Archivio del Tag ‘pareggio di bilancio’
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Magaldi: politica tribale, a fari spenti nella notte dell’Europa
Dove saremmo, oggi, se Zingaretti avesse imparato la lezione de “La notte della sinistra”, il lucidissimo saggio di Federico Rampini che spiega come proprio il centrosinistra abbia tradito i più deboli? E dove sarebbe lo stesso Di Maio, se avesse varato un vero reddito di cittadinanza, anziché distribuire (a pochi) quella penosa “tessera annonaria della povertà”, che gli stessi beneficiari si vergognano a esibire? Quanto a Salvini: è sicuro di sapere che farsene, dello squillante successo appena ottenuto alle europee? «Il 34% è un gran risultato, ma Renzi superò addirittura il 40%. Poi sparì dalla scena, in un attimo. E oggi tutto si muove ancora più in fretta». Il problema? «La politica è in preda a scontri di tipo tribale, fondati solo sull’appartenenza al proprio clan». Così si viaggia a fari spenti, lacerati e divisi, in un’Europa ancor meno amica dell’Italia: Ppe e Pse dovranno ricorrere a formazioni ultra-euriste (i liberali dell’Alde o i Verdi, neoliberisti pure loro) per neutralizzare la crescita, comunque insufficiente, dei cosiddetti sovranisti. Secondo Gioele Magaldi ci rimetterà l’Italia, tutta intera, grazie a partiti finora capaci solo di scannarsi, insultarsi e demonizzarsi a vicenda. Terranno conto, dunque, del duro monito che viene dalle consultazioni europee del 26 maggio?Per il presidente del Movimento Roosevelt, in campagna elettorale le forze in campo hanno dato una pessima prova di sé: il Pd ha puntato tutto sulla grottesca criminalizzazione della Lega, nemmeno fosse una reincarnazione del fascismo mussoliniano. Salvini, dal canto suo – persa la partita con Bruxelles sul deficit – se l’è presa coi negozietti di cannabis terapeutica, schierandosi coi più retrivi tradizionalisti (contro le famiglie gay) e agitando rosari e crocefissi nei comizi. «Per non parlare di Di Maio, la cui inadeguatezza come leader si è dimostrata lampante», dice Magaldi, in video-chat su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Bel tomo, il portavoce dei grillini: prima flirta a Parigi coi Gilet Gialli irritando Macron, poi s’inchina alla Merkel (che proprio con Macron ha firmato il Trattato di Aquisgrana, celebrando lo strapotere nazionalistico dell’asse franco-tedesco, in barba allo spirito dell’Ue). Ma peggio: dall’alto dell’attuale 17% (un abisso: 6 milioni di voti persi per strada, in un anno), Di Maio «sarà contento dell’ipocrita crociata discriminatoria intrapresa contro i massoni», fingendo di non sapere che il governo gialloverde pullula di “grembiulini”. «E sarà contento di aver affossato Armando Siri, oggetto per ora di un semplice avviso di garanzia, facendo passare la Lega per una sorta di sentina del malaffare e agitando una pretesa moralità politica che, evidentemente, per i 5 Stelle viene prima della legge, della giustizia amministrata dallo Stato di diritto».Nella prima conferenza stampa post-elettorale, «irrisoria e propagandistica», Matteo Salvini ha fornito «un’irreale valutazione delle forze in campo in Europa». Poi in seconda battuta si è corretto, annunciando un impegno frontale sull’emergenza economica. Ma attenzione, avverte Magaldi: «Non è la prima volta che Salvini dice cose interessanti e poi, alla prova dei fatti, tutto si risolve in nulla». Il leader della Lega ha comunque annunciato di voler sfoderare in campo economico la stessa grinta finora esibita solo sul tema-immigrazione. Vuole dare un ruolo di rilievo a personaggi come Bagnai e Borghi, allo stesso Siri (Flat Tax) e ad Antonio Maria Rinaldi. La promessa: l’economia dev’essere al centro delle preoccupazioni della Lega nel governo italiano, guardando all’Europa. «Magari fosse così», commenta Magaldi. «Queste cose, comunque, le dovrebbero dire tutti, anche il Pd. Come sistema-paese, tutti dovrebbero essere più coesi nel rappresentare le esigenze del popolo italiano e del nostro territorio, che ha bisogno di ingenti investimenti per rilanciare l’occupazione. Tutto ciò accadrebbe, se davvero in Europa ci si preoccupasse della disoccupazione, del benessere dei popoli e della diminuzione delle disuguaglianze. Così non è stato, e così non è».Sulla carta, aggiunge Magaldi, le dichiarazioni di Salvini sono molto interessanti: «Sembra quasi che abbia ascoltato ciò che alla Lega andiamo dicendo da mesi, in pubblico e in privato. Cioè: a fare la differenza non sono gli atteggiamenti truci e smargiassi, ma l’impegno sui temi economici. E ripeto, vale anche per il Pd: non c’è speranza, per questo paese, senza un cambio di paradigma politico-economico». Se il neoliberismo resterà al potere – più tagli, più tasse – non cambierà proprio nulla, a Bruxelles. «Se però il Pse e lo stesso Pd ripartissero da Olof Palme, gigante della socialdemocrazia europea, rompendo con la “terza via” inaugurata dai vari Blair e Clinton, che ha prodotto solo rovine, allora persino il partito di Zingaretti avrebbe la chance di tornare a interpretare le esigenze di quel “popolo della sinistra” di cui parla benissimo il libro di Rampini, che racconta – senza sconti – quello che è stato il suicidio del centrosinistra mondiale, rispetto alla rappresentanza degli interessi degli ultimi. E’ ovvio che poi gli ultimi cerchino di essere rappresentati politicamente altrove, magari dai cosiddetti populisti». Ma il consenso non è per sempre, neppure in quel caso: lo racconta alla perfezione il crollo dei 5 Stelle, che in soli 12 mesi hanno dimezzato i loro voti. Motivo: «Il reddito di cittadinanza si è rivelato una presa in giro».Secondo Magaldi, un vero reddito universale – 500 euro a tutti, senza condizioni (con l’unico obbligo di spenderli, quei soldi) – sarebbe perfettamente sostenibile, perché farebbe volare i consumi, risollevando l’economia. I 5 Stelle pagano oggi in modo catastrofico la loro ambiguità, e sono anche riusciti a sabotare l’altro provvedimento anti-crisi – la Flat Tax – “gambizzando” il suo inventore, Armando Siri. Il Pd zingarettiano, dal canto suo, non ha ancora prounciato una sola parola di autocritica sull’infame tradimento della Seconda Repubblica, in cui il centosinistra – fino a Renzi e Gentiloni – ha svenduto i diritti sociali, dopo aver persino sostenuto il governo Monti e l’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione. Comodo, oggi, lamentarsi del successo di Salvini. Il quale, peraltro, non è ancora andato oltre i proclami, in materia economica. Cambierà qualcosa, dopo l’inutile bagarre elettorale delle europee? Solo ad un patto, dice Magaldi: che cessi la guerra per bande, di stampo tribale, che oppone i diversi partiti con toni più calcistici che politici. Sono soltanto alibi, per evitare di affrontare il vero problema: se non trovano il coraggio di sfidare il falso dogma del rigore, ancora di casa a Bruxelles, questi partiti consegneranno il paese al declino, alla rassegnazione più desolata di fronte a una crisi che sembra eterna.Dove saremmo, oggi, se Zingaretti avesse imparato la lezione de “La notte della sinistra”, il lucidissimo saggio di Federico Rampini che spiega come proprio il centrosinistra abbia tradito i più deboli? E dove sarebbe lo stesso Di Maio, se avesse varato un vero reddito di cittadinanza, anziché distribuire (a pochi) quella penosa “tessera annonaria della povertà”, che gli stessi beneficiari si vergognano a esibire? Quanto a Salvini: è sicuro di sapere che farsene, dello squillante successo appena ottenuto alle europee? «Il 34% è un gran risultato, ma Renzi superò addirittura il 40%. Poi sparì dalla scena, in un attimo. E oggi tutto si muove ancora più in fretta». Il problema? «La politica è in preda a scontri di tipo tribale, fondati solo sull’appartenenza al proprio clan». Così si viaggia a fari spenti, lacerati e divisi, in un’Europa ancor meno amica dell’Italia: Ppe e Pse dovranno ricorrere a formazioni ultra-euriste (i liberali dell’Alde o i Verdi, neoliberisti pure loro) per neutralizzare la crescita, comunque insufficiente, dei cosiddetti sovranisti. Secondo Gioele Magaldi ci rimetterà l’Italia, tutta intera, grazie a partiti finora capaci solo di scannarsi, insultarsi e demonizzarsi a vicenda. Terranno conto, dunque, del duro monito che viene dalle consultazioni europee del 26 maggio?
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Carpeoro: il governo cade, arriva Draghi. E Salvini è finito
L’allarme di Carpeoro è coerente con le anticipazioni fornite nelle scorse settimane: in web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights” aveva annunciato la tempesta giudiziaria che si sarebbe abbattuta sulla Lega, di cui la vicenda di Armando Siri rappresenta soltanto l’ultimo, gravissimo episodio. Secondo Carpeoro – su YouTube con Frabetti il 19 maggio – ora Salvini è in trappola: se trionfa alle europee dovrà rompere con Di Maio e convergere sul centrodestra, ma accettando la premiership di Draghi appena “suggeritagli” da Berlusconi. «Per il Cavaliere è l’ultima zampata: poi si ritirerà, cedendo lo scettro a Tajani, con la scusa delle sue precarie condizioni di salute». Ridotto a ruota di scorta di Draghi, Salvini sarebbe finito. Anche perché il super-banchiere metterebbe in atto una politica di austerity come quella di Monti: rigore assoluto, contrazione della spesa pubblica, tagli alle pensioni e magari anche una patrimoniale. Addio ai sogni leghisti come la Flat Tax, per la quale aveva lavorato proprio Armando Siri, sottosegretario disarcionato da Conte e Di Maio nonostante sia tuttora soltanto indagato. Sarebbe davvero la fine, per una Lega decisa a proporsi come vettore dell’affrancamento dal “giogo” neoliberista di Bruxelles. Addio all’alfiere del sovranismo italiano, costretto al guinzaglio da Draghi.Stessa musica, in ogni caso, se Salvini – per sua fortuna, si potrebbe dire – non dovesse andare così bene, il 26 maggio. Il governo gialloverde è comunque spacciato, secondo Carpeoro, avendo fallito nel suo obiettivo determinante: risollevare l’economia. Carpeoro è un dirigente del Movimento Roosevelt, che – attraverso il presidente, Gioele Magaldi – ha accusato i gialloverdi di eccessiva timidezza, con Bruxelles, al momento di contrattare il deficit 2019. Gli investimesti strategici avrebbero fatto crescere il Pil, riducendo l’incidenza del debito pubblico e quindi la pressione dei signori della finanza (spread) e degli oligarchi di Bruxelles, ben rappresentati dallo stesso Draghi. Appena la crisi si è mostrata in tutta la sua durezza, come si è mosso Di Maio? Ha attaccato Salvini, omaggiato la Merkel e difeso la disciplina europea del rigore. Come se ne esce? «Solo con una mezza rivoluzione», sostiene Carpeoro, assai pessimista. «Salvini si può ribellare soltanto se capisce in che trappola lo hanno cacciato». L’altra carta, per Carpeoro, è virtualmente rappresentata dalla base dei 5 Stelle: a suo parere, i militanti grillini non accetterebbero un governo Draghi. Ma per scongiurarlo dovrebbero prima “divorziare” da Di Maio e Casaleggio. In altre parole: Mario Draghi sembra ormai vicinissimo a Palazzo Chigi, cioè al nuovo commissariamento dell’Italia.«Stavolta la sovragestione internazionale di cui l’Italia è vittima ci ha combinato un trappolone senza via d’uscita», sostiene Carpeoro, che da mesi paventava l’irruzione di Draghi alla guida del governo. «Se la Lega vince le europee – profetizza – la tenaglia giudiziaria si stringerà ulteriormente sul partito di Salvini». Un indebolimento che costringerebbe Salvini – sulla difensiva – ad accettare un ritorno al centrodestra, sotto la “custodia” di Draghi (espressamente evocato da Berlusconi come il “miglior premier possibile”, oggi, per l’Italia). «L’urgenza, poi, verrebbe giustificata dall’aggravarsi della situazione economica». Se invece Salvini delude, alle urne, resterebbe in campo l’asse – sempre più ammaccato – con i 5 Stelle. «Ma sui parametri economici – sottolinea Carpeoro – Di Maio si è pronunciato in modo coerente con la linea di Draghi». Ovvero: vietato sforare il 3% di Maastrich, cosa che invece per Salvini, a parole, «si può e si deve fare». E quindi in quel caso «avremmo probabilmente l’ingresso trionfale di Draghi con questa maggioranza – perché comunque il governo, a causa della situazione economica, cadrà entro la fine dell’anno».Se non è zuppa è pan bagnato: «Comunque gli italiani votino, al 99,9% si ritroveranno Draghi presidente del Consiglio». Viceversa, aggiunge Carpeoro, l’Ue ci taglierà i viveri vietandoci di accedere al deficit, «e la situazione economica ci travolgerà». Dubbi? Uno: «Non so fino a che punto Salvini si scavi la fossa così», dice ancora Carpeoro, considerando che il capo della Lega – formidabile tattico e uomo-immagine – non ha però dato prova, finora, di particolare capacità strategica. «E’ capace di scavarsela davvero, la fossa: però deve saperlo, che per lui sarebbe la fine, perché sarebbe proprio lui il primo che farebbero fuori». Secondo elemento: «I grillini hanno ormai stabilito una cupola “sovragestita” su di essi, sia attraverso il figlio di Casaleggio, sia tramite lo stesso Di Maio. Cupola, cioè gruppo oligarchico di potere, che «utilizza cinicamente Di Battista» come paravento, per mantenere «un sorta di legittimazione», di “verginità” politica apparente. Però attenzione: «La base grillina non è questa: continuo a confidare che all’interno del Movimento 5 Stelle ci sia sicuramente maggior vitalità che dentro qualunque altro movimento», sostiene Carpeoro, che peraltro aggiunge: «Non nutro nessuna fiducia nella nuova sinistra o centrosinistra che dir si voglia, Zingaretti o meno». Per cui «non è una situazione allegra», quella dell’Italia.Tradotto: «Nella peggiore delle ipotesi ci ritroveremo Draghi, il che significherà comunque tagli draconiani sulle pensioni e probabilmente la riproposizione in chiave “cosmetizzata” della possibilità di una patrimoniale». Infine: «Non si farà nulla sul reddito di cittadinanza: l’ha già ammazzato Di Maio, che ha ammesso di aver rinunciato a investirvi un miliardo in più, che ora ha messo da parte. Vuol dire che il reddito di cittadinanza è stato svuotato, e quindi è fallito». Gianfranco Carpeoro (all’anagrafe Pecoraro, avvocato di lungo corso), ha pubblicato nel 2016 il saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che mette in luce la “sovragestione” (largamente massonica) degli attentati targati Isis che hanno colpito l’Europa. Di questa “sovragestione”, in questo caso non più terroristica, sarebbe tuttora vittima l’Italia, abituale preda di potentati stranieri in combutta con settori dell’establishment nazionale. Nel saggio del 2017 “Il compasso, il fascio e la mitra”, sempre Carpeoro presenta lo stesso fascismo come prodotto di “sovragestione”: «Fu la convergenza, storicamente irripetibile, di tre poteri: il grande capitalismo italiano oggi scomparso, la massoneria nazionale – che allora contava – e il Vaticano». Anche per questo «non ha senso riparlare di fascismo nell’Italia di oggi», paese che però continua ad essere più che mai “sovragestito”.Se il Pd è clinicamente defunto, fino a ieri «al governo senza in realtà governare, esattamente come poi i gialloverdi», di fatto controllato dai superpoteri tramite ministri del calibro di Padoan, oggi restano solo i cocci della speranza suscitata da Lega e 5 Stelle, un anno fa. Unica chance: la possibilità che Salvini si smarchi dalla trappola, che gli sarebbe fatale, rovesciando il tavolo già apparecchiato per Draghi. Potrebbe aiutarlo la base grillina, forse, ma certo non Di Maio: Carpeoro lo descrive “coltivato” da anni, dentro e fuori l’ambasciata Usa di via Veneto, dal politologo statunitense Michael Ledeen, già uomo-uombra di Di Pietro e Renzi, massone reazionario del Jewish Institute, punta di diamante della lobby sionista, nonché esponente del B’nai B’rith, esclusiva massoneria ebraica riservata ai dirigenti del Mossad. Beffa gialloverde? Eccome: Mario Draghi officerebbe il funerale dell’unica coalizione politica che, in Europa, ha osato sfidare – almeno all’inizio, anche se solo a parole – lo strapotere oligarchico di Bruxelles e il dogma dell’austerity, sancito una volta di più dal pareggio di bilancio imposto da Monti coi voti di Bersani e Berlusconi. L’Italia ha provato a rialzare la testa? Peggio per lei: la “sovragestione” avrebbe pronto Draghi. La cui “terapia”, dal giorno dopo, decreterebbe la fine del sogno di uscire dalla crisi (e la morte politica di Matteo Salvini, destinato a vincere inutilmente le europee).Matteo Salvini è un morto che cammina: politicamente è finito. Che stravinca le europee o faccia cilecca, il risultato non cambia. Al posto di Giuseppe Conte, a Palazzo Chigi sta per arrivare Mario Draghi. L’attuale presidente della Bce, in scadenza a novembre, sarà presto alla guida di un esecutivo di centrodestra – con la recentissima benedizione di Berlusconi – oppure di una coalizione più larga, se la Lega restasse al di sotto del 30%. Motivo: i conti pubblici italiani sono disastrosi, e la situazione economica è pessima. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, saggista e acuto analista dello scenario politico italiano. Già a capo della più tradizionale obbedienza massonica di rito scozzese, Carpeoro vanta contatti privilegiati con il network europeo dei grembiulini di area progressista. Anche grazie a questo, la scorsa estate aveva svelato l’indebita ingerenza della Francia nell’elezione del presidente della Rai. Berlusconi aveva cambiato idea sull’appoggio a Marcello Foa (in prima battuta garantito a Salvini), dopo la telefonata ricevuta da Jacques Attali, eminenza grigia di Macron, che avrebbe contattato anche Napolitano e Tajani. Oggi Carpeoro rilancia: «Dopo una fase di dissidio, la massoneria sovranazionale reazionaria si è ricompattata: sono tornati ad andare d’amore e d’accordo Attali, Tajani, Draghi e – udite udite – lo stesso Davide Casaleggio, figlio di Gianroberto». Non a caso, nelle ultime settimane, i 5 Stelle hanno attaccato Salvini in modo furibondo.
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Torino, il Salone della Censura anticipa il governo Pd-M5S?
Torino, la città più inquinata d’Italia – aria irrespirabile – ha una sinistra caratteristica: da decenni tende a sottrarre, anziché aggiungere. Comicamente, Juventus City cadde ai piedi di Sergio Marchionne: bagno di folla per il lancio della nuova Cinquecento, gioiellino-simbolo del manager che avrebbe trasferito a Detroit e nel resto del mondo quel che rimaneva della Fiat, svuotando Mirafiori. L’ex sindaco Sergio Chiamparino, poi presidente della potentissima Compagnia di San Paolo e ora governatore del Piemonte, ha riempito le piazze del capoluogo con le gloriose “madamine”, che invocano posti di lavoro fingendo di credere alla panzana siderale della linea Tav Torino-Lione. La città che in trent’anni – successi della Juve a parte – ha fatto sorridere il paese solo per la pronuncia televisiva di Luciana Littizzetto (e di Piero Chiambretti, per fortuna) generalmente riesce a fare notizia così, con i manifestanti NoTav aggrediti e malmenati al corteo del Primo Maggio. E con vicende fantozziane e imbarazzanti come la censura “antifascista” imposta all’editrice Altaforte al Salone del Libro, stanca kermesse editoriale che celebra la finta rinascita, mai davvero avvenuta, dell’ex capitale industriale e sindacale.Torino è sempre tristemente bella, misteriosamente inerte, lievemente depressiva. Ha inanellato un piccolo record italiano di sciagure altamente evocative, dalla tragedia del Grande Torino al rogo del cinema Statuto, fino alla carneficina in piazza San Carlo scatenata dal panico tra la folla che assisteva, dal maxischermo, a una partita della squadra bianconera (ancora lei). A due passi dall’ex cinema, nell’omonima piazza, torreggia il lugubre monumento che commemora i lavoratori caduti nell’800 al cantiere del Traforo del Fréjus voluto da Cavour. Il Fréjus esiste ancora, ci passa il velocissimo Tgv francese sulla linea valsusina Torino-Modane, ma forse i torinesi se ne dimenticano. Non sanno che esiste già, una Torino-Lione, e che l’Italia ha appena speso quasi mezzo miliardo di euro per ammodernare quel traforo, rendendolo perfettamente adatto al transito dei treni con a bordo i Tir e i grandi container navali? Dove hanno la testa, i torinesi, quando si lasciano trasformare in docile gregge (sotto la guida carismatica delle “madamine” di Chiamparino) da chi ha tutta l’aria di volersi aggrappare, come un parassita senza speranza, al miraggio miliardario dell’inutile ferrovia-doppione in valle di Susa? E’ lontanamente immaginabile che qualcosa del genere possa accadere nella vicinissima Milano, che dopo l’Expo è balzata al secondo posto (dietro a Roma) tra le mete turistiche italiane?A illuminare indirettamente il male oscuro di Torino ha provveduto, di recente, un giornalista di razza come Gigi Moncalvo, autore di saggi esplosivi (“Agnelli segreti” e “I lupi e gli agnelli”) subito spariti, misteriosamente, dalle librerie. In due diverse puntate della trasmissione web-radio “Forme d’Onda”, una sugli Agnelli e l’altra sui Caracciolo, Moncalvo si domanda come sia possibile che la grande stampa italiana ignori completamente le notizie-bomba che provengono dalla collina torinese, dove gli eredi dell’Avvocato si lacerano in guerre all’ultimo sangue per contendersi il tesoro dell’ex patron della Fiat: miliardi di euro “riparati” all’estero, lontano dal fisco italiano (nonostante i fiumi di denaro statale concessi per la cassa integrazione). C’è anche il forziere – 9 miliardi in lingotti d’oro – custodito nel blindatissimo Freeport di Ginevra, insieme ai “risparmi” – dice sempre Moncalvo – dei migliori galantuomini del pianeta, narcos sudamericani e oligarchi russi. Possibile che nessuno ne parli? Ebbene sì: solo in Italia il kolossal tratto dal romanzo “The silence of the lambs” uscì col titolo taroccato (il silenzio degli innocenti, anziché degli agnelli) per un riflesso di autocensura preventiva, nel timore che la parola proibita – agnelli – potesse turbare la quiete sabauda della real casa.E se ora Torino fa notizia come sempre, cioè con qualcosa di sgradevole (il conformismo da parata, in salsa “antifascista”, per mettere al bando un editore che lo Stato considera perfettamente legale), c’è chi si mette addirittura in sospetto: vuoi vedere che dietro la manfrina anti-Salvini, inscenata da Chiamparino in tandem con la sindachessa pentastellata Chiara Appendino, si nascondono i prodromi della prossima, possibile manovra di palazzo per “sposare” i 5 Stelle con l’incolore Pd di Zingaretti? Non che ne manchino le premesse, dopo le entrate a gamba tesa di Roberto Fico sui migranti, l’allineamento di Giulia Grillo sul decreto Lorenzin (obbligo vaccinale), quindi la genuflessione di Di Maio alla Merkel e, soprattutto, la clamorosa cacciata di Armando Siri dal governo Conte. In compenso, Salvini – nel mirino – risponde da par suo, aprendo la più tragicomica caccia alle streghe della storia, quella contro i negozi di cannabis “light”. Con buona pace delle speranze dell’Italia gialloverde, morte e sepolte dopo la resa a Bruxelles. Nel 2008, Veltroni scelse proprio Torino per lanciare il formidabile Pd, il partito che avrebbe sorretto il governo Monti e varato la legge Fornero e il pareggio di bilancio in Costituzione. Sarà ancora l’ambigua e depressa Torino, capitale della censura, a inaugurare l’ennesima non-svolta concepita per consegnare il paese all’orizzonte dell’austerity eterna?(Giorgio Cattaneo, “Fatale Torino, capitale della censura: il bavaglio a CasaPound (contro Salvini) prepara un’intesa di governo tra Pd e 5 Stelle?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 12 maggio 2019).Torino, la città più inquinata d’Italia – aria irrespirabile – ha una sinistra caratteristica: da decenni tende a sottrarre, anziché aggiungere. Comicamente, Juventus City cadde ai piedi di Sergio Marchionne: bagno di folla per il lancio della nuova Cinquecento, gioiellino-simbolo del manager che avrebbe trasferito a Detroit e nel resto del mondo quel che rimaneva della Fiat, svuotando Mirafiori. L’ex sindaco Sergio Chiamparino, poi presidente della potentissima Compagnia di San Paolo e ora governatore del Piemonte, ha riempito le piazze del capoluogo con le gloriose “madamine”, che invocano posti di lavoro fingendo di credere alla panzana siderale della linea Tav Torino-Lione. La città che in trent’anni – successi della Juve a parte – ha fatto sorridere il paese solo per la pronuncia televisiva di Luciana Littizzetto (e di Piero Chiambretti, per fortuna) generalmente riesce a fare notizia così, con i manifestanti NoTav aggrediti e malmenati al corteo del Primo Maggio. E con vicende fantozziane e imbarazzanti come la censura “antifascista” imposta all’editrice Altaforte al Salone del Libro, stanca kermesse editoriale che celebra la finta rinascita, mai davvero avvenuta, dell’ex capitale industriale e sindacale.
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Tra CasaPound e NoTav, a Torino il Salone dell’Ipocrisia
Centomila persone alla camera ardente dell’Avvocato, ma solo duemila al funerale di Primo Levi. Due lutti che in qualche modo fotografano Torino: folla oceanica per il patron della Fiat e dalla Juventus, di cui ora si scoprono i miliardi di euro “riparati” all’estero, lontano dal fisco italiano. Molto più intime, invece, le esequie dell’autore di “Se questo è un uomo”, massimo capolavoro della memorialistica mondiale sulla Shoah. Unico paese in cui il libro non fu tradotto, per decenni: Israele. Motivo tutto politico: Primo Levi non tollerava gli abusi del sionismo contro i palestinesi. Il regime di Tel Aviv fu costretto a “sdoganarlo” solo dopo la spettacolare operazione di Philip Roth, che finalmente presentò il chimico-scrittore al pubblico statunitense negli anni ‘80, tributandogli gli onori di un eroe civile e di una grande firma della letteratura internazionale. Ebrei e antifascismo? Torino non smentisce la sua ambivalenza: scatena l’inferno per mettere al bando CasaPound dal Salone del Libro, ma tace sul brutale pestaggio inflitto, pochi giorni prima, ai NoTav che sfilavano pacificamente per le strade del centro, al corteo del Primo Maggio.La città che esibisce la sua ostilità militante verso l’apologia del fascismo (nostalgia ostentata da Francesco Polacchi, presidente della casa editrice Altaforte), poi non riesce a tollerare il popolo della vicina valle di Susa, che resiste da vent’anni contro un progetto-monstre dalla comprovata inutilità, imposto al territorio da tutte le forze politiche (tranne una, i 5 Stelle) ridotte a cinghie di trasmissione del potere neoliberista europeo che lucra in modo imperiale e feudale sulle grandi opere, impedendo alla politica di far emergere la voce dei cittadini. Tecnicamente: sospensione della democrazia. Destra o sinistra, è uguale: sul Tav Torino-Lione, Giorgia Meloni e Matteo Salvini (e pure CasaPound) la pensano come il Pd. Che i centomila valsusini siano contrari all’opera, a loro non importa. In questi anni, con l’aiuto dei migliori tecnici universitari, i NoTav hanno demolito sistematicamente qualsiasi ragione a supporto dell’infrastruttura, ma invano. L’Italia ha un bisogno disperato di infrastrutture utili, eppure Torino preferisce svenare il bilancio nazionale per una ferrovia desolatamente inutile. E tace, la città, se la polizia carica i manifestanti al corteo del Primo Maggio, colpevoli di sventolare bandiere NoTav.Perché il Pd torinese aveva tanta paura dei valsusini, nel giorno della festa del lavoro? Ovvio: avrebbero contestato i sindacati-fantasma che – Cgil in testa – il lavoro se lo sono lasciato sfilare di mano a colpi di controriforme neoliberali convalidate dai funesti governi di centrosinistra. Precarizzazione, flessibilità, delocalizzazioni, cancellazione dei diritti sociali. Arresasi su ogni fronte, la Cgil però tiene duro sul Tav, un feticcio ridicolo – poche centinaia di addetti, a tempo determinato – per il quale però Sergio Chiamparino s’è inventato le “madamine”, pronte a scendere dalle residenze in collina (zona Agnelli) per invocare il ritorno dell’occupazione (e soprattutto seppellire mediaticamente gli insopportabili NoTav). Così piovono manganellate sugli inermi, che il Primo Maggio avrebbero contestato l’ignavia dei sindacati italiani di fronte allo sfacelo del paese, culminato con la strage sociale messa in atto dai tecnocrati di Monti, coadiuvati dalla torinese Fornero, fino al pareggio di bilancio inserito nella Costituzione anche con i voti delle anime morte del Pd guidate da Bersani.A salvare la situazione – ripulendo le cattive coscienze – ora ci pensano i brutti e cattivi di CasaPound: che fortuna, per molti torinesi, potersela vedere con loro, rispolverando (piuttosto abusivamente) l’identità antifascista della città di Gobetti, la capitale operaia dove Gramsci e Togliatti studiavano da rivoluzionari nel biennio rosso, quasi cent’anni prima che gli stessi torinesi applaudissero Marchionne, il manager venuto dalla finanza per smontare la Fiat per portarla lontano da Torino. Sfila l’orgoglio antifascista, al Salone dell’Ipocrisia, tra i cerotti e i lividi dei manifestanti ai quali, il Primo Maggio, è stato fisicamente impedito di presenziare in piazza, sotto il palco dei sindacalisti che hanno svenduto i diritti del lavoro e puntellato la guerra sociale dell’élite contro il popolo lavoratore. Il primo a denunciarlo fu l’ennesimo grande torinese, il sociologo Luciano Gallino, anch’esso scomparso senza che la sua città se ne accorgesse.Centomila persone alla camera ardente dell’Avvocato, ma solo duemila al funerale di Primo Levi. Due lutti che in qualche modo fotografano Torino: folla oceanica per il patron della Fiat e dalla Juventus, di cui ora si scoprono i miliardi di euro “riparati” all’estero, lontano dal fisco italiano. Molto più intime, invece, le esequie dell’autore di “Se questo è un uomo”, massimo capolavoro della memorialistica mondiale sulla Shoah. Unico paese in cui il libro non fu proposto nelle scuole, per decenni: Israele. Motivo tutto politico: Primo Levi non tollerava gli abusi del sionismo contro i palestinesi. Il regime di Tel Aviv fu costretto a “sdoganarlo” solo dopo la spettacolare operazione di Philip Roth, che finalmente presentò il chimico-scrittore al pubblico statunitense negli anni ‘80, tributandogli gli onori di un eroe civile e di una grande firma della letteratura internazionale. Ebrei e antifascismo? Torino non smentisce la sua ambivalenza: scatena l’inferno per mettere al bando CasaPound dal Salone del Libro, ma tace sul brutale pestaggio inflitto, pochi giorni prima, ai NoTav che sfilavano pacificamente per le strade del centro, al corteo del Primo Maggio.
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Magaldi: il coraggio di una vera rivoluzione per il XXI secolo
Da Berlusconi in avanti, passando per Monti e soprattutto per Renzi, sono tutti piuttosto bravini a raccogliere il consenso, ma poi non sanno che farne: per impiegarlo in modo utile, e soprattutto mantenerlo, bisognerebbe operare con coraggio in direzioni precise – e questo non accade. Se oggi si può avere coraggio senza rischiare la vita, come invece Olof Palme e Thomas Sankara, è perché si è seduti sulle spalle di questi giganti: loro sono stati assassinati, ma le loro idee sono qui, pronte per essere usate. Un governo italiano che avesse davvero coraggio e determinazione dovrebbe dire, agli altri paesi e alle istituzioni Ue: in democrazia si parte da una Costituzione e da politiche unitarie, e questo oggi in Europa non c’è. Quindi: o avviamo una fase costituente di questo tipo, tenendo conto del fatto che il modello dell’austerità neoliberista ha fallito miseramente, oppure – se i partner non ci stanno – l’Italia sospende la vigenza dei trattati europei e inizia a organizzare in modo diverso la propria società, auspicando in tutte le sedi possibili un processo costituzionale e federativo. Non è molto difficile né da dire né da spiegare alla pubblica opinione. Per farlo, però, bisogna appunto avere quel coraggio che hanno avuto personaggi come Rosselli, Palme e Sankara.Coraggio che manca ai nostri politicanti di oggi, tutti preoccupati di abbaiare e di litigare per avere qualche percentuale irrisoria in più alle elezioni europee. Ma poi – una volta al potere – si limitano a vegetare, facendo i propri affari, dimenticandosi di quello che avevano promesso per raccogliere il consenso elettorale. Palme e Sankara sono stati assassinati quando il neoliberismo non voleva ostacoli davanti a sé, nemmeno ideologici, e men che meno da parte di statisti influenti e capaci di bloccare quello che doveva accadere all’inizio degli anni ‘90. Oggi, soffiare sul fuoco della violenza per fermare una rivoluzione anti-neoliberista non appare più una soluzione percorribile, per tante ragioni. C’è ormai una platea di cittadini, in Italia e nel mondo, che vedono ormai con chiarezza quello che non funziona. Tutti i politici che parlano di cambiamento, e poi si dimostrano essere dei bluff, ci mettono poco a essere sbugiardati dal corpo elettorale.Paolo Becchi, già ideologo dei 5 Stelle, oggi – con il libro “Italia sovrana” – si presenta come ideologo di un nuovo sovranismo, interessante nella sua declinazione intellettuale: la contrapposizione tra globalismo e sovranismo. Ma una volta scelto il sistema, globale o nazionale, poi tutto cambia se viene gestito con presupposti neoliberisti o keynesiani, post-democratici o democratici, liberal-conservatori o social-liberali. Di quale ideologia e cultura politica vogliamo nutrire il nostro futuro, nel XXI secolo? Quella dell’inganno neoliberista, secondo cui socialismo e liberalismo sono antitetici, e quella dell’inganno neoaristocratico, secondo cui basta servire su un piatto ai cittadini la ritualità della democrazia, dimenticando la sostanza? Oppure vogliamo richiedere un’idea equilibrata di gestione delle nostre società, nella quale il libero mercato e lo stesso capitalismo non siano demonizzati, ma trovino una complementarità nelle istanze sociali, cioè in un socialismo che è fatto di integrazioni, contrappesi e di una ritrovata autorevolezza di ciò che è pubblico?Pubblico e privato non sono antitetici. La narrazione neoliberista è stata all’insegna della svalutazione di ciò che è pubblico e statuale, della lentezza dei processi democratici rispetto all’esigenza di trattare la cosa pubblica come un’azienda che produce efficienza e profitti. Il mondo della libera impresa, che è storicamente collegato all’affermarsi delle democrazie, è un mondo diverso da quello della sfera pubblica, dove il core business non è la produttività in senso economicistico, bensì quella rete di servizi sociali, civili e materiali, infrastrutturali, che consente lo sviluppo di una vita felice, equilibrata. Le istituzioni pubbliche sono adatte a offrire un’uguaglianza delle opportunità, distinguendosi così dalle (giuste) leggi competitive del libero mercato. Le istituzioni pubbliche parlano di cooperazione, non di competitività.Il Movimento Roosevelt intende offrire un orizzonte ideologico nuovo, da abitare, per i cittadini del XXI secolo. Serve una rivoluzione culturale, perché non basta una semplice riforma dell’esistente. C’è bisogno di affrontare, pacificamente ma in modo deciso e forte, tutta una serie di poteri che non gradiscono questa conversione verso la democrazia sostanziale. La globalizzazione in atto è un processo che offre, piano piano, una disabitudine alla democrazia. E le contrapposizioni violente – su scala locale e internazionale – servono proprio a impedire un approccio di pace e armonia sociale. Quelli come noi vogliono costruire un orizzonte di eliminazione del conflitto sociale, attraverso una compesazione per le diseguaglianze prodotte dal mercato: va bene la disparità generata dal merito individuale, ma in cambio bisogna offrire a tutti i cittadini del globo gli elementi di base che consentono di avere un progetto di vita dignitoso. E’ una cosa che sembra semplice, ma in realtà oggi è rivoluzionaria. Esiste una nuova ideologia, il socialismo liberale, declinabile anche da angolazioni politiche diverse. E l’Italia può fare con orgoglio quello che ha già fatto nei secoli passati: offrire per prima una pietanza politico-culturale e ideologica agli altri popoli, agli altri paesi.Dall’Italia sono sempre partite le primizie – buone e cattive – che poi hanno influenzato il resto del mondo: la civiltà giuridica promana da Roma, l’universalismo giuridico viene dall’Italia romanizzata. E non dimentichiamo la lezione del Rinascimento, una sorta di manifesto ideologico-culturale che diventò poi storia concreta, trasformando le istituzioni e il modo stesso di concepire la realtà. Quel grande italiano che fu Giovanni Pico della Mirandola, con la “Oratio de hominis dignitate” costruì una nuova antropologia: l’antropologia dell’uomo artista, mago e scienziato, che non si limita a chinare il capo come creatura peccaminosa, bisognosa di redenzione, che quindi non ardisce conoscere e mettersi in rapporto dialettico con la natura. Da lì nasce l’idea dell’uomo che può trasformare le cose – la società, la natura stessa. Poi c’è il Risorgimento: i nostri eroi risorgimentali erano presi a modello in tutto il mondo, da popoli che anelavano all’autodeterminazione.C’è stato anche il fascismo, naturalmente: altra primizia italiana. Una dottrina post-democratica e di fatto neoaristocratica, tuttavia affascinante per i tanti che si lasciarono influenzare da quella che – per me, che sono fieramente democratico – non è che una perversione. Siamo orogliosi di essere italiani, senza che questo ci spinga a pensare che abbia davvero un futuro la contrapposizione tra sovranismo e globalismo. Sto molto apprezzando il libro di Paolo Becchi, “Italia sovrana”, e il senso in cui lui parla di sovranismo. Però credo che la sfida vera sia quella di “glocalizzare” la democrazia, uscendo da questo film che contrappone i nazionalismi alle oligarchie globali, come se globalizzare i rapporti fosse per ciò stesso sinonimo di diminuzione della democrazia. Io credo piuttosto che si possano globalizzare anche i diritti universali. Ma come fare, se non si ha una visione globale di questi diritti, e se ciascuno si preoccupa soltanto di recuperare la sovranità del proprio Stato e del proprio popolo?Alla fine, questo è un nazionalismo non aggressivo, teso a sottrarre alle oligarchie apolidi il controllo della moneta, dell’economia, della società e delle istituzioni. Ma come possiamo però immaginare un XXI secolo in cui non ci curiamo di tanti territori, dove le popolazioni non sono mai nemmeno passate per processi democratici?In fondo, anche il processo risorgimentale italiano metteva insieme più Stati e staterelli coi propri usi, tradizioni, dialetti e lingue. Eppure c’era un sentimento di italianità che univa tutti. Ma la lingua italiana era quasi artificiale, creata per unire popoli che parlavano lingue diverse, e si è affermata definitivamente solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, grazie alla Rai. Il Movimento Roosevelt è convinto che l’Italia possa insegnare molto a molti, e che l’orgoglio patriottico (non nazionalistico) del nostro paese possa essere un fattore coesivo, per una proposta politico-culturale convincente.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella video-chat su YouTube del 6 maggio 2019. Presidente del Movimento Roosevelt, Magaldi ripercorre le tappe di quella che chiama “rivoluzione rooseveltiana”: dopo il convegno a Londra il 30 marzo sul New Deal keynesiano di cui avrebbe bisogno l’Europa, è seguita l’assise milanese del 3 maggio sul socialismo liberale, in omaggio a Rosselli, Palme e Sankara. Il 14 luglio, a Roma, lo stesso Magaldi sarà tra i promotori del “Partito che serve all’Italia”, cantiere politico per offrire un’alternativa agli elettori, superando le timidezze del governo gialloverde, incapace di opporsi al paradigma neoliberista del rigore Ue).Da Berlusconi in avanti, passando per Monti e soprattutto per Renzi, sono tutti piuttosto bravini a raccogliere il consenso, ma poi non sanno che farne: per impiegarlo in modo utile, e soprattutto mantenerlo, bisognerebbe operare con coraggio in direzioni precise – e questo non accade. Se oggi si può avere coraggio senza rischiare la vita, come invece Olof Palme e Thomas Sankara, è perché si è seduti sulle spalle di questi giganti: loro sono stati assassinati, ma le loro idee sono qui, pronte per essere usate. Un governo italiano che avesse davvero coraggio e determinazione dovrebbe dire, agli altri paesi e alle istituzioni Ue: in democrazia si parte da una Costituzione e da politiche unitarie, e questo oggi in Europa non c’è. Quindi: o avviamo una fase costituente di questo tipo, tenendo conto del fatto che il modello dell’austerità neoliberista ha fallito miseramente, oppure – se i partner non ci stanno – l’Italia sospende la vigenza dei trattati europei e inizia a organizzare in modo diverso la propria società, auspicando in tutte le sedi possibili un processo costituzionale e federativo. Non è molto difficile né da dire né da spiegare alla pubblica opinione. Per farlo, però, bisogna appunto avere quel coraggio che hanno avuto personaggi come Rosselli, Palme e Sankara.
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Grecia, il Corriere: abbiamo nascosto la strage dei bambini
Scriveva Seneca che la verità, anche se sommersa, viene presto o tardi a galla. E così è stato anche in questo caso. Federico Fubini, vicedirettore del rotocalco turbomondialista “Corriere della Sera”, ha fatto candidamente questa incredibile confessione nel corso di un’intervista televisiva ai microfoni di “Tv2000” [minuto 17]: «In Grecia morti 700 neonati in più per la crisi. Ma ho nascosto la notizia». Fubini ha ammesso di aver censurato tale notizia per non incoraggiare gli euroscettici e i partiti sovranisti. Insomma, per garantire la tenuta dell’ordine eurocratico della Ue, innalzato panglossianamente dai padroni del discorso (sempre a completamento del rapporto di forza dominante) a meilleur des mondes possibles. «Faccio una confessione – ha placidamente asserito Fubini a “Tv2000”, riferendosi alla notizia – c’è un articolo che non ho voluto scrivere sul Corriere della Sera». Se questo è giornalismo, verrebbe da dire chiosando Primo Levi. Ben 700 bambini morti grazie alle “magnifiche sorti e progressive” del progetto chiamato Unione Europea, con le “crisi” che essa fisiologicamente produce: e che, in realtà, sono il necessario portato delle politiche liberiste fondative della Ue, pensate ad hoc dai dominanti per massacrare le classi deboli.Le chiamano crisi: sono aggressioni con morti condotte dalla classe dominante capitalistica contro i dannati della cosmopolitizzazione europeista. L’ho detto e lo ridico: gli euroinomani di Bruxelles la chiamano gloriosamente Unione Europea, in verità è l’unione delle classi dominanti europee contro i popoli e le classi lavoratrici d’Europa. Questa è realmente la Ue, un immenso campo di concentramento finanziario. Fanno di tutto per nasconderlo e per glorificarlo. Ma la storia, che è storia della libertà, si ricorderà di loro. Si ricorderà di chi è stato connivente con questo genocidio finanziario, di chi ha taciuto e di chi l’ha nobilitato con parole roboanti (“integrazione”, “unione”, ecc.). L’Unione Europea è l’apice di un capitalismo che si è liberato dalla presa della sovranità nazionale e, dunque, della politica e, di conseguenza, da ogni possibile controllo democratico del popolo. La democrazia è sovranità popolare “nello” Stato. Ma perché vi sia sovranità “nello” Stato, occorre che vi sia anche sovranità “dello” Stato: ossia che lo Stato sia sovrano nelle sue scelte di politica economica e monetaria. La Ue ha rimosso la sovranità “dello” Stato e, per questa via, anche quella “nello” Stato, ossia la sovranità democratica popolare.In apparenza, l’obiettivo era evitare guerre tra Stati nazionali. In realtà, era distruggere le democrazie. Tant’è che la democrazia oggi è assente (il Parlamento della Ue ha un ruolo coreografico): e in compenso prosperano le guerre economiche tra Stati debitori (Grecia) e Stati creditori (Germania). Con tanto di cadaveri, prodotti senza nemmeno usare i cannoni e le bombe: solo con le subdole leve del debito e del credito, dello spread e dell’austerità depressiva decisa nei caveau delle banche da tecnocrati in doppiopetto e sorriso burocratizzato. Conseguenza di tutto ciò? Sovrano è oggi il mercato senza politica, con dominio assoluto dei tecnici e dei finanzieri cinici e apolidi. Che decidono spietatamente della vita dei popoli, ad essa anteponendo il “pareggio di bilancio” e i “conti in ordine”. Anche se ciò comporta la nuova strage erodiana dei 700 bambini ellenici! Prodigio della ragion liberista! I padroni del discorso, si sa, usano la condanna dei totalitarismi passati come risorsa ideologica per far sì che i sudditi amino il nuovo totalitarismo glamour del libero mercato. Oggi più che mai valgono le parole scritte da Adorno in “Prismi”: «Il mondo nuovo è un unico campo di concentramento che si crede un paradiso non essendoci nulla da contrapporgli».(Diego Fusaro, “Fubini confessa di aver nascosto la notizia dei bimbi morti in Grecia. La verità viene a galla!”, dal “Fatto Quotidiano” del 3 maggio 2019).Scriveva Seneca che la verità, anche se sommersa, viene presto o tardi a galla. E così è stato anche in questo caso. Federico Fubini, vicedirettore del rotocalco turbomondialista “Corriere della Sera”, ha fatto candidamente questa incredibile confessione nel corso di un’intervista televisiva ai microfoni di “Tv2000” [minuto 17]: «In Grecia morti 700 neonati in più per la crisi. Ma ho nascosto la notizia». Fubini ha ammesso di aver censurato tale notizia per non incoraggiare gli euroscettici e i partiti sovranisti. Insomma, per garantire la tenuta dell’ordine eurocratico della Ue, innalzato panglossianamente dai padroni del discorso (sempre a completamento del rapporto di forza dominante) a meilleur des mondes possibles. «Faccio una confessione – ha placidamente asserito Fubini a “Tv2000”, riferendosi alla notizia – c’è un articolo che non ho voluto scrivere sul “Corriere della Sera”». Se questo è giornalismo, verrebbe da dire chiosando Primo Levi. Ben 700 bambini morti grazie alle “magnifiche sorti e progressive” del progetto chiamato Unione Europea, con le “crisi” che essa fisiologicamente produce: e che, in realtà, sono il necessario portato delle politiche liberiste fondative della Ue, pensate ad hoc dai dominanti per massacrare le classi deboli.
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A Milano tutta la verità sulla scomparsa di Federico Caffè
Nella notte fra il 14 e il 15 aprile del 1987 lasciò la sua casa di Roma, dove viveva con il fratello. Non fu mai ritrovato: la scomparsa di Federico Caffè rimane tuttora un mistero irrisolto. Non per tutti, però: «La sua sparizione è strettamente connessa con due omicidi eccellenti, quello di Olof Palme e quello di Thomas Sankara». Lo afferma Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” che illumina insospettabili retroscena sulla massoneria di potere che ha imposto l’attuale globalizzazione. Clamorose rivelazioni in vista, a quanto pare, nell’ambito del convegno promosso a Milano il 3 maggio dal Movimento Roosevelt. Del professor Caffè – vero e proprio cervello dell’economia keynesiana nel dopoguerra – parlerà anche un suo illustre allievo, l’economista Nino Galloni, svelando ulteriori dettagli inediti sul giallo della sua scomparsa. Tema dell’assise: presentare pubblicamente il Movimento Roosevelt come laboratorio politico nato per uscire dal tunnel del neoliberismo e riconquistare la perduta sovranità democratica. La ricetta? Il socialismo liberale di Carlo Rosselli, marginalizzato già durante il fascismo dagli stessi socialisti. Due eredi di questa dottrina – lo svedese Palme e l’africano Sankara – furono assassinati nel giro di pochi mesi, a cavallo della sparizione di Caffè.Cosa c’era in ballo? Il nuovo assetto del mondo: l’imminente crollo dell’Urss e l’avvento della “dittatura” tecnocratica di Bruxelles, fondata sull’austerity. Fino al dilagare del neoliberismo globalizzato, dominato dalla finanza predatoria. Nel saggio “Il più grande crimine”, Paolo Barnard indica una data precisa per l’inizio della grande restaurazione, da parte dell’élite antidemocratica: il 1971, anno in cui a Wall Street l’avvocato d’affari Lewis Powell fu incaricato dalla Camera di Commercio Usa di redigere il famigerato Memorandum per la riconquista del potere da parte dell’oligarchia, costretta sulla difensiva per decenni in tutto l’Occidente grazie alla storica avanzata del progressismo liberale, socialista e sindacale. Era il segnale della “fine della ricreazione”: da allora, sempre meno diritti – per tutti. Ci vollero anni, naturalmente, per passare ai fatti. E’ del 1975 il manifesto “La crisi della democrazia”, commissionato dalla Trilaterale a Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki. La tesi: troppa democrazia fa male. Parola d’ordine: togliere agli Stati il potere di spesa, necessario per alimentare il welfare e quindi il benessere diffuso.Cinque anni dopo esplosero Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margaret Thatcher nel Regno Unito. Cattivi maestri: l’austriaco Friedrich von Hayek e l’americano Milton Friedman, economista della Scuola di Chicago. Stesso dogma: tagliare il debito pubblico, rinunciare al deficit. Pareggio di bilancio: meno soldi al popolo, all’economia reale. Un incubo, culminato con i recentissimi orrori del rigore europeo, capace di martirizzare la Grecia lasciando gli ospedali senza medicine per i bambini. Come si è potuti arrivare a tanto? In molti modi, e attraverso infiniti passaggi. Il primo dei quali è tristemente noto: la demolizione di John Maynard Keynes, il più eminente economista del ‘900. Se il lascito di Marx aveva forgiato la coscienza sociale degli operai, sfruttati dal capitalismo selvaggio, l’inglese Keynes escogitò un sistema perfetto per rimettere in equilibrio capitale e lavoro, attraverso la leva finanziaria strategica dello Stato. Ereditando un’America messa in ginocchio dalla Grande Depressione del 1929, Roosevelt con il New Deal fece esattamente il contrario di quanto gli aveva consigliato la destra economica: anziché tagliare la spesa per “risanare” i conti pubblici, mise mano a un deficit illimitato per creare lavoro.L’altra mossa, decisiva, fu il Glass-Steagall Act: netta separazione tra banche d’affari e credito ordinario, per evitare che i risparmi di famiglie e imprese finissero ancora una volta nella roulette della Borsa. Un atto eroico, la guerra contro la finanza speculativa, rinnegato – a distanza di mezzo secolo – dal “progressista” Bill Clinton, subito dopo il famoso sexgate che l’aveva travolto, l’affare Monica Lewinsky. Nel frattempo, in Europa, era stato Tony Blair a rottamare il socialismo liberaldemocratico dei laburisti, inaugurando – con Clinton – la sciagurata “terza via” che avrebbe condotto l’ex sinistra a smarrire se stessa. Desolante il caso italiano: passando per Romano Prodi, lo smantellatore dell’Iri, si va dal Massimo D’Alema che nel 1999 si vantava di aver trasformato Palazzo Chigi in una merchant bank, realizzando il record europeo delle privatizzazioni, per arrivare all’infimo Bersani, capace nel 2011 si sottomettere il Pd al governo Monti, sottoscrivendo i tagli senza anestesia, il Fiscal Compact, la legge Fornero sulle pensioni e il pareggio di bilancio in Costituzione.Una pesca miracolosa, quella condotta dall’élite tra le fila dell’ex sinistra: a partire dallo storico divorzio fra Tesoro e Bankitalia con la regia di Ciampi, la vera “notte della Repubblica” (attacco ai diritti del lavoro, flessibilità e precarizzazione) è stata condotta con la complicità di personaggi come Visco, Bassanini, Padoa Schioppa, Amato, lo stesso Ciampi e altri baroni della nuova tecnocrazia “incoronata” da Mani Pulite, al servizio delle potenze straniere intenzionate a saccheggiare il Belpaese grazie alla “cura” finto-europeista. Lo spiegò lo stesso Galloni in una memorabile intervista a “ByoBlu”: la deindustrializzazione dell’Italia fu pretesa della Germania come compensazione, in cambio della rinuncia al marco. Era stata la Francia di Mitterrand a imporre l’euro ai tedeschi, pena il veto francese alla riunificazione delle due Germanie. Cominciava una festa, per molta parte d’Europa, caduta la Cortina di Ferro grazie a Gorbaciov. Per l’Italia, invece, il sogno si sarebbe trasformato in un incubo. Supremo regista della grande illusione, Mario Draghi: a bordo del Britannia di mise a disposizione dei poteri che progettavano la svendita del paese, venendo poi premiato prima come governatore di Bankitalia e poi come presidente della Bce.Oggi, grazie a tutto questo, è diventato “normale” che un governo italiano non riesca a ottenere un deficit del 2,4% (irrisorio), ed è “fisiologico” che il fantasma dell’ex sinistra – il Pd – trovi giusto che siano i commissari Ue, non eletti da nessuno, a poter calpestare un esecutivo regolarmente eletto. Peggio: è stato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a spiegare – bocciando la nomina di Paolo Savona come ministro dell’economia – che sono i mercati, e non gli elettori, ad avere l’ultima parola. Contro questa palude si muove il laboratorio politico rappresentato dal Movimento Roosevelt. Obiettivo: ribaltare il tavolo delle convenzioni dogmatiche degli ultimi trent’anni, risvegliando la politica dormiente fino a portarla a riscrivere le regole. La prima: Europa o meno, il popolo deve tornare sovrano. Tradotto: le elezioni devono poter decidere chi governerà davvero, e come. E a dire di no a un governo eletto potrà essere solo, domani, un governo federale europeo a sua volta emanato democraticamente dall’Europarlamento, sulla base di una Costituzione democratica che oggi l’Ue non sa neppure cosa sia. Chi l’ha detto che il deficit non può superare il 3% del Pil? Il Trattato di Maastricht va gettato nella spazzatura, ecco il punto. Bel problema: da dove cominciare?La prima cosa da fare è dire finalmente la verità: lo sostiene Magaldi, che il Movimento Roosevelt l’ha creato. Rivelazioni e denunce continue, da parte sua. Mattarella? Un paramassone che obbedisce al massone Visco di Bankitalia, a sua volta un burattino del massone Draghi. Di Maio che omaggia la Merkel, dopo aver ceduto sul deficit gialloverde? Brutto segno: tenta di accreditarsi presso le superlogge come la Golden Eurasia, quella della Cancelliera, sperando così di sopravvivere al prevedibile declino dei 5 Stelle. Grande occasione perduta, il governo del non-cambiamento, di fatto prono ai diktat della Disunione Europea che sta mandando in malora l’economia del continente. Fenomeno vistoso: si sta impoverendo la classe media alla velocità della luce, come dimostrano i Gilet Gialli in Francia, dove qualcuno – dice sempre Magaldi – ha pensato bene di dare alle fiamme persino un simbolo nazionale come Notre-Dame. Sono sempre loro, i registi occulti della strategia della tensione europea: hanno seminato il terrore nelle piazze per spianare la strada all’austerity dei governi.Rosselli, Palme e Sankara: ecco, da dove ripartire. Socialismo liberale: il grande premier svedese voleva “tagliare le unghie al capitalismo”. Stava per essere eletto segretario generale dell’Onu: poltrona da cui avrebbe vegliato anche sull’Europa, impedendo che si arrivasse a questo aborto di Unione Europea. Certo, c’è dell’altro: qualcuno nel frattempo avrebbe fatto entrare la Cina nel Wto senza pretendere nessuna garanzia, da Pechino, sui diritti dei lavoratori. Risultato: concorrenza sleale sui prezzi delle merci e grande crisi della manifattura occidentale. E qualcun altro, l’11 settembre del 2001, avrebbe fatto saltare in aria le Torri Gemelle a New York. Obiettivo: poter invadere l’Iraq e l’Afghanistan, fabbricando il fantasma del terrorismo jihadista (Al-Qaeda, Isis) con cui ricattare il mondo. Bagni di sangue (Libia, Siria) o rivoluzioni colorate (Georgia, Ucraina), o magari primavere arabe (Tunisia, Egitto): il risultato non cambia, si punta sempre sul caos. Così l’Italia si scanna sui migranti e il Pd attacca Salvini anziché Macron. E nessuno guarda al di là del mare.Lo fa Ilaria Bifarini, anche lei attesa al convegno di Milano con il suo saggio “I coloni dell’austerity”, ovvero “Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. Negli anni ‘80, quando Olof Palme faceva della Svezia il paradiso europeo del welfare, l’africano Thomas Sankara trasformava l’Alto Volta coloniale nel coraggiosissimo Burkina Faso, il “paese degli uomini liberi”, con una promessa: nessuno, qui, morirà più di fame. Lo disse ad alta voce, nel 1987, davanti ai leader africani: chiediamo all’Occidente di cancellare il debito dell’Africa. Tre mesi dopo fu ucciso, su mandato francese. In Africa, il giovane Sankara godeva di un prestigio immenso, pari a quello di Palme in Europa. Con loro ancora al potere, non avremmo visto né questa Ue né i barconi dei migranti. Il premier svedese era stato freddato un anno prima, da un killer rimasto sconosciuto. Non così i mandanti: “La palma svedese sta per cadere”, telegrafò alla vigilia dell’omicidio Licio Gelli, il capo della P2, avvertendo il parlamentare statunitense Philip Guarino. Lo scrive, nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, lo stesso Gianfranco Carpeoro, altro esponente “rooseveltiano” impegnato nell’assise milanese, da cui ora si attendono precise rivelazioni sulle connessioni tra i delitti Palme e Sankara e la scomparsa di Caffè. Erano uomini da eliminare: troppo ingombranti, per chi voleva instaurare – in Europa e nel mondo – il regno del caos e dei profitti stellari, al prezzo dell’impoverimento generale.Tutto questo, purtroppo, è molto massonico. Lo sostiene Gioele Magaldi, che nel suo saggio spiega che nel 1980 tutte le superlogge – anche quelle progressiste – aderirono al patto “United Freemasons for Globalization”. Una tregua armata, dopo che negli anni Sessanta erano stati uccisi Bob Kennedy e Martin Luther King: un ticket fantastico, che le Ur-Lodges democratiche avrebbero voluto alla Casa Bianca, come presidente e vice. E’ come se la stessa mano provvedesse a uccidere gli avversari che non si possono corrompere né intimidire. Per inciso, aggiunge Magaldi, erano massoni anche Palme e Sankara, così come Gandhi, Mandela e lo stesso Yitzhak Rabin, assassinato da manovalanza estremista. Quanto al convegno di Milano, chiosa Magaldi, non si tratta di limitarsi a celebrare la memoria di giganti come Rosselli e Palme, Sankara e Caffè: l’intenzione è quella di creare una nuova agenda politica, in base alla quale nessuno possa più fingere di essere progressista mentre soggiace alla post-democrazia Ue. Una sfida a viso aperto: c’è da fare una rivoluzione culturale. Il pareggio di bilancio? E’ un crimine politico contro il popolo. Sarebbe ben lieto di spiegarlo autorevolmente lo stesso Caffè, se fosse ancora qui, in questa Italia le cui televisioni spacciano per verità le frottole quotidiane di personaggi come Elsa Fornero e Carlo Cottarelli, mestieranti nostrani del peggior neoliberismo.(Il convegno “Nel segno di Olof Palme, Carlo Rosselli, Thomas Sankara e contro la crisi globale della democrazia” è promosso dal Movimento Roosevelt venerdì 3 maggio 2019 a Milano, col patrocinio del Comune, presso la sala conferenze del Museo del Risorgimento a Palazzo Moriggia, via Borgonuovo 23 (zona Brera), dalle ore 10 alle 17.30. Interverranno Angelo Turco, Gioele Magaldi e l’ambasciatore italiano in Svezia Marco Cospito, insieme a Felice Besostri, Nino Galloni, Paolo Becchi, Gianfranco Carpeoro, Otto Bitjoka, Marco Moiso, Sergio Magaldi, Egidio Rangone, Danilo Broggi, Pierluigi Winkler, Giovanni Smaldone, Michele Petrocelli, Aldo Storti, Marco Perduca e Lorenzo Pernetti. Nel corso dell’evento, introdotto da brevi rappresentazioni teatrali su Sankara e Rosselli offerte da Ricky Dujany e Diego Coscia, verrà presentato il bestseller di Ilaria Bifarini “I coloni dell’austerity”, mentre Carlo Toto e Paolo Mosca anticiperanno il trailer del docu-film “M: il Back-Office del Potere”. Tra i dirigenti del Movimento Roosevelt interverranno anche Daniele Cavaleiro, Roberto Alice, Fiorella Rustici, Zvetan Lilov, Alberto Allas, Roberto Luongo, Roberto Hechich, Massimo Della Siega e Roberto Peron. Per informazioni: segreteria generale e presidenza del MR. Coordinamento ufficio stampa e relazioni esterne: Monica Soldano, 348.2879901).Nella notte fra il 14 e il 15 aprile del 1987 lasciò la sua casa di Roma, dove viveva con il fratello. Non fu mai ritrovato: la scomparsa di Federico Caffè rimane tuttora un mistero irrisolto. Non per tutti, però: «La sua sparizione è strettamente connessa con due omicidi eccellenti, quello di Olof Palme e quello di Thomas Sankara». Lo afferma Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” che illumina insospettabili retroscena sulla massoneria di potere che ha imposto l’attuale globalizzazione. Clamorose rivelazioni in vista, a quanto pare, nell’ambito del convegno promosso a Milano il 3 maggio dal Movimento Roosevelt. Del professor Caffè – vero e proprio cervello dell’economia keynesiana nel dopoguerra – parlerà anche un suo illustre allievo, l’economista Nino Galloni, svelando ulteriori dettagli inediti sul giallo della sua scomparsa. Tema dell’assise: presentare pubblicamente il Movimento Roosevelt come laboratorio politico nato per uscire dal tunnel del neoliberismo e riconquistare la perduta sovranità democratica. La ricetta? Il socialismo liberale di Carlo Rosselli, marginalizzato già durante il fascismo dagli stessi socialisti. Due eredi di questa dottrina – lo svedese Palme e l’africano Sankara – furono assassinati nel giro di pochi mesi, a cavallo della sparizione di Caffè.
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La grande menzogna del Pd, che vive senza un programma
Non so se vi rendete conto che il Partito Democratico non ha un programma, eppure questa non è una novità. Per anni e anni, centrosinistra e centrodestra si sono alternati al potere; tutto l’arco parlamentare si divideva in pro e contro Berlusconi e sul conflitto d’interessi delle Tv (poi ci ha pensato Internet) ma di sensibile non cambiava mai niente, e i cittadini venivano distratti come tanti polletti con argomenti secondari, mentre il lavoro veniva sistematicamente precarizzato dai partiti di entrambi gli schieramenti, tutti insieme, appassionatamente. Qualcos’altro ci hanno lasciato in dote: Berlusconi soffocò l’economia passando dalla lira all’euro in modo troppo repentino (il doppio prezzo lira-euro andava mantenuto per molti più anni) colpendo in tal modo i lavoratori a paga fissa. Il centrosinistra da parte sua si è votato al neoliberismo sin dal 1981 e con Ciampi e Andreatta (col divorzio Bankitalia/Tesoro) ha indebitato il paese verso le banche italiane, mentre Monti, Draghi, Prodi, Amato, D’Alema e sempre Ciampi ci hanno incatenato nella moneta unica col rapporto di ingresso troppo forte (marco-lira 990) creando debito estero; un cambio che fu drogato da repentini scambi monetari ad hoc realizzati dalle banche europee e italiane (vendettero marco per comprare lira).Per questo vi parlano di Europa a sproposito, quando il tema è monetario; e per questo vi citano il fascismo, il nazismo, il populismo, il sovranismo, ecc, ogni volta che si accenna a questi temi. E’ una tecnica subliminale conosciutissima (si chiama associazione) ma che fa effetto, ed è l’unico argomento della campagna elettorale del Pd da anni (adesso speculano anche sulla morte di un giornalista radio). Io non sono sovranista ma chiedo che, “per cortesia”, si faccia qualcosa, e possibilmente in modo ragionevole e concordato, per riavere un cambio flessibile tra noi ed i tedeschi (ovviamente ciò è possibile con due monete diverse). Non voler ottenere ciò, temendo di essere spendaccioni, equivale a tagliarsi qualcosa per far dispetto alla moglie, soprattutto in virtù del fatto che la nostra spesa pubblica in beni e servizi è bassa da 40 anni, e che ciò che ha creato debito pubblico estero sono gli interessi passivi reali, conseguenza della moneta unica per noi troppo forte (che ha favorito e favorisce i nostri competitors) per non parlare della assenza di una vera banca centrale.La moneta troppo forte per una economia non equivale ad essere forti, ma anzi a diventare più deboli. Moneta troppo forte equivale ad alta disoccupazione, a bassi salari e alla ben nota desertificazione industriale. Forte devi diventarlo, la moneta forte non è lo strumento ma la conseguenza! Ci diventi se il mondo scambia la sua moneta per la tua, cioè se esporti più di quanto importi (e la tecnologia ti permette di farlo a lungo termine) e se richiami turisti. La Cina, ad esempio, molto presto avrà una classe media benestante che comprerà i prodotti stranieri nei supermarket. Sono centinaia di milioni di persone… Ecco spiegate le ragioni per cui il partito di Zingaretti non ha un programma. Il Pd è il partito dell’austerity e non può rivelare cosa ha intenzione di fare, perché ciò sarebbe controproducente a livello di consenso: sarebbero tagli e tasse, con qualche favore al proprio bacino elettorale. Non lo dico polemicamente, lo ha sempre fatto.Nel 2013, ricordo, prima del voto, Nessuno (nemmeno Berlusconi, peraltro) aveva inciso nel programma la modifica della Costituzione mediante pareggio di bilancio e Fiscal Compact; eppure, una volta presi i voti, questo Nessuno edificò il primo Nazareno (Bersani, Casini, Monti e Alfano come testimonial di Silvio Berlusconi, in foto al focolare) stravolgendo il senso più profondo della Costituzione nella componente economica (con un Parlamento illegittimo, vedasi Porcellum). Questo è solo un drammatico epilogo recente, un palo rovente nell’occhio della cittadinanza. Quindi i Dem, ancora oggi, restano nel vago, alzano cortine fumogene su questioni secondarie, si gettano nel marketing politico con polemiche strumentali e simboli, simboletti e sorrisi, e urlano contro ciò che viene approvato dal governo attuale. Cosa ha approvato questo governo? Qualcosa che sin dagli anni ‘90 (prima ero troppo piccolo) avrebbe fatto piangere di felicità qualsiasi elettore del Pds!Il mio libro del 2014, sul cui programma lavoravo sin dal dicembre 2011 (“Il neoliberismo che sterminò la mia Generazione”, edito da Andromeda: per chi volesse consultare in merito questo è il video nella Sala Conferenze della Camera) nel fondamentale paragrafo – un tantino predittivo? – “Come un cittadino informato rilancerebbe l’Italia”, conteneva questi punti (in neretto quelli realizzati o prossimi alla realizzazione da parte del governo): 3) Riconversione industrie verso settori tecnologici; 4) Riprofessionalizzazione della forza lavoro mediante corsi gratuiti; 5) Nuovo piano industriale (energia e ristrutturazione preesistente); 7) Messa in sicurezza del territorio investendo nell’idrogeologico; 9) Blocco privatizzazioni assets industriali; 18) Pensioni minime a 780 euro; 19) Tetto massimo alle pensioni (è stato fatto in questo caso qualcosa di temporaneo ma comunque lodevole); 20) Separazione banche di investimento da quelle commerciali; 21) Reddito di cittadinanza; 22) Salario orario minimo garantito.Il paragrafo seguente descriveva il modello danese alla perfezione, con contributi direttamente ottenuti dal ministero della Danimarca, cosa che fu “casualmente” ripresa in un articolo sul blog di Grillo qualche tempo dopo… non me ne voglia, ma successe anche con inceneritore, Bce prestatore di ultima istanza, Roosevelt, Benigni e Landini, vedasi Lalla, ecc. Aggiungendo che, come la senatrice Catalfo (5S) sa, fui il primo in assoluto ad accorgermi e denunciare/diffondere il legame tra Jp Morgan e le intenzioni “costituzionicide” del Nazareno, la componente predittiva del mio lavoro di cittadino informato raggiunge il top. Ai giornali dà fastidio affermare che i punti sono stati ottenuti dai 5S, e preferiscono parlare del leale (lo dico senza ironia) alleato monotematico leghista? Do loro uno spunto… dicano che l’ho ottenuto io! Marco Giannini, il Grillin Fuggiasco. Più seriamente, capisco che il 5S non sia perfetto, che non segua quelle logiche meritocratiche come credevo anni fa (con Di Maio però ciò sta migliorando sensibilmente), ma è un vanto avere in Parlamento persone che si sono migliorate e hanno “fatto tesoro” di tutto un certo tipo di lavoro.In conclusione (mi piacerebbe che per rispetto della onestà intellettuale questo pezzo venisse condiviso da tutti, da 5S, Pd, Fi, ecc) l’unico interesse di Zingaretti pare essere la redistribuzione delle poltrone e del potere all’interno dell’apparato; un apparato spezzettato in correnti forgiate sull’interesse della carriera personale (e non mi interessa parlare del fatto che Zingaretti sia indagato e prescritto; mi pare molto più importante evidenziare la mancanza di spessore). L’interesse di Di Maio, solo contro tutti, è continuare a riconsegnare al paese una soglia minima di sicurezza sociale (e deve riuscirci con la Lega, non avendo il 50%+1 purtroppo). Tutto il resto sono chiacchiere.(Marco Giannini, il Grillin Fuggiasco, “La menzogna più grossa del Pd, ovvero il partito che non ha mai avuto un programma”, da “Come Don Chisciotte” del 19 aprile 2019).Non so se vi rendete conto che il Partito Democratico non ha un programma, eppure questa non è una novità. Per anni e anni, centrosinistra e centrodestra si sono alternati al potere; tutto l’arco parlamentare si divideva in pro e contro Berlusconi e sul conflitto d’interessi delle Tv (poi ci ha pensato Internet) ma di sensibile non cambiava mai niente, e i cittadini venivano distratti come tanti polletti con argomenti secondari, mentre il lavoro veniva sistematicamente precarizzato dai partiti di entrambi gli schieramenti, tutti insieme, appassionatamente. Qualcos’altro ci hanno lasciato in dote: Berlusconi soffocò l’economia passando dalla lira all’euro in modo troppo repentino (il doppio prezzo lira-euro andava mantenuto per molti più anni) colpendo in tal modo i lavoratori a paga fissa. Il centrosinistra da parte sua si è votato al neoliberismo sin dal 1981 e con Ciampi e Andreatta (col divorzio Bankitalia/Tesoro) ha indebitato il paese verso le banche italiane, mentre Monti, Draghi, Prodi, Amato, D’Alema e sempre Ciampi ci hanno incatenato nella moneta unica col rapporto di ingresso troppo forte (marco-lira 990) creando debito estero; un cambio che fu drogato da repentini scambi monetari ad hoc realizzati dalle banche europee e italiane (vendettero marco per comprare lira).
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L’imbroglio delle europee: il Parlamento conta meno di zero
Votare per un Parlamento i cui legislatori non possono fare le leggi e in più devono lottare come matti se vogliono opporsi a potentissime leggi fatte da tecnocrati che nessuno ha mai eletto – cioè votare alle elezioni per il Parlamento Europeo – significa «rendersi complici intenzionali di una dittatura». Lo sostiene Paolo Barnard, nella sua “Guida alla vergogna delle elezioni europee”: un riassunto spietato dell’euro-farsa di maggio. «La gran massa di quelli che oggi vi stanno dicendo che una rimonta populista euroscettica alle prossime europee sarà esplosiva contro la bieca autocratica Ue di Bruxelles, è così ripartita: il 2% sono consapevoli falsari, il 98% sono inconsapevoli cretini», premette Barnard. «Se la mattina del 27 maggio 2019 il più potente burocrate d’Europa, Martin Selmayr, vedrà su “Sky News” il faccione raggiante di Salvini “che non lo tiene più nessuno”, scrollerà le spalle e penserà: “Vabbè, una rogna in più”. Mica altro, perché la sua Europa verrà solo di un poco infastidita». Il Parlamento Europeo, infatti, conta niente: è il più demenziale, tragicomico baraccone mai concepito nella storia politica umana. Credere che, dall’interno di un carrozzone impantanato come questo, un’eventuale fronte anti-Bruxelles possa iniziare a sparare cannonate micidiali fin dalla mattina del 27 maggio, «è da fessi», dice Barbard, «o da falsari come Salvini, Bannon, il 5 Stelle e i loro soci in Ue».Per Barnard, è come «votare per dei vigliacchi», disposti a farsi mandare a Strasburgo pur essendo pienamente consapevoli della loro impotenza. I parlamentari europei? «Delegano la stesura di leggi sovranazionali – cioè più potenti di quelle scritte dai singoli paesi e sovente anticostituzionali, per loro – ai burocrati non-eletti della Commissione Europea». Ipocriti e codardi: «Il “principio di comodità” è ciò che li guida: è comodo sedersi a Strasburgo, intascare un grasso salario e poi, al limite, dara la colpa a Bruxelles per i danni micidiali che certe sue leggi ci fa». Lo chiarisce uno studio della Cambridge University del 1999: «I legislatori hanno noti incentivi a delegare tutto il potere ai burocrati, fra cui il fatto di evitare di essere poi chiamati a rispondere ai cittadini per scelte dure e impopolari». Tradotto: le infami “riforme” di lavoro e pensioni, e i tagli di spesa alla Juncker. Poi si è passati dal non poter fare nulla al poter fare quasi nulla, aggiunge Barnard: l’impotenza degli europarlamentari «divenne talmente oscena e grottesca, che alla fine i super-burocrati di Bruxelles decisero, dal 2006 e poi l’anno dopo col Trattato di Lisbona, d’infilare dei ritocchini cosmetici che dessero l’impressione che il Parlamento potesse bloccargli le leggi».Con nomi attraenti (Regulatory Procedure With Scrutiny e articolo 290 Tfeu) fu dato al Parlamento Europeo il potere teorico di opporsi alle leggi della Commissione, così come poteva fare il Consiglio dei ministri. Ma era solo l’ennesima farsa: «I parlamentari contestano? Costa una fortuna, e i tempi gli sono nemici». Il Trattato di Lisbona, spiega Barnard, ha reso pressoché inaffrontabile il costo di una contestazione del Parlamento contro la Commissione. Le direttive della Commissione «sono di proposito scritte da oltre 300 tecnocrati con intrichi legali asfissianti». Per cui, l’europarlamentare che volesse capirci qualcosa «dovrebbe pagare uno staff di tecnici a costi altissimi», ma non solo: «Deve poi avere ulteriori mezzi per “istruire” un’intera commissione parlamentare sul tema che vuole criticare, e tutto questo solo per iniziare ad agire». Infine, deve trovare altri mezzi «per formare una coalizione che sia d’accordo con lui, e non basta: deve anche convincere la Conferenza dei presidenti delle commissioni».E tutto questo, senza contare i tempi: solo 4 mesi, per organizzare il tutto, creare una lobby trasversale fra i vari partiti reclutando colleghi a favore della contestazione e quindi rifare tutto, daccapo, in seno al Consiglio dei ministri, che per legge deve essere poi d’accordo. «Scaduti i 4 mesi, il parlamentare Ue s’attacca al tram». Conferma l’“Economist”: «Il peso, i costi e gli ostacoli di una contestazione contro una legge della Commissione sono quasi sempre maggiori dei benefici. Meglio, per il parlamentare, una forma di baratto in privato con Bruxelles». Lo scriveva nel 2017 il College of Europe, Bruges. In altre parole: meglio darla vinta alla Commissione, in partenza. Un meccanismo «demenziale e democraticamente osceno», sottolinea Barnard: «Un parlamentare eletto deve svenarsi, per contestare burocrati non-eletti». Dal 2009 al 2017, su 545 leggi proposte dalla Commissione, il Parlamento Europeo di fatto ne ha contestate l’1,1%. «Il resto, e sono tutte leggi più potenti di quelle italiane, è passato liscio come l’olio».Mettiamo pure che i populisti euroscettici prendano buoni numeri a maggio: nel qual caso, «è stra-ovvio che avranno una vita infernale, anche solo per mantenere una frazione di ciò che oggi sbraitano agli elettori». In sostanza, un europarlamentare che volesse bloccare una super-legge della Commissione dovrebbe disporre di una barca di soldi e di supr-tecnici, per provare a convincere un mare di altri parlamentari, tra partiti e commissioni, solo per iniziare ad agire. Ma per arrivare a una conclusione di successo, continua Barnard, l’ipotetico parlamentare-eroe dovrebbe poi anche superare diversi veti. Il primo, salla commissione parlamentare interessata. Poi potrebbero contestargli un conflitto di giurisdizione fra commissioni, cioè dirgli: il tema non è di tua competenza. Se poi il parlamentare non ottiene la maggioranza assoluta di tutto il Parlamento Europeo, insieme all’ok del 55% del Consiglio dei ministri (cioè di tutti gli Stati Ue) la partita non può nemmeno cominciare. «Non è teatro pirandelliano: è come funziona ’sto delirio chiamato Parlamento Ue».Terza farsa, continua Barnard: questi europarlamentari “evirati” sono costretti a fare i lobbysti, e spesso di nascosto. Michael Kaeding, economista neoliberista dell’università Duisburg-Essen, ricoprire una decina d’incarichi nelle maggiori think-tanks d’Europa. Un super-tecnocrate, l’opposto di un euroscettico. Con Barnard, ha intrattenuto uno scambio chiarificatore. Kaeding è esplicito: la Commissione Europea, che emana tutte le leggi, è consapevole di avere scarsa legittimità democratica. Per questo, cerca sempre di non arrivare allo scontro coi parlamentari, coi quali tenta specifici accordi. Nientemeno: «Esiste un potere di fatto, dove il singolo parlamentare baratta con la Commissione su certe leggi, piuttosto che tentare uno scontro. Il problema – aggiunge Kaeding – è che questi negoziati non sempre sono trasparenti, o addirittura sono difficili da scoprire». Capito? Ridotto all’impotenza, l’europarlamentare si trasforma in lobbysta-ombra. Persino Kaeding arriva a domandarsi che senso abbiano queste trattative “riservate”, e quanto siano lecite.Che altro? Questo: il Parlamento Europeo può teoricamente bocciare sia la Commissione che il suo presidente. Una prospettiva che Barnard classifica «surreale», e spiega: «Il Parlamento Ue può in effetti bocciare sia la nomina del presidente della Commissione, sia la lista dei commissari». Ma poi cosa succede? «Presidente e commissari vengono ripresentati quasi identici, o al meglio con cosmetiche correzioni per salvare la faccia ai parlamentari contestatari». Ora, se un ipotetico Europarlamento “salviniano” non accettasse il salva-faccia, si riboccerebbe il tutto. A quel punto, si entrerebbe «nel labirinto chiamato “crisi costituzionale” secondo il Trattato di Lisbona», cioè la Costituzione Ue «introdotta di nascosto nel 2007, dopo la bocciatura francese e olandese della prima Costituzione proposta, bocciata perché “socialmente frigida”». E chi la risolverebbe, una crisi costituzionale di quel tipo? Il Parlamento Europeo? «Ma non facciamo ridere», taglia corto Barnard.Certo, resterenne il Consiglio Europeo. Ma idem: il Consiglio «ha consegnato dispute di ’sto genere a oltre 2.800 pagine di codicilli indecifrabili, scritti da tecnocrati nel 2007 (Trattato di Lisbona), da cui si desume – secondo studiosi come Jens Peter Bonde – che la crisi verrebbe a quel punto messa nelle mani della Corte Europea di Giustizia, che è ancor meno eletta della Commissione Ue». Risultato: una bocciatura del Parlamento Europeo varrebbe zero. Lo conferma l’inconsistenza assoluta, fisiologica, dell’assemblea elettiva di Strasburgo. Le leggi Ue, prodotte dalla Commissione, «ficcano il naso dappertutto, dagli omogeneizzati alle regole d’accesso alle comunicazioni satellitari». Spiegano «come devono essere fatte le lampade al neon, definiscono «cos’è la cioccolata», delimitano la privacy e stabiliscono come irrigare un campo. «Ma ciò che questa Europa ha portato di più devastante sulla più bella e democratica Costituzione del mondo, la nostra, sono i trattati», scrive Barnard. Già, perché le leggi teoricamente impugnabili dai parlamentari sono soltanto quelle secondarie, mentre quelle primarie sono proprio i trattati: da Maastricht a Lisbona, fino al devastante Fiscal Compact che ha sfigurato la Costituzione italiana imponendovi il pareggio di bilancio, cioè la distruzione del potere sovrano di spesa (e quindi dell’equità sociale).Ecco perché, secondo Barnard, chiedere voti per alzare la voce all’Europarlamento «è una colossale presa per il culo». L’europarlamentare è neutralizzato persino sulle leggine, e quindi conta zero sui trattati che regolano «la spesa di Stato per le nostre vite, malattie, lavoro, pensioni o giovani». Ecco come stanno le cose: il Trattato di Lisbona, con l’articolo 48 Tfeu, sancisce che per modificare un trattato europeo ci sono quattro procedure. In tutte e quattro, sottolinea Barnard, il ruolo del Parlamento Europeo è limitatissimo. Tre sono le vie fondamentali: procedura ordinaria, procedura semplificata e “passerelle” (in francese). «Vi garantisco che non esiste un premier in tutt’Europa che sappia cosa siano», dice Barnard, «perché sono procedure più complesse della fisica teorica: vi basti sapere quanti attori, a livello Ue, devono essere tutti insieme coinvolti, pluri-consultati, coordinati, informati e infine convinti, per cambiare un Trattato». L’elenco è sconfortante: attraverso un iter ultra-bizantino, praticamente folle, vanno convinti tutti i 28 governi nazionali (e anche solo uno di loro può porre il veto, bloccando tutto). Poi occorre avere con sé la Commissione Ue, il Consiglio Europeo, il Consiglio dei ministri, la cosiddetta Convenzione Europea. Ancora: la Conferenza Intergovernativa, la Bce e, in ultimo, il Parlamento Ue.«E qualcuno crede ancora che i futuri “salvinici” o “orbanici” eroi, a Strasburgo, potranno dire be’ sui trattati?». Ma poi, è vero che a maggio i populisti euroscettici vinceranno? «Non diciamo cretinate», scrive Barnard: «Basta guardare i numeri dei 9 gruppi parlamentari europei per capire che i populisti euroscettici dovrebbero centuplicare i loro consensi per dominare il Parlamento, e gli altri perderne il 90% di botto. Una cosa sembra certa dai sondaggi: su 12 partiti cosiddetti populisti in Europa, oggi solo la Lega otterrà un certo successo, gli altri aumenteranno di 2 o 3 o forse 4 seggi». Tutto qui. Insiste Barnard: «Vi hanno mentito su tutto». Chi? Di Maio, cioè Casaleggio, e naturalmente Salvini, «coi suoi due economisti con 10 chiili di Vinavil fra culo e poltrona politica» (Borghi e Bagnai, ormai silenti di fronte alla retromarcia gialloverde dopo le minacce Ue sul deficit). «Hanno calato le braghe di fronte a Bruxelles in 5 minuti, con una spesa pubblica che è un insulto alla storia italiana», conclude Barnard. «I padani si sono rimangiati la Eurexit perché “eh, abbiamo beccato solo il 17% e quindi sticazzi le promesse elettorali, ma la poltrona ce la teniamo”, mentre Salvini mandava emissari anonimi da “Bloomberg” a dirgli “rassicurate i mercati! Staremo nei ranghi”». Barnard li chiama “cialtroni”: «Oggi vi dicono che a maggio sbaraccheranno tutta l’Europa? Una balla, da vomitare».Votare per un Parlamento i cui legislatori non possono fare le leggi e in più devono lottare come matti se vogliono opporsi a potentissime leggi fatte da tecnocrati che nessuno ha mai eletto – cioè votare alle elezioni per il Parlamento Europeo – significa «rendersi complici intenzionali di una dittatura». Lo sostiene Paolo Barnard, nella sua “Guida alla vergogna delle elezioni europee”: un riassunto spietato dell’euro-farsa di maggio. «La gran massa di quelli che oggi vi stanno dicendo che una rimonta populista euroscettica alle prossime europee sarà esplosiva contro la bieca autocratica Ue di Bruxelles, è così ripartita: il 2% sono consapevoli falsari, il 98% sono inconsapevoli cretini», premette Barnard. «Se la mattina del 27 maggio 2019 il più potente burocrate d’Europa, Martin Selmayr, vedrà su “Sky News” il faccione raggiante di Salvini “che non lo tiene più nessuno”, scrollerà le spalle e penserà: “Vabbè, una rogna in più”. Mica altro, perché la sua Europa verrà solo di un poco infastidita». Il Parlamento Europeo, infatti, conta niente: è il più demenziale, tragicomico baraccone mai concepito nella storia politica umana. Credere che, dall’interno di un carrozzone impantanato come questo, un’eventuale fronte anti-Bruxelles possa iniziare a sparare cannonate micidiali fin dalla mattina del 27 maggio, «è da fessi», dice Barnard, «o da falsari come Salvini, Bannon, il 5 Stelle e i loro soci in Ue».
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Magaldi: diventi progressista, o “morirà” anche Zingaretti
Povero Nicola Zingaretti: è stato eletto segretario di un partito di zombie. Ce l’ha, un piano per l’Italia? Perché finora non è pervenuto nemmeno un indizio. L’unica cosa che sappiamo è che Zingaretti, almeno, è un leader: non carismatico, ma corretto. Buon presidente della Regione Lazio. Umanamente schietto e leale, diversissimo dal “finto buono” Walter Veltroni e dai suoi troppi epigoni, fino al velenoso Renzi. Meglio del surreale Martina, comunque, e dell’impalpabile Giachetti. Se non altro, Zingaretti è un politico capace anche di vincerle, le maratone. Così almeno lo vede Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, che all’amletico neo-segretario domanda: è sicuro di sapere cosa vuol fare, da grande? Delle due, l’una: o trasforma il Pd in un soggetto progressista, post-keynesiano, o finirà prestissimo come tutte le altre dimenticabili meteore della “ditta”. Se non trova il coraggio della sincerità, insiste Magaldi, Zingaretti sarà travolto, già a partire dalle europee di maggio. «Cari italiani – dovrebbe dire – sappiate che vi abbiamo preso in giro per 25 anni. Ci siamo detti “di sinistra”, ma abbiamo applicato soltanto l’agenda economica del neoliberismo mercantile e finanziario, arrivando allo “Stato minimo” auspicato dai grandi privatizzatori». Come si esce dall’incubo? Riscoprendo Keynes, assicura Magaldi: «Il capitalismo è indispensabile ma va coinugato con lo Stato, in Italia e in Europa. Sarebbe la rivoluzione progressista che cambierebbe tutto: che ne pensa, Zingaretti?».Ce lo faccia sapere alla svelta, dice il presidente del Movimento Roosevelt, perché il tempo stringe: se il nuovo leader del Pd non si sbriga a chiarire che l’Italia non può restare sottomessa agli oligarchi Ue, anche il presidente del Lazio – pur dignitoso, come dirigente – durerà lo spazio di un mattino. E’ fondamentale il coraggio di una rottura con gli ultimi 25 anni del centrosinistra, dice Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”: l’equivoco dei “nostri” al governo, da Prodi in poi, è finito meno di un anno fa con il boom dei 5 Stelle e l’exploit della Lega. Indietro non si torna: e se ora gli italiani sono scontenti anche dei gialloverdi perché a loro volta poco coraggiosi con Bruxelles, figurarsi che futuro avrebbe un remake del Pd in versione-stuoino. Di tutto, ci ha regalato quel partito: dal velleitarismo parolaio di Veltroni ai grotteschi mormorii di Bersani, prono al pareggio di bilancio in Costituzione imposto dal governo Monti. A seguire, nel museo degli orrori, i maggiordomi Letta e Gentiloni, intervallati dal fanfarone inconcludente Renzi, tutto chiacchiere e inchini alla Merkel. Ma peggio: nel Pd, aggiunge Magadi, ha imperversato un figuro come Padoan, anti-keynesiano da giovane (quand’era marxista) e poi anche da ministro, ormai convertito a suon di poltrone – come tanti altri – al neo-feudalesimo ordoliberista che ha materialmente fabbricato la rovina dell’Italia, col prezioso contributo del servizievole centrosinistra.Se la sente, Zingaretti, di affrontare l’operazione-verità? Magaldi la considera l’unica vera chance, per veder tornare in pista il Pd. E’ proprio così difficile, diventare progressisti? Forse a provarci è il sindaco di Milano, Beppe Sala: a patto che non si fermi alle manifestazioni pro-migranti. Magaldi lo invita al convegno del 3 maggio a Milano, in cui il Movimento Roosevelt affronterà un impegnativo confronto con tre giganti: Carlo Rosselli, profetico fautore del socialismo liberale; Olof Palme, visionario artefice del miglior welfare europeo; e Thomas Sankara, rivoluzionario proto-sovranista panafricano. Tre massoni progressisti: il primo assassinato dai fascisti, il secondo dai poteri oscuri della futura Ue e il terzo dall’imperialismo coloniale occidentale. Rosselli e Palme conciliavano socialismo e capitalismo, mentre il comunista Sankara voleva un’Africa libera e autonoma, sostenibile, senza migranti in fuga. Pietre miliari, da cui dovrebbe partire oggi qualsiasi movimento politico progressista. Ci pensi, Zingaretti. E soprattutto, insiste Magaldi, abbia il coraggio di gettare a mare gli ultimi due decenni del finto (e defunto) centrosinistra, che di progressista – nei fatti – non ha mai avuto nulla. Faccia tabula rasa, Zingaretti, e cominci a scrivere una storia nuova, sincera, di cui l’Italia ha disperatamente bisogno.Un primo banco di prova? L’obbrobriosa regionalizzazione della scuola. E’ stata proposta in Lombardia e Veneto, ma non da Salvini: dal governo Gentiloni. «Se ne leggessero il testo – dice Patrizia Scanu, segretaria del Movimento Roosevelt – i padri costituenti si rivolterebbero nella tomba». Motivo: programmi solo locali, gestiti da dirigenti di nomina regionale. Un progetto-vergogna, «in perfetta linea con la “Buona Scuola” di Renzi, a sua volta erede della scuola-azienda delle ministre Moratti e Gelmini». Rischio immediato: scuole di serie B, per formare ragazzi rassegnati a lavori precari, degradanti e sottopagati, con buona pace dell’istruzione pubblica garantita dall’unità nazionale come fabbrica di pari opportunità per tutti. Come la vede, Zingaretti, la faccenda? E soprattutto, andrà oltre le solite ciance sull’Europa? «L’Italia – dice Magaldi – ha una grande possibilità: può esercitare una vera leadership, sia in Europa che nel Mediterraneo: a Bruxelles chiedendo una Costituzione europea finalmente democratica, come quella che sarebbe piaciuta a Olof Palme, e in Africa lanciando una partnership strategica che consenta agli africani di rendersi autonomi, come voleva Sankara». Certo, il Pd resta un partito-zombie: sta a Zingaretti resuscitarlo, se vuole.Povero Nicola Zingaretti: è stato eletto segretario di un partito di zombie. Ce l’ha, un piano per l’Italia? Perché finora non è pervenuto nemmeno un indizio. L’unica cosa che sappiamo è che Zingaretti, almeno, è un leader: non carismatico, ma corretto. Buon presidente della Regione Lazio. Umanamente schietto e leale, diversissimo dal “finto buono” Walter Veltroni e dai suoi troppi epigoni, fino al velenoso Renzi. Meglio del surreale Martina, comunque, e dell’impalpabile Giachetti. Se non altro, Zingaretti è un politico capace anche di vincerle, le maratone. Così almeno lo vede Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, che all’amletico neo-segretario domanda: è sicuro di sapere cosa vuol fare, da grande? Delle due, l’una: o trasforma il Pd in un soggetto progressista, post-keynesiano, o finirà prestissimo come tutte le altre dimenticabili meteore della “ditta”. Se non trova il coraggio della sincerità, insiste Magaldi, Zingaretti sarà travolto, già a partire dalle europee di maggio. «Cari italiani – dovrebbe dire – sappiate che vi abbiamo preso in giro per 25 anni. Ci siamo detti “di sinistra”, ma abbiamo applicato soltanto l’agenda economica del neoliberismo mercantile e finanziario, arrivando allo “Stato minimo” auspicato dai grandi privatizzatori». Come si esce dall’incubo? Riscoprendo Keynes, assicura Magaldi: «Il capitalismo è indispensabile ma va coinugato con lo Stato, in Italia e in Europa. Sarebbe la rivoluzione progressista che cambierebbe tutto: che ne pensa, Zingaretti?».
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Quasi 2 milioni di italiani col Pd, rimasto all’Età della Pietra
Favoloso Pd: dopo Renzi e l’avatar Martina, ecco Zingaretti (il nulla), vittorioso su Giachetti (altro nulla) e sullo stesso Martina (idem). Il nulla è il contenuto politico dei tre alfieri delle primarie 2019, che avrebbero mobilitato 1,7 milioni di italiani: impegnatissimi a discettare, appunto, sul vuoto cosmico che il partito ha prodotto, dopo la bruciante sconfitta dello scorso anno. Non una parola sulle cause della disfatta, che ha inevitabilmente portato a Palazzo Chigi i velleitari gialloverdi, cioè gli “incompetenti” 5 Stelle e il “razzista” Salvini. Non finisce di stupire, la base del Pd: se i dirigenti non rappresentano più una sorpresa per nessuno, avendo ampiamente dato spettacolo di sé in termini di mediocrità assoluta, stupisce la tenacia di militanti ed elettori, probabilmente convogliati verso i gazebo soprattutto grazie alla martellante campagna mediatica contro l’orco leghista, ben orchestrata anche dalla manifestazione oceanica pro-migranti organizzata alla vigilia del 3 marzo dal milanese Sala per contestare i tanti aspetti inaccettabili del decreto-sicurezza. A parte questo, però, il Pd – inteso come corpo politico-sociale – sembra rimasto all’età della pietra, prigioniero di un’altra epoca, ancora ipnotizzato dall’illusione ottica dell’Unione Europea come superpotere illuminato, apolitico e neutrale nonché necessariamente non-italiano, viste le storiche colpe del Belpaese-cicala, gravato dal suo vergognoso debito pubblico.Per il Pd, la storia è ferma al 1992, all’europeismo bancario e tecnocratico di Ciampi, tuttalpiù alla super-bufala ulivista dell’oligarca Prodi, asceso al cielo solo grazie alla guerra psicologica contro l’Uomo Nero. Sono passati 25 anni, e sembra che gli elettori Pd non abbiano ancora capito che il vero pericolo per l’Italia non era Berlusconi, ma i poteri oligarchici eurocratici che proprio nel centrosinistra hanno incessamente reclutato alleati docili e servizievoli, da D’Alema e Renzi, cui affidare lo smantellamento progressivo del welfare, la super-tassazione inferta alle aziende, la disoccupazione-choc e la chemio-economy eseguita dal duo tragico Monti-Fornero, cioè i mercenari che – attraverso Napolitano – hanno deformato la Costituzione, sfigurandola con l’inserimento proditorio del pareggio di bilancio approvato senza fiatare dall’infimo Bersani. Nulla di tutto ciò traspare, nemmeno in lontananza, dall’analisi post-sconfitta esalata a mezza voce dal Pd già renziano. Niente di vagamente paragonabile alle riflessioni prodotte in Francia dal gauchista Mélenchon, o in Gran Bretagna dal laburista Corbyn. La cosiddetta sinistra (nominale) italiana non va oltre Zingaretti, Giachetti e Martina. L’altra notizia è che la disfida, interamente disputata a colpi di sbadigli, ha attratto quasi due milioni di elettori sani di mente.Dov’era, in questi anni, il popolo del Pd? Dove si è informato? Cosa ha letto? Chi ha ascoltato? Non c’è stato un dirigente del partito – non uno – capace di indicare le cause del doloroso divorzio tra il Pd e gli italiani, messi in ginocchio da un’euro-crisi sapientemente pilotata grazie all’occhiuta regia di micidiali strateghi come Mario Draghi. Zero assoluto, dal Pd, sul rapporto con Bruxelles: la recessione è accettata come normalità fisiologica, la sottomissione viene subita come destino (anche quando Germania e Francia annunciano ad Aquisgrana il ritorno persino formale al Sacro Romano Impero). Facile, sparare su Di Maio e Toninelli. Comodo, prendersela con lo sgradevole Salvini. Ma se tornasse a Palazzo Chigi, il Pd cosa farebbe? Probabilmente, le stesse cose che ne hanno causato lo sfratto nel 2018. Cos’è cambiato, nell’ultimo anno? Niente. Basta ascoltare Zingaretti, Martina e Giachetti. I buoni sono all’opposizione perché i cattivi sono al governo. E i cattivi sono al governo perché evidentemente gli italiani sono cretini, oltre che un po’ fascisti e xenofobi. Le parole democrazia, sovranità e trasparenza non dicono niente, allo pseudo-europeismo del Pd, ancora e sempre a disposizione dei neoliberisti, i grandi privatizzatori universali. Pazienza per i nano-dirigenti, usi a obbedir tacendo, ma è decisamente sconcertante constatare come, in quel nulla, ripongano ancora una certa fiducia quasi due milioni di elettori italiani.(Giorgio Cattaneo, “Quasi 2 milioni di italiani con il Pd, il partito superstite che è rimasto all’Età della Pietra”, dal blog del Movimento Roosevelt del 4 marzo 2018).Favoloso Pd: dopo Renzi e l’avatar Martina, ecco Zingaretti (il nulla), vittorioso su Giachetti (altro nulla) e sullo stesso Martina (idem). Il nulla è il contenuto politico dei tre alfieri delle primarie 2019, che avrebbero mobilitato 1,7 milioni di italiani: impegnatissimi a discettare, appunto, sul vuoto cosmico che il partito ha prodotto, dopo la bruciante sconfitta dello scorso anno. Non una parola sulle cause della disfatta, che ha inevitabilmente portato a Palazzo Chigi i velleitari gialloverdi, cioè gli “incompetenti” 5 Stelle e il “razzista” Salvini. Non finisce di stupire, la base del Pd: se i dirigenti non rappresentano più una sorpresa per nessuno, avendo ampiamente dato spettacolo di sé in termini di mediocrità assoluta, stupisce la tenacia di militanti ed elettori, probabilmente convogliati verso i gazebo soprattutto grazie alla martellante campagna mediatica contro l’orco leghista, ben orchestrata anche dalla manifestazione oceanica pro-migranti organizzata alla vigilia del 3 marzo dal milanese Sala per contestare i tanti aspetti inaccettabili del decreto-sicurezza. A parte questo, però, il Pd – inteso come corpo politico-sociale – sembra rimasto all’età della pietra, prigioniero di un’altra epoca, ancora ipnotizzato dall’illusione ottica dell’Unione Europea come superpotere illuminato, apolitico e neutrale nonché necessariamente non-italiano, viste le storiche colpe del Belpaese-cicala, gravato dal suo vergognoso debito pubblico.
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Magaldi: la sinistra ignorante che vorrebbe spegnere Rinaldi
Uso criminoso della televisione: manca solo la formula del famigerato “editto bulgaro” di berlusconiana memoria, all’invettiva di Steven Forti su “Rolling Stone” contro Antonio Maria Rinaldi, per chiedere l’allontanamento dell’economista dalle reti televisive italiane, evidentemente inquinate da un economista non-mainstream, non-neoliberista, estraneo all’autismo del pensiero unico. Tu chiamalo, se vuoi, giornalismo. Nel libro “M, il figlio del secolo”, Antonio Scurati ricorda che Benito Mussolini, direttore socialista de “L’Avanti” prima di diventare Duce, almeno una cosa l’aveva detta giusta: e cioè che «la gran parte dei giornalisti italiani sono dei pennivendoli con la schiena poco dritta». Lo sottolinea Gioele Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, in una video-chat su YouTube con Marco Moiso. Tema: l’ordinaria macelleria giornalistica che trasforma in carne di porco chiunque non canti nel coro – il sovranista Rinaldi e lo stesso Magaldi, definito (comicamente) «scrittore complottista, fissato col pericolo massonico». E per giunta «vittimista», per via della congiura del silenzio che ha oscurato il suo bestseller “Massoni”, pubblicato da Chiarelettere nel 2014 e tuttora in vetta classifiche Ibs. Figurarsi: come farebbero, gli attuali talkshow, a citare un saggio che rivela l’appartenenza supermassonica di personaggi come Monti, Draghi, D’Alema e Napolitano?Nonostante lo sgangherato assalto al promotore del blog “Scenari Economici”, liquidato come «narcisista e caciarone», economista senza prestigio accademico e piccolo opportunista a caccia di poltrone, Magaldi invita lo stesso Steven Forti, e gli analoghi missionari neoliberali asserragliati tra i ranghi dell’ex sinistra, a farsi avanti in modo aperto: perché non intervistare lo stesso Magaldi, per parlare finalmente del suo libro e magari anche del Movimento Roosevelt e del “partito che serve all’Italia”, progetto al quale Antonio Maria Rinaldi si è accostato in modo interlocutorio, «come battitore libero e autonomo pensatore», per prendere nota di quanto si va discutendo? Scoprirebbero, Steven Forti e i suoi sodali, che i problemi del mondo hanno sempre almeno due spiegazioni, in democrazia. Sono le famose due campane, che un tempo i giornalisti si peritavano di ascoltare, non foss’altro che per un elementare rispetto dei loro lettori. Intanto prendano nota, alla redazione di “Rolling Stone”: sono tutti invitati alla London Metropolitan University, il 30 marzo, dove parleranno un bel po’ di economisti post-keynesiani, impegnati a spiegare come mai questa Europa è sempre in crisi, perde i pezzi (Gran Bretagna) ed è diventata una Disunione Europea dove tutti si fanno le scarpe a vicenda. Vuoi vedere che la politica di austerity introdotta dall’Eurozona è una catastrofe, e in ultima analisi si è trasformata in una fabbrica di sovranismi, nazionalisti, populismi e Gilet Gialli?Il mainstream che si trincera dietro il politically correct non perdona a Rinaldi di tifare per i gialloverdi: fa scialo del più convenzionale corredo squadristico a base di insulti (razzismo, xenofobia, fascismo) per infangare Salvini, il nuovo mostro da sbattere in prima pagina, ma si guarda bene dall’interrogarsi sulle ragioni del fenomeno. Pensiero magico: la demonizzazione dell’Uomo Nero a questo serve, a evitare di chiedersi il perché delle cose. Un consiglio? Tornare a essere laici, smettendo i panni del fanatismo religioso. E magari, cessare di considerare l’avversario un nemico da abbattere. In altre parole, converrebbe ragionare. A proposito, aggiunge Magaldi: hanno una proposta, i coristi “di sinistra” come Steven Forti, su come uscire dalla crisi? Sono bravissimi a censurare le idee altrui, e a demolirle in modo unilaterale, senza mai dialogo, quando non riescono più a soffocarle (come nel caso di Rinaldi, spesso ospitato in televisione). Ma ce l’hanno, in tasca, un Piano-B? E se ce l’hanno, perché non ne parlano mai? Non sarebbe ora di cominciare a farlo? «Informo Steven Forti che diversi esponenti di quella che immagino sia la sua area di riferimento, cioè il Pd e LeU, fanno parte del Movimento Roosevelt». Non solo, aggiunge Magaldi: «Alcuni di loro, come Rinaldi, guardano con interesse anche alla prospettiva del “partito che serve all’Italia”, dato che – dalle loro parti – vedono che si va verso il disfacimento».“Rolling Stone” definisce «un gruppetto», la pattuglia di intellettuali, da Nino Galloni a Ilaria Bifarini, aggregati per ora nelle prime riunioni convocate per valutare la possibilità del nuovo soggetto politico, «il cui sviluppo, a partire dal nome, sarà a cura dei costituenti, dato il rispetto che abbiamo per il metodo democratico». Gruppetto? Sui numeri sarà il tempo a dire la sua, perché siamo solo ai preliminari, assicura Magaldi. Che però aggiunge: anche se alla fine non fossimo in tantissimi, «informo Steven forti che un “gruppetto” di massoni riuniti intorno alla Loggia delle Nove Sorelle, alla fine del ‘700, determinò tanto i preparativi per la Rivoluzione Americana, quindi per la Guerra d’Indipendenza, che quelli per la Rivoluzione Francese: talvolta i gruppetti, se ben coesi e agguerriti, fanno le rivoluzioni». Se Steven Forti non afferra il concetto, prosegue Magaldi, forse è perché «non ha grande dimestichezza con lo studio della storia», benché il suo curruculum accademico lo accrediti come esperto in storia contemporanea. Iniste Magadi: «Steven Forti mi sembra carente di letture», se in qualche modo associa la massoneria al cospirazionismo. L’autore di “Massoni”, libro che smonta moltissime tesi complottistiche, cita il filosofo Gian Mario Cazzaniga, che nel saggio “La religione dei moderni” «spiega come la religione dei moderni sia la politica, e spiega anche che la politica, nel senso moderno e contemporaneo, l’hanno creata i proprio massoni».Altre letture consigliate alla redazione di “Rolling Stone”: le opere di un grande sociologo come Jürgen Habermas, «che ha spiegato come lo stesso concetto di opinione pubblica sia nato da ambienti massonici». E cioè: si prenda atto, meglio tardi che mai, che «la massoneria è un soggetto storico importante». Se poi il giovane Steven Forti leggesse pure il saggio di Magaldi, scoprirebbe che negli ultimi decenni un’élite massonica internazionale, reazionaria e neoaristocratica, ha progettatto e gestito la globalizzazione neoliberista che ha privatizzato il pianeta, rottamando i caposaldi del welfare tanto cari alla sinistra, a loro volta “fabbricati” sempre da massoni, ancorché progressisti, come il massimo economista del Novecento, l’inglese John Maynard Keynes, e il connazionale William Beveridge, l’inventore del “welfare system”. Per inciso: il progressista Keynes era iscritto al partito liberale. I laburisti, invece – come i socialisti francesi, i socialdemocratici tedeschi e l’ex Pci italiano – sono stati i più zelanti esecutori, negli ultimi decenni, delle direttive antidemocratiche dell’élite globalista: è stata proprio la sedicente sinistra a obbedire alla peggiore destra economica. In Italia l’ha fatto prima con Prodi e Draghi, poi con il governo Monti: Fiscal Compact votato senza fiatare, così come la legge Fornero sulle pensioni e il pareggio di bilancio inserito proditoriamente nella Costituzione, con lo Stato terremotato dal ricatto dallo spread.Non la si vuole vedere, la realtà? E allora all’intellighenzia dell’ex sinistra non resta che godersi Salvini, dandogli ogni giorno del fascista. Almeno, puntualizza Magaldi, si eviti di scadere nella disinformazione più scorretta, rinfacciando come una colpa – a un uomo come Antonio Maria Rinaldi – la libertà intellettuale di cui gode: avrà diritto o no, di dirsi scontento della manovra economica del governo gialloverde? Proprio non glielo si vuole riconoscere, il diritto di aspettarsi di più dall’esecutivo Conte? Scherno, disprezzo e criminalizzazione di chi non la pensa come te, riassume Magaldi, non fanno parte dell’abc dell’informazione, che può essere anche fortemente critica, ma mai scorretta. I media mainstream sembrano lo specchio della politica italiana, basata su scontri quotidiani dal sapore tribale. Puoi anche farlo cadere, un avversario, ma poi sapresti come agire, al suo posto? Qualcuno ricorda un’idea – una sola – che negli ultimi vent’anni la sedicente sinistra abbia partorito, per migliorare la situazione, mentre passava il tempo a tuonare contro l’orrido Berlusconi – per poi fare persino peggio, una volta a Palazzo Chigi? Il punto è che c’è bisogno di tutti, sembra dire Magaldi. Oggi più che mai, nessuno deve sentirsi escluso. Lo gridano, gli elettori, quando votano per i cosiddetti populisti. Ormai vedono benissimo quant’è infame, la post-democrazia Ue. E’ tanto comodo, ricamare indignati elzeviri sui tweet di Salvini: serve a continuare a non vedere cosa sta succedendo, lassù, dove un pugno di decisori tiene in ostaggio mezzo miliardo di persone, in Europa. Fino a quando?Uso criminoso della televisione: manca solo la formula del famigerato “editto bulgaro” di berlusconiana memoria, all’invettiva di Steven Forti su “Rolling Stone” contro Antonio Maria Rinaldi, per chiederne l’allontanamento dalle reti televisive italiane, evidentemente inquinate da un economista non-mainstream, non-neoliberista, estraneo all’autismo del pensiero unico. Tu chiamalo, se vuoi, giornalismo. Nel libro “M, il figlio del secolo”, Antonio Scurati ricorda che Benito Mussolini, direttore socialista de “L’Avanti” prima di diventare Duce, almeno una cosa l’aveva detta giusta: e cioè che «la gran parte dei giornalisti italiani sono dei pennivendoli con la schiena poco dritta». Lo sottolinea Gioele Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, in una video-chat su YouTube con Marco Moiso. Tema: l’ordinaria macelleria giornalistica che trasforma in carne di porco chiunque non canti nel coro – il sovranista Rinaldi e lo stesso Magaldi, definito (comicamente) «scrittore complottista, fissato col pericolo massonico». E per giunta «vittimista», per via della congiura del silenzio che ha oscurato il suo bestseller “Massoni”, pubblicato da Chiarelettere nel 2014 e tuttora in vetta classifiche Ibs. Figurarsi: come farebbero, gli attuali talkshow, a citare un saggio che rivela l’identità supermassonica di personaggi come Monti, Draghi, D’Alema e Napolitano?