Archivio del Tag ‘pareggio di bilancio’
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Massoni, manovre, bugie e omissioni sull’Italia gialloverde
Un presidente della Repubblica che ammette a reti unificate che il paese è ostaggio dei mercati finanziari privati. L’oligarchia euro-tedesca che minaccia apertamente la fine dell’Italia. E l’uomo di Trump che si precipita a Roma per ostacolare i terminali di Berlino e, infine, premere in senso opposto sull’establishment conservatore. Obiettivo: far nascere un governo ibrido e sotto ipoteca, con promesse impossibili da mantenere senza prima scardinare il paradigma teologico europeista del rigore suicida, imposto a mano armata dalla massoneria reazionaria che ha in mano la governance della Germania, della Bce e dell’Unione Europea. L’analista geopolitico Federico Dezzani sottolinea il ruolo di primo piano svolto dall’asse angloamericano nella crisi italiana, evidenziando le mosse di Steve Bannon e dell’ambasciatore statunitense Lewis Eisenberg, che ha incontrato Salvini e Di Maio a fine marzo. Quindi i britannici: «Lo stesso Movimento 5 Stelle è un prodotto più inglese che americano, come dimostrano la lunga carriera di Gianroberto Casaleggio presso il colosso dell’informatica inglese Logica Plc e il doppio passaporto, italiano e britannico, del figlio Davide». Sempre secondo Dezzani, Londra ha giocato un ruolo decisivo nella nascita del governo giallo-verde «attraverso il “protestante” Jorge Mario Bergoglio che, a sua volta, ha schierato l’ancora influente Conferenze Episcopale Italiana».
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Magaldi: imbecilli a reti unificate minacciano Lega e 5 Stelle
Imbecilli: lasciano credere che il debito dello Stato sia come quello della tabaccheria sotto casa, esposta con la banca. Imbecilli pericolosi: perché scrivono sui giornali e parlano ogni sera in televisione. Somari in buona fede, disastrosamente ignoranti, o vecchi marpioni in malafede? «Non so cosa sia peggio», dice Gioele Magaldi: una persona intelligente puoi sempre persuaderla, mentre di fronte a un cretino non ci sono speranze. Gli imbecilli di turno? Quelli che cercano di spaventare gli italiani, bocciando le “mirabolanti promesse” dell’ipotetico governo gialloverde di Salvini e Di Maio. Lega e 5 Stelle, in realtà, stanno terrorizzando solo l’establishment: i professori della catastrofe, i notai dell’infame declino del paese. Le loro ricette hanno devastato l’Italia, eppure insistono: bisogna tagliare redditi e consumi, senza capire che – per quella strada, se il Pil non cresce – poi a esplodere è proprio il debito, inevitabilmente. «Arriva a comprenderlo anche un mediocre studente di economia, ma non gli imbecilli che ci parlano ogni giorno sui giornali e in televisione», dice Magaldi, in una diretta web-streaming su YouTube con Marco Moiso, in cui rilancia un nome fortissimo per Palazzo Chigi: quello dell’economista post-keynesiano Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt.
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Sindacati e Confindustria uniti nella lotta contro i lavoratori
Pochi giorni fa la Corte dei Conti ha espresso un giudizio negativo sui contratti già stipulati nel pubblico impiego. Troppi i soldi dati a tutti e troppo pochi quelli legati al merito individuale, ha sentenziato. Il fatto è che i dipendenti pubblici hanno subìto quasi dieci anni di blocco contrattuale. Solo il recupero del costo della vita avrebbe comportato aumenti attorno ai trecento euro. Invece, come si sa, gli aumenti reali delle buste paga, quelli che ricevono tutti, sono stati tra i 50 e gli 80 euro lordi, cioè tra i 30 e 50 netti. E la magistratura contabile ora considera questi incrementi salariali eccessivi. Quindi per lo Stato il salario dei suoi dipendenti deve ridursi. Per i privati va meglio? Neanche per sogno. L’accordo sul sistema contrattuale firmato con scene di giubilo comune tra i vertici di Cgil, Cisl, Uil e quelli di Confindustria è la peggiore politica di depressione salariale fatta contratto. Esso conclude un percorso iniziato nel 2009 da un’ intesa che la Cgil inizialmente non sottoscrisse, salvo poi cambiare idea successivamente. L’ultimo contratto dei metalmeccanici sottoscritto anche dalla Fiom – il peggiore della storia della categoria con quasi zero aumenti salariali, la flessibilità a go go e i fondi sanitari – ha dato il via libera definitivo a quest’intesa.L’accordo interconfederale programma la riduzione dei salari reali nei contratti nazionali e lega rigidamente quelli aziendali ai massimi profitti dell’impresa. A livello nazionale i soli aumenti previsti saranno quelli che rivalutano i minimi tabellari, che sono solo una parte della retribuzione effettiva di un lavoratore. Si dovrà calcolare quanto cresce il costo della vita, sottrarre da esso i costi energetici e dei beni importati – l’aumento della bolletta elettrica, del gas, della benzina che non si recupera in busta paga – e infine si arriverà a definire quanto sarà l’aumento reale in busta paga. Con questo sistema i metalmeccanici hanno ricevuto l’incremento favoloso di 3 euro mensili. Si crea così più spazio per la contrattazione a livello aziendale, come dicono i firmatari dell’accordo e i soliti esperti liberisti e confindustriali? Certo che no. I lavoratori non possono rivolgersi alla loro azienda dicendole: visto che il contratto nazionale non ci ha dato i soldi che ci spettano, ora ce li dai tu. Eh no, risponderà l’azienda, l’accordo interconfederale stabilisce che ogni centesimo in più debba essere guadagnato con lavoro in più e legato all’andamento dei profitti aziendali. Per essere chiari, se l’azienda va benissimo ai lavoratori tocca qualcosa, che però può essere loro tolto se la situazione cambia.Il salario aziendale diventata totalmente variabile, verso l’alto ma anche verso il basso. Il salario fisso vale sempre meno e quello che dovrebbe integrarlo è sempre più aleatorio: oggi c’è, domani no. Insomma i lavoratori vengono trattati come i manager, ma con retribuzioni mille volte inferiori. In sintesi con questo sistema contrattuale il salario reale può solo calare. Del resto lo stesso concetto di aumento della retribuzione viene bandito dalle regole del gioco. I sindacati non possono rivendicare più soldi solo perché i lavoratori non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese. Guai, questo significherebbe alimentare la vecchia lotta di classe e rifiutare la moderna collaborazione con l’impresa! Ci sono voluti quasi trenta anni di accordi, dal taglio della scala mobile negli anni ’80, alle varie intese degli anni ’90 e dell’ultimo decennio; alla fine l’obiettivo storico delle classi imprenditoriali è stato raggiunto: il salario costituzionale, quello che definisce la dignità del lavoro indipendentemente dal mercato, non esiste più. E con esso non esiste neppure più la contrattazione. I sindacati che accettano questo modello non possono e non devono chiedere più nulla, devono solo applicare delle formule rinunciando a fare il loro mestiere.I metalmeccanici tedeschi hanno raggiunto le 28 ore settimanali assieme all’aumento dei salari. L’accordo sul sistema contrattuale italiano non solo impedisce che simili risultati possano essere mai acquisiti, ma vieta persino che possano essere richiesti. La piattaforma della IgMetall, nel sistema sottoscritto da Camusso e compagnia, sarebbe semplicemente fuorilegge. Neppure i vertici della Ue avrebbero saputo imporre ai lavoratori italiani un sistema così capace di farli lavorare sempre di più e guadagnare sempre di meno. Cgil, Cisl, Uil e Confindustria cancellano la possibilità per i lavoratori di ottenere contratti degni di questo nome, ma si mettono definitivamente assieme in affari. Fondi pensione, sanità privata, formazione e traffici vari sul lavoro, di questo si occuperanno davvero.Alla firma dell’intesa i leader sindacali e confindustriali si sono abbracciati e hanno fatto sapere alla politica che essa non deve occuparsi di loro, che i lavoratori sono cosa loro. Pensano così di essersi salvati dal crollo del Pd, partito che, pur con finte polemiche, hanno sempre sostenuto. Hanno organizzato un sindacato unico di regime in cui padroni e vertici sindacali operano affratellati in una sola corporazione. A sua volta lo Stato, con le parole della Corte dei Conti, ha teorizzato la riduzione dei salari dei propri dipendenti. Il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio obbligatorio costituzionalmente si fanno contratto. È il tallone di ferro che schiaccia tutto il mondo del lavoro, un regime di austerità e di impoverimento permanente che si afferma con la complicità di Cgil, Cisl e Uil. La ricostruzione del valore costituzionale del lavoro e del suo salario passa attraverso la rottura del sistema di relazioni sindacali che si è affermato in questo decenni. E ovviamente questa rottura dovrà anche riguardare i grandi sindacati confederali, che per salvare sé stessi hanno abbandonato i lavoratori al mercato ed ai tagli della spesa pubblica.(Giorgio Cremaschi, estratto da “E’ nato il nuovo sindacato unitario: Cgil, Cisl, Uil e Confindustria”, da “Carmilla” del 22 aprile 2018).Pochi giorni fa la Corte dei Conti ha espresso un giudizio negativo sui contratti già stipulati nel pubblico impiego. Troppi i soldi dati a tutti e troppo pochi quelli legati al merito individuale, ha sentenziato. Il fatto è che i dipendenti pubblici hanno subìto quasi dieci anni di blocco contrattuale. Solo il recupero del costo della vita avrebbe comportato aumenti attorno ai trecento euro. Invece, come si sa, gli aumenti reali delle buste paga, quelli che ricevono tutti, sono stati tra i 50 e gli 80 euro lordi, cioè tra i 30 e 50 netti. E la magistratura contabile ora considera questi incrementi salariali eccessivi. Quindi per lo Stato il salario dei suoi dipendenti deve ridursi. Per i privati va meglio? Neanche per sogno. L’accordo sul sistema contrattuale firmato con scene di giubilo comune tra i vertici di Cgil, Cisl, Uil e quelli di Confindustria è la peggiore politica di depressione salariale fatta contratto. Esso conclude un percorso iniziato nel 2009 da un’ intesa che la Cgil inizialmente non sottoscrisse, salvo poi cambiare idea successivamente. L’ultimo contratto dei metalmeccanici sottoscritto anche dalla Fiom – il peggiore della storia della categoria con quasi zero aumenti salariali, la flessibilità a go go e i fondi sanitari – ha dato il via libera definitivo a quest’intesa.
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Democrazia sovrana, il fantasma che spaventa questi partiti
Si fa presto a dire destra, così come a dire sinistra. Dopo cotanta campagna elettorale, l’Italia rischia di avere l’ennesimo governicchio incolore, magari “istituzionale”? Rischia di ritrovarsi a Palazzo Chigi qualcuno che non sia scelto né da Salvini né da Berlusconi, cioè i due alfieri della coalizione che ha vinto le elezioni? In molti, dopo il 4 marzo, hanno tifato per l’alleanza “impossibile” tra i due giovani portavoce del rinnovamento invocato dal 55% degli elettori. In tanti hanno incoraggiato il leader della Lega e il candidato dei 5 Stelle, come se davvero Salvini e Di Maio volessero (o potessero) cambiare qualcosa, nella “palude” italiana gestita sottobanco da un’oligarchia anfibia che lavora per conto terzi. E’ una casta fantasma, vassalla dell’élite privatistica internazionale – industriale, bancaria – che cura i propri affari fingendo di amministrare l’Europa tramite i suoi uomini, piazzati alla Bce e alla Commissione Europea. Una “spectre” efficientissima, che dispone di terminali in tutti i ministeri che contano, nelle banche centrali, nei think-tanks che dettano le regole del grande business oligopolistico, poi regolarmente tradotte in direttive europee. Dogmi inviolabili e nuove teologie come quella neoliberista: rigore per tutti, tranne che per l’élite finanziaria globalista e mercantilista.La piramide tecnocratica chiamata Unione Europea è solo l’interfaccia del sommo potere economico, che non ha altra bandiera che quella del denaro. Operazione ormai messa in chiaro: “Lotta di classe dei ricchi contro i poveri”, la chiamava il sociologo Luciano Gallino. Immenso trasferimento di ricchezza, dal basso verso l’alto, mai visto dall’avvento della modernità industriale. Neo-feudalesimo, al posto della democrazia ormai svuotata: lo Stato non ha più sovranità, è costretto a eseguire ordini. Per cosa votare, allora? Punti di vista. Nel famoso referendum del 4 dicembre si votò contro Renzi in modo ipocrita, dichiarando ufficialmente di voler difendere la Costituzione così com’era, cioè già irrimediabilmente lesionata dall’inserimento di un obbligo aberrante, quello del pareggio di bilancio. Una norma-killer, che equivale alla morte clinica dello Stato come comunità politica sovrana: se non posso più decidere come investire sulla società e sull’economia, dove finisce la mia teorica democrazia? Si riduce, come avviene oggi, allo spettacolo di estenuanti trattative attorno al nulla: alleanze “impossibili”, oppure l’ennesimo governo sottomesso “all’Europa”. All’orizzonte resta il mesto ritorno alle urne, con partiti che (tranne la Lega e Fratelli d’Italia) hanno tutti accuratamente evitato – prima, durante e dopo – di affrontare il vero, grande problema da cui discende la crisi italiana: cioè il vincolo capitale di Bruxelles, che impedisce agli elettori di decidere davvero del loro futuro.Destra e sinistra? Parole che avevano un senso nel ‘900, cioè in regime di relativa sovranità. Storicamente, di fronte a un’emergenza democratica, le estreme si alleano: in Italia accadde sotto l’occupazione nazifascista e, subito dopo, al momento di scrivere (insieme) la Costituzione. Poi, per mezzo secolo e oltre, destra e sinistra si sono confrontate apertamente. Oggi sono praticamente scomparse. Nella cosiddetta Seconda Repubblica, un’élite residuale della ex sinistra ha assunto il comando – non in proprio, ma per conto dei signori di Bruxelles – applicando alla lettera ogni diktat della destra economica privatizzatrice. Prodromi: il funesto divorzio fra Tesoro e Bankitalia, già negli anni ‘80 (all’origine dell’esplosione artificiosa del debito pubblico) e la drammatica rottamazione dell’Iri, che ha lesionato il sistema industriale italiano su input franco-tedesco. Andreatta, Ciampi, Prodi. E poi Amato e Visco, Bassanini e D’Alema, Padoa Schioppa. Una parabola infelice e rovinosa, conclusa con il crollo del grottesco Pd renziano, consegnatosi alla post-politica terzista, apparente protagonismo personalistico al servizio delle lobby.Dalla destra elettorale, messa all’angolo dalla “filiera del rigore” inagurata da Monti e proseguita con Letta, Renzi e Gentiloni, viene la nuova Lega di Salvini, alleata con Fratelli d’Italia nel mettere a fuoco l’identità del vero avversario, il potere che manovra la tecnocrazia di Bruxelles. Ma Salvini e Meloni, costretti per ragioni tattiche nella coalizione di centrodestra, si sono votati alla rinuncia: sapevano fin dall’inizio che il loro partner ingombrante, Berlusconi, non li avrebbe seguiti nella battaglia per difendere l’Italia dall’Ue. Peggio ancora l’ambiguo Movimento 5 Stelle, che ha saltato l’ostacolo Bruxelles evitando di parlarne: ha fatto il pieno di voti promettendo il reddito di cittadinanza (senza spiegare come finanziarlo) dopo aver mandato Di Maio nei santuari della finanza, per rassicurare i nemici dell’Italia: con lui al governo, le regole-capestro non sarebbero cambiate. L’aspirante premier venuto dal nulla oggi parla di “contratti”, come se le alleanze fossero merce in saldo. E affida a un oscuro docente universitario lo studio dei programmi dei vari partiti, per verificare possibili aree di convergenza.Sul piano estetico, la sensazione è devastante: là dove servirebbe la politica, si affollano maggiordomi e funzionari. Gli elettori di Di Maio saranno felici si scoprire che le sorti del prossimo governo italiano potrebbero dipendere dal professor Giacinto Della Cananea, ordinario di diritto amministrativo a Tor Vergata e allievo di Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale. Come se Di Maio, per il suo “contratto”, dovesse ricorrere all’inarrivabile sapienza di un super-consulente, un tecnocrate di rango. L’agenda politica, nel frattempo, resta in bianco: con Salvini o il Pd è uguale, l’importante è arrivare a Palazzo Chigi (o almeno, fingere di volerci arrivare). Se qualcuno voleva che gli elettori italiani si spazientissero, concludendo che le elezioni del 4 marzo sono state perfettamente inutili, ci sta riuscendo. La situazione non è solo bloccata dai veti incrociati: non esiste proprio orizzonte diverso da quello degli ultimi anni, in cui il paese è precipitato in una crisi che non ha eguali, dal dopoguerra. Le lingue sono tagliate, non dicono la verità: alle varie incarnazioni del demonio di comodo – Berlusconi, Renzi – si sono opposti esorcisti altrettanto improbabili, pronti a maneggiare qualsiasi slogan tranne quelli che servirebbero. Va bene tutto, persino la guerricciola contro i famigerati vitalizi, pur di non evocare lo spettro di cui tutti hanno paura: quello della sovranità democratica.Si fa presto a dire destra, così come a dire sinistra. Dopo cotanta campagna elettorale, l’Italia rischia di avere l’ennesimo governicchio incolore, magari “istituzionale”? Rischia di ritrovarsi a Palazzo Chigi qualcuno che non sia scelto né da Salvini né da Berlusconi, cioè i due alfieri della coalizione che ha vinto le elezioni? In molti, dopo il 4 marzo, hanno tifato per l’alleanza “impossibile” tra i due giovani portavoce del rinnovamento invocato dal 55% degli elettori. In tanti hanno incoraggiato il leader della Lega e il candidato dei 5 Stelle, come se davvero Salvini e Di Maio volessero (o potessero) cambiare qualcosa, nella “palude” italiana gestita sottobanco da un’oligarchia anfibia che lavora per conto terzi. E’ una casta fantasma, vassalla dell’élite privatistica internazionale – industriale, bancaria – che cura i propri affari fingendo di amministrare l’Europa tramite i suoi uomini, piazzati alla Bce e alla Commissione Europea. Una “spectre” efficientissima, che dispone di terminali in tutti i ministeri che contano, nelle banche centrali, nei think-tanks che dettano le regole del grande business oligopolistico, poi regolarmente tradotte in direttive europee. Dogmi inviolabili e nuove teologie come quella neoliberista: rigore per tutti, tranne che per l’élite finanziaria globalista e mercantilista.
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Magaldi: Di Maio, i barbagianni e l’utopia del diritto al lavoro
Avrebbe la cortese compiacenza, Luigi Di Maio, di far graziosamente sapere, prima o poi, cosa intenderebbe fare, una volta al governo dell’Italia? I primi che vorrebbero saperlo, probabilmente, sono i suoi elettori – meglio ancora: i votanti che il 4 marzo hanno scelto i pentastellati magari «turandosi il naso», percependo comunque il Movimento 5 Stelle «come qualcosa di nuovo e diverso, rispetto agli altri “barbagianni”». Essere o non essere un’alternativa per il paese? Spieghi, l’amletico grillino, che idea ha in testa (se ce l’ha) per questo paese. Tutte le alleanze e tutte le idee possono essere utili, purché coraggiose e serie: a patto che non si scivoli verso i lidi collaudatissimi del rigore di bilancio, di cui finora è stato custode il Pd per conto dell’oligarchia privatizzatrice che presidia l’Unione Europea. A oltre un mese e mezzo dal voto, Gioele Magaldi avverte: così non si va da nessuna parte. «Non vorrei che poi ci ritrovassimo un programma della cosiddetta pseudo-sinistra più classica, quella che ritiene che tassando e ritassando si garantisce non si sa bene quale equilibrio sociale, mettendosi a pari coi burattinai di Bruxelles e con le altre entità sovranazionali: stiamo attenti, perché non è questa la via per chi voglia dirsi progressista». La strada maestra? Il lavoro, come baluardo della dignità individuale. L’orizzonte di un’utopia necessaria: rendere costituzionale il diritto all’impiego. Il reddito di cittadinanza? Una tappa intermedia e transitoria, nella lunga marcia per cambiare faccia all’Italia e all’Europa.«Giorno per giorno, le cose si sono complicate», premette Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio”. «C’è stato un deterioramento dei toni e un innalzamento delle antipatie, una sottolineatura delle cose che dividono anziché di quelle che possono unire». Serpeggia un pericolo: «Non vorrei che l’ipotesi di un governo con 5 Stelle, Pd e “Leu”, ammesso che i numeri ci siano, si traduca in una sorta di esecuzione delle suggestioni dell’Ocse, del Fmi e di altre entità economicistiche sovranazionali che hanno sbagliato tutto, negli scorsi anni, perché sento parlare troppo di tassazione e patrimoniali, di scetticismo anche rispetto alla utile proposta di Salvini (Flat Tax o qualcosa del genere)». Per Magaldi, la verità è che il Movimento 5 Stelle «deve fare i conti con i limiti della propria traiettoria». Le elezioni regionali molisane, considerate deludenti? «Non ho condiviso i trionfalismi del dopo-voto e non condivido adesso l’analisi secondo cui, avendo avuto il 32% in Molise, il M5S starebbe arretrando», precisa Magaldi: «E’ un dato locale, non traducibile a livello nazionale». Ma Di Maio e colleghi devono capire che il loro 32% a livello nazionale, ottenuto «nonostante la pessima performance nel governo di Roma e nonostante moltri altri dubbi che tanti dei loro stessi votanti nutrono», non è affatto un dato che si possa mettere in cassaforte. Al contrario: gli elettori potrebbero non rinnovare la fiducia accordata il 4 marzo.Lo scenario è confuso: in tanti sono indaffarati, non si capisce se «a cercare di fare un governo o solo a far finta di volerlo fare». A maggior ragione, il Movimento 5 Stelle «farebbe bene a chiarire ai suoi elettori che cosa vuole fare, a prescindere dagli alleati con cui lo farebbe», sottolinea Magadi, secondo cui «nelle ultime settimane si è appannato proprio il senso progettuale: non si è capito bene cosa farebbe, Di Maio, in un governo». Magaldi ripropone la prospettiva per la quale si batte il Movimento Roosevelt, lungo l’orizzonte della migliore tradizione social-liberale: «E’ il lavoro che deve diventare imprescindibile e garantito dalla Costituzione, pur nel rispetto del merito e dei talenti». Va bene anche «la libera economia di mercato del tanto vituperato capitalismo», purché non quello neoliberista: Magaldi pensa al capitalismo sociale rooseveltiano ispirato da Keynes e da John Rawls, l’ideologo del “welfare universale” europeo. Il capitalismo, aggiunge Magaldi, deve restare «la facoltà di investire capitali privati per trarne legittimo profitto, senza monopoli né oligopoli», ma a livello legislativo «occorre che nessuno sia privato del diritto di lavorare, e quindi del diritto di avere un reddito e accompagnare i propri sogni e le proprie aspirazioni, partecipando anche all’economia e rafforzandone i circuiti».Magaldi lo definisce «un orizzonte epocale», benché «sobrio e moderato, rispetto alle istanze palingenetiche e agli incubi del ‘900», neri e rossi. Chi auspicava il comunismo come “il paradiso in terra” oggi è spesso dalla parte dei capitalisti ultra-liberisti, «che credono alla divinità del mercato in termini integralisti e fanatici». Volevano l’abbattimento del capitalismo “borghese” e oggi «si sono trasformati in accompagnatori del dogmatismo di un’idea sola di capitalismo, e anche di una idolatria del mercato in quanto tale, senza più alcuna preoccupazione per i grandi ideali di giustizia sociale che, pure, nel ‘900 sono stati presenti». In parallelo, il “secolo breve” ha archiviato (dolorosamente) altri incubi speculari, fascisti e fascistoidi, che pur con altri presupposti «hanno spesso spacciato per interesse del popolo la loro vocazione oligarchica, alla pari di quella dei comunisti». Magaldi le definisce «distopie finite tragicamente», ricordando che «nel mezzo c’è stata una linea politica e ideologica che ha visto una parziale concretizzazione nei famosi “decenni d’oro”, il boom del dopoguerra in Europa, con le ricette keynesiane e un “welfare system” che ha garantito mobilità e giustizia sociale».Quello degli ‘70, però, «non era ancora l’orizzonte cui dobbiamo approdare», aggiunge Magaldi, che lavora per la sua “utopia moderata”. Ovvero: «Il diritto costituzionale all’occupazione». Una rivoluzione, che «risolverebbe molti problemi e preverrebbe qualunque crisi economica». Il reddito di cittadinanza del Movimento 5 Stelle? Una proposta «annacquata nei ragionamenti politici di questi giorni». Magaldi non lo vedrebbe come «un’alternativa al diritto al lavoro», ma piuttosto «come un accompagnamento, in una fase transitoria». Ovvero: «Dato che per arrivare al diritto al lavoro occorrerà convincere politicamente la maggioranza degli elettori, per avere (in Italia e altrove) maggioranze parlamentari capaci di approvare riforme costituzionali di questa portata, nel frattempo il reddito di cittadinanza può essere un modo per garantire la dignità di coloro che vivono in un contesto occupazionale complesso». E quindi «credo che sia una buona idea», conclude Magaldi, «se vista non come sostitutiva dell’orizzonte che mette il lavoro al centro della dignità delle persone, ma come un elemento di supporto, durante la transizione verso quel modello». Di Maio è in ascolto? Ha un’idea, in proposito? Pensa di riuscire a distinguersi dagli altri “barbagianni” della mala-politica italiana sottomessa al rigore Ue?Avrebbe la cortese compiacenza, Luigi Di Maio, di far graziosamente sapere, prima o poi, cosa intenderebbe fare, una volta al governo dell’Italia? I primi che vorrebbero saperlo, probabilmente, sono i suoi elettori – meglio ancora: i votanti che il 4 marzo hanno scelto i pentastellati magari «turandosi il naso», percependo comunque il Movimento 5 Stelle «come qualcosa di nuovo e diverso, rispetto agli altri “barbagianni”». Essere o non essere un’alternativa per il paese? Spieghi, l’amletico grillino, che idea ha in testa (se ce l’ha) per questo paese. Tutte le alleanze e tutte le idee possono essere utili, purché coraggiose e serie: a patto che non si scivoli verso i lidi collaudatissimi del rigore di bilancio, di cui finora è stato custode il Pd per conto dell’oligarchia privatizzatrice che presidia l’Unione Europea. A oltre un mese e mezzo dal voto, Gioele Magaldi avverte: così non si va da nessuna parte. «Non vorrei che poi ci ritrovassimo un programma della cosiddetta pseudo-sinistra più classica, quella che ritiene che tassando e ritassando si garantisce non si sa bene quale equilibrio sociale, mettendosi a pari coi burattinai di Bruxelles e con le altre entità sovranazionali: stiamo attenti, perché non è questa la via per chi voglia dirsi progressista». La strada maestra? Il lavoro, come baluardo della dignità individuale. L’orizzonte di un’utopia necessaria: rendere costituzionale il diritto all’impiego. Il reddito di cittadinanza? Una tappa intermedia e transitoria, nella lunga marcia per cambiare faccia all’Italia e all’Europa.
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Stalinismo e 5 Stelle: il partito bara, ma ha sempre ragione
Il partito ha sempre ragione. Se sbaglia si ha l’obbligo religioso di tacere, per non danneggiare la sua lunga marcia. Teoria e pratica dello stalinismo, oltre mezzo secolo dopo la morte di Stalin e la dolorosa destalinizzazione avviata da Khrushev (e a ruota, da tutti i partiti comunisti del mondo). Il partito è sacro, la sua parola è legge. La sua missione va oltre la politica, prevede una palingenesi dell’umanità. Guai, quindi, a chi osa contestarne l’illuminata guida: sarà espulso, condannato, bollato a vita come come un volgare traditore, magari anche diffamato come opportunista e in ogni caso isolato, alla stregua di un appestato. Gli iscritti assisteranno impassibili al rituale di lapidazione, al sacrificio pubblico, cercando di non domandarsi se per caso la vittima non avesse qualche ragione. E senza mininamente sospettare che quello stesso destino, che oggi tocca al malcapitato di turno, domani potrebbe travolgere ogni altro membro del club. Nell’Unione Sovietica delle fucilazioni sommarie era in gioco la vita, mentre nel movimento fondato da Grillo e Casaleggio si rischia al massimo la pubblica gogna dell’ostracismo. Il meccanismo però è analogo: la platea degli iscritti non deve solo tacere, approvando in silenzio il verdetto del vertice; deve anche assistere alla cerimonia, drammaticamente istruttiva: chi rifiuta il dogma teologico del partito perde ogni dignità politica.La dannazione è la sorte che il cattolicesimo medievale riservava agli eretici. Su di essi veniva fatta calare una maledizione, a scopo intimidatorio: era pericoloso anche solo rievocarne la memoria. Certe strutture gerarchiche utilizzano deliberatamente il metodo brutale dell’Inquisizione: il silenzio-assenso generale di fronte alla violenza del verdetto è il cemento con cui si costruisce un potere autoritario, che – dall’indomani – potrà contare sull’assoluta impunità del vertice, sempre investito (per autodefinizione) di una missione superiore, altissima, quasi mistica, certo non sindacabile dai comuni mortali, quantunque aderenti fin dall’inizio al sacro patto escatologico verso la Terra Promessa. L’ostinato silenzio dei dirigenti dell’Ottobre – muti, di fronte ai fulmini che si abbattevano su di loro, uno alla volta – rese più facile, al dittatore, eliminarli tutti, uno dopo l’altro. Si tratta di un principio duro a morire, anche se la pratica democratica dell’aborrita e corrotta partitocrazia, in Italia e nel mondo, ha comunque evitato il ripetersi della fenomenologia staliniana. Se i partiti della Prima Repubblica vivevano di correnti in perenne lotta tra loro, quelli della Seconda hanno comunque celebrato congressi e primarie, dando vita a dinamiche di aperta concorrenzialità interna: Bossi e Maroni, Berlusconi e Fini, Bersani e Renzi. Col Movimento 5 Stelle, attraverso il totem della Rete (controllata dall’onniveggente Casaleggio) si è tornati all’antico: “uno vale uno”, in teoria, ma alcuni sono “più uguali” degli altri.In modo quasi unanime, i meriti dei 5 Stelle sono considerati indiscutibili, nell’aver aggregato milioni di italiani attorno alla speranza di un mondo migliore. L’impegno: leggi da riscrivere da cima a fondo per ridisegnare una comunità socio-economica unita dal bisogno di valori condivisi. Fin dall’inizio, ingenerosamente, c’è chi ha considerato il Movimento come un mero “gatekeeper”, uno sfiatatoio del dissenso abilmente allestito al solo scopo di canalizzare la rabbia della società verso obiettivi innocui per l’establishment. Qualcuno si stupisce se Di Maio “sbianchetta” il programma elettorale dei 5 Stelle, laboriosamente assemblato con il lavoro collettivo degli iscritti? Eppure è lo stesso Di Maio che ha sparato contro “la massoneria” dopo aver bussato ai santuari massonici della finanza di Londra e di Washington, rassicurandoli sulle sue reali intenzioni. E’ lo stesso Di Maio che non ha fatto barricate contro l’obbligo vaccinale della legge Lorenzin, che non ha mai detto una parola chiara sull’euro, e che oggi si rivolge con disinvoltura al Pd dopo averlo definito abominevole, disgustosamente corrotto e mafioso, catastrofico per l’Italia.Non è Di Maio, a fare notizia, ma il perdurante silenzio-assenso dei grillini. Se le circostanze lo richiedessero, lo stesso Di Maio verrebbe rottamato all’istante. L’importante, per i sovragestori, è che – ancora e sempre – la platea approvi, ribadendo che il partito ha sempre ragione. I dirigenti stalinisti dei vari partiti comunisti europei erano leggendari per la loro celebrata doppiezza, spacciata per acume machiavellico: il dire il contrario di quello che si pensava era contrabbandato per sopraffina virtù. Un’astuzia genialmente tattica, in vista delle “magnifiche sorti e progressive”. Un riverbero di questa pratica, fondata sulla non-trasparenza, lo si è percepito nelle parole di Beppe Grillo di fronte al tragicomico infortunio del tentato trasloco, al Parlamento Europeo, nelle file degli ultra-euristi dell’Alde: come se i 5 Stelle fossero stati agenti speciali sotto copertura, un temibile cavallo di Troia introdotto tra le schiere nemiche. La “rete”, naturalmente, era stata lasciata all’oscuro della manovra. Del resto, quanto contino davvero gli iscritti lo di vede anche dall’assoluta tranquillità con cui Di Maio ne ha “bonificato” il programma.Segnali di ribellione? Non pare. Il sistema, del resto, funziona benissimo. I 5 Stelle sono il primo partito italiano. I parlamentari, selezionati via web a volte con poche decine di voti. E impegnati a pagare di persona una multa, nel caso cambiassero casacca. E’ aberrante? Di nuovo: la notizia non sta nel diktat, ma nella sua accettazione – un vulnus costituzuionale subito dai candidati e approvato dalla base, che immagina di controllarli, evidentemente non fidandosi completamente di loro. Giornalisti e commentatori, che per anni di sono esercitati nella più gratuita denigrazione del Movimento 5 Stelle, oggi tendono a incensare Luigi Di Maio come abile tattico, dimenticando di averne ripetutamente denunciato le fragilità, le incertezze, l’impreparazione. Meno è autorevole, un politico, e più è facilmente manovrabile. I caimani dell’Europa finanziaria guardano all’Italia con inquietudine, temendo che da uno dei maggiori contraenti fondativi dell’Unione Europea possa scoccare la scintilla del cambiamento, la messa in discussione dello status quo fondato sul rigore, il rifiuto del pareggio di bilancio. Possono continuare a dormire sonni tranquilli, sembra avvertirli lo “sbianchettatore” Di Maio: con lui al governo, niente di sostanziale cambierebbe. Con buona pace dei quasi 11 milioni di italiani che l’hanno votato.Il partito ha sempre ragione. Tu non sai perché, ma lui sì. E se sbaglia hai l’obbligo religioso di tacere, per non danneggiare la sua lunga marcia. Teoria e pratica dello stalinismo, oltre mezzo secolo dopo la morte di Stalin e la dolorosa destalinizzazione avviata da Khrushev (e a ruota, da tutti i partiti comunisti del mondo). Il partito è sacro, la sua parola è legge. La sua missione va oltre la politica, prevede una palingenesi dell’umanità. Guai, quindi, a chi osa contestarne l’illuminata guida: sarà espulso, condannato, bollato a vita come come un volgare traditore, magari anche diffamato come opportunista e in ogni caso isolato, alla stregua di un appestato. Gli iscritti assisteranno impassibili al rituale di lapidazione, al sacrificio pubblico, cercando di non domandarsi se per caso la vittima non avesse qualche ragione. E senza minimamente sospettare che quello stesso destino, che oggi tocca al malcapitato di turno, domani potrebbe travolgere ogni altro membro del club. Nell’Unione Sovietica delle fucilazioni sommarie era in gioco la vita, mentre nel movimento fondato da Grillo e Casaleggio si rischia al massimo la pubblica gogna dell’ostracismo. Il meccanismo però è analogo: la platea degli iscritti non deve solo tacere, approvando in silenzio il verdetto del vertice; deve anche assistere alla cerimonia, drammaticamente istruttiva: chi rifiuta il dogma teologico del partito perde ogni dignità politica.
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L’onesto criminale Quintino Sella e la legge Fornero dell’800
Quintino Sella è stato uno dei padri della patria, dal lato dell’economia. Il palazzone romano del ministero delle finanze gli è dedicato. E la sua onestà e il suo rigore nei conti pubblici sono celebrati sin dall’Unità d’Italia. Era davvero una persona onestissima, anzi proba. Divenuto ministro delle finanze nei governi italiani fino al 1880, non accettò stipendi e rimborsi, pagava di tasca propria il treno e i servizi necessari alla sua funzione. Per Quintino Sella i costi della politica dovevano essere zero. Naturalmente era aiutato, in questo, dal fatto di essere un ricco componente di una ricca famiglia industriale. Ma ciò non gli toglie merito: nel suo mondo c’erano altri ricchi ben più disinvolti nell’uso dei conti pubblici, a partire dal re Vittorio Emanuele II e dalle sue numerose famiglie. Quintino Sella fu dunque un politico onestissimo, ma anche un ministro criminale. Per pareggiare i conti pubblici egli fu uno dei principali fautori della tassa sul macinato. Un balzello infame inventato dai Borboni e poi subito riutilizzato nell’Italia unita, un prelievo che gravava sul pane, sui cereali, sul cibo dei poveri. Che quando non avevano di che pagarlo dovevano rinunciare a mangiare.Migliaia di persone, soprattutto donne e bambini, si ammalarono e morirono per quella tassa. Intere popolazioni si ribellarono ad essa, e contro di loro ci furono le spietate repressioni del generale Raffaele Cadorna, il braccio armato della tassa sul macinato. Per questo l’onestissimo ministro Sella va considerato socialmente un criminale. Risanò i conti pubblici facendo morire di fame, e di pallottole regie, tanta gente. Alla fine la tassa sul macinato fu abolita da Agostino Depretis, un politico molto meno onesto di Sella, anzi un corrotto e corruttore. In questa storia sta un po’ il peccato originale del nostro paese, dove periodicamente il rigore e l’onestà vengono separati e anzi contrapposti alla questione sociale, con la regressione complessiva di tutta la società. Oggi in Italia i tagli alle pensioni hanno la stessa funzione della tassa sul macinato. Che era comoda e facile da riscuotere perché tutti dovevano mangiare. Oggi il sistema pensionistico pubblico è diventato il bancomat dei governi. All’Inps i soldi si trovano subito, basta un decreto legge e lo Stato ce li ha, pronta cassa.Ora la Ue e il Fmi, che han bisogno di altri soldi per finanziare le loro politiche di austerità, chiedono nuovi tagli alle pensioni; e con il loro caravanserraglio di esperti ammaestrati riprende a spiegarci che la previdenza costa troppo. I dati che usano sono falsi e falsificati. Se dalla spesa per la previdenza togliamo i quasi 50 miliardi di tasse che tutti gli anni i pensionati versano allo Stato, tale spesa scende sotto la media europea. Se togliamo l’assistenza, che dovrebbe essere pagata da tutti e non solo dai lavoratori, il bilancio annuale dell’Inps va in attivo. Un attivo sufficiente a pagare l’abolizione della legge Fornero. Anche perché il pensionato italiano maschio, prima di passare a miglior vita, usufruisce dell’assegno pensionistico per 16 anni, mentre la media europea è di 18. E le donne, che (colpevolmente?) vivono di più, vengono pagate per 21 anni contro i 23 degli altri paesi Ue. Quindi già oggi lo Stato italiano si prende due anni di vita in più dai suoi pensionati. Non sappiamo se all’epoca della tassa sul macinato Quintino Sella e gli altri usassero dati falsi per affermare le proprie ragioni. Forse allora non ce n’era tanto bisogno, visto che solo i ricchi votavano. Ma certo l’argomento di fondo era quello stesso di oggi: o i poveri pagano, o lo Stato salta per aria.Per questo l’abolizione della legge Fornero è la cartina di tornasole della politica italiana. Non è una misura sufficiente a far cambiare le cose, bisogna abolire anche Jobsact e Buonascuola, bisogna ricostruire diritti e stato sociale, bisogna rompere con l’austerità Ue e con il pareggio di bilancio. Non è una misura sufficiente, ma è necessaria per indicare che la politica liberista del rigore contro i poveri non può più essere continuata. Se, sulle pensioni, il Parlamento e le forze vincitrici delle elezioni cederanno al ricatto della Ue e della Troika, avranno già concluso la loro funzione. Poi potranno pure tagliare vitalizi e stipendi dei commessi delle Camere, ma questa non sarà giustizia ma solo una misura di facciata per coprire la continuazione del massacro sociale. La stessa facciata dei monumenti all’onestissimo affamatore di poveri Quintino Sella.(Giorgio Cremaschi, “La legge Fornero è la moderna tassa sul macinato”, da “Micromega” del 27 marzo 2018).Quintino Sella è stato uno dei padri della patria, dal lato dell’economia. Il palazzone romano del ministero delle finanze gli è dedicato. E la sua onestà e il suo rigore nei conti pubblici sono celebrati sin dall’Unità d’Italia. Era davvero una persona onestissima, anzi proba. Divenuto ministro delle finanze nei governi italiani fino al 1880, non accettò stipendi e rimborsi, pagava di tasca propria il treno e i servizi necessari alla sua funzione. Per Quintino Sella i costi della politica dovevano essere zero. Naturalmente era aiutato, in questo, dal fatto di essere un ricco componente di una ricca famiglia industriale. Ma ciò non gli toglie merito: nel suo mondo c’erano altri ricchi ben più disinvolti nell’uso dei conti pubblici, a partire dal re Vittorio Emanuele II e dalle sue numerose famiglie. Quintino Sella fu dunque un politico onestissimo, ma anche un ministro criminale. Per pareggiare i conti pubblici egli fu uno dei principali fautori della tassa sul macinato. Un balzello infame inventato dai Borboni e poi subito riutilizzato nell’Italia unita, un prelievo che gravava sul pane, sui cereali, sul cibo dei poveri. Che quando non avevano di che pagarlo dovevano rinunciare a mangiare.
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Della Luna: noi e il cantiere (zootecnico) del pensiero unico
Gigantesco, industrioso, immane. E’ uno dei più cospicui fenomeni del nostro tempo. Marco Della Luna lo chiama: il cantiere del pensiero unico globalizzato. Ci sono committenti, architetti, sacerdoti e guardiani. Rendono prevedibili e pilotabili i comportamenti sociali nel mondo super-accelerato e conflittuale in cui viviamo. Manovrando l’industria culturale (entertainment compreso), il capitalismo finanziario «ha creato un’ortodossia, un pensiero obbligato, mainstream, scientifically correct». Uno strumento che, di qualsiasi cosa parli, «delegittima, isola o criminalizza – cioè praticamente scomunica, espelle dalla società conformata – non solo il pensiero divergente dall’ortodossia, ma la stessa libera indagine scientifica, economica e storiografica». Missione titanica: plasmare la società, cioè noi. Usa la storia e l’economia, l’integrazione europea e l’euro, l’immigrazione e l’Islam, le diversità etniche e l’identità sessuale, e da ultimo «le asserite efficacia e innocuità dei vaccini obbligatori». Su queste cose, sottolinea Della Luna, sono state costruiti “protected beliefs”, credenze protette dal dogma. E guai a chi sgarra: per i trasgressori c’è l’isolamento, la punzione economica, persino il carcere.Il dissenso rispetto all’ortodossia, e la stessa libera indagine scientifica e storica di quelle credenze, scrive Della Luna nel suo blog, sono atteggiamenti inammissibili, «sanzionati con la delegittimazione morale, il boicottaggio della carriera, la discriminazione amministrativa, l’esclusione dei media, dall’insegnamento, dall’editoria, quando non anche da conseguenze penali». I dati di fatto smentiscono l’ortodossia? Non importa: «Vengono taciuti all’opinione pubblica, soprattutto nei campi chiave per l’orientamento del pensiero e della sensibilità collettivi, della concezione generale della realtà, del consenso politico, della legislazione e della giurisdizione». Anche la ricerca scientifica è «condizionata, limitata e incanalata attraverso il controllo finanziario della stampa specialistica, delle università, della ricerca, dell’editoria». Per Della Luna, avvocato e saggista, si è così ottenuta una sostanziale limitazione della libertà di ricerca, di insegnamento, di informazione pubblica – limitazione che, di fatto, «previene grande parte del possibile dissenso». Attenzione: «L’imposizione di un’ortodossia è incompatibile con la scienza, perché la scienza procede proprio per continua revisione, verificazione, falsificazione, ed è incompatibile con l’indiscutibilità». Dunque, l’ortodossia «serve a proteggere dal controllo scientifico le credenze che sostengono posizioni di privilegio e sfruttamento».E’ un sistema basato sul dominio, con i suoi guardiani: «Le posizioni politiche che mettono in luce e contestano il trend di progressivo trasferimento dei redditi e della ricchezza dai lavoratori alla finanza improduttiva – scrive Della Luna – sono tutte etichettate, dalla grande comunicazione, come populiste-estremiste, se non peggio», mentre sono definiti “di sinistra” partiti come il Pd in Italia, che «difendono la concentrazione dei redditi e del potere politico nelle mani dei grandi banchieri, quando non sono addirittura diretti da figli di banchieri molto discutibili o addirittura incriminati». Secondo Della Luna, «l’uomo non è una grande risorsa per i suoi ideali di giustizia, verità, libertà: pur di non guardare in faccia la realtà e non doversi addossare responsabilità, la maggior parte della gente adotta credenze assurde e rinuncia alla libertà, arrivando a pagare, a stordirsi, a compiere cose degradanti». C’è chi vorrebbe suscitare un movimento rivoluzionario e moralizzatore? Vorrebbe puntare sulla diffusione della conoscenza, illuminando decisivi aspetti della realtà? Tutte illusioni, sostiene il pessimista Della Luna.Siamo tornati all’antico potere sacerdotale, avverte il saggista: «I cleri di molte civiltà si arricchivano e acquisivano potere politico facendo credere al popolo che, per far sì che gli dèi mandassero la pioggia e proteggessero dalle pestilenze e dalle carestie, bisognasse fare grandi donazioni in sacrificio ai templi e obbedire ai grandi sacerdoti». Oggi, afferma Della Luna, svolge una funzione analoga «la credenza istituzionalizzata (cioè la religione) della scarsità della moneta e della indispensabilità per gli Stati di indebitarsi per finanziarsi». Nel saggio “Pensare altrimenti”, il filosofo Diego Fusaro scrive che il capitalismo finanziario, per realizzare il proprio sistema di profitto, ha necessità di farsi pensiero totalitario, unico, quindi di eliminare ogni identità umana differenziale e ogni valore diverso da quelli di scambio, così come ogni vincolo morale, comunitario, etnico, culturale e spirituale, insieme a ogni concezione alternativa dell’uomo e dell’ordinamento esistente, perché ostacolerebbero la “onnimercificazione” e la immediatezza del business.Il nuovo business, aggiunge Fusaro, vuole che ogni qualità sia riducibile a quantità, e che tutto e tutti siano costantemente disponibili on line per le operazioni di mercato (e di sorveglianza), in un processo di omogeneizzazione e riduzione del qualitativo al quantitativo che ammette solo i flussi di scambio, non i soggetti che se li scambiano. Questo produce un effetto ultimamente entropizzante e mortifero, cioè nullificante: «Illumina l’accostamento che Fusaro fa di questo processo all’avanzare del Nulla che divora il fantastico mondo del famoso film “La storia infinita”», annota Della Luna. Per compiere questa eliminazione, soprattutto nei cosiddetti “gloriosi 30” (i decenni della grande crescita e redistribuzione economica «apparentemente democratica»), il sistema ha sviluppato in modo pianificato «la demolizione della consapevolezza di classe attraverso il consumismo: col quale le classi subalterne hanno assimilato i valori di quelle dominanti e si sono moralmente neutralizzate nonché politicamente castrate».Al contempo, ha prodotto la relativizzazione e l’inversione dei valori e delle istituzioni tradizionali, «assieme a un complesso processo di censura e “tabuizzazione del dissenso”, del pensiero diverso (circa le cose che contano, soprattutto degli scopi dell’esistenza) e delle stesse parole che servono per esprimere la critica al capitalismo finanziario». Imperialismo, colonialismo, plutocrazia, conflitto servi-padroni: «Sono vocaboli fondamentali per rappresentarsi le operazioni e le realtà del nostro mondo», in cui le guerre di conquista per il petrolio e le altre risorse, e per l’imposizione del dollaro come moneta obbligata degli scambi di materie prime, «vengono legittimate come esportazione della democrazia, lotta al terrorismo e tutela dei diritti dell’uomo». Parole necessarie, continua Della Luna, e quindi «tolte dalla comunicazione per l’opinione pubblica, e sostituite con altre parole opportunamente scelte». E’ la “neolingua” orwelliana: invertire il significato delle parole, restringere il lessico per ridurre i concetti e produrre così il consenso al sistema. Lo si ottiene, oggi, con il lancio mirato di milioni di email e tweet, nonché «campagne di criminalizzazione, di allarmismo, di ottimismo» dirette a manipolare la mente e il comportamento collettivo, in ambito politico e finanziario.«Con quest’arma ci si può liberare di intellettuali dissenzienti e delle loro idee o rivelazioni, come pure di concorrenti commerciali e politici, creando l’apparenza che la società stessa, democraticamente, li condanni o ne diffidi, mentre si tratta dell’attacco di un singolo soggetto, moltiplicato per milioni mediante strumenti tecnologici». Così per tutto. La ricerca scientifica? Vincolata ai finanziamenti del capitalismo privato e del settore militare. Conseguenze: «note e terribili, nei campi sanitario e alimentare». E l’ideologia gender, introdotta sin dal ‘96 anche attraverso l’Ue? «Persino dati di fatto biologici, come la dualità dei sessi, vengono negati e “tabuizzati” in quanto dati di natura, immodificabili, e convertiti in convenzioni-costruzioni volontarie, ossia in prodotti, così da creare il mercato dei trattamenti per sviluppare un gender», ovvero: «Trattamenti ormonali per sospendere la sessuazione nei fanciulli rinviandola a quando potranno scegliere se diventare maschi o femmine», e anche «condizionamenti psicologici per indurre identificazioni e prassi di “gender” divergenti dall’appartenenza sessuale biologica».La “destra del capitale” (come la chiama Fusaro), si serve di una censoria “sinistra del costume” (ottusa o mercenaria) che è stata allocata negli spazi e gli organi “culturali” (sovrastruttura) per oscurare, delegittimare, criminalizzare e attaccare, talvolta persino con la violenza fisica, i critici strutturali del modello capitalista, vantandosi “antifascista” «ma di fatto esercitando, in modo tipicamente fascista, la proscrizione e repressione dei critici del sistema, senza confronto nel merito ma semplicemente mediante accuse di immoralità, estremismo, populismo o irrazionalismo, nonché di fake news». Non sempre funziona: le elezioni del 4 marzo 2018 – aggiunge Della Luna – hanno dimostrato che larga parte dell’elettorato ha rigettato la propaganda istituzionale pro-immigrazione e pro-eurocrazia. Nei suoi saggi, l’autore demistifica soprattutto i dogmi fondanti del sistema capitalistico, della sua legittimazione giuridica e del consenso che lo sostiene: scarsità-costosità della moneta, efficienza-esistenza del libero mercato, “virtuosità” della spesa pubblica e della riduzione dei debiti nazionali (mediamente cresciuti, non calati, proprio per effetto del rigore fiscale Ue). «Ma siccome queste sono una credenza protetta, non possono essere messe a confronto col loro fallimento di fatto».In grande maggioranza, sostiene Fusaro citando Etienne de la Boétie, la popolazione tende ad adattarsi cognitivamente, moralmente ed emotivamente allo stato di fatto della realtà, ai rapporti di potere effettivi, «perché pensare l’ingiustizia del potere che si subisce rende il subirla più afflittivo e tormentoso, senza apportare vantaggi». In altre parole: meglio non guardarla in faccia, una realtà così orrenda. L’industria culturale del capitalismo finanziario aiuta, eccome, a non aprire gli occhi: agisce «analogamente ma assai più efficacemente di ogni altro totalitarismo precedente, teocratico, comunista o fascista che fosse». Ha costruito e imposto una sua ortodossia, ha fabbricato un consenso, una legittimazione democratico-giuridica. E ha ottenuto che il “logos” dissenziente, cioè la consapevolezza dell’ingiustizia (dell’illogicità e dell’infelicità provocata dal sistema in atto, e della progettabilità di sistemi diversi) possa circolare solo tra pochi intellettuali indipendenti, marginali al potere, senza poter alimentare un movimento politico consistente ed efficace. Quand’anche, aggiunge Della Luna, non si andrebbe oltre qualche piccolo attrito, «perché la capacità repressiva del sistema, col suo apparato mediatico-militare-istituzionale, è immensa».Del resto, «la quota di potere reale messa in gioco nelle votazioni popolari è minima». Chi vota, può decidere pochissime cose. Della Luna l’ha spiegato in saggi come “Oligarchia per popoli superflui” e “Oltre l’agonia”: il pensiero unico è pervasivo, fortissimo. «E’ di gran lunga più capace che ogni altro sistema di legare a sé le persone, le aziende, i governi», proprio perché «più di ogni altro sistema produce e distribuisce mezzi monetari», che sono «il motivatore universale», e lo fa «con operazioni contabili che indebitano verso di esso, con interesse composto, le persone, le aziende, i governi (denaro-debito)». E quindi, nel finanziare il corpo sociale – cioè nel dargli volta per volta il denaro di cui questo necessita per funzionare – al contempo lo indebita verso di sé, creandogli la necessità di prendere ulteriore denaro a prestito (il cosiddetto “debito infinito”, i cui leader sono i produttori della moneta, cioè i vertici del sistema finanziario). «E’ un fattore matematico ineliminabile. E questa dipendenza è divenuta non solo economica, nel tempo, ma anche politica». Il vertice finanziario emana le direttive e detta le leggi: è il fondamento del potere politico. L’attività strategica dei “produttori di denaro”, insiste Della Luna, rappresenta «il core business del settore bancario», che opprime le nazioni indebitate.«Siamo evidentemente in presenza di un piano politico di lungo termine, ovviamente non dichiarato e non proposto al pubblico dibattito né menzionato o menzionabile nei programmi elettorali dei partiti politici». Per Della Luna, è in corso da decenni «un piano di indebitamento progressivo a fine di potere politico e di esautorazione delle istituzioni pubbliche». Si basa sul fatto che gli utenti del credito (cittadini, aziende, amministratori, politici) si accontentano di risolvere il problema finanziario immediato ottenendo un nuovo finanziamento, senza considerare «l’effetto cumulativo macroeconomico del finanziarsi ripetutamente a credito nel lungo e lunghissimo periodo». Ed è proprio questo l’obiettivo dell’operazione. Il piano «viene nascosto, dai suoi stessi esecutori, dietro i precetti della lotta al debito pubblico, dell’avanzo primario e della “virtuosità” di bilancio – precetti la cui applicazione ha infatti aumentato l’indebitamento pubblico verso la comunità bancaria internazionale, come volevano i loro fautori». Indebitamento che, su scala mondiale, supera i 260.000 miliardi di dollari. In Europa, un muro insormontabile grazie alla moneta unica (Della Luna ne parla in “Cimiteuro”, “Euroschiavi”, “La moneta copernicana”).E’ il “social control”, sintetizza Della Luna, il vero obiettivo di fondo dell’oligarchia finanziaria globale. Il profitto monetario? «E’ solo uno strumento», benché formidabile e con volumi mostruosi. Invece, «gestire un mondo in preda a squilibri e conflitti crescenti è molto più impegnativo». Secondo l’analista, questo richiede il passaggio già in corso: «Dalla società finanziarizzata alla società amministrata zootecnicamente». E’ drastico, Della Luna: «All’atto pratico – scrive – lo spazio di libertà degli uomini è sempre stato proporzionale alla loro capacità fisica e mentale di conquistarselo e difenderlo, ossia di resistere alla tendenza a controllarli e sfruttarli da parte del potere costituito». La libertà individuale? Non è altro che «un rapporto tra la forza di controllo dall’alto e quella di resistenza ad essa dal basso». Oggi, conclude, la tecnologia sta moltiplicando la prima rispetto alla seconda. In ogni campo: dalla comunicazione all’elettronica, della biochimica alla manipolazione genetica per via farmacologica. Contiamo sempre meno, saremo sempre più in gabbia. Zootecnia, appunto: «Gli spazi di libertà vanno ad azzerarsi».Gigantesco, industrioso, immane. E’ uno dei più cospicui fenomeni del nostro tempo. Marco Della Luna lo chiama: il cantiere del pensiero unico globalizzato. Ci sono committenti, architetti, sacerdoti e guardiani. Rendono prevedibili e pilotabili i comportamenti sociali nel mondo super-accelerato e conflittuale in cui viviamo. Manovrando l’industria culturale (entertainment compreso), il capitalismo finanziario «ha creato un’ortodossia, un pensiero obbligato, mainstream, scientifically correct». Uno strumento che, di qualsiasi cosa parli, «delegittima, isola o criminalizza – cioè praticamente scomunica, espelle dalla società conformata – non solo il pensiero divergente dall’ortodossia, ma la stessa libera indagine scientifica, economica e storiografica». Missione titanica: plasmare la società, cioè noi. Usa la storia e l’economia, l’integrazione europea e l’euro, l’immigrazione e l’Islam, le diversità etniche e l’identità sessuale, e da ultimo «le asserite efficacia e innocuità dei vaccini obbligatori». Su queste cose, sottolinea Della Luna, sono state costruiti “protected beliefs”, credenze protette dal dogma. E guai a chi sgarra: per i trasgressori c’è l’isolamento, la punzione economica, persino il carcere.
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Sarkozy e la Hathor Pentalpha, superloggia del terrorismo
La lapidazione pubblica di un politico di rango non ha mai un’unica paternità: di solito sono tante le nubi che, a un certo punto, si trasformano in tempesta. E per un ex presidente della Francia, cioè di una delle cinque potenze atomiche con diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il solo fatto di essere trattenuto in stato di fermo in una stazione di polizia, alla stregua di un criminale comune, costituisce l’atto d’inizio – il più eclatante – di una vera e propria demolizione a reti unificate. I giornali parlano di vendetta a distanza da parte degli ex fedelissimi di Gheddafi: prima di essere assassinato “su ordine dei servizi francesi”, il raiss di Tripoli avrebbe finanziato sottobanco, in modo cospicuo, la campagna elettorale di Sarkozy per le presidenziali del 2007 (in cambio di cosa?). Gli italiani ricordano ancora l’irridente impudenza con cui l’allora capo dell’Eliseo, insieme ad Angela Merkel, seppellì in mondovisione il moribondo Berlusconi, incalzato da mille inchieste e travolto dallo scandalo delle “olgettine”. Un sinistro preludio, per l’Italia, all’austerity di lì a poco imposta con il diktat della Bce firmato Draghi e Trichet, corroborato dal crollo delle azioni Mediaset e dall’esplosione pilotata dallo spread. «Gli italiani sono dei bambinoni deficienti, non si sono nemmeno accorti che siamo stati noi a inviargli il “fratello” Mario Monti, il nostro uomo», con l’incarico di sabotare l’economia del Belpaese, precipitandolo nel baratro della crisi: legge Fornero, pareggio di bilancio in Costituzione.Lo dicono, nell’appendice del bestseller “Massoni” (edito da Chiarelettere a fine 2014), quattro pesi massimi della supermassoneria internazionale, protetti dall’anonimato ma «pronti a manifestarsi, nel caso qualcuno ne contestasse le affermazioni». Non ce n’è stato bisogno: Monti, Napolitano e gli altri si sono ben guardati dal chiedere all’autore del saggio, Gioele Magaldi, di rendere pubblica l’identità di quei quattro “vecchi saggi” del massimo potere in vena di rivelazioni. Accanto a un mediorientale e a un asiatico, a parlare sono uno statunitense (che ricorda da vicino lo stratega Zbigniew Brzezinski, da poco scomparso) e un francese, il cui identikit di eminenza grigia potrebbe benissimo corrispondere a quello di Jacques Attali, già plenipotenziario di Mitterrand e poi “padrino” e king-maker di Emmanuel Macron. La tesi del libro, assolutamente dirompente, è stata oscurata dai media mainstream: da decenni, il mondo sarebbe nelle mani di 36 Ur-Lodges, potentissime superlogge massoniche sovranazionali. Dopo l’iniziale dominio delle organizzazioni di ispirazione progressista, dall’era Roosevelt fino ai Kennedy, il potere sarebbe passato all’ala neo-conservatrice (Kissinger, Rockefeller, Rothschild) dopo il duplice omicidio di Bob Kennedy e del “fratello” Martin Luther King.A seguire: una guerra segreta senza risparmio di colpi – da un lato il Cile del massone Pinochet e la Grecia dei colonnelli, ma anche i ripetuti tentativi di golpe in Italia con la complicità della P2 di Gelli, e dall’altro la Rivoluzione dei Garofani in Portogallo scattata non a caso il 25 aprile (del ‘74). Poi, lo sciagurato patto “United Freemanson for Globalization” per spartirsi la torta mondiale sdoganando il neoliberismo. Con in più una scheggia impazzita: la Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, nella quale – secondo Magaldi – figura anche il nome di Sarkozy, accanto a quelli del turco Erdogan, protagonista degli odierni orrori in Medio Oriente, e del britannico Tony Blair, l’indimenticato inventore delle inesistenti “armi di distruzone di massa” di Saddam Hussein, ovvero “la madre di tutte le fake news”. Saddam e la guerra in Iraq, cioè Bush junior, dopo la prima Guerra del Golfo scatenata da Bush senior. Il Rubicone è stato varcato con l’opaco, devastante maxi-attentato dell’11 Settembre (e la conseguente invasione dell’Afghanistan, seguita dalle guerre in Iraq e in Libia, dalla “primavera araba”, dall’atroce conflitto in Siria).Terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera – da Al-Qaeda all’Isis – secondo un copione basato sulla più accurata disinformazione, fotografato alla perfezione dall’immagine di Colin Powell che, alle Nazioni Unite, agita una prova falsa come la celebre “fialetta di antrace” per raccontare che il regime di Baghdad sarebbe pronto a sterminare l’umanità. Non fu solo una drammatica sterzata politica imposta dai “neocon” Usa, sostiene Magaldi: la strategia della tensione internazionale, che produce guerre in Medio Oriente e leggi speciali negli Usa e in Europa per rispondere agli attentati “islamici”, corrisponde alla sanguinosa strategia della “Hathor Pentalpha”, la «loggia del sangue e della vendetta» creata da Bush (padre) dopo la bruciante sconfitta alle primarie repubblicane inflittagli nel 1980 da Ronald Reagan. In questo modo, Magaldi spiega anche i due attentati simmetrici che seguirono, nel 1981: qualcuno sparò a Reagan il 30 marzo, e – per rappresaglia – i sostenitori occulti di Reagan armarono la mano di Ali Agca, che il 13 maggio sparò a Papa Wojtyla, eletto al soglio pontificio con il determinante appoggio di Brzezinski, allora vicino a Bush. Due minacciosi avvertimenti, con firme opposte ma identico stile: né a Washington né a Roma si sparò per uccidere.Fantapolitica? Ne ha tutta l’aria: a patto di rassegnarsi all’idea che sia proprio la geopolitica a esser diventata “fanta”, rendendo possibile l’impensabile. «Dispongo di 6.000 pagine di documenti che comprovano quanto affermato nel mio libro», ribadisce Magaldi, a scanso di equivoci. Il problema? Nessuno, finora, gliene ha chiesto conto: meglio la congiura del silenzio, di fronte a pagine così sconcertanti e imbarazzanti. Le grandi scelte strategiche del pianeta – sottolinea l’autore – sono state messe a punto negli ultimi 30-40 anni da superlogge storicamente neo-aristocratiche come la “Three Eyes” e la “Compass Star-Rose”, insieme alla “Edmund Burke”, alla “Leviathan”, alla “White Eagle”. Sono loro a dominare ministeri, banche, università, istituzioni internazionali finanziarie “paramassoniche” come il Fmi e la Bce. Obiettivo: sdradicare Keynes dalla politica economica dell’Occidente: via il welfare e i diritti del lavoro, guerra alla sinistra sindacale, demonizzazione del debito pubblico, privatizzazione universale, fine dello Stato sociale come garante del benessere diffuso. Svuotare la democrazia, per restituire il potere all’oligarchia – finanza, industria, multinazionali – secondo un modello neo-feudale: solo un’élite “illuminata” ha il diritto di governare il popolo. E la tenebrosa “Hathor Pentalpha”?«Semplicemente, la “Hathor” ha ritenuto che tutto questo non bastasse: il nuovo ordine antidemocratico andava imposto con la guerra e il terrorismo, a partire proprio dall’11 Settembre». Specchietto le allodole, il saudita Osama Bin Laden reclutato dalla Cia in Afghanistan negli anni ‘70, in funzione anti-sovietica. «Bin Laden fu iniziato alla “Three Eyes”: me lo confidò proprio l’uomo che lo affilò, Brzezinski». Lo stesso Brzezinski, aggiunge Magaldi, rimase deluso dalla scelta di Bin Laden di passare poi alla “Hathor Pentalpha”, la superloggia dei Bush. Simboli eloquenti: Hathor è uno dei nomi della dea egizia Iside, cara ai massoni, e il suo nome in inglese è, appunto, Isis. «Anche l’uomo che si fa chiamare Abu Bakr Al-Baghdadi, stranamente rilasciato nel 2009 dal campo di prigionia iracheno nel quale era detenuto, è stato affiliato alla “Hathor Pentalpha”». Al-Baghdadi, il presunto capo del sedicente Isis: organizzazione terroristica che, quando ha perso terreno in Siria sotto il colpi dell’offensiva militare russa, ha cominciato a colpire l’Europa. Charlie Hebdo e Bataclan, Bruxelles, la strage di Nizza. «Tutti attentati spaventosamente stragistici, “firmati” con una simbologia nacosta e nient’affatto islamica, ma saldamente ancorata alle date-simbolo del martirio dei Templari nel 1300».Ne parla nel saggio “Dalla massoneria al terrrorismo” (Revoluzione) l’esperto simbologo Gianfranco Carpeoro, massone come Magaldi, altrettanto critico rispetto al potente mileu “latomistico” globalizzato, pronto anche a fare l’uso più cinico e spregiudicato di vasti settori dei servizi segreti, ridotti a strumenti di una “sovragestione” pericolosa, che sottomette gli Stati (e i governi eletti) ai disegni di una ristretta oligarchia. «Tutto quel sangue, in Europa, è nato da una rottura all’interno dell’ala reazionaria dell’élite supermassonica», ha ripetuto Carpeoro, in trasmissioni web-streaming come quelle di “Border Nights”. Chi ha premuto sul tasto del neo-terrorismo interno – è la sua tesi – l’ha fatto per intimidire quegli elementi che, in seno all’oligarchia, si erano mostrati titubanti di fronte alla “linea dura”, quella delle stragi nelle piazze europee. «E’ in corso un’escalation, prepariamoci al peggio: in Europa potrebbe verificarsi un maxi-attentato come quello dell’11 Settembre». Previsione fortunatamente inesatta: «E’ vero», ammette Carpeoro, «le stragi sono cessate». Ma questo – spiega – dipende dal fatto che, “lassù”, si sono rimessi d’accordo su come agire, a cominciare proprio dalla Francia.Ieri, all’Eliseo c’era Hollande, un politico da intimidire (come socialista ma anche come supermassone “di sinistra”, esponente della Ur-Lodge progressista “Fraternité Verte”), a capo di un establihment incalzato dal “populismo” di Marine Le Pen. Poi invece le elezioni hanno incoronato Macron, «che a differenza di Hollande – sostiene Carpeoro – è espressione diretta di quei circoli, responsabili della “sovragestione”», fino a ieri anche terroristica, all’occorrenza. E’ lo stesso Macron che, a giorni alterni, fa l’amicone dell’Italia, promettendo a Gentiloni – in cambio di cospicue cessioni di italianità – di difendere il Belpaese dai “cattivi” tedeschi. E’ cronaca: soldati italiani spediti in Niger a far la guardia all’uranio per conto dei francesi, voci sul ridisegno delle acque territoriali a favore dei pescatori francesi, vistosa ascesa del management transalpino nel cuore del “made in Italy”. Con Gentiloni e Macron, sostiene Federico Dezzani, l’Italia si auto-declassa al rango di neo-colonia francese, nell’illusione di trovare riparo dal rigore imposto dall’ordoliberismo teutonico. Sta davvero succedendo qualcosa di strano, “lassù”, se un big come Sarkozy finisce sotto interrogatorio in un commissariato di Nanterre? Significa che la superloggia (già terrorista) “Hathor Pentalpha” è in discesa libera, nei piani alti della “sovragestione”? Inutile sperare in spiegazioni esaurienti: il mainstream si limiterà alle fonti giudiziarie sul caso Libiagate, mentre il pubblico assiste alla strana caduta di un ex superpotente come Sarkozy, in una Francia senza più attentati né stragi, dove l’oligarca Jacques Attali ha battezzato il nuovo regno di Macron, l’ex ragazzo prodigio della Banca Rothschild.La lapidazione pubblica di un politico di rango non ha mai un’unica paternità: di solito sono tante le nubi che, a un certo punto, si trasformano in tempesta. E per un ex presidente della Francia, cioè di una delle cinque potenze atomiche con diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il solo fatto di essere trattenuto in stato di fermo in una stazione di polizia, alla stregua di un criminale comune, costituisce l’atto d’inizio – il più eclatante – di una vera e propria demolizione a reti unificate. I giornali parlano di vendetta a distanza da parte degli ex fedelissimi di Gheddafi: prima di essere assassinato “su ordine dei servizi francesi”, il raiss di Tripoli avrebbe finanziato sottobanco, in modo cospicuo, la campagna elettorale di Sarkozy per le presidenziali del 2007 (in cambio di cosa?). Gli italiani ricordano ancora l’irridente impudenza con cui l’allora capo dell’Eliseo, insieme ad Angela Merkel, seppellì in mondovisione il moribondo Berlusconi, incalzato da mille inchieste e travolto dallo scandalo delle “olgettine”. Un sinistro preludio, per l’Italia, all’austerity di lì a poco imposta con il diktat della Bce firmato Draghi e Trichet, corroborato dal crollo delle azioni Mediaset e dall’esplosione pilotata dallo spread. «Gli italiani sono dei bambinoni deficienti, non si sono nemmeno accorti che siamo stati noi a inviargli il “fratello” Mario Monti, il nostro uomo», con l’incarico di sabotare l’economia del Belpaese, precipitandolo nel baratro della crisi: legge Fornero, pareggio di bilancio in Costituzione.
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L’Italia frana e il Pd le ha offerto solo la mistica del Jobs Act
«Ok, abbiamo perso. Volete i nostri voti, in Parlamento? Benissimo: preparatevi a sostenere alcune nostre proposte, quelle che in caso di vittoria avremmo attuato noi». Questo sarebbe un parlare politico, responsabile, incisivo. E invece il Pd, rottamato dalla catastrofe elettorale, tiene il muso. E si rifugia, per ora, in un Aventino che sarà anche «legittimo e coerente con l’esito delle urne», ma certo non utile a costruire futuro. Anche perché, a monte, manca il tassello fondamentale: «Renzi dovrebbe innanzitutto dire: abbiamo sbagliato», anziché lasciar credere che a “sbagliare” siano stati gli elettori, che non avrebbero compreso la qualità e la mole del lavoro svolto dal governo. “Non ci hanno compreso”, è il refrain. “Non siamo stati capaci di farci capire”. Per Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, «questa vicenda del Pd che non gioca più, che non vuole più giocare, racconta benissimo questa politica che ha abdicato al suo ruolo costruttivo, accontentandosi di un ruolo meramente rappresentativo e oleografico». Una mediocrità imbarazzante, nella quale peraltro affonda l’ex riformismo italiano, quello dei sedicenti “progressisti” che hanno votato il governo Monti e la legge Fornero, senza avere nemmeno il coraggio di rimettere in discussione almeno il pareggio di bilancio in Costituzione, inserendolo nel fatale referendum del dicembre 2016.La cifra del tenore politico in casa Pd, dice Magaldi ai microfoni di “Colors Radio”, la offrono le meste esternazioni dei renziani Orfini, Lotti, Martina, «non a caso incolori e privi di qualsiasi carisma, come tutti quelli del Giglio Magico», assolutamente anonimi, fatta eccezione per la Boschi (che si fa notare per «la notevole avvenenza e l’astuzia nella cura del suo “particulare”») e per il misterioso Carrai, «personaggio scaltro, che appare e scompare». Sconfitti, i renziani ripetono: «Lasciateci perdere, per il governo vedetevela voi. Noi abbiamo perso, non vogliamo governare: lo faccia chi ha vinto, cioè 5 Stelle e Lega, con o senza Forza Italia al seguito». Peccato, si rammarica Magaldi: «E’ una posizione formalistica», sterile, ma certo non inaspettata. «In tutta questa storia del renzismo prevale sempre il lato formale», rileva Magaldi. «Hanno prevalso gli slogan, le propagande, le affermazioni altisonanti che dovevano sostituire la realtà: la mistica del Jobs Act, la mistica della crescita del paese. Ho ascoltato esterrefatto Alessandra Moretti, l’ex “lady like”, dire che loro pensavano che la ripresa avrebbe premiato il Pd, invece il paese reale ha una percezione diversa».«Non è questione di percezione», obietta Magaldi: «E’ che sono stronzate quelle che vengono dichiarate a reti unificate sulla ripresa: gli indicatori economici utilizzati sono fasulli (ma finiscono per convincere anche i loro propagatori), mentre il paese continua a essere in ginocchio da troppi anni, la disoccupazione galoppa e l’economia gira poco e male». E anziché aprire gli occhi e ammettere i suoi errori (evidentissimi agli elettori) il Pd «continua la sua triste narrativa renziana, dove quello che conta non è la sostanza». Ben diverso, aggiunge Magaldi, se Renzi dicesse: «Ho capito dove ho sbagliato, quindi offro un supporto al governo 5 Stelle (o a un altro governo) sulla base di alcuni progetti, che sono nostri. Non li vogliono? Pazienza, ma noi facciamo politica perché vogliamo fare delle cose, abbiamo questi progetti che avremmo attuato se avessimo vinto, e quindi se qualcuno li vuole sostenere andiamo avanti insieme». Questo, conclude Magaldi, «sarebbe un ragionamento di sostanzialità politica, e cioè: tu testimoni quello che è il tuo progetto politico – sia che perdi, sia che vinci. E invece siamo al tatticismo. Si dice: abbiamo perso, ci lecchiamo le ferite».In più, aggiunge, dopo la Caporetto del 4 marzo, «nel Pd prevale ancora un’identificazione fortissima con il sentire personale di Renzi», l’ex rottamatore arrivato al capolinea. In realtà, secondo Magaldi, dovrebbe essere rottamato l’intero centrosinistra italiano: di fatto, ha consegnato l’Italia a poteri oligarchici privati, coronando il sogno antidemocratico dell’ultimo Kalergi, adottato da Jean Monnet e dagli altri padrini storici di quest’Europa “antieuropeista”, che rema contro i propri popoli mettendoli l’uno contro l’altro a colpi di mercantilismo e culto del rigore. Finisce nei guai un paese come l’Italia, che oggi – tra le altre cose – si ritrova senza una politica all’altezza della situazione «e senza uno straccio di ideologia, tranne l’unica rimasta in piedi: quella neoliberista». Tatticismi, appunto: «Compreso il peggiore in assoluto, ipotesi di cui nessuno parla: la possibilità teorica che il centrodestra, in silenzio, possa “pescare” seggi tra i tanti grillini neo-eletti, come auspicato dallo stesso Berlusconi». Niente male, come inizio, per l’ipotetica Terza Repubblica fondata sugli equivoci, mentre il paese continua a crollare.«Ok, abbiamo perso. Volete i nostri voti, in Parlamento? Benissimo: preparatevi a sostenere alcune nostre proposte, quelle che in caso di vittoria avremmo attuato noi». Questo sarebbe un parlare politico, responsabile, incisivo. E invece il Pd, rottamato dalla catastrofe elettorale, tiene il muso. E si rifugia, per ora, in un Aventino che sarà anche «legittimo e coerente con l’esito delle urne», ma certo non utile a costruire futuro. Anche perché, a monte, manca il tassello fondamentale: «Renzi dovrebbe innanzitutto dire: abbiamo sbagliato», anziché lasciar credere che a “sbagliare” siano stati gli elettori, che non avrebbero compreso la qualità e la mole del lavoro svolto dal governo. “Non ci hanno compreso”, è il refrain. “Non siamo stati capaci di farci capire”. Per Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, «questa vicenda del Pd che non gioca più, che non vuole più giocare, racconta benissimo questa politica che ha abdicato al suo ruolo costruttivo, accontentandosi di un ruolo meramente rappresentativo e oleografico». Una mediocrità imbarazzante, nella quale peraltro affonda l’ex riformismo italiano, quello dei sedicenti “progressisti” che hanno votato il governo Monti e la legge Fornero, senza avere nemmeno il coraggio di rimettere in discussione almeno il pareggio di bilancio in Costituzione, inserendolo nel fatale referendum del dicembre 2016.
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Magaldi: a casa, con Renzi, tutti i dirigenti dell’ipocrita Pd
E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale: «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».Le elezioni? Tutto come previsto: il grande sconfitto è Renzi, che ha solo finto di alzare la voce con l’Ue. L’altro perdente annunciato è Berlusconi, «quindi esce sconfitto quell’auspucio, caldeggiato anche da ambienti sovranazionali, che è stato uno dei moventi di questa legge elettorale». Sipario sul “Renzusconi”, cioè sulle larghe intese «convergenti verso questa melassa centrista infeconda che ha caratterizzato anche le passate legislature, da Monti in poi: esecutivi che hanno fatto tutti lo stesso mestiere, a quanto pare inviso agli italiani, che questa volta hanno dato una bella bastonata a questa prospettiva». Così Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio” il giorno dopo il voto. Una tornata ricca di conferme: «Come immaginato, nessuno ha vinto davvero: grandi exploit da Salvini e dai 5 Stelle, ma nessuno di loro ha i numeri per governare da solo». Terza previsione azzeccata: «Nulla sarà più come prima», ma siamo piombati in una palude: «E le paludi sono feconde, come il concime». Mattarella darà la precedenza al centrodestra, la coalizione meglio piazzata, o ai 5 Stelle primo partito? Un’alleanza tra grillini e Pd de-renzizzato «sarebbe un abbraccio singolare, dopo che il Pd ha demonizzato i 5 Stelle come fossero gli Unni». Eppure, «questa alleanza potrebbe vedere il favore di Mattarella, ed è quella verso cui si è mosso Di Maio». Per contro, escludere i 5 Stelle, cioè i più votati in assoluto, «sarebbe una beffa: impensabile, ai tempi della Prima Repubblica».Per Magaldi «cambieranno molte cose di giorno in giorno: ciò che oggi appare improbabile potrebbe mutare prospettiva, oltre questo scenario così ostico». Emergeranno soluzioni «difficili da concepire con gli schemi di prima del voto». Alla fine, «sulle difficoltà politiche prevarranno le possibilità numeriche». Molto dipenderà dal presidente della Repubblica: nel 2013, Napolitano dette a Bersani solo un incarico esplorativo ufficioso. «Constatando l’eccezionalità della situazione», aggiunge Magaldi, «anziché lasciare tutto all’interno nel Palazzo», il Quirinale potrebbe passare la palla al Parlamento, «per vedere chi ci sta, sulla base di un programma, a formare un governo». Certo, la “palude” è infida. Ma almeno, il voto ha stabilito una tendenza: ha reso chiaro «quello che gli italiani non vogliono». Ovvero: «C’è il desiderio di affrancarsi da un corso politico: direi che l’ingloriosa storia della Seconda Repubblica finisce qui». C’è da rivalutare semmai la tanto vilipesa Prima Repubblica, «in cui un paese in ginocchio dopo la guerra, dopo la sconfitta della barbarie nazifascista, in pochi decenni era diventato una grande potenza industriale». Ma c’era un paradigma vigente – la spesa pubblica strategica, chiave del successo storico del “made in Italy”: paradigma abbattuto dal ‘92 in poi. «E questi signori, che sono venuti a raccontarci le “magnifiche sorti e progressive” che con la Seconda Repubblica si sarebbero avverate in Italia e in Europa, oggi escono di scena», sintetizza Magaldi. «Compaiono altri attori, dalle prospettive incerte».Un voto “utile”, comunque, a ramazzare via gli orpelli polverosi. Come “Liberi e Uguali”, che Magaldi definisce «una follia pianificata». E spiega: «Solo l’immaginazione malsana e l’assenza di senso della realtà e lungimiranza di Bersani e D’Alema, Civati e Speranza, poteva immaginare che Grasso potesse essere il portavoce carismatico e ricco di appeal per un elettorato di sinistra critico verso il Pd». Se in Grasso e Bersani prevale l’ipocrisia, nel dirsi “di sinistra” sottoscrivendo il protocollo dell’euro-austerity, in Emma Bonino versione 2018 ha invece stravinto il delirio: «Sconcertante, la Bonino, nel venirci a proporre “più Europa”. Un messaggio thatcheriano: lo statista come il buon padre di famiglia che deve preoccuparsi di ripagare i debiti, come se il debito pubblico fosse il debito privato, che va ripagato perché c’è la cambiale che scade». In una macroeconomia, cioè in un sistema economico complesso, il debito pubblico – insieme all’inflazione, agli investimenti a deficit – è uno dei fattori da maneggiare con oculatezza, «sapendo che uno Stato con sovranità monetaria gestisce le cose non come una famiglia privata (che non può stampare i soldi in cantina): uno Stato più fare deficit per aumentare il Pil e diminuire così, anziché coi tagli alla sanità, il rapporto malsano tra debito e Pil».Da Emma Bonino abbiamo sentito assurdità mostruose: bloccare la spesa pubblica per i prossimi due anni, alzare l’Iva. «Questo è un paese martoriato dalle tasse, dove i consumi sono crollati e c’è l’esigenza di far circolare moneta e tenere più bassa la pressione fiscale», puntualizza Magaldi. «Soltanto dei pazzi potrebbero pensare di tagliare ancora la spesa e aumentare ulteriormente le tasse». E in campagna elettorale questo delirio ha avuto libero corso, «complice anche un linguaggio mediatico alterato». Già, infatti: «A che livello è scesa la comunicazione giornalistica, in Italia? Rappresenta le cose per come non sono. E’ lo stesso giornalismo che aveva fatto credere a Mario Monti di avere un consenso maggioritario nel paese, nel 2013, quando i giornaloni titolavano che finalmente l’Italia eta governata da illuminati professori. Monti e la Fornero ci sono stati proposti come sacerdoti del “vero” economico, per settimane, da quell’altro bel tomo di Giovanni Floris». Oltre al vecchio ceto politico, insiste Magaldi, «dovremmo rottamare un ceto mediatico corporativo, con giornalisti che si intervistano a vicenda, elevando la figura del giornalista a grande intellettuale e politologo – ma spesso è gente che non conosce nemmeno i rudimenti della storia patria, non parliamo dell’economia internazionale».Altra mistificazione: gli apostoli della Costituzione “più bella del mondo” che si professano nemici della massoneria – Di Maio in primis – dimenticando il massone conclamato Meuccio Ruini, presidente della “Commissione dei 75” incaricata di redigerne il testo (e il capo di gabinetto di Ruini era il grande economista Federico Caffè, insigne keynesiano). «Se vuole governare l’Italia – dichiara Magaldi – Di Maio dovrà affrancarsi dalle proprie fobie e immaturità illiberali e anticostituzionali. Nella lista di possibili ministri che ha presentato ci si richiama a John Maynard Keynes, altro notorio massone al pari di Franklin Delano Roosevelt: colonne portanti del mondo post-bellico, cioè di ciò che ha consentito il ritorno della libertà in Europa e nel mondo. Quindi merita riconoscenza quella corrente maggioritaria di massoneria che ha prima costruito e poi difeso le società aperte, liberali, parlamentarizzate e democratiche». Sono verità storiche che per Magaldi vanno finalmente acquisite, se si vuole fronteggiare davvero questa Disunione Europea «in cui vige il mercantilismo più spudorato da parte della Germania».Mercantilismo: dottrina econonica (superata dal libero mercato) secondo cui la ricchezza della nazione sta nel surplus di esportazioni. «La Germania ha violato anche i pessimi trattati vigenti, che pur essendo pessimi non consentirebbero il mercantilismo», insiste Magaldi. «Siamo al di là del pessimo: abbiamo una costruzione europea non democratica, nata dalla Dichiarazione Schuman scritta dall’ex progressista Jean Monnet convertito all’idea economicistica dell’Europa, sulle idee di Kalergi, ideatore di una costruzione quasi neo-feudale dell’Europa», a imitazione del feudalesimo carolingio. E’ un’Europa pericolosa, «fondata su un’idea di sfiducia verso la democrazia e verso la politica». Orrore: «O il potere spetta al popolo sovrano, oppure spetta a sedicenti illuminati – poco importa che utilizzino strumenti finanziari, diplomatici, militari, religiosi o mediatici. O il popolo è sovrano, o è sovrano qualcun altro», aggiunge Magaldi. «Dovremmo avere un Parlamento Europeo che rappresenta il popolo sovrano, con una potestà legislativa piena, con facoltà di fiduciare o sfiduciare un esecutivio europeo reale, al posto di questa barzotta Commissione Europea. Juncker e Tajani? Figure stucchevoli, a cui non lascerei gestire neppure un condominio, e invece sono ai vertici. Dovremmo avere un dipartimento del Tesoro e buoni del Tesoro europei che taglino alla radice qualunque cataclisma da spread, vero o presunto». Di Maio e Salvini presentati come antieuropeisti? Errore: «I veri antieuropeisti sono quelli che oggi infestano le cancellerie europee e gli organi tecnocratici di questa Unione Europea». Ma i neo-vincitori sapranno cambiare passo, verso Bruxelles?«Non vorrei che le istanze euro-critiche del Movimento 5 Stelle si andassero appannando, nel percorso politico che si avvia con queste consultazioni», dice Magaldi. «Mi piacerebbe che tutti gli schieramenti in Parlamento avessero un nuovo modo di guardare all’Europa». C’è anche un problema di legittima rappresentanza delle istanze nazionali: «L’Italia è un grande contraente dell’Ue e dell’Eurozona, eppure ha visto sfumare anche un riconoscimento simbolico come l’attribuzione dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco. E’ finita in farsa, l’Italia è stata defraudata anche di questa piccola cosa. E il peggio è che si è vista la latitanza delle istituzioni italiane nel far valere le ragioni del nostro paese». Disunione Europea, appunto: «Un equilibrio di cancellerie, che perseguono scopi nazionali mascherati da un’impalcatura burocratica. Spero che tutti – non solo i vincitori relativi di queste elezioni – ripensino il modo in cui l’Italia deve stare in Europa». L’Italia? «Deve essere più autorevole: non lo è stata affatto quando è venuto il tecnocrate Mario Monti, inviato direttamente dai salotti buoni europei. L’elemento più sublime della sua narrazione era che dovessimo fare quel che ci diceva “l’Europa”, perché l’avevamo interiorizzato. Uno scenario da Grande Fratello orwelliano: abdicare al proprio libero pensiero critico e fare qualcosa che viene imposto da altri, perché eseguire senza discutere è cosa buona e giusta».Nei fatti, alla “teologia” dell’Ue si è sottomesso anche Renzi, che ora trasforma in farsa le sue dimissioni, dopo aver corso a capofitto verso la disfatta. «Sarebbe passato quasi per eroe – dice Magaldi – se solo avesse avuto il coraggio di inserire nel fatale referendum almeno il pareggio di bilancio in Costuzione, lasciando esprimere gli italiani». L’obbligo costituzionale del bilancio in pareggio, afferma Magaldi, «riporta il sedicente centrosinistra egemonizzato dal Pd alla destra storica di Quintino Sella, che conseguì il pareggio di bilancio nella seconda metà dell’800, quando al governo c’era il liberismo storico più bieco e spietato, che mandava Bava Beccaris a massacrare contadini, operai e povera gente che manifestava contro la tassa sul macinato e per le condizioni sociali allora davvero inique». Attenzione: su un tema come il pareggio di bilancio, di importanza capitale per la vita di tutti, non c’è stato uno straccio di dibattito mediatico: «Questo è un paese che parla a reti unificate solo di questioni irrisorie, mentre quando si votata il pareggio di bilancio gli eletti in Parlamento hanno agito come soldatini obbedienti, senza nessuna eccezione». Dov’era, il Pd? In aula, a votare: uso obbedir tacendo. «Via Renzi, il nuovo che avanza sarebbe Gentiloni, che ha fatto un governo renziano in linea con quelli di Monti e Letta? E gli altri che stanno nel Pd? Quando mai hanno levato la loro voce per proporre una traiettoria diversa? Sono tutti responsabili di questa bastosta. E’ una classe politica, quella del Pd, che deve andare a casa».Vale anche per l’Europa, aggiunge Magaldi: il Pd sta nell’alleanza dei socialisti democratici, e in tutta Europa «i socialisti sono chiaramente in regressione perché non hanno nessuna proposta socialista». Magaldi si definisce liberalsocialista: «L’elemento socialista ci deve essere: è la capacità di costruire un contesto di giustizia e mobilità sociale, in cui lo Stato abbia un ruolo dinamico e complementare a quello del libero mercato (e dove ci sia davvero libero mercato, senza monopoli, oligopoli e conflitti d’interesse)». Tutto ciò è mancato: poi qualcuno si lamenta se “la sinistra” è in estinzione. «E poi c’è il grande rimosso: John Maynard Keynes. Oggi, in tanti dicono che vogliono riscoprirlo: li aspettiamo al varco». L’eventuale Pd post-renziano? Può avere un senso solo a una condizione: che si dimetta, insieme a Renzi, chiunque abbia avuto un ruolo dirigente. «E se si deve eleggere un nuovo segretario, lo si faccia con un dibattito corale e democratico molto ampio, molto lungo e molto doloroso», perché la sincerità è una medicina amara. Sempre che ne valga la pena, di salvare il Pd: i tempi stanno cambiando velocemente. E Magaldi (promotore dell’ipotesi Pdp, Partito Democratico Progressista) è fra quanti pensano che forse sia il caso di «costruire qualcosa di nuovo, da offrire a un paese vistosamente lacerato».E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale. Il pareggio di bilancio? Lo fece Quintino Sella, all’epoca in cui la destra mandava Bava Beccaris a sparare sulla folla. «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».
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Dopo le elezioni, tutto come prima: l’Italia resta sottomessa
Tutto come prima: qualcuno sale e qualcuno scende, dopo le elezioni, ma la canzone non cambia. L’Italia resta sotto schiaffo, alla mercé dell’ordololiberismo finto-europeista che impone il rigore, cioè la depressione economica, sulla base di regole truccate come il tetto imposto alla spesa pubblica, non oltre il 3% del Pil, con il vincolo del pareggio di bilancio e l’incubo incombente del Fiscal Compact. L’unica vera notizia del 4 marzo è che ben tre italiani su quattro sono andati a votare: astensionismo limitato al 25%, contro l’atteso 35% annunciato dai sondaggi. Per il resto, previsioni rispettate al millimetro: la débacle di Renzi, il pletorico successo dei 5 Stelle, la preminenza aritmetica del centrodestra. Spiccioli di cronaca: Di Maio e soci sopra il 30%, Salvini davanti a Berlusconi, il Pd sotto il 20%. Nessuna delle liste-contro, da “Potere al Popolo” a CasaPound, ha raggiunto il 3%, cioè il sospirato accesso al Parlamento. Un pericolo – l’esclusione dall’aula – sfiorato dall’imbarazzante cartello “Liberi e Uguali” (D’Alema e Bersani, Grasso e Boldrini), dato oltre il 5% e invece fermatosi appena sopra la soglia minima per ottenere qualche poltrona. Risultato più che scontato: Parlamento ingovernabile, se non mediante larghe intese. «Troveranno il modo di mettersi d’accordo, anche Di Maio è pronto a fare inciuci», avverte Gianfranco Carpeoro. «Gentiloni o un altro? Non è che cambi granché. Il problema non è la figura, è quello che deve fare: o meglio, quello che sarà costretto a fare, perché l’Italia è sovragestita».Esponente del Movimento Roosevelt, scrittore, simbologo, avvocato di lungo corso con un passato socialista, Carpeoro ha le idee chiare sul voto: «Centrodestra o 5 Stelle, non cambia niente: non esiste un rischio maggiore, è la stessa cosa. Perché chiunque vince, lo fa in nome di una sovragestione unica, che porta allo stesso tipo di governo», ha detto Carpeoro, a urne ancora aperte. «E’ assolutamente irrilevante, sapere chi vince: se i partiti che vincono sono quelli che vincono per effetto della sovragestione, devono rispondere alla sovragestione». Parole che Carpeoro ha affidato a Fabio Frabetti di “Border Nights”, nella diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, su YouTube. «Non si scappa, se fai parte di quello schema. I 5 Stelle non ne facevano parte? Ma poi Di Maio ha fatto un bel viaggio a Londra, un bel viaggio in America… E comunque c’erano già le premesse anche prima, perché non è che Casaleggio fosse una realtà così staccata dal potere. Poi però con Di Maio hanno fatto capire che cosa vogliono fare, no?». Basta vedere l’ipotetico governo presentato in anticipo a Mattarella, con il neoliberista Fioramonti all’economia. «Non è che non pretendano garanzie, quelli a cui hai chiesto aiuto a Londra e in America: impongono il tuo appoggio, la tua la non-ostilità, l’assicurazione che non verrebbe ostacolato il loro progetto». E se vai al governo e poi non ne tieni conto? «Potresti fare la fine di Craxi, o quella di Olof Palme».Per Carpeoro, cha ha lanciato l’idea di promuovere in primavera un convegno sul grande leader svedese, assassinato a Stoccolma nel 1986 mentre era premier, in procinto di essere eletto segretario generale dell’Onu, Olof Palme – cui guardavano Craxi, il tedesco Helmut Schmidt e lo stesso Mitterrand – avrebbe cambiato volto all’Europa, impedendo l’instaurarsi del regime Ue (quello che, ancora oggi, sottrae all’Italia la possibilità di qualsiasi alternativa elettorale al dominio dell’oligarchia finanziaria). «Le sue idee sono ancora attuali, perché Olof Palme era avanti di trent’anni», sottolinea Carpeoro. «Aveva contestato agli Usa il fatto di fare guerre sempre a casa degli altri, aveva polemizzano aspramente con l’Urss per l’invasione di Praga, e soprattutto aveva un progetto economico basato su un sistema misto, pubblico-privato, con la compartecipazione dei lavoratori nelle aziende pubbliche e private, sistema che aveva consentito alla Svezia di uscire dalla crisi economica che invece colpiva gli altri paesi. In più era un ecologista, voleva affrancarsi dagli idrocarburi e dalla schiavitù del petrolio, sosteneva già progetti di energia alternativa». E’ stato fermato, colpito alla schiena da un killer invisibile e tuttora ignoto. «Faceva paura, perché avrebbe ostacolato gli interessi della sovragestione: tutta una serie di equilibri politici che su quelle realtà economiche sono fondati hanno rintenuto di farlo ammazzare. Aveva la capacità, le idee e la visione per costruire delle cose diverse».Da un gigante come Olof Palme ai nani dell’attuale politica italiana: Matteo Renzi in fuga dai giornalisti, con il Pd ridotto al 19%. La scissione di D’Alema e Bersani fermatasi sotto il 4%. Berlusconi appena sopra il 13%, dopo aver lanciato l’euro-maggiordomo Tajani, garantendo ai poteri forti europei il rispetto delle regole di ferro, l’austerity che sta devastando l’Italia. Il successo della Lega di Salvini, che sorprassa il Cavaliere e ormai tallona il Pd, è gravemente condizionato proprio dall’alleanza con Forza Italia, prona ai diktat di Bruxelles. Quanto ai 5 Stelle, hanno fatto il pieno nel centro-sud grazie alla promessa del reddito di cittadinanza, ma Di Maio ha già messo le mani avanti presentando il suo ipotetico esecutivo di tecnocrati: «Sembra il governo Monti senza Monti», commenta desolatamente Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt. Cosa accadrà ora? Se lo domandano tutti i giornalisti. Non Carpeoro: a prescindere dal nome del futuro premier e dal colore del suo partito, per gli italiani non cambierà assolutamente niente. Non cambia il programma: rigore, sofferenze, vincoli, sottomissione all’élite finanziaria che si è impadronita dell’Ue. Sono corsi a votare, gli italiani, ma – a quanto pare – è come se non avesse votato nessuno: tutto è esattamente come prima. La nave rischia di affondare, e la rotta (ancora una volta) non sarà decisa da chi siede a Roma.Tutto come prima: qualcuno sale e qualcuno scende, dopo le elezioni, ma la canzone non cambia. L’Italia resta sotto schiaffo, alla mercé dell’ordoliberismo finto-europeista che impone il rigore, cioè la depressione economica, sulla base di regole truccate come il tetto imposto alla spesa pubblica, non oltre il 3% del Pil, con il vincolo del pareggio di bilancio e l’incubo incombente del Fiscal Compact. L’unica vera notizia del 4 marzo è che ben tre italiani su quattro sono andati a votare: astensionismo limitato al 27%, contro l’atteso 35% annunciato dai sondaggi. Per il resto, previsioni rispettate al millimetro: la débacle di Renzi, il pletorico successo dei 5 Stelle, la preminenza aritmetica del centrodestra. Spiccioli di cronaca: Di Maio e soci sopra il 30%, Salvini davanti a Berlusconi, il Pd sotto il 20%. Nessuna delle liste-contro, da “Potere al Popolo” a CasaPound, ha raggiunto il 3%, cioè il sospirato accesso al Parlamento. Un pericolo – l’esclusione dall’aula – sfiorato dall’imbarazzante cartello “Liberi e Uguali” (D’Alema e Bersani, Grasso e Boldrini), dato oltre il 5% e invece fermatosi appena sopra la soglia minima per ottenere qualche poltrona. Risultato più che scontato: Parlamento ingovernabile, se non mediante larghe intese. «Troveranno il modo di mettersi d’accordo, anche Di Maio è pronto a fare inciuci», avverte Gianfranco Carpeoro. «Gentiloni o un altro? Non è che cambi granché. Il problema non è la figura, è quello che deve fare: o meglio, quello che sarà costretto a fare, perché l’Italia è sovragestita».