” nonché autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere), che denuncia per la prima volta, con impressionante precisione, le trame occulte di 36 superlogge internazionali, vero e proprio “back office” del potere, al lavoro da decenni per svuotare la democrazia a vantaggio dell’élite mondialista. In collegamento con Claudio Messora su “ByoBlu”, canale web finito di recente sotto attacco (boicottaggio pubblicitario da parte di Google), Magaldi raccoglie la sfida e prepara l’affondo a Roma, l’8-9 aprile, con un forum sul futuro della democrazia con ospiti come l’economista Nino Galloni, il magistrato Ferdinando Imposimato e un giornalista come Giulietto Chiesa, bandiera storica dell’informazione indipedente. Obiettivo: costringere il sistema a dire la verità, anche con la creazione di un nuovo partito, che si impegni a stracciare i trattati europei che stanno piegando l’Eurozona.L’emergenza, oggi, colpisce in primo luogo l’informazione: gli Usa sparano missili sulla Siria per abbattere Assad, e non l’Isis, senza che la grande stampa si premuri di ricordare che è stato proprio l’Occidente a “fabbricare” lo jihadismo, come cavallo di Troia geopolitico in Medio Oriente e come alibi, in Europa, per la politica securitaria motivata dal dilagare del terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, secondo la peggiore logica della strategia della tensione. A dare fastidio sono le verità che emergono dal web, le sole rimaste? Così parrebbe, visto l’attivismo «dell’ineffabile Laura Boldrini, proconsole di una filiale internazionale, che ha iniziato anche qui in Italia a preoccuparsi di imbavagliare la libera informazione». Magaldi non ha dubbi: «Negli ultimi anni, nel mondo, chi ha prodotto “fake news” non sono tanto i blogger, i siti indipendenti, quelli che cercano – come navi corsare, benemerite – di aprire degli spiragli nel pensiero unico del mainstream». Al contrario: «Il problema è stato spesso di chi ha fabbricato notizie false, e su questo ha anche costruito guerre, speculazioni finanziarie ai danni dei popoli, verso una destrutturazione di quello che sarebbe stato un processo virtuoso di globalizzazione della democrazia».Siamo all’eterna riedizione delle “armi di distruzione di massa” di Saddam, inventate di sana piana come pretesto per invare l’Iraq? Di suo, Magaldi aggiunge una lettura di taglio massonico: quanto di peggio è avvenuto, nel mondo, negli ultimi tre decenni, è stato progettato a tavolino da un’élite super-massonica apolide, decisa a mettere in atto una globalizzazione a mano armata e senza diritti, tantomeno quello all’informazione, su cui si fonda il pensiero democratico. Tutto si tiene, anche la «grottesca celebrazione dei Trattati di Roma affidata ai sedicenti europeisti che in realtà lavorano dal mattino alla sera per distruggere il progetto europeo, soffocato dall’economicismo dei tecnocrati: una camicia di forza che esaspera i nazionalismi, tra manine occulte e cancellerie asservite a interessi apolidi». Come se ne esce? «Noi – insiste Magaldi – abbiamo bisogno di un governo che abbia il coraggio di andare ai tavoli europei e dire: siamo tra i grandi contraenti del progetto europeo, vogliamo riscrivere i trattati, lavorare per un processo costituente per un’unione politica. Se ci state, bene. Altrimenti, se non si apre un dibattito, noi sospendiamo la vigenza dei trattati in Italia, accantonando tutte le retoriche europeiste o antieuropeiste».Gioele Magaldi pensa al Pdp, Partito Democratico Progressista, di cui è appena stato registrato il marchio, in vista delle prossime elezioni politiche. «Sarà un cantiere – spiega – al quale invitiamo tutti quelli che ne hanno abbastanza di sentir parlare di falsi democratici e falsi progressisti, come Bersani che ha votato il pareggio di bilancio in Costituzione, trasformando il Parlamento in una caserma per imporre il sì al Fiscal Compact. Misure-capestro, suicide per l’economia italiana, imposte «da uno dei governi più nefasti della storia, guidato dal massone reazionario Mario Monti, insediato dal massone ancora più reazionario Giorgio Napolitano». In Italia Monti, Letta e Renzi. E in Francia Hollande: «Doveva essere il campione anti-merkeliano e anti-austerity. Invece, tra blandizie e minacce, si è ridoto a un ruolo ornamentale, senza una sola proposta per un vero cambio di paradigma, in Europa». Renzi? «E’ stato poco furbo: se al referendum del 4 dicembre avesse inserito l’abolizione del pareggio di bilancio, avrebbe vinto».Peggio ancora dell’ex premier, forse, «gli avventurieri che vorrebbero appropriarsi delle parole “democratico” e “progressista”, dopo aver sorretto il governo Monti». Nella visione di Magaldi, non resta che ripartire dall’Italia per tentare di invertire il corso della storia, riaccendendo la luce sulla democrazia. A questo serve il “Master Roosevelt in scienze della polis”, che offre formazione per «conoscere le reti private sovranazionali che asservono ai propri interessi i governi eletti». Un’azione «di pedagogia e consapevolezza», fino a ieri limitata alla dimensione meta-partitica. Domani estesa anche all’agone elettorale? Magaldi appare deciso. Vede la necessità di «un partito “pesante”, novecentesco, democratico e ideologico, improntato al “socialismo liberale” di Carlo Rosselli, l’antifascista che diceva: è inutile parlare di libertà politiche e civili se non si offre ai cittadini anche una dignità economica per potersi occupare della res publica». Socialismo e liberalismo: «Keynes e Beveridge, il padre del welfare europeo, erano esponenti del Liberal Party». L’ipotetico nuovo soggetto politico punterebbe sull’elettorato in fuga dal Pd, su quello del centrodestra in pieno caos (e senz’ombra di primarie), rivolgendosi anche ai 5 Stelle: «Rappresentano una speranza, per l’Italia, a patto che si rivelino all’altezza della situazione, offrendo cioè uno spettacolo diverso da quello mostrato a Roma».Un nuovo partito, dunque? Sì, sembra dire Magaldi, se l’offerta politica italiana non offre alternative serie: e cioè un cambio radicale di paradigma. Stop al dogma neoliberista, senza mezzi termini. Come? «Dicendo quello che nessuno dice chiaramente: primo punto del programma, la revisione dei trattati europei. Tutti cianciano, parlano di uscire dall’euro, ma nessuno chiede apertamente, formalmente, di farla finita con questa Ue». Insiste Magaldi: «Propongo una riforma costituzionale per eliminare il pareggio di bilancio. Ho sentito che tutti i partiti che l’hanno votata se ne lamentano, si dicono pentiti. Bene, sfidiamoli: mettiamoli alla prova». Con un nuovo partito? Non ci lasciano altra scelta, sembra concludere Magaldi, che pensa alla discesa in campo. E, citando le «reti massoniche progressiste» a cui fa riferimento, si spende per «rassicurare tutti gli operatori dell’informazione libera e tutti i cittadini», per dire che il bavaglio al web non passerà. «Questi tentativi odiosi saranno sventati. Saranno anche denunciati. E tutti coloro che oggi si stanno impegnando in questa campagna liberticida, oltre a fallire, verranno sottoposti al giudizio severissimo della pubblica opinione», che ha imparato che giornali e televisioni non spiegheranno mai che, dietro ai missili di Trump, ci sono i “padrini” dell’Isis, di cui Magaldi – nel suo libro – fa nomi e cognomi.Esplodono bombe, interi paesi sprofondano nella crisi, i missili di Trump piovono sulla Siria. E i media non raccontano la verità: tacciono, mentono, restano reticenti. C’è un piano mondiale, in atto da trent’anni: finanziare guerre, terremotare le economie e silenziare l’informazione. «Ebbene, vi dico: non prevarranno. I manovratori saranno pubblicamente denunciati e fermati». Parola di Gioele Magaldi, gran maestro del “Grande Oriente Democratico” e presidente del metapartitico Movimento Roosevelt nonché autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere), che denuncia per la prima volta, con impressionante precisione, le trame occulte di 36 superlogge internazionali, vero e proprio “back office” del potere, al lavoro da decenni per svuotare la democrazia a vantaggio dell’élite mondialista. In collegamento con Claudio Messora su “ByoBlu”, canale web finito di recente sotto attacco (boicottaggio pubblicitario da parte di Google), Magaldi raccoglie la sfida e prepara l’affondo a Roma, l’8-9 aprile, con un forum sul futuro della democrazia con speaker come l’economista Nino Galloni, il magistrato Ferdinando Imposimato e un giornalista come Giulietto Chiesa, bandiera storica dell’informazione indipendente. Obiettivo: costringere il sistema a dire la verità, anche con la creazione di un nuovo partito, che si impegni a stracciare i trattati europei che stanno piegando l’Eurozona.
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Le Pen vince o perde? Da noi è uguale, va male a Pd e M5S
Cattive notizie, per i maggiori partiti italiani – 5 Stelle e Pd – sia in caso di vittoria di Marine Le Pen, sia in caso di sconfitta della “signora” del Front National. E’ il politologo Aldo Giannuli a provare a valutare i riflessi, sul nostro paese, dell’evento europeo più atteso (e temuto), le presidenziali francesi, tra poco più di due mesi. «La prima conseguenza sarà di carattere generale e riguarderà l’Europa: se a vincere sarà la Le Pen, non c’è dubbio che salterà tutto in aria, euro, Ue e compagnia cantante». Se invece dovesse affermarsi Fillon, o più probabilmente Macron, «questo non risolverà la crisi della Ue, ma, al massimo, gli darà un po’ di fiato per qualche tempo, soprattutto se la Le Pen dovesse superare il 45%». Quanto all’Italia, in caso di vittoria della Le Pen, «ovviamente il maggior beneficiario sarebbe Salvini, che potrebbe aspirare alla leadership della destra e ad un risultato con almeno il 2 davanti per il suo partito, soprattutto se Toti e i suoi amici dovessero staccarsi da Fi». Tramonterebbe la stella del Cavaliere, che dovrebbe «rassegnarsi alla marginalità o ad accettare la leadership di Salvini», e si aprirebbe uno «scenario da incubo per il Pd», che dovrebbe «fronteggiare una marea anti-euro».Il Pd, continua Giannuli nella sua analisi, in caso di boom No-Euro «non avrebbe neppure un possibile alleato di governo (Fi)», e sarebbe «costretto a schiacciarsi contro la sua sinistra e cercare qualche intesa con il M5S». Se il segretario fosse ancora Renzi, «il suo declino acclererebbe e la crisi del Pd si approfondirebbe, con rischio di nuove scissioni». Ma lo scenario sarebbe «non bello» anche per il Movimento 5 Stelle, «che scoprirebbe che la Lega non è un possibile alleato, ma un temibile concorrente che inizierebbe a insidiare il suo elettorato». Per il Mdp – gli scissionisti bersaniani – potrebbero aprirsi spazi nel caso di crisi del Pd, «ma potrebbero ridursi se questo portasse ad una nuova segreteria più di “sinistra”» del Partito Democratico, «che potrebbe portare al rientro di almeno una parte del partito appena nato». Di riflesso, in questo caso, “Sinistra Italiana” «potrebbe giovarsi del rapido declino di Mdp». Morale: se Marine Le Pen conquista l’Eliseo, in Italia «fine della legislatura già dal giorno dei risultati, e nuove elezioni entro sei mesi».E lo scenario che vede la Le Pen sconfitta? «Ovviamente, il maggiore danneggiato sarebbe Salvini, che forse pagherebbe il prezzo di una scissione di Bossi e vedrebbe archiviato il suo sogno di diventare il leader di tutta la destra». Per contro, «questo segnerebbe il rilancio del Cavaliere, che potrebbe tornare ad essere il punto di attrazione della destra», e non solo per i leghisti e “Fratelli d’Italia”, «ma anche per la residua area di centro (Alfano, Casini, Verdini e frattaglie varie, da Tosi a Marchini a Fitto e ai resti dell’ex area Giannino)», e questo, secondo Giannuli, potrebbe riportare Forza Italia oltre il 20% e l’area di centrodestra «verso un pericoloso 34-35%». Per il Pd «sarebbe una (amarissima) mezza vittoria, perché gli darebbe l’alleato con cui fare un governo di “unione nazionale” o giù di lì, ma potrebbe farlo diventare terzo schiacciato fra la nuova destra ed il M5S: brutto affare, che riproporrebbe la crisi interna». I 5 Stelle potrebbero «uscirne bene, evitando la concorrenza della Lega», che però, in uno scenario del genere, «difficilmente potrebbe appoggiare dall’esterno un governo Di Maio, ammesso che i voti possano bastare». Ma, se (come sembra probabile) il partito di Grillo non dovesse raggiungere il 40%, «si troverebbe a fare i conti con la delusione della sua base». Risultato: «Probabile governo Fi-Pd e durata un po’ più lunga della legislatura, diciamo 2 anni».Cattive notizie, per i maggiori partiti italiani – 5 Stelle e Pd – sia in caso di vittoria di Marine Le Pen, sia in caso di sconfitta della “signora” del Front National. E’ il politologo Aldo Giannuli a provare a valutare i riflessi, sul nostro paese, dell’evento europeo più atteso (e temuto), le presidenziali francesi, tra poco più di due mesi. «La prima conseguenza sarà di carattere generale e riguarderà l’Europa: se a vincere sarà la Le Pen, non c’è dubbio che salterà tutto in aria, euro, Ue e compagnia cantante». Se invece dovesse affermarsi Fillon, o più probabilmente Macron, «questo non risolverà la crisi della Ue, ma, al massimo, gli darà un po’ di fiato per qualche tempo, soprattutto se la Le Pen dovesse superare il 45%». Quanto all’Italia, in caso di vittoria della Le Pen, «ovviamente il maggior beneficiario sarebbe Salvini, che potrebbe aspirare alla leadership della destra e ad un risultato con almeno il 2 davanti per il suo partito, soprattutto se Toti e i suoi amici dovessero staccarsi da Fi». Tramonterebbe la stella del Cavaliere, che dovrebbe «rassegnarsi alla marginalità o ad accettare la leadership di Salvini», e si aprirebbe uno «scenario da incubo per il Pd», che dovrebbe «fronteggiare una marea anti-euro».
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Se l’Italia cambia padrone, qualcuno la sta “sovragestendo”
«Matteo Renzi è un politico finito. Ha deluso tutti, non ha mai rispettato la parola data: a Bersani, Letta, Berlusconi». Ora ha anche tradito l’impegno preso con gli italiani, a cui aveva promesso di sparire dalla circolazione in caso di sconfitta al referendum. Che il “rottamatore” fosse al capolinea lo diceva, prima ancora del 4 dicembre, l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che illumina oscuri retroscena del potere italiano, «sovragestito dalla P1», struttura-ombra (mai denunciata da nessun altro) che sarebbe il vero “dominus” delle trame di palazzo, attraverso personaggi come il politologo americano Michael Ledeen, che Carpeoro presenta come esponente di vertice della super-massoneria reazionaria, anche affiliato al B’nai B’rith, cellula massonica super-segreta controllata dal Mossad. Per Carpeoro, Ledeen avrebbe “gestito” «prima Craxi e poi Di Pietro, quindi Renzi e contemporaneamente il grillino Di Maio». La tesi dell’avvocato: «Non sono le persone a fare progetti di potere, è il potere a fare progetti sulle persone».Cambiano i musicisi, non la musica. Renzi? «Pur dicendosi “di sinistra” ha bussato per anni, inutilmente, alle porte della super-massoneria conservatrice», afferma Gioele Magaldi, autore del libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”. Non gli è stato aperto: «Persino Napolitano si è rifiutato di fargli da garante». Ora, sembra arrivato l’avviso di sfratto: per via giudiziaria, tanto per cambiare. «Via Renzi, è già pronto Di Maio», diceva Carpeoro, mesi fa. Alla luce degli ultimi sviluppi, in effetti, suona meno “strano” l’improvviso voltafaccia di Grillo al Parlamento Europeo, con il rocambolesco abbandono di Farage dopo la vittoria sulla Brexit per tentare di approdare al gruppo centrista pro-euro, in cui milita Mario Monti. Come se il capo dei 5 Stelle avesse voluto inviare un segnale chiarissimo di “affidabilità”, rispetto al vero potere che gestisce l’Europa, l’economia, la finanza. Altro dettaglio, fondamentale: nel “MoVimento”, chi dissente è perduto: condannato alla pubblica esecrazione, e persino – se cambia casacca – invitato a pagare una penale.Impossibile coltivare idee diverse da quelle del Capo: è dunque un esercito di terracotta, quello che domani – tramontato Gentiloni – potrebbe prendere in mano il governo del paese? Tiene ancora banco il refrain dell’“uno vale uno”, ma – beninteso – ammesso che sia allineato con l’unico, vero Numero Uno. In libri come “Il golpe inglese”, scritto con Mario Josè Cereghino, il giornalista Mario Fasanella sostiene che l’Italia sia sempre stata “sovragestita” da poteri esterni, stranieri, economici e finanziari. Lo stesso Jobs Act, rivela Paolo Barnard, è stato scritto – due anni prima dell’adozione, da parte di Renzi – dalla potentissima “Business Europe”, think-tank che “detta le leggi” alla Commissione Europea. L’Italia politica è nel caos: il Pd si spappola, Renzi è sotto attacco (il padre indagato, nell’inchiesta che sta coinvolgendo il ministro Lotti e altri renziani) e i 5 Stelle che serrano i ranghi, dichirando guerra al dissenso interno: come se si stesse avvicinando una grande burrasca (le elezioni francesi, la Le Pen, l’euro che vacilla insieme all’Ue). Serviranno “soldati”, addestrati a obbedire? E nel caso, a chi? Chi sta “sovragestendo”, oggi, la palude italiana?«Renzi finirà asfaltato dai No, e il suo successore lo stabilirà il Vaticano», disse, mesi prima del referendum, il “profeta” Rino Formica, già ministro socialista nella Prima Repubblica. Bingo: Paolo Gentiloni è discendente della famiglia dei conti Gentiloni Silveri, “nobili di Filottrano, Cingoli e Macerata”, storicamente al servizio della Santa Sede. Dai media mainstream, sempre lontani anni luce dalle “fake news” (leggasi: notizie scomode) contro cui si sta abbattendo l’offensiva di Laura Boldrini (una legge speciale per imbavagliare il web, come se già non esistessero leggi a tutela dei cittadini diffamati), è impossibile ricavare analisi di scenario, oltre alla piccola agenda tattica di partiti e leader. Chi sta “sovragestendo” il paese, oggi, a parte il Vaticano che sicuramente “apprezza” Gentiloni? Carpeoro è pessimista: «Non emerge un piano-B che contesti l’attuale sistema, in base al quale, perché noi si stia meglio, qualcuno deve per forza stare peggio». Unico spiraglio: «La base elettorale dei 5 Stelle, animata da forti motivazioni etiche».Più ottimista invece Magaldi, che dopo aver segnalato (mai smentito da nessuno) la presenza di D’Alema, Napolitano, Monti e Padoan nella super-massoneria oligarchica, responsabile della globalizzazione antidemocratica, privatizzatrice e mercantilista, oggi scommette sul collasso del Pd, che «darebbe fiato a nuove istanze progressiste e democratiche finalmente autentiche», archiviata la “finta sinistra” che ha svenduto il paese ai potentati economici stranieri precipitando l’Italia in questa crisi senza fine. Troppo ottimista, Magaldi? Da più parti si fa notare il ritorno della “giustizia a orologeria” denunciata per anni da Berlusconi: l’inchiesta che lambisce Renzi coincide alla perfezione con il calendario della condanna in primo grado dell’alleato Verdini. Sembra un messaggio all’ex premier, mai accolto nel “salotto buono” in cui siedono molti altri italiani, da Mario Draghi a Emma Marcegaglia. Il caos cresce, e del Piano-B (restituire sovranità finanziaria a un governo finalmente eletto, autorizzato a investire denaro pubblico per produrre occupazione) non c’è neppure l’ombra.«Matteo Renzi è un politico finito. Ha deluso tutti, non ha mai rispettato la parola data: a Bersani, Letta, Berlusconi». Ora ha anche tradito l’impegno preso con gli italiani, a cui aveva promesso di sparire dalla circolazione in caso di sconfitta al referendum. Che il “rottamatore” fosse al capolinea lo diceva, prima ancora del 4 dicembre, l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che illumina oscuri retroscena del potere italiano, «sovragestito dalla P1», struttura-ombra (mai denunciata da nessun altro) che sarebbe il vero “dominus” delle trame di palazzo, attraverso personaggi come il politologo americano Michael Ledeen, che Carpeoro presenta come esponente di vertice della super-massoneria reazionaria, anche affiliato al B’nai B’rith, cellula massonica super-segreta controllata dal Mossad. Per Carpeoro, Ledeen avrebbe “gestito” «prima Craxi e poi Di Pietro, quindi Renzi e contemporaneamente il grillino Di Maio». La tesi dell’avvocato: «Non sono le persone a fare progetti di potere, è il potere a fare progetti sulle persone».
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Magaldi: dal Pd solo macerie, dov’è il Piano-B per l’Italia?
Quella italiana è la situazione più magmatica ma anche più feconda di tutta Europa. E la partita fondamentale per il futuro della democrazia nel mondo si gioca in Europa, più ancora che negli Stati Uniti, perché gli Usa, grazie all’uragano Trump, troveranno nuove condizioni di riflessione, sui valori progressisti e sui valori conservatori. Quindi, grazie alla “cura Trump”, una cura da cavallo, vedo che lì il processo virtuoso si è già avviato. Naturalmente in molti fanno fatica a capirlo, ma capiranno col tempo. In altri paesi ci sono troppi incancrenimenti, con brontosauri di epoche ormai da superare, finti socialdemocratici che finiscono con l’allearsi con partiti più o meno popolari. In Italia invece la situazione è più fluida: grazie anche al Movimento 5 Stelle, che ha rotto la finta alternanza tra centrodestra e centrosinistra, si sono aperti nuovi giochi, che adesso vengono moltiplicati da questa crisi interna al Pd, animata da vecchie cariatidi che vanno a costituire gruppi sedicenti democratici e sedicenti progressisti.Come un sergente di caserma, Bersani imponeva ai parlamentari del Pd di votare come un sol uomo il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio in Costituzione, le misure suicide e nefaste del governo Monti. Che si presenti oggi come una prospettiva progressista e pretenda di criticare Renzi sul versante dell’attenzione ai problemi sociali fa ridere i polli. Dietro Bersani, poi, ci sono giovanotti che si sono trovati a fare i capigruppo alla Camera di un grande partito come il Pd, e parlo di Roberto Speranza. Come si fa a pensare che le speranze di nuovo progressismo in Italia siano affidate a personaggi modestissimi, che hanno ancora molta gavetta da fare? Magari avrà dei talenti nascosti, di cui non ci siamo accorti, ma non ricordo, da Speranza (e nemmeno da Bersani) uno straccio di idea complessiva di sviluppo democratico del paese, in senso alternativo e progressista. L’unica alternativa mi sembra quella al potere, di Renzi. Non lo è D’Alema, vecchio arnese, brontosauro come pochi, che ha avuto la chance di governare l’Italia da Palazzo Chigi e dirigere quello che è stato il Pds-Ds. Questo personaggio, che ha fatto molti denari e che vive nel lusso, oggi diventa uno dei capifila di queste istanze socialisteggianti? Fa ridere i polli, insieme a Bersani e a Speranza.Quella del Pd è una vicenda di lotte di potere, e i cittadini la vedono come tale, nessuno si inganna. Al di là della retorica di facciata, anche all’interno del Pd tutti capiscono che è una lotta per il potere. Costoro non hanno alcuna idea diversa da quelle di Renzi, e l’hanno dimostrato nel fiancheggiamento del governo Monti, ma si sentono emarginati e marginalizzati. Vale per tutti l’esempio di Emiliano, che ha deciso di rimanere ma era tra i grandi sostenitori di Renzi. Ma Renzi non l’ha considerato troppo, nel governo della Regione Puglia, e così Emiliano l’ha fatto capire – anche pateticamente: sembrava un’amante che si sente trascurata e rimprovera il partner. Questa crisi nel Pd è un dibattito di potere – non sulle idee, non sui progetti per il paese. L’ha fatto anche Fassina, prima ancora, andando a fondare Sinistra Italiana: quando ha fatto il viceministro era del tutto accondiscendente alla linea allora di Saccomanni, salvo qualche distinguo per avere un po’ di platea, e ricordo – nell’imminenza delle elezioni 2013 – le dichiarazioni rese da Fassina e Bersani, a grandi quotidiani internazionali, per rassicurare tutti sul fatto che il governo Bersani, con Fassina candidato al dicastero dell’economia, sarebbe stato nella continuità col governo Monti.Quindi, tutti quanti – dai nuovi sgangherati gruppi parlamentari sedicenti democratico-progressisti a Sinistra Italiana – non rappresentano il futuro progressista e democratico (keynesiano, rooseveltiano) per l’Italia. L’Italia ha bisogno di una prospettiva ampia, che riguardi tanto l’economia che la vita delle istituzioni, ma anche le prospettive estere e un orizzonte di leadership nel Mediterraneo. Per far questo c’è bisogno di un nuovo soggetto politico, partitico, che si chiami “partito” e non “movimento”, come i partitini che pensano di accattivarsi gli elettori del Movimento 5 Stelle. C’è bisogno di un ritorno ai partiti solidi: non si tratta di tornare all’antico, alla Prima Repubblica, ma di recuperare il meglio dell’esperienza del passato. I partiti devono avere correnti e pluralismo: limpida dialettica interna, anziché la “notte dei lunghi coltelli” che si sta consumando nel Pd. Ho molto ottimismo, perché molte cose di muovono e, in Italia, questo magma sarà fecondissimo.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a David Gramiccioli durante la diretta a “Colors Radio” il 27 febbraio 2017, nella quale Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, ha annunciato l’imminente lancio di un nuovo partito, “democratico e progressista”).Quella italiana è la situazione più magmatica ma anche più feconda di tutta Europa. E la partita fondamentale per il futuro della democrazia nel mondo si gioca in Europa, più ancora che negli Stati Uniti, perché gli Usa, grazie all’uragano Trump, troveranno nuove condizioni di riflessione, sui valori progressisti e sui valori conservatori. Quindi, grazie alla “cura Trump”, una cura da cavallo, vedo che lì il processo virtuoso si è già avviato. Naturalmente in molti fanno fatica a capirlo, ma capiranno col tempo. In altri paesi ci sono troppi incancrenimenti, con brontosauri di epoche ormai da superare, finti socialdemocratici che finiscono con l’allearsi con partiti più o meno popolari. In Italia invece la situazione è più fluida: grazie anche al Movimento 5 Stelle, che ha rotto la finta alternanza tra centrodestra e centrosinistra, si sono aperti nuovi giochi, che adesso vengono moltiplicati da questa crisi interna al Pd, animata da vecchie cariatidi che vanno a costituire gruppi sedicenti democratici e sedicenti progressisti.
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Crolla la grande truffa della sinistra, che ha tradito il popolo
La sinistra non è solo allo sbando – è al completo collasso perché la classe operaia si è accorta del tradimento della sinistra e del suo abbandono della classe operaia per costruire ricchezza personale e potere. La fonte dell’angoscia rabbiosa che scuote il campo progressista del Partito Democratico non è il presidente Trump – è il completo collasso della sinistra a livello globale. Per capire questo crollo, dobbiamo rivolgerci (ancora una volta) alla comprensione profonda che Marx aveva dello Stato e del capitalismo. Non stiamo parlando del marxismo culturale che gli americani conoscono a livello superficiale, ma del nocciolo della sua analisi economica che, come notava Sartre, viene insegnata al solo fine di screditarla. Il marxismo culturale attinge anch’esso da Engels e Marx. Nell’uso moderno, il marxismo culturale indica l’aperto scardinamento dei valori tradizionali – la famiglia, la comunità, la fede religiosa, i diritti di proprietà e un governo centrale limitato – in favore di un cosmopolitismo senza radici e uno Stato centrale espansivo e onnipotente che sostituisce la comunità, la fede e i diritti di proprietà con meccanismi di controllo statalista che impongono la dipendenza dallo Stato stesso, e una mentalità secondo la quale l’individuo è colpevole di pensiero anti-statalista fino a prova contraria, determinata dalle regole dello Stato stesso.La critica di Marx al capitalismo è di natura economica: il capitale e il lavoro sono in eterno conflitto. Nell’analisi di Marx il capitale ha la meglio fino a che le contraddizioni interne del capitalismo non erodono dall’interno le sue capacità di controllo. Il capitale non domina solo il lavoro; domina anche lo Stato. Perciò la versione “statale” del capitalismo che domina a livello globale non è una coincidenza o un’anomalia – è l’unico esito possibile di un sistema nel quale il capitale è la forza dominante. Per contrastare il dominio del capitale sono sorti i movimenti politici socialdemocratici, per strappare alcune misure dalle mani del capitale e volgerle in favore del lavoro. I movimenti socialdemocratici sono stati ampiamente aiutati dal “quasi crollo” della prima versione del capitalismo statale [cartel capitalism] durante la Grande Depressione, quando la cancellazione del debito deteriorato avrebbe comportato la distruzione dell’intero sistema bancario e azzoppato la funzione principale del capitalismo, quella di far crescere il capitale stesso tramite un’espansione del debito.I padroni del capitale, decimati, capirono di avere un’unica scelta: resistere fino ad essere rovesciati dall’anarchismo o dal comunismo, oppure cedere un po’ della loro ricchezza e del loro potere ai partiti socialdemocratici in cambio di stabilità sociale, politica ed economica. In termini generali si direbbe che la sinistra favorisce il lavoro (i cui diritti sono protetti dallo Stato) mentre la destra favorisce il capitale (i cui diritti sono ugualmente protetti dallo Stato). Ma nel corso degli ultimi 25 anni di neoliberalismo globalizzato, i movimenti socialdemocratici hanno abbandonato il lavoro per abbracciare la ricchezza e il potere che gli venivano offerti dal capitale. L’essenza della globalizzazione è questa: il lavoro viene mercificato mentre il capitale mobile è libero di girare in qualsiasi angolo del mondo per cercare il costo del lavoro minore possibile. Al contrario del capitale, il lavoro è molto meno mobile, non è in grado di spostarsi fluidamente e senza frizioni come fa il capitale, alla ricerca di opportunità e di scarsità da sfruttare a proprio vantaggio.Il neoliberalismo – l’apertura dei mercati e delle frontiere – permette al capitale di schiacciare il lavoro senza alcuno sforzo. I socialdemocratici, nel momento in cui abbracciano l’idea dei “confini aperti”, istituzionalizzano l’apertura all’immigrazione; questa disintegra il valore della forza lavoro dato dalla sua scarsità sul mercato interno, e permette di abbassarne il prezzo grazie al lavoro degli immigrati, a tutto vantaggio del desiderio del capitale di abbattere i costi. La globalizzazione, la finanza neoliberale e le politiche di immigrazione determinano il crollo della sinistra e la vittoria del capitale. Ora è il capitale a dominare totalmente lo Stato e le sue strutture clientelari – i partiti politici, le lobby, i contributi alle campagne elettorali, le fondazioni di beneficienza che operano a pagamento, e tutte le altre strutture del capitalismo di Stato. Per nascondere il crollo della difesa economica del lavoro da parte della sinistra, i sostenitori della sinistra e la macchina delle pubbliche relazioni hanno sostituito i movimenti per la giustizia sociale alle lotte per acquisire sicurezza economica e capitale.Questo è riuscito alla perfezione, e decine di milioni di autoproclamati “progressisti” si sono bevuti la Grande Truffa della sinistra, secondo la quale le campagne di “giustizia sociale” in nome di gruppi sociali emarginati sarebbero la vera caratteristica distintiva dei movimenti progressisti e socialdemocratici. Questo giochetto da prestigiatore, questo abbraccio delle campagne per la “giustizia sociale” economicamente neutre, ha mascherato il fatto che i partiti socialdemocratici avevano intanto gettato il lavoro nel tritacarne della globalizzazione, dell’apertura all’immigrazione e della libera circolazione del capitale, che intanto era tutto contento dell’abbandono del lavoro da parte della sinistra. Nel frattempo i furboni della sinistra si sono ingozzati delle concessioni elargite dal capitale in cambio del loro tradimento. Vengono in mente i “guadagni” di Bill e Hillary Clinton per 200 milioni di dollari, e innumerevoli altri esempi di arricchimenti personali da parte di autoproclamati “difensori” del lavoro. La sinistra non è solo allo sbando – è al crollo totale – ora che la classe lavoratrice si è svegliata e si è resa conto del tradimento e dell’abbandono da parte di chi si è occupato solo del proprio interesse personale. Chiunque lo neghi non si è ancora reso conto della Grande Truffa della Sinistra.(Charles Hugh-Smith, “Crolla la grande truffa della sinistra”, dal blog “Of Two Minds” del 23 gennaio 2017, ripreso da “Voci dall’Estero”).La sinistra non è solo allo sbando – è al completo collasso perché la classe operaia si è accorta del tradimento della sinistra e del suo abbandono della classe operaia per costruire ricchezza personale e potere. La fonte dell’angoscia rabbiosa che scuote il campo progressista del Partito Democratico non è il presidente Trump – è il completo collasso della sinistra a livello globale. Per capire questo crollo, dobbiamo rivolgerci (ancora una volta) alla comprensione profonda che Marx aveva dello Stato e del capitalismo. Non stiamo parlando del marxismo culturale che gli americani conoscono a livello superficiale, ma del nocciolo della sua analisi economica che, come notava Sartre, viene insegnata al solo fine di screditarla. Il marxismo culturale attinge anch’esso da Engels e Marx. Nell’uso moderno, il marxismo culturale indica l’aperto scardinamento dei valori tradizionali – la famiglia, la comunità, la fede religiosa, i diritti di proprietà e un governo centrale limitato – in favore di un cosmopolitismo senza radici e uno Stato centrale espansivo e onnipotente che sostituisce la comunità, la fede e i diritti di proprietà con meccanismi di controllo statalista che impongono la dipendenza dallo Stato stesso, e una mentalità secondo la quale l’individuo è colpevole di pensiero anti-statalista fino a prova contraria, determinata dalle regole dello Stato stesso.
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Può finire il Pd, non il romanzo criminale che sabota l’Italia
In “Romanzo criminale”, la saga della Banda della Magliana ripercorsa da Giancarlo De Cataldo, nessuno riesce mai neppure a sfiorare il supremo potere del Grande Vecchio, il burattinaio che agisce nell’ombra e, dal Palazzo, manovra i fili che tengono insieme una sceneggiatura anche atroce, in cui si muovono guardie e ladri, terroristi e affaristi, servizi segreti e malavita imprenditrice. Nel saggio “Il più grande crimine”, il giornalista Paolo Barnard ricostruisce in chiave criminologica quello che chiama “economicidio” dell’Italia, in tre mosse: divorzio tra governo e Bankitalia, adesione all’Unione Europea, ingresso nell’Eurozona. Matematico: crisi, disoccupazione, super-tasse, taglio del welfare e dei salari, crollo dei consumi, sofferenze bancarie ed esplosione del debito pubblico, che diviene improvvisamente “tossico” perché non più ripagabile, non più denominato in moneta sovrana liberamente disponibile. A monte: il Memorandum Powell, la guerra storica contro la sinistra dei diritti del lavoro (dalla legge Biagi al Jobs Act), la “crisi della democrazia” evocata dai cantori della Trilaterale, fino alla spazzatura terminale dell’Ue, il Fiscal Compact, la morte clinica del bilancio pubblico degli Stati, ridotti a esattori per la più colossale operazione di money-transfer della storia moderna, dal basso verso l’alto, attraverso la privatizzazione universale neoliberista.Nella sua visione da criminologo, Barnard fa i nomi: Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi vietarono alla Banca d’Italia di continuare a fare da “bancomat del governo” a costo zero, imponendo allo Stato, da quel momento, di finanziarsi diversamente: ricorrendo cioè alla finanza privata attraverso l’emissione di bond, a beneficio della grande finanza, cui da allora lo Stato avrebbe riconosciuto lauti interessi, facendo esplodere il debito pubblico. Poi l’euro, cioè l’istituzionalizzazione definitiva della “trappola finanziaria”: lo Stato non può più fare retromarcia, deve “prendere in prestito” la moneta emessa da un soggetto esterno, la Bce, i cui azionisti sono le banche centrali non più pubbliche, ma controllate da cartelli bancari privati. A quel punto è l’euro a imporre la sua legge, attraverso la Commissione Europea, cioè il governo non-eletto dell’Europa. E la Commissione Europea vara la norma finale, esiziale, per qualsiasi governo democratico: il pareggio di bilancio, che equivale al decesso finanziario dello Stato. In regime di sovranità (Usa, Giappone, resto del mondo) il debito pubblico misura la salute del paese: più il deficit è alto, più l’economia è prospera. L’Unione Europea inverte i termini del paradigma: taglia la spesa pubblica, e ottiene crisi. L’Italia, addirittura, ha inserito il pareggio di bilancio in Costituzione. E, peggio ancora, da anni il bilancio italiano è in “avanzo primario”: per i cittadini, lo Stato spende meno di quanto i contribuenti versino in tasse.Come si è arrivati a questo? Smantellando la sinistra, risponde Barnard, citando l’avvocato Lewis Powell, uno stratega di Wall Street incaricato dalla Camera di Commercio Usa, all’inizio degli anni ‘70, di redigere un vademecum per guidare l’élite, spodestata dalla democrazia sociale nel dopoguerra, verso la riconquista dell’atavico potere perduto. Detto fatto, come da manuale: leader radicali stroncati, leader riformisti “comprati” per annacquare i loro partiti e sindacati, rendendoli docili e spingendoli a convincere i loro elettori ad accettare “riforme” concepite per “smontare” le tutele sociali, privatizzando progressivamente l’economia. Campioni assoluti, in Italia: personaggi come Romano Prodi, Giuliano Amato e Massimo D’Alema. Berlusconi? Irrilevante: si è limitato a proteggere i suoi interessi. Gli artefici delle “riforme strutturali” provengono tutti dalla sinistra storica: la più adatta, come insegna Lewis Powell, a convincere la società ad affrontare dolorosi “sacrifici”, magari imposti sulla base di norme senza alcun fondamentio economico, come il famigerato limite alla spesa pubblica, non oltre il 3% del Pil. Una invenzione di François Mitterrand, come ricorda l’economista Alain Parguez, allora consulente del presidente francese. Mitterrand? «Un monarchico, travestito da socialista». L’ennesima maschera della sinistra messasi al servizio del supremo potere oligarchico, neo-feudale, ansioso di sbarazzarsi dell’ingombro della democrazia per tornare all’antico splendore.La “mente” di Mitterrand? Jacques Attali, che Barnard definisce “il maestro” di D’Alema, l’ex comunista italiano che, da Palazzo Chigi, vantò il record europeo delle privatizzazioni. Nel suo libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Gioele Magaldi aggiunge un ulteriore filtro alla lettura di Barnard, quello super-massonico, derivate dal potere di 36 organizzazioni segrete, denominate Ur-Lodges, in cui gli uomini del massimo vertice mondiale – finanziario, industriale, militare, politico – disegnano le loro trame, per condizionare governi e paesi. Di Jacques Attali, Magaldi e Barnard offrono un ritratto preciso: l’ennesimo uomo di sinistra, “convertitosi” alla causa dell’oligarchia. E’ uno smottamento che investe l’intero Occidente: i Clinton e poi Obama negli Usa, Tony Blair in Gran Bretagna, Mitterrand in Francia, Gerhard Schröder in Germania con la riforma Hartz che introduce la flessibilità nel lavoro dipendente e i mini-salari dei minijob. Poi arrivano le Merkel e i Trump, ma il “lavoro sporco” l’hanno già fatto gli “amici del popolo”, quelli che ancora oggi in Italia cantano Bandiera Rossa e Bella Ciao, dopo aver votato la legge Fornero e le finanziarie-suicidio di Mario Monti, che per Magaldi milita, insieme a Giorgio Napolitano, nella Ur-Lodge “Three Eyes”, la stessa di Attali, storicamente guidata da personalità come quelle di David Rockefeller ed Henry Kissinger, fondatori della Trilaterale.Anche in Italia, il cortocircuito finanziario introdotto con l’euro (lo Stato improvvisamente in bolletta) si è trasformato in crisi economica, quindi sociale. Ma, ovviamente, il “più grande crimine”, il sabotaggio della sovranità e quindi della democrazia, non è mai stato neppure lontanamente sfiorato dalla cosiddetta sinistra radicale dei Bertinotti e dei Vendola, né tantomeno dalla Cgil. Era tanto comodo il “demonio” Berlusconi, per catalizzare i mali del Balpaese, fino a insediare a Palazzo Chigi direttamente la Trojka, il commissario Monti (Trilaterale, Bilderberg, Goldman Sachs) tra gli applausi di tutti i Bersani di Montecitorio. Poi è arrivato Grillo, poi Renzi: come se il Grande Vecchio, lassù, si divertisse un mondo con il suo giocattolo preferito, l’Italia, cioè il paese in cui nessuno denuncia mai il vero problema, e dunque non può trovare soluzioni. Oggi si sbriciola il Pd, ma nulla lascia supporre che finisca il “romanzo criminale”, con i suoi personaggi-marionetta e le loro piccole partite, fatte di primarie e poltrone, correnti e sigle, bullismi, rancori, rivincite e vendette. Vacilla persino l’Unione Europea, sono in atto rivolgimenti di portata mondiale che mettono in discussione i caposaldi della globalizzazione neoliberista. E in Italia sono in campo Renzi ed Emiliano, Di Maio e la Raggi, Salvini e D’Alema, Prodi e Berlusconi, Pisapia e la Boldrini. Ancora una volta, gli amici del Grande Vecchio potranno dormire sonni tranquilli: l’Europa sta per franare, a cominciare dalla Francia, ma non sarà certo l’Italia a impensierire i grandi architetti della crisi.In “Romanzo criminale”, la saga della Banda della Magliana ripercorsa da Giancarlo De Cataldo, nessuno riesce mai neppure a sfiorare il supremo potere del Grande Vecchio, il burattinaio che agisce nell’ombra e, dal Palazzo, manovra i fili che tengono insieme una sceneggiatura anche atroce, in cui si muovono guardie e ladri, terroristi e affaristi, servizi segreti e malavita imprenditrice. Nel saggio “Il più grande crimine”, il giornalista Paolo Barnard ricostruisce in chiave criminologica quello che chiama “economicidio” dell’Italia, in tre mosse: divorzio tra governo e Bankitalia, adesione all’Unione Europea, ingresso nell’Eurozona. Matematico: crisi, disoccupazione, super-tasse, taglio del welfare e dei salari, crollo dei consumi, sofferenze bancarie ed esplosione del debito pubblico, che diviene improvvisamente “tossico” perché non più ripagabile, non più denominato in moneta sovrana liberamente disponibile. A monte: il Memorandum Powell, la guerra storica contro la sinistra dei diritti del lavoro (dalla legge Biagi al Jobs Act), la “crisi della democrazia” evocata dai cantori della Trilaterale, fino alla spazzatura terminale dell’Ue, il Fiscal Compact, la morte clinica del bilancio pubblico degli Stati, ridotti a esattori per la più colossale operazione di money-transfer della storia moderna, dal basso verso l’alto, attraverso la privatizzazione universale neoliberista.
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Bersani non andrà da nessuna parte, ma nemmeno Renzi
Non andranno da nessuna parte, gli scissionisti del Pd: sono figure logore, nonché largamente compromesse con il peggior potere, quello che ha imposto all’Italia il regime dell’austerity. Beninteso: non andranno lontano nemmeno gli altri, i renziani, così come i berlusconiani. I grillini? Domani chissà, ma oggi – di fatto – non hanno vero un Piano-B per ribaltare l’economia italiana cambiando le regole del gioco. E’ la tesi di Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere), che illumina gli imbarazzanti retroscena del “back office” del potere mondiale, con 36 superlogge internazionali che “orientano” le grandi decisioni dei governi, attraverso il controllo della finanza e delle istituzioni “paramassoniche” come Fmi e Banca Mondiale, Bilderberg e Trilaterale, think-tanks e lobby che, di fatto, “dettano” direttive, leggi, tendenze. Una su tutte: la supremazia neoliberista del mercato a danno dello Stato, neutralizzato dai tecnocrati e disabilitato nelle sue capacità di spesa pubblica e investimento economico e sociale.«Si può dire anche molto male di Matteo Renzi, ma è pur sempre meglio di Pier Carlo Padoan, il ministro dell’economia, che – attraverso la Ur-Lodge “Three Eyes”, roccaforte storica della destra internazionale – è il terminale italiano dei super-poteri che predicano la privatizzazione universale». Ai microfoni di “Colors Radio”, Magaldi osserva con scetticismo lo spettacolare smottamento in corso nello scenario politico italiano, non solo nella cosiddetta sinistra, ma anche sul fronte opposto, dove – accanto a Salvini e Giorgia Meloni – emergono pulsioni “sovraniste” dalla ex destra sociale di Alemanno e Storace. Meglio di niente, sembra concludere Magaldi, che è progressista e ha fondato in Italia il Movimento Roosevelt, associazione meta-partitica con l’obiettivo di “inoculare il virus del risveglio”, liberando i partiti dalla loro sudditanza rispetto ai poteri forti. Magaldi ora va anche oltre, annunciando l’apertura di un cantiere politico per dare vita a un nuovo soggetto. Non l’ennesimo partitino, assicura, ma – sulla carta – l’unico strumento su cui far convergere un vero e proprio rovesciamento di valori e priorità, sulla scorta dell’esperienza condotta per la candidatura dell’economista keynesiano Nino Galloni al Comune di Roma.Tradotto: prima viene il recupero della sovranità finanziaria, anche monetaria, e soltanto dopo è possibile ridisegnare leggi e governi, con alle spalle una struttura (pubblica) capace di investire denaro per l’economia reale, quella delle aziende e delle famiglie. Nulla di tutto ciò è in vista, nel campo della sinistra italiana tradizionale: che magari sbatte la porta in faccia a Renzi, ma poi non osa alzare la voce con i veri potenti, cioè i guardiani dell’ortodossia ordoliberista incarnata dall’Unione Europea a trazione tedesca. «Non capisco come facciano, Bersani e compagni, a rinfacciare a Renzi la mancanza di una politica sociale, di sinistra, che parta dalle istanze del popolo, quando loro sono stati i primi, con D’Alema e anche Veltroni, a plaudire al governo Monti, progettato dai grandi poteri con l’aiuto di Napolitano». Dove pensano di andare, Bersani e Speranza? Alla loro sinistra si è accampata Sinistra Italiana, cioè la reincarnazione di Sel, il partito di Vendola, ben lungi – al netto della retorica – dall’aver affrontato il nodo vero della questione: la sovranità democratica dei governi europei, resi “sudditi” da Bruxelles, a danno della comunità nazionale.Più interessante il campo opposto, dove si registra quantomeno la vitalità di Salvini e Meloni, con il limite però di dover fare sempre i conti con l’eterno Berlusconi, che in vent’anni – reso vulnerabile dal ricatto incombente sulle sue aziende – non è riuscito a dire un solo “no” ai nemici dell’Italia. Restano i 5 Stelle: se non l’attuale dirigenza “grillo-replicante”, almeno la sincera disponibilità democratica della base. Per Magaldi, il ogni caso, il Pd è finito: «Marcirà, si estinguerà per putrefazione. Mentre l’Italia ha un disperato bisogno di rigenerazione, attraverso la rinascita del campo progressista», adeguata allo scenario di oggi: un rinascimento politico, che parta dalla battaglia (storica) per denunciare gli abusi dell’oligarchia europea e restituire piena sovranità finanziaria all’economia nazionale, condizione imprescindibile per poi riscrivere le leggi in senso democratico, ridisegnando il paese, dopo aver rimesso al potere politici legittimi, non più maggiordomi dell’élite.Non andranno da nessuna parte, gli scissionisti del Pd: sono figure logore, nonché largamente compromesse con il peggior potere, quello che ha imposto all’Italia il regime dell’austerity. Beninteso: non andranno lontano nemmeno gli altri, i renziani, così come i berlusconiani. I grillini? Domani chissà, ma oggi – di fatto – non hanno vero un Piano-B per ribaltare l’economia italiana cambiando le regole del gioco. E’ la tesi di Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere), che illumina gli imbarazzanti retroscena del “back office” del potere mondiale, con 36 superlogge internazionali che “orientano” le grandi decisioni dei governi, attraverso il controllo della finanza e delle istituzioni “paramassoniche” come Fmi e Banca Mondiale, Bilderberg e Trilaterale, think-tanks e lobby che, di fatto, “dettano” direttive, leggi, tendenze. Una su tutte: la supremazia neoliberista del mercato a danno dello Stato, neutralizzato dai tecnocrati e disabilitato nelle sue capacità di spesa pubblica e investimento economico e sociale.
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Italia commissariata, dal giorno della demolizione di Craxi
Il 19 gennaio del 2000, e cioè 17 anni fa, moriva Bettino Craxi. Aveva 65 anni, un tumore al rene curato male, un cuore malandato, curato malissimo. Il cuore a un certo punto si fermò. Non fu fatto molto per salvarlo. Non fu fatto niente, dall’Italia. Craxi era nato a Milano ed è morto ad Hammamet, in Tunisia, esule. Era stato segretario del partito socialista per quasi vent’anni e presidente del Consiglio per più di tre. In Italia aveva subito condanne penali per finanziamento illecito del suo partito e per corruzione. Quasi dieci anni di carcere in tutto. Prima delle condanne si era trasferito in Tunisia. Se fosse rientrato sarebbe morto in cella. Craxi ha sempre respinto l’accusa di corruzione personale. Non c’erano prove. E non furono mai trovati i proventi. In genere quando uno prende gigantesche tangenti e le mette in tasca, poi da qualche parte questi soldi saltano fuori. In banca, in acquisti, in grandi ville, motoscafi. Non furono mai trovati. I figli non li hanno mai visti. La moglie neppure. Lui non li ha mai utilizzati. Non ha lasciato proprietà, eredità, tesori. Craxi era un malfattore, o è stato invece uno statista importante sconfitto da una gigantesca operazione giudiziaria?La seconda ipotesi francamente è più probabile. La prima è quella più diffusa nell’opinione pubblica, sostenuta con grande impegno da quasi tutta la stampa, difesa e spada sguainata da gran parte della magistratura. Craxi era stato uno degli uomini più importanti e potenti d’Italia, negli anni Ottanta, aveva goduto di grande prestigio internazionale. Si era scontrato e aveva dialogato con Reagan, col Vaticano, con Israele e i paesi Arabi, con Gorbaciov, con quasi tutti i leader internazionali. Aveva sostenuto furiose battaglie con i comunisti in Italia, con Berlinguer e Occhetto e D’Alema; e anche con la Dc, con De Mita, con Forlani, epici gli scontri con Andreotti; con la Dc aveva collaborato per anni e governato insieme. Bene, male? Poi ne discutiamo. Aveva anche firmato con la Chiesa il nuovo concordato. Morì solo solo. Solo: abbandonato da tutti. Stefania, sua figlia, racconta di quando la mamma la chiamò al telefono, nell’autunno del ‘99, e le disse che Bettino era stato ricoverato a Tunisi, un attacco di cuore. Lei era a Milano, si precipitò e poi cercò di muovere mari e monti per fare curare il padre. Non si mossero i monti e il mare restò immobile.Craxi fu curato all’ospedale militare di Tunisi. Stefania riuscì ad avere gli esami clinici e li spedì a Milano, al San Raffaele, lì aveva degli amici. Le risposero che c’era un tumore al rene e che andava operato subito, se no poteva diffondersi. Invece passarono ancora due mesi, perché a Tunisi nessuno se la sentiva di operarlo. Arrivò un chirurgo da Milano, operò Craxi in una sala operatoria dove due infermieri tenevano in braccio la lampada per fare luce. Portò via il rene, ma era tardi. Il tumore si era propagato, doveva essere operato prima, si poteva salvare, ma non ci fu verso. In quei giorni drammatici dell’ottobre 1999 Craxi era caduto in profonda depressione. Non c’è da stupirsi, no? Parlava poco, non aveva forse voglia di curarsi. Era un uomo disperato: indignato, disgustato e disperato. Stefania mi ha raccontato che lei non sapeva a che santo votarsi: non conosceva persone potenti. Il Psi non esisteva più. Chiamò Giuliano Ferrara e gli chiese di intervenire con D’Alema. Il giorno dopo Ferrara gli disse che D’Alema faceva sapere che un salvacondotto per l’Italia era impossibile, la Procura di Milano avrebbe immediatamente chiesto l’arresto e il trasferimento in carcere.Stefania chiese a Ferrara se D’Alema potesse intervenire sui francesi, i francesi sono sempre stati generosi con la concessione dell’asilo politico. Era più che naturale che glielo concedessero. Curarsi a Parigi dava qualche garanzia in più che curarsi all’ospedale militare di Tunisi. Passarono solo 24 ore e Jospin, che era il primo ministro francese, rilasciò una dichiarazione alle agenzie: «Bettino Craxi non è benvenuto in Francia». Quella, più o meno, fu l’ultima parola della politica su Craxi. Fu la parola decisiva dell’establishment italiano e internazionale. Craxi deve morire. Il 19 gennaio Craxi – per una volta – obbedì e se andò all’altro mondo. E’ curioso che quasi vent’anni dopo la sua morte, e mentre cade il venticinquesimo anniversario dell’inizio della stagione di Tangentopoli (Mario Chiesa fu arrestato il 17 febbraio del 1992, e da lì cominciò tutto, da quel giorno iniziò la liquidazione della prima repubblica), qui in Italia nessuno mai abbia voluto aprire una riflessione su cosa successe in quegli anni, sul perché Craxi fu spinto all’esilio e alla morte, sul senso dell’inchiesta Mani Pulite, sul peso della figura di Craxi nella storia della repubblica. Ci provò Giorgio Napolitano, qualche anno fa. Ma nessuno gli diede retta. Vogliamo provarci? Partendo dalla domanda essenziale: Statista o brigante.Forse sapete che Bettino Craxi negli anni Ottanta scriveva dei corsivi sull’“Avanti!”, il giornale del suo partito, firmandoli “Ghino di Tacco”. Ghino era un bandito gentiluomo vissuto verso la metà del 1200 dalle parti di Siena, a Radicofani. Boccaccio parla di lui come una brava persona. A Craxi non dispiaceva la qualifica di brigante. Perché era un irregolare della politica. Uno che rompeva gli schemi, che non amava il politically correct. Però non fu un bandito e fu certamente uno statista. Persino Gerardo D’Ambrosio, uno dei più feroci tra i Pm del pool che annientò Craxi, qualche anno fa ha dichiarato: non gli interessava l’arricchimento, gli interessava il potere politico. Già: Craxi amava in modo viscerale la politica. La politica e la sua autonomia. Attenzione a questa parola di origine greca: autonomia. Perché è una delle protagoniste assolute di questa storia. Prima di parlarne però affrontiamo la questione giudiziaria. Era colpevole o innocente? Sicuramente era colpevole di finanziamento illecito del suo partito. Lo ha sempre ammesso. E prima di lasciare l’Italia lo proclamò in un famosissimo discorso parlamentare, pronunciato in un’aula di Montecitorio strapiena e silente.Raccontò di come tutti i partiti si finanziavano illegalmente: tutti. Anche quelli dell’opposizione, anche il Pci. Disse: se qualcuno vuole smentirmi si alzi in piedi e presto la storia lo condannerà come spergiuro. Beh, non si alzò nessuno. Il sistema politico in quegli anni – come adesso – era molto costoso. E i partiti si finanziavano o facendo venire i soldi dall’estero o prendendo tangenti. Pessima abitudine? Certo, pessima abitudine, ma è una cosa molto, molto diversa dalla corruzione personale. E in genere il reato, che è sempre personale e non collettivo, non era commesso direttamente dai capi dei partiti, ma dagli amministratori: per Craxi invece valse la formula, del tutto antigiuridica, “non poteva non sapere”. Craxi era colpevole. Nello stesso modo nel quale erano stati colpevoli De Gasperi, Togliatti, Nenni, la Malfa, Moro, Fanfani, Berlinguer, De Mita, Forlani… Sapete di qualcuno di loro condannato a 10 anni in cella e morto solo e vituperato in esilio? Ecco, qui sta l’ingiustizia. Poi c’è il giudizio politico. Che è sempre molto discutibile. Craxi si occupò di due cose. La prima era guidare la modernizzazione dell’Italia che usciva dagli anni di ferro e di fuoco delle grandi conquiste operaie e popolari, e anche della grande violenza, del terrorismo, e infine della crisi economica e dell’inflazione. Craxi pensò a riforme politiche e sociali che permettessero di stabilizzare il paese e di interrompere l’inflazione.La seconda cosa della quale si preoccupò, strettamente legata alla prima, era la necessità di salvare e di dare un ruolo alla sinistra in anni nei quali, dopo la vittoria di Reagan e della Thatcher, il liberismo stava dilagando. Craxi cercò di trovare uno spazio per la sinistra, senza opporsi al liberismo. Provò a immaginare una sinistra che dall’interno della rivoluzione reaganiana ritrovava una sua missione, attenuava le asprezze di Reagan e conciliava mercatismo e stato sociale. Un po’ fu l’anticipatore di Blair e anche di Clinton (e anche di Prodi, e D’Alema e Renzi…). Craxi operò negli anni precedenti alla caduta del comunismo, ma si comportò come se la fine del comunismo fosse già avvenuta. Questa forse è stata la sua intuizione più straordinaria. Ma andò sprecata. Personalmente non ho mai condiviso quella sua impresa, e cioè il tentativo di fondare un liberismo di sinistra. Così come, personalmente, continuo a pensare che fu un errore tagliare la scala mobile, e che quell’errore di Craxi costa ancora caro alla sinistra. Ma questa è la mia opinione, e va confrontata con la storia reale, e non credo che sia facile avere certezze.Quel che certo è che Craxi si misurò con questa impresa mostrando la statura dello statista, e non cercando qualche voto, un po’ di consenso, o fortuna personale. Poi possiamo discutere finché volete se fu un buono o un cattivo statista. Così come possiamo farlo per De Gasperi, per Fanfani, per Moro. E qui arriviamo a quella parolina: l’autonomia della politica. Solo in una società dove esiste l’autonomia della politica è possibile che vivano ed operano gli statisti. Se l’autonomia non esiste, allora i leader politici sono solo funzionari di altri poteri. Dell’economia, della magistratura, della grande finanza, delle multinazionali… In Italia l’autonomia della politica è morta e sepolta da tempo. L’ha sepolta proprio l’inchiesta di Mani Pulite. C’erano, negli anni Settanta, tre leader, più di tutti gli altri, che avevano chiarissimo il valore dell’autonomia. Uno era Moro, uno era Berlinguer e il terzo, il più giovane, era Craxi. Alla fine degli anni Ottanta Moro e Berlinguer erano morti. Era rimasto solo Craxi. Io credo che fu essenzialmente per questa ragione che Craxi fu scelto come bersaglio, come colosso da abbattere, e fu abbattuto.Lui era convinto che ci fu un complotto. Sospettava che lo guidassero gli americani, ancora furiosi per lo sgarbo che gli aveva fatto ai tempi di Sigonella, quando ordinò ai carabinieri di circondare i Marines che volevano impedire la partenza di un un aereo con a bordo un esponente della lotta armata palestinese. I carabinieri spianarono i mitra. Si sfiorò lo scontro armato. Alla fine, in piena notte, Reagan cedette e l’aereo partì. Sì, certo, non gliela perdonò. Io non credo però che ci fu un complotto. Non credo che c’entrassero gli americani. Penso che molte realtà diverse (economia, editoria, magistratura) in modo distinto e indipendente, ma in alleanza tra loro, pensarono che Tangentopoli fosse la grande occasione per liquidare definitivamente l’autonomia della politica e per avviare una gigantesca ripartizione del potere di Stato. Per questo presero Craxi a simbolo da demolire. Perché senza di lui l’autonomia della politica non aveva più interpreti.Dal punto di vista giudiziario “mani pulite” ha avuto un risultato incerto. Migliaia e migliaia di politici imputati, centinaia e centinaia arrestati, circa un terzo di loro, poi, condannati, moltissimi invece assolti ( ma azzoppati e messi al margine della lotta politica), diversi suicidi, anche illustrissimi come quelli dei presidenti dell’Eni e della Montedison. Dal punto di vista politico invece l’operazione fu un successo. La redistribuzione del potere fu realizzata. Alla stampa toccarono le briciole, anche perché nel frattempo era sceso in campo Berlusconi. All’imprenditoria e alla grande finanza andò la parte più grande del bottino, anche perché decise di collaborare attivamente con i magistrati, e dunque fu risparmiata dalle inchieste. Quanto alla magistratura, portò a casa parecchi risultati. Alcuni molto concreti: la fine dell’immunità parlamentare, che poneva Camera e Senato in una condizione di timore e di subalternità verso i Pm; la fine della possibilità di concedere l’animista; la fine della discussione sulla separazione delle carriere, sulla responsabilità civile, e in sostanza la fine della prospettiva di una riforma della giustizia.Altri risultati furono più di prospettiva: l’enorme aumento della popolarità, fino a permettere al Procuratore di Milano – in violazione di qualunque etica professionale – di incitare il popolo alla rivolta contro la politica (“resistere, resistere, resistere… ”) senza che nessuno osasse contestarlo, anzi, tra gli applausi; il via libera all’abitudine dell’interventismo delle Procure in grandi scelte politiche ( di alcune parlava giorni fa Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera”); l’enorme aumento del potere di controllo sulla stampa e sulla Tv; la totale autonomia. Ora a me restano due domande. La prima è questa: quanto è stata mutilata la nostra democrazia da questi avvenimenti che hanno segnato tutto l’ultimo quarto di secolo? E questa mutilazione è servita ad aumentare il tasso di moralità nella vita pubblica, oppure non è servita a niente ed è stata, dunque, solo una grandiosa e riuscita operazione di potere?E la seconda domanda è di tipo storico, ma anche umano: è giusto che un paese, e il suo popolo, riempano di fango una figura eminente della propria storica democratica, come è stato Craxi, solo per comodità, per codardia, per “patibolismo”, deturpando la verità vera, rinunciando a sapere cosa è stato nella realtà il proprio passato? Io penso di no. Da vecchio anticraxiano penso che dobbiamo qualcosa a Bettino Craxi.(Piero Sansonetti, “Da anticraxiano vi dico: gli dobbiamo qualcosa”, da “Il Dubbio” del 19 gennaio 2017).Il 19 gennaio del 2000, e cioè 17 anni fa, moriva Bettino Craxi. Aveva 65 anni, un tumore al rene curato male, un cuore malandato, curato malissimo. Il cuore a un certo punto si fermò. Non fu fatto molto per salvarlo. Non fu fatto niente, dall’Italia. Craxi era nato a Milano ed è morto ad Hammamet, in Tunisia, esule. Era stato segretario del partito socialista per quasi vent’anni e presidente del Consiglio per più di tre. In Italia aveva subito condanne penali per finanziamento illecito del suo partito e per corruzione. Quasi dieci anni di carcere in tutto. Prima delle condanne si era trasferito in Tunisia. Se fosse rientrato sarebbe morto in cella. Craxi ha sempre respinto l’accusa di corruzione personale. Non c’erano prove. E non furono mai trovati i proventi. In genere quando uno prende gigantesche tangenti e le mette in tasca, poi da qualche parte questi soldi saltano fuori. In banca, in acquisti, in grandi ville, motoscafi. Non furono mai trovati. I figli non li hanno mai visti. La moglie neppure. Lui non li ha mai utilizzati. Non ha lasciato proprietà, eredità, tesori. Craxi era un malfattore, o è stato invece uno statista importante sconfitto da una gigantesca operazione giudiziaria?