Archivio del Tag ‘Paolo Franceschetti’
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Border Nights, dove sono di casa le domande più scomode
«Se non ci foste, bisognerebbe inventarvi». Che faccia farebbero, al Tg1, se ricevessero un messaggio simile? Qualcuno ha mai scritto, a Mentana, qualcosa come «grazie di esistere»? Quello, semmai, è il tenore delle comunicazioni rivolte, in modo sistematico, a “Border Nights”, trasmissione web-radio in live streaming su “Web Radio Network” ogni martedì sera da ormai otto anni. E’ seguita da migliaia di appassionati ascoltatori, fedelissimi di lunga data o fan più recenti, che poi scrivono: «M’è capitato una volta di sentirvi e, da allora, non mi perdo una puntata». Fabio Frabetti, il giovane conduttore – affiancato da Paolo Franceschetti per la consueta mezz’ora “a ruota libera”, spesso condita di autorionia esilarante – si avvale anche delle interviste di Stefania Nicoletti su temi di scottante attualità, mentre una vera signora della radiofonia, Barbara Marchand (Radio Montecarlo, RadioRai), ha licenza di curiosare tra libri e film, giganti del pensiero e follie contemporanee. Nell’assortimento della “notte ai confini” ci sono anche lo stile genuinamente complottistico del “Maestro di Dietrologia”, le divagazioni esoteriche di Federica Francesconi, i singolari profili astrologici con i quali Germana Accorsi tratteggia politici, star e protagonisti della cronaca. Cuore di ogni puntata: grandi ospiti, presenti in diretta, coi i quali gli ascoltatori possono interagire in tempo reale inviando messaggi, via email e in chat.Tra le ultime voci intervenute, quelle di Giovanni Fasanella (il caso Moro) e Gioele Magaldi (elezioni), lo scomodo reporter Gianni Lannes, il regista Massimo Mazzucco (“American Moon”, l’uomo sulla Luna secondo Washington), che si aggiungono a quelle dei vari Giulietto Chiesa, Marcello Foa, Claudio Messora di “ByoBlu”. Geopolitica e temi spinosi, spesso dribblati dal mainstream, che invece a “Border Nights” trovano piena cittadinanza: dalle strane morti per doping ai misteriosi delitti rituali, passando per le scie chimiche e i gialli irrisolti della storia italiana. Vicende come il delitto di Pasolini e la morte di Rino Gaetano ricostruita dall’avvocato Bruno Mautone, fenomeni come il satanismo e la saga horror del Mostro di Firenze (secondo Carmelo Carlizzi e il pm perugino Giuliano Mignini). “Verità cercasi”, fino alla recente sentenza che condanna il ministero della difesa per il silenzio sul sequestro di Davide Cervia, specialista elettronico della marina militare italiana rapito sulla porta di casa e sparito nel nulla 28 anni fa. Dalla tragedia di Ustica a quella della Costa Concordia, passando per gli attentati firmati Isis, si cerca sempre una lettura diversa – anche simbolica – sulle tracce di possibili indizi.“Border Nights” è anche una finestra sui “saperi altri”, come la spettacolare lettura simbologica offerta da Michele Proclamato, tra Cartesio e Arcimboldo, Vitruvio e i “cerchi nel grano”. E poi la lettura “spirituale” proposta da Fausto Carotenuto, la lezione di Steiner secondo Piero Cammerinesi, le vie “alternative” alla conoscenza (Ambra Guerrucci, Stefano Mayorca, Manuela Pompas) e la medicina reinterpretata da Gabriella Mereu (approccio psicologico) e Marcello Pamio (vaccini). C’è davvero di tutto, su “Border Nights”: la Bibbia riletta da Mauro Biglino, la scienza divenuta ultra-dogmatica per Enzo Pennetta, la “dittatura” tecnologica del mondo contemporaneo senza più diritti (Ugo Mattei). Una giovane ricercatrice come Enrica Perucchietti denuncia le menzogne orwelliane del mainstream, fra terrorismo “false flag” e psicosi “fake news”, mentre lo storico Enrico Montermini svela il rapporto tra Mussolini e i circoli massonici internazionali che favorirono l’avvento del fascismo. Lara Pavanetto illumina altre pagine inesplorate di storia, mentre Varo Venturi, Roberto Pinotti, Corrado Malanga e Massimo Barbetta si addentrano – in modi diversissimi – nel mondo dell’ufologia, cioè nell’universo “rivelato da Giordano Bruno”, come spiega l’astrofisica Giuliana Conforto.Sempre tra le stelle, il celebre astrologo Marco Pesatori si muove in modo del tutto inedito, quasi quanto il poetico Silvano Agosti nella vita quotidiana, sognando la sua “Kirghisia”, il mondo di armonia al quale abbiamo voltato le spalle. Last but not least, naturalmente, Gianfranco Carpeoro: avvocato e scrittore nonché colonna portante di “Border Nights”, il simbologo e gran maestro, cultore dei Rosacroce, offre spunti spiazzanti e memorabili la domenica mattina nella rubrica “Carpeoro Racconta”, in web-streaming su YouTube, appuntamento imperdibile per i fan della “notte ai confini”. «Viviamo, senza saperlo, immersi in un pensiero di tipo magico: tendiamo a chiederci sempre e solo “come” fare qualcosa, mai “perché”». La tesi di Carpeoro si traduce in una sorta di manifesto, che “Border Nights” fa proprio: offre spazi generosi a voci spesso isolate, autori poco noti, denunce inascoltate. Trasmissioni mai banali, sempre stimolanti – non è un caso, il “grazie di esistere” che la redazione si vede così spesso recapitare. E’ un nuovo modo di fare informazione: aperto e leale, rispettando e coinvolgendo il pubblico. Beninteso: la trasmissione si regge sul solo volontariato. Ai “follower” più affezionati, ora si propone una sorta di libera sottoscrizione, mediante crowdfunding, su “Produzioni dal basso”. «Ma in ogni caso – assicura Frabetti – noi continueremo come prima, offrendo il nostro lavoro settimanale gratuitamente, a tutti».«Se non ci foste, bisognerebbe inventarvi». Che faccia farebbero, al Tg1, se ricevessero un messaggio simile? Qualcuno ha mai scritto, a Mentana, qualcosa come «grazie di esistere»? Quello, semmai, è il tenore delle comunicazioni rivolte, in modo sistematico, a “Border Nights”, trasmissione web-radio in live streaming su “Web Radio Network” ogni martedì sera da ormai otto anni. E’ seguita da migliaia di appassionati ascoltatori, fedelissimi di lunga data o fan più recenti, che poi scrivono: «M’è capitato una volta di sentirvi e, da allora, non mi perdo una puntata». Fabio Frabetti, il giovane conduttore – affiancato da Paolo Franceschetti per la consueta mezz’ora “a ruota libera”, spesso condita di autorionia esilarante – si avvale anche delle interviste di Stefania Nicoletti su temi di scottante attualità, mentre una vera signora della radiofonia, Barbara Marchand (Radio Montecarlo, RadioRai), ha licenza di curiosare tra libri e film, giganti del pensiero e follie contemporanee. Nell’assortimento della “notte ai confini” ci sono anche lo stile genuinamente complottistico del “Maestro di Dietrologia”, le divagazioni esoteriche di Federica Francesconi, i singolari profili astrologici con i quali Germana Accorsi tratteggia politici, star e protagonisti della cronaca. Cuore di ogni puntata: grandi ospiti, presenti in diretta, coi i quali gli ascoltatori possono interagire in tempo reale inviando messaggi, via email e in chat.
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Che succede dopo le elezioni? Niente, e riderà la solita élite
Mi domandano spesso in questi giorni cosa succederà secondo me dopo le elezioni. La risposta è semplice: nulla. Non succederà nulla di assolutamente diverso rispetto a ciò che è successo a partire dal 1945 ad oggi: nessun partito (con l’unica eccezione del primo governo Dc scaturito dalle elezioni del 1948) sarà mai in grado di raggiungere una maggioranza, con la conseguenza che occorrerà formare una coalizione, oppure nominare un ennesimo governo tecnico, non collegato in modo diretto ai partiti eletti (come è accaduto per tutti i recenti governi: Gentiloni, Renzi, Letta, Monti). Per questo motivo ogni gruppo politico in questa campagna elettorale sta promettendo mari e monti, dal reddito di cittadinanza, all’abbassamento delle tasse e via discorrendo. Infatti ognuno sa che, dopo il voto, sarà impossibile mantenere le promesse perché dovrà allearsi con qualche altra forza, e quindi inevitabilmente giungere a compromessi che impediranno di effettuare riforme decenti. Basti pensare, tra tutte le assurdità politiche che si sono profilate all’orizzonte in questa campagna elettorale, all’affermazione di Di Maio che “non esclude un’alleanza col Pd”.La necessità di formare alleanze improbabili è stata quindi da sempre la caratteristica della politica italiana. Le cose non cambiarono neanche con il passaggio dalla prima alla seconda repubblica; nonostante fosse stato riformato il sistema elettorale da proporzionale a maggioritario, la verità è che la riforma elettorale servì unicamente a rendere meno ancorati al territorio i vari candidati, e a restringere le possibilità di scelta dell’elettore. Per il resto, la composizione politica del Parlamento rimase più o meno identica alla precedente, nell’impossibilità di formare una vera maggioranza, e quindi con alleanze che costringevano poi a non portare a termine nessuna vera riforma (eclatante fu la rottura del primo governo Berlusconi, ove quest’ultimo dichiarò che mai più avrebbe voluto avere a che fare con Bossi, mentre Bossi dal canto suo dichiarò “mai più con la porcilaia fascista”; e puntualmente dopo pochi mesi si riallearono di nuovo, nell’impossibilità di formare una maggioranza di governo).Le ultime riforme elettorali, dal Porcellum o al Rosatellum, non hanno avuto altri effetti se non di impedire agli elettori di scegliere i propri candidati, e complicare il meccanismo elettorale in modo da rendere possibili brogli e impedire ai partiti di minoranza di avere una loro rappresentanza, sia pure minima (questo fenomeno però non è nuovo; la prima legge elettorale per taroccare i risultati, infatti, fu approvata dalla Dc ai tempi della prima legislatura, tanto che tale legge fu denominata, appunto “legge-truffa”). Ma la più grossa assurdità di queste elezioni è che il Parlamento attuale, sorto a seguito di una legge dichiarata incostituzionale dalla stessa Corte Costituzionale, è da considerarsi giuridicamente illegittimo. Questo Parlamento illegittimo ha modificato a sua volta la legge elettorale (che quindi, per la proprietà transitiva, è da considerarsi anch’essa illegittima, come qualsiasi legge sia stata votata da questo Parlamento) e quindi avremo un Parlamento, quale che esso sia, a sua volta illegittimo. Un Parlamento instabile è infatti ciò che è necessario a chi detiene veramente il potere (cioè le élite economico-finanziarie internazionali) per garantirsi quell’instabilità politica, necessaria per continuare a perpetuare il proprio piano internazionale di globalizzazione del mondo e di accentramento di tutti i poteri politici e finanziari in un vertice unico.(Paolo Franceschetti, “Cosa succederà dopo le prossime elezioni?”, dal blog “Petali di Loto” del 28 febbraio 2018).Mi domandano spesso in questi giorni cosa succederà secondo me dopo le elezioni. La risposta è semplice: nulla. Non succederà nulla di assolutamente diverso rispetto a ciò che è successo a partire dal 1945 ad oggi: nessun partito (con l’unica eccezione del primo governo Dc scaturito dalle elezioni del 1948) sarà mai in grado di raggiungere una maggioranza, con la conseguenza che occorrerà formare una coalizione, oppure nominare un ennesimo governo tecnico, non collegato in modo diretto ai partiti eletti (come è accaduto per tutti i recenti governi: Gentiloni, Renzi, Letta, Monti). Per questo motivo ogni gruppo politico in questa campagna elettorale sta promettendo mari e monti, dal reddito di cittadinanza, all’abbassamento delle tasse e via discorrendo. Infatti ognuno sa che, dopo il voto, sarà impossibile mantenere le promesse perché dovrà allearsi con qualche altra forza, e quindi inevitabilmente giungere a compromessi che impediranno di effettuare riforme decenti. Basti pensare, tra tutte le assurdità politiche che si sono profilate all’orizzonte in questa campagna elettorale, all’affermazione di Di Maio che “non esclude un’alleanza col Pd”.
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Cliniche della morte: false diagnosi, per testimoni scomodi
Incidenti stradali, rapine finite male, pallottole vaganti. Oppure decessi archiviati sotto la voce “suicidio”. O ancora: infarti fulminei e complicazioni post-operatorie. Ovvero: “Come uccidere un uomo senza lasciare traccia”. Fino alla perversione più inimmaginabile: medici che uccidono su commissione, all’interno di “cliniche della morte”. Spesso, in questo modo, spariscono testimoni-chiave: poco prima di essere ascoltati dai Pm o prima dell’audizione a qualche commissione parlamentare d’inchiesta. «Il risultato di queste morti improvvise è sempre stata la mancata individuazione di mandanti e autori dei vari delitti o stragi», scrive Paolo Franceschetti. Non si tratta di fantasie: ne parla anche Paolo Muratori nella sua “Enciclopedia dello spionaggio”, pubblicata nel ‘93 dalle Edizioni Attualità del Parlamento (“Servizi segreti, spie, terroristi e dintorni”, prefazione di Flaminio Piccoli e postfazione di Alberto Fumi). «In alcuni casi i lettori sono sembrati un po’ scettici quando abbiamo avanzato dubbi su alcune morti, soprattutto quando il referto autoptico confermava magari l’infarto o il cancro», premette Franceschetti, avvocato per molti anni e docente di materie giuridiche. Già legale delle “Bestie di Satana” Franceschetti ha indagato su alcuni tra i più oscuri misteri italiani, dal Mostro di Firenze alla strage di Erba, dal giallo di Cogne a quello di Avetrana, passando per l’omicidio di Meredith Kercher, la ragazza inglese assassinata a Perugia, e quello di Yara Gambirasio. Delitti rituali?E’ la tesi sviluppata da Franceschetti, attraverso anni di riscontri e accurate analisi: «Spesso gli investigatori non prendono neppure in esame la pista esoterica, perché non ne conoscono il linguaggio». Ovvero: «Esistono circoli occultistici che attribuiscono un valore magico a determinati delitti, che infatti sono disseminati di indizi fortemente simbolici». Spesso, secondo Franceschetti, gli inquirenti vengono depistati «da qualcuno che sta al di sopra di loro, nelle istituzioni, e di fatto “copre” gli autori di certi delitti». Magari facendo anche sparire i testimoni? Nella sua enciclopedia, Muratori – allora presidente dell’Ircs, Istituto Ricerche Comunicazioni Sociali – spiega come si può uccidere una persona facendo credere che sia deceduta per cause naturali. «E’ appena il caso di sottolineare come i metodi elencati siano stati resi pubblici nel 1993 e quindi, con buona probabilità, già all’epoca superati da tecniche molto più sofisticate e ancora sconosciute (altrimenti non li avrebbero pubblicati)», premette Franceschetti, sul blog “Petali di Loto”. Esistono killer che non sparano e non spargono sangue: utilizzano la chimica. Per esempio l’acido cianidrico, comunemente detto acido prussico, usato nell’industria come innocuo disinfettante gassoso: «Sostanza letale ad effetto rapido e sicuro», viene usata «da agenti dei servizi segreti militari per assassinare i nemici».Poi c’è l’acido ossalico: impiegato nell’analisi chimica, come sbiancante nell’industria della stampa e nella produzione di tinture, detersivi, carta e gomma. «Anche questo usato come sostanza letale da agenti di certi servizi segreti militari per assassinare i nemici», scrive Muratori nel suo trattato enciclopedico. Non mancano le “cellule cancerogene vive”, somministrate «con iniezioni» da agenti di alcuni servizi militari per assassinare avversari e agenti nemici. «Il reperimento delle cellule cancerogene vive avviene, clandestinamente, nelle facoltà universitarie di medicina e in certi laboratori che le tengono di scorta per gli scienziati impegnati nella ricerca sulla cura del cancro», scrive Muratori. «Se una persona muore di cancro, come sospettare che sia stata uccisa?». E’ invece chiamata “cianuro” «un’arma di alluminio, con silenziatore, azionata da una pila da 1,5 volt: spara proiettili formati da piccole fiale, contenenti un veleno a base di cianuro che, dopo 5 minuti, non lascia alcuna traccia nell’organismo umano». E’ formata da tre cilindri, l’uno dentro l’altro: «Il primo cilindro contiene una molla e un pistone. La molla mossa da una leva spinge il pistone nel secondo cilindro. A quel momento la fialetta contenente il liquido si spezza ed il veleno è spruzzato verso il volto del nemico».La morte per “cianuro” sopravviene in pochi istanti. E quando il medico effettuarà l’autopsia, non potrà fare altro che constatare l’arresto del cuore: scontata la diagnosi, “crisi cardiaca”. Infine, il tallio: «Sostanza priva di sapore, ad effetto lento sul sistema nervoso, viene usata dalle spie per avvelenare gli agenti nemici e i traditori». Ma ancora non basta. Se queste tecniche sono state rese note nel 1993 e, quindi venivano probabilmente utilizzate nei decenni precedenti, c’è un’altra tecnica, ancora più incredibile: diagnosi infauste, ma false, per convincere la vittima di essere “condannata” da un tumore. Facile, poi, ucciderla, inserendo veleni nei liquidi chemioterapici. Una prassi allucinante, che Franceschetti ha scoperto negli atti della commissione parlamentare d’inchiesta su terrorismo e stragi, presieduta dal senatore Pci-Pds Giovanni Pellegrino. A parlare, nel 2000, non è un teste qualsiasi: si tratta dell’ex questore Arrigo Molinari, che poi sarà ucciso nella notte del 27 settembre 2005 con dieci coltellate infertegli nella sua casa di Andora (Savona). Molinari, ricorda “Repubblica”, era stato vicequestore vicario di Genova e questore di Nuoro. «Coinvolto nello scandalo della P2, era stato sospeso dal servizio e poi reintegrato. Affermava con orgoglio di aver fatto parte di Gladio».Arrigo Molinari si era anche occupato della strana morte di Luigi Tenco: commissario a Sanremo, quel giorno del ‘67 fu il primo a entrare nella stanza del cantante. «Su tutto quello che è accaduto nelle ore successive alla scoperta del suo cadavere – disse – non è stata ancora scritta tutta la verità». Da avvocato, aggiunge “Repubblica”, negli ultimi anni Molinari si era impegnato contro il fenomeno dell’anatocismo bancario: «In seguito a un suo esposto per conto di un cliente, la procura della Repubblica di Imperia aveva aperto un’inchiesta per usura aggravata indagando sei ex direttori della filiale di Imperia di un istituto di credito che si sono succeduti dal 1982 al 2000». La morte, scrive Franceschetti, lo ha colto «proprio pochi giorni prima della prima udienza della causa per signoraggio che aveva intentato contro la Banca d’Italia». Più volte nei mesi precedenti alla morte, Molinari aveva denunciato «tentativi, da parte di “sconosciuti”, di inseguimenti e pedinamenti nei suoi confronti e dei suoi familiari». In più, «fu soggetto di vari tentativi di sabotaggio da parte di non meglio identificati “individui” nei confronti della sua autovettura: cercarono di manomettere i freni». Un uomo nel mirino, dunque, quello assassinato in Liguria: una coltellata l’ha colpita al collo lateralmente, ricorda “Repubblica”, «come se si volesse sgozzarlo».Cinque anni prima, il 18 ottobre del 2000, Molinari risponde alle domande della commissione stragi, giunta alla sua 74esima seduta. E racconta: «Prima del 1978, a San Martino o nei pressi di San Martino, venne istituito un centro diagnostico (che adesso è presente in tutte le città d’Italia, in tutti gli ospedali), il cosiddetto Tac. Il primo di questi impianti ad essere installato in Italia. Ad installare questo impianto fu fittiziamente Rosati, che aveva la gestione di questa Tac. Ma in realtà la Tac era una struttura della P2 che doveva servire…». Pellegrino lo interrompe: «Mi scusi, avvocato Molinari: lei sta parlando della “tomografia assiale computerizzata”, cioè un modo di indagine radiografica. La P2 quindi importava per prima questo tipo di macchinario?». Molinari conferma: «Come la P2 frequentava la pellicceria di Pavia “Annabella”, gestiva anche questa struttura, perché doveva utilizzarla, non (come ha ritenuto la magistratura) per compiere truffe alla Regione, ma per avere uno strumento, e avere in mano tutti i medici di San Martino e d’Italia che dovevano servirsi di esso quando avevano dei malati da curare».Non è tutto: «Quando capitava qualche politico o qualcuno che volevano disturbare o molestare, o che sapevano che stava poco bene, effettuavano anche una diagnosi falsa, dicendo che aveva un tumore. I malati poi, magari, si recavano in Inghilterra e scoprivano che il tumore non esisteva. Per cui questa Tac era una struttura della P2, non di Rosati; lo si sapeva, lo sapevano praticamente tutti. La P2 doveva impadronirsi della presidenza della facoltà di medicina; al riguardo c’è una mia relazione». Secondo le dichiarazioni di Molinari, riassume Franceschetti, la Loggia P2, nel 1978, grazie alla complicità di medici “fratelli”, usava le strumentazioni ospedaliere «per diagnosticare falsi tumori a persone “scomode”». Dopo, «eliminarli doveva essere facile, avvelenandoli con iniezioni che venivano fatte passare per cura. Geniale». Ma la cosa più strana, per Franceschetti, è stata la reazione della commissione a una dichiarazione così atroce: nessuna. «Se scaricate l’audizione completa, che è disponibile sul web, potrete notare come la dichiarazione di Molinari non abbia fatto sobbalzare nessuno, e come la commissione abbia preferito proseguire con altro discorso. O erano molto distratti, o non hanno capito la gravità di quanto veniva affermato, o, probabilmente, la cosa era già nota».Certo, questa tecnica richiede tempo: quindi, se il personaggio scomodo deve essere eliminato velocemente, si può sempre ricorrere ai metodi “tradizionali” elencati nell’encliclopedia di Muratori. E la mente, aggiunge Franceschetti, non può che tornare al generale dei carabinieri Giorgio Manes, morto per “arresto cardiaco” pochi minuti prima di deporre davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sullo scandalo del Sifar – Piano Solo. O ancora al colonnello Umberto Bonaventura, dirigente del Sismi (controspionaggio, terrorismo internazionale e criminalità organizzata transnazionale), «un personaggio-chiave nel caso del dossier Mitrokhin: per primo aveva materialmente ricevuto il dossier, quindi più di altri poteva attestarne l’autenticità». Bonaventura? Morto anche lui “per infarto” «pochi giorni prima della sua audizione davanti alla commissione parlamentare chiamata ad indagare sul dossier». Franceschetti ricorda anche il colonnello Stefano Giovannone, «iscritto ai Cavalieri di Malta». Capocentro del Sismi a Beirut dal 1972 al 1981, poi «arrestato nel corso dell’indagine per il traffico di armi tra Olp e Br», è deceduto “per morte naturale” mentre era agli arresti domiciliari.Nella lista delle morti teoricamente sospette, Franceschetti include anche quella dell’ingegner Giorgio Mazzini, capo dei vigili del fuoco di Torino, morto nel palazzo di giustizia «dove si era recato per incontrare i magistrati che si occupavano del rogo alla ThyssenKrupp». Certo, ammette Franceschetti, i sistemi di eliminazione qui riportati sono vecchi di decenni: «Oggi la scienza e la tecnica hanno fatto passi da gigante in tutti i sensi: anche in quelli, purtroppo, deputati ad uccidere un uomo senza lasciare traccia». Come regolarsi? Coltivare il sospetto è più che lecito, sostiene il giurista: «Quando le morti sono troppo tempestive, qualche domanda in più ce la si deve poter porre, senza per forza essere immediatamente tacciati per dietrologi». Quanto alla magistratura, «farebbe bene ad indagare un po’ più a fondo, senza archiviare troppo velocemente una morte solo perché sul referto autoptico c’è scritto: “cause naturali”». Magari si tratta di testimoni che potrebbero svelare retroscena imbarazzanti, per il potere. Per questo, scrive Muratori nella sua enciclopedia, non restano mai senza lavoro quei killer invisibili, così abili nell’arte di non lasciare tracce.Incidenti stradali, rapine finite male, pallottole vaganti. Oppure decessi archiviati sotto la voce “suicidio”. O ancora: infarti fulminei e complicazioni post-operatorie. Ovvero: “Come uccidere un uomo senza lasciare traccia”. Fino alla perversione più inimmaginabile: medici che uccidono su commissione, all’interno di “cliniche della morte”. Spesso, in questo modo, spariscono testimoni-chiave: poco prima di essere ascoltati dai Pm o prima dell’audizione a qualche commissione parlamentare d’inchiesta. «Il risultato di queste morti improvvise è sempre stata la mancata individuazione di mandanti e autori dei vari delitti o stragi», scrive Solange Manfredi. Non si tratta di fantasie: ne parla anche Paolo Muratori nella sua “Enciclopedia dello spionaggio”, pubblicata nel ‘93 dalle Edizioni Attualità del Parlamento (“Servizi segreti, spie, terroristi e dintorni”, prefazione di Flaminio Piccoli e postfazione di Alberto Fumi). «In alcuni casi i lettori sono sembrati un po’ scettici quando abbiamo avanzato dubbi su alcune morti, soprattutto quando il referto autoptico confermava magari l’infarto o il cancro», premette Manfredi sul sito di Paolo Franceschetti, avvocato per molti anni e docente di materie giuridiche. Già legale delle “Bestie di Satana” Franceschetti ha indagato su alcuni tra i più oscuri misteri italiani, dal Mostro di Firenze alla strage di Erba, dal giallo di Cogne a quello di Avetrana, passando per l’omicidio di Meredith Kercher, la ragazza inglese assassinata a Perugia, e quello di Yara Gambirasio. Delitti rituali?
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Mafia nigeriana? Gli 007: è solo politica, xenofobia elettorale
Se la prenderanno coi migranti, perché “conviene”: serve a sfogare su falsi bersagli la rabbia di strati sociali sempre più vasti, colpiti dalla crisi economica. Parola dei servizi segreti italiani: previsione datata 2016. Lo ricorda Stefania Nicoletti, sul blog “Petali di Loto”, a proposito dell’atroce fine di Pamela Mastropietro, omicidio rituale subito trasformato in caso politico. L’impresa di Luca Traini, che a Macerata ha sparato su migranti africani, «ha innescato una vera e propria campagna di odio, basata su assunti completamente falsi». Il più assurdo? «Quello che vede tra i protagonisti del fatto la cosiddetta mafia nigeriana», su cui i media si sono gettati: un’organizzazione crimimale «addirittura più potente della mafia cinese», stando a un noto criminologo. Immediata l’eco sui media, con pagine su vudù e cannibalismo. «La questione è stata cavalcata da una parte della destra, ed è quindi diventata l’occasione per farne un cavallo di battaglia elettorale». Peccato che non esista nessuna “mafia nigeriana”, stando al codice penale: l’associazione è di tipo mafioso – recita l’articolo 416 bis – quando chi ne fa parte «si avvale della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti».E’ mafia, dice il codice, se ostacola il libero esercizio del voto, condizioando le elezioni. E’ mafia se è armata, se dispone di arsenali ed esplosivi. E’ mafia «se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti». Sintetizzando, dice Stefania Nicoletti, per poter parlare di “mafia” occorrono vari requisiti, tra cui il controllo del territorio, delle attività economiche, degli appalti e dei servizi pubblici: «Non risulta che la criminalità nigeriana sia infiltrata negli appalti o nell’economia italiana». Controllo del voto e quindi della politica? «Non risulta da inchieste, giornalistiche o giudiziarie: nessun controllo della criminalità nigeriana sulla nostra politica». Armi o esplosivi? «Anche su questo punto, non risulta che la “mafia nigeriana” disponga di questi arsenali da far tremare i polsi alla società italiana». Più in generale, per parlare di mafia «occorre un controllo capillare del territorio, con il potere di condizionare la politica, la magistratura e la società civile; tutte caratteristiche che, per quanto riguarda la criminalità nigeriana, non ci risultano».«Sorvoliamo poi sull’assurdità dell’affermazione che la mafia nigeriana sarebbe più potente di quella cinese», aggiunge Nicoletti: «Ricordiamo che la Cina ha acquistato parte della Pirelli, parte della Banca d’Italia, parte delle aziende che producono il Chianti, il Milan, ha acquisito partecipazioni in Eni, Generali, Telecom». Il peso delle Triadi, poi, è fuori discussione: «La mafia cinese in realtà è la più potente del mondo, perché ha un’origine millenaria, e si avvale anche di poteri esoterici, psichici e materiali, sconosciuti anche all’esoterismo occidentale». La criminalità nigeriana, tutt’al più, «gestisce un traffico di prostitute, sotto il controllo delle nostre mafie, che devono dare l’assenso per permettere ai nigeriani di operare. E le nostre mafie, lo sappiamo da tempo, viaggiano a braccetto con la politica». In realtà, rileva Stefania Nicoletti, lo scontro sociale (in funzione elettorale) tra immigrati e società civile, era stato previsto in un rapporto dei servizi segreti, che lo avevano preannunciato da tempo. Il testo della relazione del Sisr è disponibile in rete. E parla da solo: l’emergenza migratoria «è ritenuta tra i temi più remunerativi in termini di visibilità e consensi». Infatti, annota la fonte di intelligence, la questione migranti è sempre più centrale «nelle strategie politiche delle principali organizzazioni».I partiti, «nel tentativo di cavalcare in modo strumentale il fenomeno, facendo leva sul malessere della popolazione maggiormente colpita dalla congiuntura economica e dalla contrazione del welfare», hanno ormai «sviluppato un’articolata campagna propagandistica e contestativa (manifestazioni, presidi, attacchinaggi, flash mob) contro migranti e strutture pubbliche e private destinate all’accoglienza, influenzando indirettamente anche la costituzione di “comitati cittadini” di protesta”». In generale, continua la fonte governativa, «il diffondersi in ambito europeo di istanze populiste e nazionaliste, nonché di sempre più estesi timori ed insofferenze verso la presenza extracomunitaria, tende ad essere percepito tra i gruppi della destra radicale come un’opportunità per accrescere il proprio spazio politico, determinando pertanto un incremento della correlata attività di mobilitazione». Una previsione precisa: «Continueranno a verificarsi episodi di contrapposizione (provocazioni, aggressioni e danneggiamenti di sedi) con frange dell’estrema sinistra, per effetto sia della mobilitazione concorrenziale su tematiche sociali, da parte di entrambi gli schieramenti, sia delle visioni contrapposte in tema di immigrazione». E poi: tanto baccano sulla “mafia nigeriana” e sugli “omicidi rituali vudù” – chiosa Stefania Nicoletti «e mai un accenno, nei vari media mainstream, ai delitti rituali nostrani (quelli sì, diffusi e comuni)». Di colpo, i giornali scoprono che i delitti rituali esistono? Certo: ma solo quelli nigeriani.Se la prenderanno coi migranti, perché “conviene”: serve a sfogare su falsi bersagli la rabbia di strati sociali sempre più vasti, colpiti dalla crisi economica. Parola dei servizi segreti italiani: previsione datata 2016. Lo ricorda Paolo Franceschetti, sul blog “Petali di Loto”, a proposito dell’atroce fine di Pamela Mastropietro, omicidio rituale subito trasformato in caso politico. L’impresa di Luca Traini, che a Macerata ha sparato su migranti africani, «ha innescato una vera e propria campagna di odio, basata su assunti completamente falsi». Il più assurdo? «Quello che vede tra i protagonisti del fatto la cosiddetta mafia nigeriana», su cui i media si sono gettati: un’organizzazione criminale «addirittura più potente della mafia cinese», stando a un noto criminologo. Immediata l’eco sui media, con pagine su vudù e cannibalismo. «La questione è stata cavalcata da una parte della destra, ed è quindi diventata l’occasione per farne un cavallo di battaglia elettorale». Peccato che non esista nessuna “mafia nigeriana”, stando al codice penale: l’associazione è di tipo mafioso – recita l’articolo 416 bis – quando chi ne fa parte «si avvale della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti».
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Pantani ucciso dai boss del doping che lanciarono Armstrong?
Vuoi vedere che Pantani è stato distrutto e poi eliminato anche per evitare che facesse ombra a Lance Armstrong, il super-campione (artificiale) vicino ai Bush? Doping, ciclismo e morte: secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’industria segreta del doping usa i ciclisti come cavie per sperimentare nuove, micidiali droghe, destinate a soldati e guerriglieri: un business colossale, realizzato con la copertura di case farmaceutiche e gestito da poteri “supermassonici” pronti a eliminare fisicamente chiunque osi ribellarsi. Come Pantani, per esempio. La sua fine? Un monito, per qualsiasi altro ciclista che avesse provato a rifiutare la siringa. Supermassoni reazionari i Bush, “padrini” di Armstrong. Esoteristi, probabilmente, anche i killer di Pantani: lo afferma Lara Pavanetto, analizzando lo strano messaggio “alchemico” rinvenuto nella stanza in cui il campione romagnolo morì. Per Paolo Franceschetti, avvocato per lunghi anni, quel delitto è “firmato” Rosa Rossa, potente associazione occultistica all’origine di svariati crimini eccellenti, come quello del Mostro di Firenze: il delitto rituale come pratica “magica”, e il clamore mediatico come utile mezzo per spaventare l’opinione pubblica, rendendola più docile verso l’autorità costituita. Il ribelle Pantani? Andava puntito e infangato con la pena del contrappasso. Hai denunciato il doping? Bene, morirai disonorato: spacciato per cocainomane.Sono in tanti, a livello internazionale, ad aver ormai capito che il delitto Pantani era a doppio fondo. Lo sostiene la Pavanetto, autrice di originali ricerche storiche. Sul suo blog cita due giornalisti: il francese Pierre Ballester, già inviato de “L’Equipe”, e l’inglese David Walsh, del “Sunday Times”. Nel loro libro “L.A. Confidential, i segreti di Lance Armstrong”, avanzavano già nel 2004 pesanti sospetti sulle sei vittorie consecutive di Armstrong al Tour, dal 1999 al 2004, dopo il primo campionato del mondo vinto nel ‘92. Successi strabilianti, quelli del Tour, che avevano sollevato pesanti dubbi, dopo la gravissima malattia che aveva tolto Armstrong dalle corse per un paio d’anni, dalla fine del ‘96 a metà del ‘98. Tumore: asportazione di un testicolo, intervento chirurgico su gravi metastasi ai polmoni e al cervello, pesantissime cure chemioterapiche. Vengono in mente le parole del Pirata, citate nel libro del giornalista francese Philippe Brunel, “Gli ultimi giorni di Marco Pantani” (Bur, 2008): «Non hai fatto il corridore? Tu lo sai cosa vuol dire scalare una montagna, correre sotto il caldo. Credi davvero che si possa vincere il Tour dopo aver battuto il cancro?». Con il loro libro, annota Pavanetto, Ballester e Walsh avevano anticipato un’inchiesta pubblicata nel 2001 dallo stesso Walsh sul “Sunday Times”, dal titolo “Suspicion”. Il giornalista era partito dalla denuncia di un ex corridore junior, Greg Strock: secondo i suoi allenatori, Armstrong «aveva valori biologici eccezionali che non si trovavano in Usa dai tempi di Lemond».Nel 2000, ricorda Lara Pavenetto, Strock si era laureato in medicina. Grazie alle competenze acquisite, aveva denunciato la Federazione americana per averlo sottoposto a un doping sistematico che lo aveva fatto ammalare, fino a costringerlo allo stop dell’attività. Anche Armstrong, nota Walsh, era in nazionale in quel periodo. Strock chiamava in causa due tecnici della nazionale, uno dei quali, Chris Carmichael, era uno dei personaggi più vicini ad Armstrong da sempre. Nell’inchiesta si parlava anche del licenziamento improvviso dalla Us Postal (la squadra di Armstrong sponsorizzata dal ministero delle Poste statunitense) nel 1996. Fu licenziato anche il medico Steffen Prentice, che secondo Strock si era rifiutato di dopare dei ciclisti della squadra. Walsh raccolse anche la dichiarazione di un ex professionista, compagno di Armstrong alla Motorola dal 1992 al 1996, che sotto anonimato dichiarò: «Passammo all’epo nel 1995 perché non si vinceva, e avevamo avuto un 1994 nero». In “L.A. Confidencial”, Ballester e Wash hanno ricostruito anche il caso del litigio fra Armstrong e Greg Lemond a proposito di Michele Ferrari, il medico italiano coinvolto in numerosi processi di doping in Italia e difeso a spada tratta dal corridore texano. Ma la parte più interessante del racconto, scrive Lara Pavanetto, riguarda la testimonianza di Emma O’Really, massaggiatrice per tre anni (a partire dal 1998) dell’Us Postal, la squadra del trionfatrice al Tour.Nel giugno del 1999, la O’Really registra sul suo diario un colloquio con Lance. L’americano le dice che, con l’ematocrito basso, non si possono fare grosse performace. Lei allora gli chiede cosa intenda fare: «Quello che fanno tutti gli altri», ribatte lui, che più tardi, durante il Tour, le chiederà anche di coprire con fondotinta i segni delle iniezioni sulle braccia. L’americano fu trovato positivo ai corticoidi ad un controllo al Tour de France del 1999, ma fu discolpato dall’Uci (Unione ciclismo internazionale) dopo aver spiegato di aver «utilizzato una pomata contenente una sostanza vietata per curare una ferita procuratagli dal sellino della bicicletta». Armstrong affermò sempre di non avere mai assunto prodotti vietati, neppure a causa del suo tumore, che gli provocava una carente produzione fisiologica di testosterone, con la necessità dunque di assumerlo. Il libro riporta anche i pareri di scienziati illustri, i quali ritenevano umanamente impossibile – dopo un tumore, metastasi, operazioni, chemioterapie – andare forte come Armstrong, e vincere sei Tour de France.A Philippe Brunel, per il libro uscito nel 2002, Marco Pantani confida: «E’ strano, ogni volta che si parla di Armstrong tutti stanno zitti, come se nessuno avesse un’opinione. Io, in ogni caso non ci credo. E non ci crederò mai. È un personaggio finto, una specie di eroe dei fumetti – guarda, è Spiderman. Ora, chi l’ha creato? Chi lo ha voluto così? Non ne so nulla. Ma sono troppo realista per credere alla sua storia». Ma Lance Armstrong in quegli anni poteva fare e dire di tutto, e – come diceva Pantani – nessuno sembrava vedere nulla. Era “invicibile”, Armstrong. «L’amico dei repubblicani, l’amico di George W. Bush. L’amico di tanti politici e tante star di Hollywood. Armstrong sognava di correre un giorno per la poltrona di governatore del Texas e magari in seguito puntare anche alla Casa Bianca», scrive Pavanetto. Le sue perfomance “aliene” «avevano accelerato la mondializzazione di uno sport che storicamente era di matrice europea: grazie a lui, nel mondo del ciclismo la lingua inglese soppiantò il francese». Con Lance Armstrong diventarono volti abituali quelli dei cronisti del “New York Times”, del “Financial Times”, del “Wall Street Journal”, e quelli degli inviati di reti televisive come la “Cnn” o la “Cbs”, «che non perdevano una tappa se targata Armstrong: il re assoluto e incontrastato del ciclismo, temuto e idolatrato».Armstrong fu anche «l’amico di tanti potenti dello sport mondiale», e donò all’Uci centomila dollari nel 2000 per comprare dei macchinari antidoping. «Tutto quello che ha fatto Armstrong è stato possibile perché qualcuno gliel’ha permesso». Parafransando le parole di Pantani: «Chi lo ha creato? Chi l’ha voluto così?». Il doping serve a vincere, ma soprattutto a fare moltissimi soldi, ricorda Lara Pavanetto. «In due decenni di attività come ciclista professionista, grazie alle sponsorizzazioni, Lance Armstrong ha accumulato un patrimonio stimato attorno ai 125 milioni di dollari». Ma anche gli sponsor fanno fiumi di soldi col doping, «per cui la diffusione del fenomeno non è attribuibile solo ad atleti, allenatori, medici o direttori sportivi, ma anche a chi alimenta l’ingranaggio». Come l’Us Postal Service: «Fu lo sponsor di Armstrong tra il 2001 e il 2004, spese 32,27 milioni di dollari per sponsorizzare il team di Armstrong e ricevette benefici di immagine e marketing per 103,63 milioni». Come sottolineò l’avvocato di Armstrong, Tim Herman, a scandalo doping ormai scoppiato, «il ritorno per il ministero delle Poste statunitensi fu del 320% in quattro anni».I guai di Pantani, ricorda Pavanetto, iniziano il 5 giugno 1999 subito dopo l’arrivo a Madonna di Campiglio, penultima tappa di un Giro d’Italia che il Pirata aveva dominato e praticamente già vinto. «Sottoposto a un controllo del sangue, il suo ematocrito fu trovato fuori norma e, da regolamento, gli fu vietato di gareggiare per i seguenti 15 giorni. Il Giro dunque era perso». Anche le sue vittorie passate, a questo punto, vengono messe in discussione. «Tutta la sua carriera è messa in dubbio», tanto che Pantani non partecipò al Tour de France un mese dopo. «In quel momento era un campione nella sua fase di massimo rendimento: l’anno prima, il 1998, aveva vinto sia il Giro che il Tour. La sua popolarità era enorme e internazionale». Nel 2000, Pantani riuscì a prepararsi per partecipare al Tour e ne fu ancora un protagonista. Ma nel 2001 al Giro d’Italia ci fu la vicenda della siringa di insulina trovata nell’albergo dei ciclisti e attribuita a lui, che fu condannato. «Per questo episodio Leblanc, l’organizzatore del Tour, rifiutò l’iscrizione di Pantani all’edizione di quell’anno». Nel Giro del 2003, Pantani arrivò quattordicesimo, un risultato normale considerata la preparazione per forza scadente. «Quando Leblanc rifiutò nuovamente la sua iscrizione al Tour di quell’anno, Pantani gettò la spugna». Pochi mesi dopo, il 14 febbraio 2004, fu trovato morto nel residence “Le Rose” di Rimini, dove aveva soggiornato per una settimana, confermando l’alloggio giorno per giorno.Il motivo della morte fu fissato dal medico legale in overdose di cocaina, e ancora ad oggi questa è la versione ufficiale. «Nel frattempo c’erano anche stati i procedimenti giudiziari aperti contro di lui dalla giustizia ordinaria italiana, sempre per illecito uso di sostanze dopanti», scrive Pavanetto. «Alla fine Pantani era stato assolto da ogni reato, ma intanto sette Procure lo avevano portato a giudizio e le sue spese legali erano ammontate in totale a un miliardo e mezzo di lire». Nel frattempo comincia a brillare la stella di Lance Armstrong, che proprio a partire dal 1999 inizia a vincere “facile”: cinque Tour de France di fila (dal 1999 al 2003). «Ogni volta succede qualcosa che gli toglie di mezzo l’avversario più forte, cioè Marco Pantani: nell’edizione del ‘99 Pantani era assente per la vicenda di Madonna di Campiglio; in quella del 2000 era presente ma psicologicamente sotto pressione, il 2 marzo si era ritirato dalla Vuelta de Murcia per “stato acuto di stress”; al Giro aveva subito gli umilianti controlli medici a sorpresa dell’Uci; nelle successive gare Pantani era assente perché la sua iscrizione era stata respinta». Lara Pavanetto fa notare che nel 2000, pur nelle condizioni in cui era, il Pirata era stato l’unico ad attentare alla leadership di Armstrong: «Vinse due importanti tappe di montagna, una scalando il Mont Ventoux e l’altra a Courchevel». E’ indubbio che l’assenza di Pantani spianò la strada ad Armstrong.Alcuni mesi dopo la conclusione del Giro del 1999, continua Pavanetto, emerse l’ipotesi che Pantani fosse stato boicottato dall’ambiente delle scommesse clandestine italiane. Un’ipotesi che è ritornata prepotentemente in auge con due libri usciti di recente: “Pantani è tornato. Il complotto, il delitto, l’onore”, di Davide de Zan (Piemme, 2014), e “Il caso pantani. Doveva morire”, di Luca Steffenoni (Chiarelettere, 2017). Quella delle scommesse clandestine «resta sempre sullo sfondo ormai come unica ipotesi, quasi unico movente, assieme alla cocaina, della carriera rovinata del campione e poi della sua morte». Ma se lo scopo era quello di far perdere a Pantani, a due giornate dalla fine, un Giro che aveva già vinto per guadagnare sulle puntate, perché poi – si domanda Pavanetto – continuare il complotto negli anni successivi e nei vari livelli in Italia e in Francia, e presso l’Unione Ciclistica Internazionale? «E chi mai, nell’ambiente delle scommesse clandestine italiane, avrebbe avuto tali poteri di manipolazione a livello mondiale?». Ancora: «Il fatto che il ministero delle Poste americano sponsorizzasse uno squadrone ciclistico che, si può ben dire, andò all’attacco del ciclismo europeo, non è mai sembrato strano a nessuno?».Soltanto dopo la morte di Pantani si seppe che la “prodigiosa” ascesa di Lance Armstrong «fu viziata da un uso criminale del doping, per vincere a tutti i costi». Ma, appunto: «Nessuno all’epoca vide nulla?». Come disse Pantani: «E’ strano, ogni volta che si parla di Armstrong tutti stanno zitti, come se nessuno avesse un’opinione». Forse, conclude Lara Pavanetto, «era molto pericoloso avere un’opinione sullo squadrone e sulla star della Us Postal Service». E a quanto sembra, «ancora oggi è meno pericoloso avere un’opinione sulle scommesse della criminalità organizzata, che sulla storia dell’Us Postal Service». Si può parlare con una certa tranquillità delle scommesse clandestine gestite dalla mafia attorno al ciclismo delle gare truccate, mentre resta estremamente rischioso, ancora oggi, aprir bocca «sulla strana sincronicità degli eventi che videro tramontare la stella del Pirata e sorgere, luminosa e prepotente, quella di Lance Armstrong».Sulla misteriosa morte di Pantani, dice Pavanetto, resta fondamentale l’analisi offerta da Paolo Franceschetti sul suo blog: un delitto “rituale”, firmato Rosa Rossa nel residence “Le Rose” con quel sibillino biglietto: “Oggi le rose sono contente, la rosa rossa è la più contata”. In realtà, sottolinea la ricercatrice ricorda che nessun esame grafologico ha finora attestato che quelle frasi – su carta intestata dell’hotel – siano state scritte proprio da Pantani. «Io ne dubito fortemente – dice – anche perché secondo me in quelle poche, apparenti sconnesse righe potrebbero esserci la firma e il movente dell’assassino, seppure espresso in un modo allegorico e per certi versi burlesco, quasi si trattasse di un macabro gioco». A parte il passaggio sulle “rose”, il libro di Philippe Brunel sostiene che, in quel foglio, Pantani (o chi per lui) parla di «coincidenze saline» e di «una strana alchimia, dove si mette in relazione il fosforo con il potassio, la linfa, la “clorofilla di sangue”», e si legge: «Tutto passa come il mare». L’alchimia è la prima cosa che salta all’occhio, conferma Pavanetto. «Queste parole sembrano descrivere una trasmutazione alchemica. Il fosforo, simbolo dell’illuminazione spirituale; il potassio, la linfa; e soprattutto la “clorofilla di sangue”, e infine quel “tutto passa con il mare”».La clorofilla è chiamata anche “sangue vegetale” e può essere considerata un vero rigeneratore per le cellule, in quanto apporta ossigeno. «Può essere utile in varie forme di anemia, migliora la contrazione cardiaca e si rivela utile soprattutto per gli sportivi poiché ne aumenta la resistenza». E’ chiamata “sangue vegetale”, spiega Pavanetto, perché la sua struttura chimica è simile a quella dell’emoglobina, con la sola differenza che la clorofilla contiene magnesio anziché ferro. «Sin dal 1936 fu studiata come fattore per la rigenerazione del sangue, soprattutto in relazione all’emofilia». Studi che poi «servirono molto nel mondo del doping, dove appunto si “esercita” la rigenerazione del sangue». Sembra un macabro gioco di specchi e scatole cinesi, continua Lara Pavanetto: sapete qual è il simbolo alchemico del magnesio? La lettera D. E Pantani soggiornava (e morì) nella camera D5.Attenzione: il numero 5, «essenza del Pentacolo, è ricondotto al numero degli elementi, la quintessenza spirituale e i quattro elementi abituali: Acqua, Fuoco, Terra e Aria». I quattro elementi alchemici. “E tutto passa come il mare”: il mare «fu per gli alchimisti l’acqua mercuriale, l’elisir, l’oceano increato dove la materia prima subì il processo di trasformazione e di maturazione fino allo stato di perfezione». E, a proposito di “contrappasso” dantesco, Lara Pavanetto ricorda il canto primo del Purgatorio, nella “Divina Commedia”, in cui Virgilio lava Dante dalla “nerezza” dell’Inferno: «Con le mani bagnate dalla rugiada del mattino, Virgilio rimuove dalle guance lacrimose di Dante quella nerezza che l’Inferno gli aveva lasciato. Poi lo cinge con un giunco sottile che cresce nel limo del mare, giunco che nasce miracolosamente là dove viene reciso. E’ un nuovo battesimo, una nuova purificazione eseguita questa volta con la rugiada, cioè acqua che viene dal cielo, simbolo di doni spirituali». Recita quel fatidico biglietto: “E tutto passa come il mare”. Firma e chiave “rituale”, con spiegazione simbolica, dell’omicidio del campione ribelle che doveva essere punito in modo esemplare?Vuoi vedere che Pantani è stato distrutto e poi eliminato anche per evitare che facesse ombra a Lance Armstrong, il super-campione (artificiale) vicino ai Bush? Doping, ciclismo e morte: secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’industria segreta del doping usa i ciclisti come cavie per sperimentare nuove, micidiali droghe “performanti”, destinate a soldati e guerriglieri: un business colossale, realizzato con la copertura di case farmaceutiche e gestito da poteri “supermassonici” pronti a eliminare fisicamente chiunque osi ribellarsi. Come Pantani, per esempio? La sua fine: un monito, per qualsiasi altro ciclista che avesse provato a rifiutare la siringa? Supermassoni reazionari i Bush, “padrini” di Armstrong. Esoteristi, probabilmente, anche i killer di Pantani: lo afferma Lara Pavanetto, analizzando lo strano messaggio “alchemico” rinvenuto nella stanza in cui il campione romagnolo morì. Per Paolo Franceschetti, avvocato per lunghi anni, quel delitto è “firmato” Rosa Rossa, potente associazione occultistica all’origine di svariati crimini eccellenti, come quello del Mostro di Firenze: il delitto rituale come pratica “magica”, e il clamore mediatico come utile mezzo per spaventare l’opinione pubblica, rendendola più docile verso l’autorità costituita. Il ribelle Pantani? Andava punito e infangato con la pena del contrappasso. Aveva evocato lo spettro del doping? Bene, sarebbe morto disonorato: spacciato per cocainomane.
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Davide Cervia, “sequestro di Stato”: condannato il ministero
Una donna senza più il marito, due figli senza più il padre. Scomparso. Catturato da sconosciuti, una sera, davanti al cancello di casa, nella campagna di Velletri. Che fine ha fatto? E’ stato “venduto” a paesi come la Libia, a cui l’Italia non avrebbe potuto né dovuto fornire armamenti? E’ stato poi ucciso, per cancellare la prova vivente di un affare inconfessabile? Chi sa, non parla: da quasi 28 anni. Quell’uomo? Preziosissimo. Un super-militare, con competenze Nato top secret: guerra elettronica. E’ ancora vivo? Invocano notizie la moglie, la figlia. E’ passato un quarto di secolo, e i militari non parlano. Un regista, Francesco Del Grosso, dopo 24 anni di silenzio decide di fare un film su quella storia, “Fuoco amico”. Ma alla vigilia delle riprese salta in aria la casa, esplode una finestra. Solo per miracolo la ragazza, Erika, non viene investita dall’esplosione. Lei e sua madre devono smetterla di chiedere dov’è finito quell’uomo, l’enfant prodige della marina militare italiana. Sapeva rendere invulnerabile una nave da guerra. Era il mago dei missili Teseo-Otomat, che colpiscono a 180 chilometri di distanza. Era stato il migliore, al corso d’élite frequentato a Taranto. Il miglior tecnico, imbarcato sulla miglior nave da battaglia italiana, la fregata Maestrale. Una sera è stato catturato. Sparito, inghiottito nel nulla. Lo Stato? Ha ostacolato la ricerca della verità. Lo afferma, oggi, la sentenza di una giudice, Maria Rosaria Covelli. Ma la verità è ancora lontana: che fine ha fatto Davide Cervia?«Nemmeno il “Fatto Quotidiano” ha voluto dare la notizia della sentenza: nemmeno Marco Travaglio, a cui ho scritto», dice la moglie di Davide, Marisa Gentile, a colloquio con Stefania Nicoletti e Paolo Franceschetti a “Forme d’Onda”, trasmissione web-radio. «Viviamo un assedio infinito: lettere minatorie, pedinamenti, telefonate mute, anonimi che dicono “sappiamo dov’è tuo marito”. Ogni volta che andiamo a parlare nelle scuole di Velletri, poi ci ritroviamo le gomme dell’auto tagliate. Un funzionario del ministero dell’interno arrivò a offrirmi un miliardo di lire purché lasciassimo perdere. Adesso, il 23 gennaio, il tribunale di Roma ha condannato il ministero della difesa. Il danno, secondo i nostri avvocati, ammontava a 5 milioni di euro. Ma abbiamo preteso solo un risarcimento simbolico: un euro. E comunque l’avvocatura dello Stato ci ha costretto a firmare la rinuncia ad altre cause civili, altrimenti avrebbero chiesto la prescrizione, che sarebbe stata la pietra tombale su questa storia». L’ultima sentenza è decisiva, come quelle su Ustica: sancisce la violazione, da parte dello Stato, del diritto alla verità. Lo sostengono gli avvocati, Alfredo Galasso e Licia D’Amico. L’ammiraglio a riposo Falco Accame, vicino alla famiglia, auspica che il coraggioso verdetto del tribunale di Roma possa rompere il silenzio che oscura le “morti bianche” di tanti militari uccisi dall’uranio impoverito nelle missioni all’estero. Secondo Franceschetti, domani potrebbero “svegliarsi” anche i familiari di altre vittime, quelle delle troppe stragi impunite.Di origine ligure, Davide Cervia si era trasferito a Velletri dopo aver lasciato la marina. E’ scomparso il 12 settembre 1990: assalito mentre rincasava e caricato a forza su un’auto verde. Lo Stato ha impiegato anni, per ammettere che fosse stato rapito: si fece credere che, semplicemente, avesse abbandonato volontariamente la famiglia. Poi la marina militare ha negato a lungo che fosse un tecnico altamente specializzato: il suo vero curriculum è saltato fuori soltanto dopo che i familiari hanno occupato fisicamente il ministero. Adesso, dopo quasi 28 anni, il tribunale romano condanna i militari: hanno ostacolato il diritto alla verità. Quale verità? Non è dato saperlo. Tanti inidizi portano alla Libia, che nel ‘90 era sotto embargo e immaginava di essere minacciata, alla vigilia della prima Guerra del Golfo. Due operai italiani sostengono di aver visto Davide Cervia quattro anni dopo, vivo e vegeto, in una base missilistica vicino a Sebha. Per anni, racconta il giornalista investigativo Gianni Lannes sul blog “Su la testa”, la marina militare negò che Davide Cervia avesse la qualifica di esperto “Ge”, guerra elettronica, fino al giorno in cui, appunto, «la moglie Marisa e il suocero Alberto occuparono, insieme al “Comitato per la verità su Davide Cervia”, gli uffici dall’allora ministro della difesa italiano Martino».Dopo otto ore di trattative serrate e tese, ricorda Lannes, «il vero foglio matricolare venne fuori: la specializzazione che la marina aveva sempre negato era lì, nero su bianco». Non si trattava di un attestato qualsiasi: comprovava «un addestramento di altissimo livello, che poche decine di tecnici avevano». Per la burocrazia della marina, Cervia era un tecnico Elt/Ete/Ge, specializzato nei dispositivi di disturbo dei radar nemici. Quella sigla rendeva l’ex sergente della marina scomparso «un pezzo prezioso che qualcuno aveva “venduto”, includendolo in uno dei sofisticati sistemi d’arma prodotti in Italia». E Davide non era uno qualsiasi, aggiunge Lannes, tanto che sul suo dossier gli ufficiali scrissero: «Ha contribuito in maniera fattiva alla esecuzione delle manutenzioni preventive e correttive sugli apparati “Ge”, facendosi apprezzare per l’elevata preparazione professionale, l’interesse e la dedizione al servizio». Per Gianni Lannes si è trattato di «un sequestro di Stato», sostanzialmente «favorito da agenti del Sismi, allora guidato dall’ammiraglio Fulvio Martini». Lo stesso Sismi che il giornalista considera implicato nella scomparsa dei giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo (Libano, 1980), nonché nell’eliminazione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (Somalia, 1994), e dei due sottufficiali piloti della Guardia di Finanza, Gianfranco Deriu e Fabrizio Sedda, caduti in Sardegna nel 1994 a bordo dell’elicottero “Volpe 132” (a loro volta, dopo indagini su armi-fantasma?).A quel tempo, ricorda Lannes, il capo di stato maggiore della marina era l’ammiraglio di squadra Filippo Ruggero. «Per la cronaca incombeva in quell’anno il governo Andreotti: alla difesa c’era Martinazzoli, mentre agli esteri figurava De Michelis, con l’apporto di Gava agli interni». Proprio la qualifica di specialista Ete/Ge, dice Lannes, «è la causa del rapimento di Davide Cervia, “venduto” a sua insaputa come tecnico esperto di guerra elettronica, in seguito al divieto delle Nazioni Unite di commerciare armi o addestrare militari nei paesi in guerra». In quel periodo, rammenta il suocero di Davide, Alberto Gentile, era vietato vendere armi alla Libia di Gheddafi. Ma, negli anni ‘80, i libici avevano riammodernato nei cantieri di Genova (su una fregata e due corvette) le stesse apparecchiature di cui era esperto Davide: Otomat, Aspide e Albatros. Nel dicembre del ‘96 la famiglia incontrò il sottosegretario Rino Serri, racconta Alberto Gentile in un’intensa ricostruzione realizzata da Marcello Michelini ed Enrico Chiarioni per “Crescere Informandosi”, trasmessa da “Pandora Tv”. «Davanti a testimoni – afferma il suocero di Davide – Serri raccontò che stavano facendo trattative con la Libia “per poter liberare Davide”, ma disse che non si poteva assolutamente parlare di “rapimento”».Nato a Sanremo nel ‘59, Davide Cervia si era arruolato volotario in marina il 5 settembre 1978, diciannovenne, con ferma di sei anni. A Taranto risultò il migliore del suo corso e venne qualificato specialista Ete/Ge, tecnico elettronico per la guerra hi-tech. All’epoca, tra tutti gli “Elt 78/B” fu l’unico a ottenere quella qualifica, ricorda Lannes. Avviato al Centro Addestramento Aeronavale per la specializzazione pre-imbarco, sempre a Taranto, venne poi inserito nell’equipaggio di quella che all’epoca era la più moderna nave italiana, la fregata Maestrale, «acquisendo una specializzazione preziosissima». Si congedò dalla marina il 1° gennaio 1984 e quattro anni dopo si trasferì a Velletri, dove iniziò a lavorare nella società Enertecnel Sud, con sede presso Ariccia. Davide Cervia, riassume Lannes, era dunque un tecnico della guerra elettronica, specializzato nei sistemi di arma Teseo-Otomat che l’industria militare italiana «aveva venduto fin dagli anni ‘70 ai tanti paesi-canaglia del mondo, Libia compresa». Gli elementi che collegano la sua scomparsa alla Libia sono molteplici: «L’assistenza militare del regime di Gheddafi è sempre stata una nostra specialità», scrive Lannes. Un tecnico come Cervia «era a dir poco preziosissimo», per gestire le attrezzature Teseo-Otomat installate su navi libiche a fine anni ‘80.Secondo il portale giuridico “Altalex”, il verdetto ora emesso dall’autorità giudiziaria romana rappresenta «una sentenza molto importante», perché, «oltre a dar ragione nella sostanza alla famiglia dello scomparso, sul fatto che si tratti di rapimento e non di allontanamento volontario, pone alcuni importanti principi di diritto, già affermati con la sentenza che riguarda il caso Ustica». E cioè: «Il diritto alla verità da parte dei parenti di un soggetto scomparso in circostanze misteriose è un diritto soggettivo, personalissimo e di rango costituzionale, contenuto nell’articolo 21». Diritto che viene leso da ogni attività che, senza un’adeguata giustificazione, «impedisca, limiti o condizioni» l’acquisizione di informazioni. «In questa sentenza c’è una novità assoluta, cioè il riconoscimento del fatto che il ministero della difesa ha violato questo diritto, e per questo viene condannato», dichiara l’avvocato Licia D’Amico a “Osservatore Italia”. «Non so quante altre volte sia accaduto che una istituzione dello Stato, un ministero, sia stato condannato a risarcire un danno ad una famiglia per aver nascosto la verità: insomma, non è poca cosa». Specie se si considera che gli “insabbiatori” hanno insistito fino all’ultimo sull’idea che Cervia – di cui hanno a lungo negato la decisiva specializzazione – avesse abbandonato la famiglia volontariamente. «Pura follia», racconta la figlia, Erika: «Papà era alle prese con grandi preparativi per l’anniversario di matrimonio».Molte cose su Davide, dice la moglie Marisa nel video realizzato da Michelini e Chiaroni, la famiglia le ha apprese solo dopo la sua scomparsa: aveva rivestito incarichi di particolare segretezza, anche svolgendo stage presso aziende belliche. «Tra i documenti di Davide abbiamo trovato persino il Nos, “nulla osta di segretezza Nato”, ammesso dalla marina dopo 6 anni di nostre pressanti richieste». Per la famiglia Cervia, un incubo senza fine: «Rapito Davide, eravamo a Velletri solo da due anni, e io ne avevo appena 28: fecero girare la voce che mio marito era scappato con un’altra». Eppure, i fatti gridavano la peggiore delle verità: la sera di quel maledetto 12 settembre l’anziano vicino di casa, Mario Cavagnero, vide tutto. «Testimoniò con le lacrime agli occhi di aver visto mio padre strattonato da alcune persone che lo aspettavano davanti al cancello di casa», racconta la figlia, Erika. «Immobilizzato, narcotizzato e spinto con la forza in un’auto color verde bottiglia. Mio padre gridò più volte il nome del vicino, nella speranza che lo potesse aiutare». Raccontò l’uomo: «“Mario!” mi chiamava, disperato: ma è stato tutto troppo rapido perché potessi intervenire». Era la prova regina del rapimento: solo che poi, racconta Erika, «dal verbale dei carabinieri emerse che mio padre stesse chiamando Mario per salutarlo, e che Mario (il testimone chiave) fosse un povero vecchio in stato confusionale».Poco dopo, un autista delle autolinee locali (oggi Cotral) sulla tratta Roma-Velletri «incrociò l’auto verde e la Golf bianca di mio padre guidata da un biondino». Un quasi-incidente, all’incrocio tra Colle dei Marmi e l’Appia. «Dovette fare una brusca frenata per evitare le due auto, che non si fermarono allo stop». L’autista del pullman notò sull’auto verde «due persone, sedute dietro, che con le spalle e le braccia coprivano qualcosa, come a voler nascondere qualcuno». E la Golf bianca di Davide Cervia? «I carabinieri “dimenticarono” di idicare nel verbale il numero di targa: per giorni, la polizia non potè cercarla», dice la moglie. Una vettura rimasta “fantasma” per addirittura sei mesi. «Poi, grazie a una lettera anonima indirizzata alla trasmissione “Chi l’ha visto?”, allora condotta da Donatella Raffai, l’auto venne ritrovata a Roma in via Marsala, vicino alla stazione Termini, dove (secondo la lettera) era parcheggiata da 6 mesi. Ma così non era: mio padre, ferroviere, coi suoi colleghi aveva setacciato la zona palmo a palmo», racconta Marisa Gentile. La Golf riapparsa? «Fatta ritrovare lì per far credere a un allontanamento volontario». Intervennero gli ispettori della Digos: «Frugarono dappertutto, ma senza guanti: addio impronte digitali». Prima ancora, l’auto fu aperta con una micro-carica esplosiva, osserva Marisa: «Quella Golf aveva un impianto a gas, e quindi far saltare la serratura con dell’esplosivo poteva essere pericoloso: a meno che non si sapesse che il serbatoio del gas era vuoto?».Nel frattempo, mentre le indagini “dormivano”, arrivò un indizio dalla Francia. Gianluca Cicinelli, autore di due libri sulla vicenda nonché presidente del “Comitato per la Verità su Davide Cervia”, nel ‘95 venne contattato da un ex funzionario dell’Air France, da poco in pensione. Raccontò: tra dicembre ‘90 e gennaio ‘91 era arrivata alla compagnia aerea transalpina una richiesta di verifica, per sapere se ci fosse un biglietto aereo a nome Davide Cervia. «Lo trovò: per il 6 o l’8 gennaio ‘91 (non ricordava bene la data) per la tratta Parigi-Cairo. Biglietto acquistato per un’agenzia che lavora per il ministero francese degli affari pubblici. Nessuno ne aveva mai parlato». Al che, Cicinelli fece denuncia alla Criminalpol, partì l’indagine e si scoprì che quel biglietto effettivamente esisteva. Ma l’Air France non aveva comunicato nulla agli inquirenti perché, secondo loro, apparteneneva a un omonimo di Davide: un militare francese (con nome italiano, in quanto originario della Corsica). Fino ad allora, la procura di Velletri non aveva potuto fare vere indagini «per carenze di organico». Nel ‘98-99, quando la procura di Roma avocò l’inchiesta riaprendo il caso del biglietto aereo, l’Air France cambiò versione: quel biglietto aereo non era più intestato al “Davide Cervia della Corsica”, bensì a una “signorina Cervia”; in più era cambiata la tratta, e “purtroppo” non si poteva più fare nulla perché tutti i documenti erano stati cestinati.Il 5 aprile del 2000, racconta Erika Cervia, il caso fu archiviato come sequestro di persona a opera di ignoti. «Per noi fu una grandissima vittoria, veder sparire la testi dell’allontamento volontario di mio padre. Ma anche una sconfitta: dopo dieci anni, con l’archiviazione, veniva messa una pietra tombale sulla vicenda. Scandaloso: per i primi 8 anni mio padre non fu assolutamente cercato dalla procura di Velletri, quindi si sono persi proprio gli anni fondamentali per la sua ricerca». Poi, nel 2012, la notizia su Ustica: i familiari delle vittime hanno avevano citato a giudizio i ministeri trasporti e difesa, per omissioni, depistaggi, negligenze e violazione del cosiddetto “diritto alla verità”. «Noi abbiamo denunciato il ministero della difesa e quello giustizia. Ma i testi sono stati finalmente ascoltati solo a partire dal 2016, dopo quattro anni di rinvii». Nel frattempo, la famiglia Cervia è stata incessantemente sottoposta al consueto trattamento: minacce e intimidazioni, fino all’esplosione della finestra di casa. «Spesso – rileva Paolo Franceschetti, avvocato – i parenti delle vittime, in casi analoghi, si piegano. I Cervia invece hanno resistito in modo commovente, per amore di Davide, spiazzando i loro persecutori». Oggi brindano: c’è l’immensa soddisfazione morale di una sentenza che condanna lo Stato per aver mentito. Ma all’appello manca ancora il premio più importante: Davide.«Il prossimo passo – annuncia Marisa Gentile – sarà un appello alla politica, appena il nuovo Parlamento sarà insediato, perché ci spieghi come mai alcune strutture dello Stato hanno depistato». Con la speranza, naturalmente, che «chi sa trovi il coraggio di parlare e di raccontarci quanto accaduto», dice la donna a Fabrizio Peronaci del “Corriere della Sera”, l’unico grande giornale che abbia dato la notizia della sentenza romana. «E’ sconcertente il silenzio dei media», dice Marisa, «per non parlare del silenzio del servizio pubblico Rai». Ancora ai giorni nostri il sequestro Cervia è un fatto indicibile, rileva Gianni Lannes, tant’è vero che ad alcuni atti parlamentari il governo Renzi non ha risposto, come nel caso di un’interrogazione del 10 aprile 2014. Perché tacere ancora su questa scottante vicenda, «coperta dall’affaristica ragion di Stato»? Il Sismi, aggiunge Lannes, «si è sempre occupato direttamente della vendita di armi all’estero, compresi i sistemi d’arma ed il personale altamente specializzato. In questa vicenda non bisogna farsi ingannare dai depistaggi istituzionali che hanno messo in atto più volte, per dirottare la famiglia ed eventuali ricercatori indipendenti su piste fantasma. Un classico: omissioni, reticenze e menzogne dell’apparato statale costellano la vicenda, nonché minacce e intimidazioni alla stessa famiglia Cervia, mai protetta dallo Stato».Per dipanare l’aggrovigliata matassa, insiste Lannes, «bisogna partire dal movente e dai mandanti: Cervia aveva forse rifiutato qualche offerta?». Ovvero: è stato rapito dopo essersi rifiutato di trasferirsi, magari in Libia? Nel blog “Su la Testa”, Gianni Lannes esibisce una vastra documentazione: a partire dal 1992, un anno dopo la scomparsa di Davide, su Camera e Senato è piovuta una grandine di richieste per far luce sulla vicenda. Risultato: silenzio di tomba. Domande scomode, che oggi Lannes riassume: «Qual è stato il ruolo svolto nella vicenda dai servizi segreti italiani? Come si spiegano le reticenze e la contraddittorietà degli interventi che emergono dalle risposte rese nel tempo ad alcuni atti di sindacato ispettivo inerenti la vicenda?». E poi: «Sono state condotte ricerche sulla sorte degli altri tecnici italiani che hanno conseguito la stessa specializzazione di Davide Cervia? Quanti sono, quanti di loro risultano in congedo e quanti sono ancora in servizio in Italia o all’estero?». Ancora: «Sono state effettuate ricerche e indagini giudiziarie presso i paesi ai quali gli armamenti in questione (Teseo-Otomat) sono stati venduti? E’ stata accertata l’effettiva destinazione finale delle suddette armi onde verificare che non sia in atto un traffico d’armi “triangolato” e che non vi siano state violazioni delle norme sulle esportazioni di armi verso paesi per i quali fossero in corso embarghi militari?». Se non altro, dopo quasi 28 anni di depistaggi e omissioni, ora c’è almeno un brandello di verità: lo Stato è colpevole. Ma dov’è finito il super-tecnico rapito? «Giustamente si chiede verità per Giulio Regeni», dice Marisa Gentile. «A quando la verità su Davide Cervia?».Una donna che non sa più dove sia il marito, E due figli senza più notizie del padre, specialista in guerra elettronica. Scomparso. Catturato da sconosciuti, una sera, davanti al cancello di casa, nella campagna di Velletri. Che fine ha fatto? E’ stato “venduto” a paesi come la Libia, a cui l’Italia non avrebbe potuto né dovuto fornire armamenti? E’ stato poi ucciso, per cancellare la prova vivente di un affare inconfessabile? Chi sa, non parla: da quasi 28 anni. Quell’uomo? Preziosissimo. Un super-militare, con competenze Nato top secret. E’ ancora vivo? Invocano sue notizie, inutilmente, i familiari. E’ passato un quarto di secolo, e i militari tacciono. Un regista, Francesco Del Grosso, dopo 24 anni di silenzio decide di fare un film su quella storia, “Fuoco amico”. Ma alla vigilia delle riprese salta in aria la casa, esplode una finestra: solo per miracolo la ragazza, Erika, figlia dello scomparso, non viene investita dall’esplosione. Lei e sua madre devono smetterla di chiedere dov’è finito quell’uomo, l’enfant prodige della marina militare italiana. Sapeva rendere invulnerabile una nave da guerra. Era il mago dei missili Teseo-Otomat, che colpiscono a 180 chilometri di distanza. Era stato il più bravo, al corso d’élite frequentato a Taranto. Il miglior tecnico, imbarcato sulla miglior nave da battaglia italiana, la fregata Maestrale. Una sera è stato catturato. Sparito, inghiottito nel nulla. Lo Stato? Ha ostacolato il diritto alla verità. Lo afferma, oggi, la sentenza di una giudice, Maria Rosaria Covelli. Ma la verità è ancora lontana: che fine ha fatto Davide Cervia?
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American Moon: davvero saremmo andati sulla Luna?
“American Moon”, ovvero: ci siamo stati davvero, sulla Luna? E’ la domanda a cui cerca di rispondere Massimo Mazzucco, con l’atteso documentario – appena uscito, acquistabile on-line su “Luogo Comune – che indaga sul mitico “allunaggio” televisivo, in mondovisione, andato in onda a reti unificate il 20 luglio 1969. A metter piede per la prima volta sul satellite sarebbe stato Neil Armstrong, comandante della missione Apollo 11, accompagnato da Buzz Aldrin, mentre un terzo astronauta, Michael Collins, controllava il modulo di comando Columbia. “American Moon” parla della storia dei viaggi lunari a partire dagli anni ’60, spiega Stefania Nicoletti sul blog “Petali di Loto”, condotto insieme a Paolo Franceschetti. «In particolare viene esaminata la veridicità del primo sbarco sulla Luna, ma viene anche descritto il contesto storico e politico in cui nacque e si sviluppò il progetto delle missioni Apollo». Mazzucco analizza le argomentazioni a favore degli allunaggi e quelle contrarie, esaminando video e fotografie, dettagli tecnici, i tanti incidenti e le contraddizioni, i misteriosi silenzi degli astronauti, assai reticenti sull’impresa che li ha consegnati alla storia. L’autore fornisce anche prove inedite. La conclusione? E’ praticamente impossibile credere che quelle immagini siano state davvero girate sulla Luna.Innanzitutto, Mazzucco inquadra il il contesto storico che ha portato al primo allunaggio. Il 18 settembre 1963, il presidente Kennedy espone al direttore della Nasa, James Webb, i suoi dubbi sulle missioni lunari. «A me sembra una montagna di soldi per andare sulla Luna, quando possiamo scoprire scientificamente, con gli strumenti, quasi tutto quello che ci interessa». E aggiunge: «Mandare un uomo sulla Luna è soltanto un numero da circo che non vale tutti quei miliardi di dollari». Parole molto chiare, considerando soprattutto il fatto che a pronunciarle è il presidente degli Stati Uniti. Soltanto due giorni dopo, continua Stefania Nicoletti, sempre nel contesto della guerra fredda tra Usa e Urss, in un discorso all’Onu lo stesso Jfk fa un appello alla collaborazione con i sovietici: chiede che i russi – i primi a mandare un uomo nello spazio, Yurij Gagarin – collaborino con l’America, per una spedizione congiunta sulla Luna. Il capo dell’Urss, Nikita Khrushev, risponde picche. E dive: vedremo cosa riusciranno a combinare gli americani. «In seguito, l’impressione è che Kennedy sia quasi costretto a proseguire nell’impresa e che, pur essendo scettico, non possa rifiutarsi di andare avanti». E il 22 novembre 1963, come sappiamo, viene ucciso a Dallas.«Nel frattempo i russi continuarono ad addestrare i propri astronauti e a portare avanti un programma segreto per andare sulla Luna». Ma nel gennaio 1966, Sergej Korolev, responsabile del programma spaziale sovietico, muore improvvisamente durante un banale intervento chirurgico. Aveva lanciato il primo satellite, lo Sputnik, e aveva messo in orbita Gagarin. Korolev aveva concepito l’intero programma spaziale sovietico, ed era l’unico in grado di mandare avanti la controparte russa del programma americano Apollo. «Una morte assai strana, che causò confusione e disagi nell’agenzia sovietica. Infatti in seguito il programma spaziale russo, dopo diversi incidenti e fallimenti, subì un arresto». Nell’autunno 1965, il generale Samuel Phillips, direttore del progetto Apollo, presentò ai suoi superiori un rapporto che denunciava senza mezzi termini lo stato di confusione e di arretramento del programma lunare. «Dopo 4 anni e mezzo e a poco più di un anno dal primo lancio spaziale – scrive Phillips – vi sono ancora significativi problemi tecnici e incognite che riguardano: le capacità del sistema elettrico, la propulsione secondaria, l’integrità strutturale, l’incremento del peso».Tutti problemi ancora da risolvere. «Cosette da niente, insomma. E sottolineiamo il fatto che a parlare è il direttore stesso del programma Apollo», annota Stefania Nicoletti. «Invece di risolversi, i problemi denunciati da Phillips continuavano ad aumentare: pezzi costruiti e installati male, cavi elettrici fragili e forse rotti, perdite di carburante dappertutto nel sistema, difficoltà con l’equipaggiamento e con le procedure, incidenti e scarsi standard di sicurezza, mancanza di coordinamento fra le persone in posizione di responsabilità, mancanza di comunicazione praticamente fra tutti. Tutte queste cose furono denunciate nel gennaio 1967 da Thomas Baron, un addetto alle verifiche della North American, la società appaltatrice». Proprio in questo contesto di problemi e di approssimazioni si arriva al famoso incidente del 27 gennaio 1967. «Durante una simulazione a terra di Apollo 1, tre astronauti furono bruciati vivi sulla rampa di lancio, all’interno della capsula che avrebbe dovuto portarli nello spazio tre settimane dopo». Poco prima di morire, l’astronauta Virgil Grissom si è lamentato per il malfunzionamento delle comunicazioni fra la capsula e la torre di controllo: «Come faremo ad andare sulla Luna se non riusciamo nemmeno a parlare fra tre edifici?».A questo punto, continua Nicoletti, il programma cominciò ad andare sempre più in crisi. Secondo il direttore della Nasa, Webb (colui che nell’incontro con Kennedy del ’63 si dimostrava entusiasta e ottimista), le possibilità di andare sulla Luna diminuivano di anno in anno, anziché aumentare. Nell’ottobre 1968 Webb lasciò la Nasa, pochi mesi prima della missione Apollo 8. «Strano che un uomo che aveva dedicato la sua vita alle missioni spaziali e che era stato a capo della Nasa negli anni cruciali del programma Apollo, improvvisamente decida di dimettersi, a un passo dalla sua realizzazione». Non solo: all’inizio del 1968 si era già dimesso il vicedirettore dell’agenzia spaziale Usa, Robert Seamans. E quattro giorni dopo le dimissioni di Webb, anche l’astronauta Walter Schirra annuncia le proprie dimissioni e si ritira a vita privata. «Molto strano anche in questo caso che un astronauta che faceva parte dei leggendari Mercury 7 lasci la Nasa pochi mesi prima del primo sbarco sulla Luna, che sarebbe stato una consacrazione, per lui».Sono tanti, poi, gli elementi che non quadrano nella versione ufficiale degli allunaggi, secondo il documentario di Mazzucco. «Le famose “rocce lunari”, che si disse fossero di composizione diversa da quella terrestre, è probabile che in realtà siano meteoriti recuperati in Antartide. Casualmente Werner von Braun, insieme ad altri membri della Nasa, visitò proprio l’Antartide in una spedizione nel 1967 alla ricerca di meteoriti provenienti dalla Luna. Inoltre, molte di queste rocce lunari riportate dagli astronauti di Apollo risultarono essere false o modificate». In occasione del Google Lunar X Prize, un premio assegnato da Google alla prima organizzazione privata che riuscirà a mandare una sonda sulla Luna trasmettendo le immagini in diretta, la Nasa chiede di disporre una “no-fly zone” per «preservare storicamente» i luoghi di allunaggio delle missioni Apollo. «I partecipanti al concorso hanno improvvisamente deciso di ritirarsi, rinunciando così anche al premio di 4 milioni di dollari».Altro scoglio, le Fasce di Van Allen: avvolgono e proteggono l’atmosfera terrestre, «sono radioattive ed è impossibile superarle». Lo stesso scopritore, il fisico statunitense James Van Allen, metteva in guardia dalla pericolosità loro delle radiazioni. «Poi però, quando arrivò il momento dei lanci sulla Luna, il problema della radioattività scomparve: la Nasa disse che le radiazioni a cui sono stati sottoposti gli astronauti erano “trascurabili”». Altrri dubbi sorgono osservando il modulo lunare Lem, piccola navetta spaziale progettata per portare gli astronauti sulla superficie della Luna. «Sembra un modellino in scala gigante: all’esterno sono ben visibili tubi d’acciaio e fogli di cartapesta, tenuti insieme con del semplice scotch appiccicato un po’ dappertutto. Non si capisce come si sia potuti andare sulla Luna con uno strumento costruito in modo così approssimativo. Ed è costato oltre 2 miliardi di dollari dell’epoca, che equivalgono ad oltre 21 miliardi di dollari in valuta attuale». I progetti originali del Lem non esistono più: la ditta costruttrice li ha buttati, ufficialmente perché «occupavano troppo spazio». Quindi, dei documenti così importanti sarebbero stati eliminati come se fossero scarti di magazzino.Molto strani anche i video in cui si vede la partenza del razzo dalla superficie lunare: «Non c’è la fiamma sotto al motore», inoltre «il motore non produce rumore», ma in compenso «si sente ad alto volume la musica di un registratore portatile azionato da uno degli astronauti».In più, ufficialmente, la Nasa ha “perso” i nastri originali del primo passo sulla Luna di Armstrong. O meglio, quei nastri non si trovano più: «Uno dei documenti più importanti della storia dell’umanità, che dovrebbe essere custodito in modo perfetto, semplicemente “non si trova”, e la Nasa lo confessa candidamente». Tra le altre stranezze dell’affare-Luna, spicca la luce che si vede nelle foto: «Sembra un’illuminazione artificiale in uno studio, più che la luce del sole. Anche le ombre prodotte dagli astronauti e dagli oggetti sono tipiche della presenza di luce artificiale e non del sole». E ancora: «In alcuni video si vedono gli astronauti che cadono e si rialzano in maniera non naturale e anche un po’ goffa, come se fossero legati a dei fili che li fanno muovere per simulare l’assenza di gravità. E in effetti in alcuni fotogrammi sembra proprio di vedere i riflessi dei cavi d’acciaio a cui sarebbero appesi gli astronauti».Da segnalare, infine, il comportamento degli astronauti: «Al ritorno dalla prima missione Apollo, in conferenza stampa, i tre astronauti sono tesi, cupi, tristi», annota Stefania Nicoletti. «Danno risposte imbarazzanti e non ricordano cose importanti che gli vengono chieste. Sembrano sconvolti e obbligati a stare lì e a recitare un copione controvoglia». Eppure, in teoria, sono appena tornati dalla missione più emozionante della loro vita: uno degli eventi più importanti della storia dell’umanità. Tre eroi, quindi, che però si affrettano a dire addio alle missioni spaziali, cambiando mestiere: «I primi tre astronauti che sbarcarono sulla Luna, invece di perseguire una carriera di successo ai vertici della Nasa come ci si aspetterebbe, decisero improvvisamente di abbandonare l’agenzia spaziale poco dopo la loro missione. Tutti e tre si licenziano dalla Nasa». Neil Armstrong scompare dalla scena e si ritira a vita privata: «Va a vivere in campagna, decide di non concedere più interviste, diventa schivo e inavvicinabile». Peggio: «Si rifiuta di partecipare alla cerimonia per la conclusione delle missioni Apollo. Proprio Armstrong, l’astronauta più importante di tutti».E il suo collega Buzz Aldrin? «Cadde in depressione e mise in guardia i giovani dal mestiere di astronauta e dalle possibili delusioni», ricorda Stefania Nicoletti. Aldrin esortò gli esordienti a prepararsi al peggio, perché «le cose potrebbero non andare come previsto», disse. E aggiunse:: «La gente ci considera degli eroi, ma la verità è che la Luna ci ha distrutti». Durante una cerimonia alla presenza dell’allora presidente Bill Clinton, Armstrong pronunciò una frase ambigua e misteriosa, parlando della necessità di «rimuovere uno degli strati che proteggono la verità». In seguito, Armstrong si rifiutò di partecipare alle celebrazioni del quarantennale delle missioni Apollo. «Interpellati da un giornalista, Armstrong e gli altri due astronauti di Apollo 11 si rifiutano di giurare sulla Bibbia di essere stati veramente sulla Luna. Il loro comportamento è piuttosto sospetto e le reazioni appaiono esagerate», sottolinea Stefania Nicoletti, ricordando che in America «una testimonianza giurata in video può essere portata in tribunale contro la persona che ha fatto questo giuramento». Il documentario di Mazzucco, quindi, fornisce «un quadro a nostro avviso piuttosto chiaro, che confuta alcune delle più famose argomentazioni proposte dai cosiddetti “debunkers”, ovvero coloro che dedicano il loro lavoro a smontare le teorie alternative». Dopo aver visto “American Moon”, come credere ancora che siamo davvero andati sulla Luna?“American Moon”, ovvero: ci siamo stati davvero, sulla Luna? E’ la domanda a cui cerca di rispondere Massimo Mazzucco, con l’atteso documentario – appena uscito, acquistabile on-line su “Luogo Comune” – che indaga sul mitico “allunaggio” televisivo, in mondovisione, andato in onda a reti unificate il 20 luglio 1969. A metter piede per la prima volta sul satellite sarebbe stato Neil Armstrong, comandante della missione Apollo 11, accompagnato da Buzz Aldrin, mentre un terzo astronauta, Michael Collins, controllava il modulo di comando Columbia. “American Moon” parla della storia dei viaggi lunari a partire dagli anni ’60, spiega Stefania Nicoletti sul blog “Petali di Loto”, condotto insieme a Paolo Franceschetti. «In particolare viene esaminata la veridicità del primo sbarco sulla Luna, ma viene anche descritto il contesto storico e politico in cui nacque e si sviluppò il progetto delle missioni Apollo». Mazzucco analizza le argomentazioni a favore degli allunaggi e quelle contrarie, esaminando video e fotografie, dettagli tecnici, i tanti incidenti e le contraddizioni, dai dubbi di Kennedy alle invalicabili Fasce di Van Allen che avvolgono la Terra. E poi i misteriosi silenzi degli astronauti, assai reticenti sull’impresa che li avrebbe consegnati alla storia. L’autore fornisce anche prove inedite. La conclusione? E’ praticamente impossibile credere che quelle immagini siano state davvero girate sulla Luna.
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Satanismo e potere, da Charles Manson a Michael Jackson
Charles Manson è stato dipinto come il capo di una setta “satanica” di hippies che nell’agosto del 1969 fece una strage in una villa di Beverly Hills. Quella notte morirono, trucidati in modo cruento, l’attrice Sharon Tate e alcuni suoi amici, massacrati con decine di coltellate e persino forchettate al torace e al ventre, poi finiti con un revolver e impiccati. Orrore nell’orrore, si venne a sapere che Sharon Tate, che era la moglie di Roman Polanski, al momento di essere uccisa era incinta di otto mesi. Manson, che viveva col suo gruppo (la Manson Family) nel deserto californiano della Death Valley, non partecipò fisicamente al massacro, ma venne condannato a morte come mandante (condanna poi tramutata in ergastolo, quando la California abolì la pena di morte, nel 1972). «Da allora – ricorda Massimo Mazzucco – Manson è sempre stato dipinto come la quintessenza del male assoluto, come l’uomo capace di manipolare le menti dei suoi seguaci, fino a portarli a compiere degli omicidi così cruenti ed efferati». Ma attenzione: «Furono anche omicidi assolutamente inutili, nel senso che non è mai stato trovato un vero movente, che rendesse ragionevolmente plausibile una strage del genere». Un possibile movente lo ipotizza Gianfranco Carpeoro, massone e simbologo, che collega Manson a John Lennon e Michael Jackson. Filo conduttore, la musica. Personaggio-chiave: Phil Spector, leggendario produttore dei Beatles.Dall’infernale notte dell’estate ‘69, scrive Mazzucco su “Luogo Comune”, i media si sono impegnati in tutti i modi per trovare una valida motivazione a quella strage apparentemente insensata. Il meglio che sono riusciti a partorire? «E’ l’ipotesi che Manson volesse vendicarsi contro il proprietario della villa – il produttore discografico Terry Melcher – perché non aveva voluto pubblicare le sue canzoni (Manson era anche cantautore)». Potrebbe non essere affatto una falsa pista, sostiene Carpeoro ai microfoni di “Border Nights”, perché Manson voleva davvero diventare una rockstar e si era messo in contatto con Spector, che è attualmente in carcere per omicidio. Non solo: in tempi recenti, dalla prigione, Manson ha chiesto formalmente di incontrare Spector, che si è rifiutato di vederlo. In tanti anni – dice Carpeoro – pur professandosi innocente, Manson non ha mai osato raccontare quello che probabilmente sapeva, di quella notte maledetta: di cosa aveva paura? E perché tanta insistenza nel voler a tutti i costi incontrare Phil Spector, in carcere? Forse, ipotizza Carpeoro, Charles Manson era convinto che Spector custodisse un segreto indicibile, su quella notte che gli era costata l’ergastolo. Cos’era avvenuto, davvero, in quella villa di Bel Air a Los Angeles, al numero 10050 di Cielo Drive?Per l’avvocato Paolo Franceschetti, il caso Manson è la fotocopia di quello italiano delle “Bestie di Satana”. Stesso copione: assassini improbabili e indagini superficiali, nessun movente, niente prove (solo alcune confessioni) e niente armi del delitto. «La strage americana, eseguita con la micidiale competenza di un commando di killer, sarebbe stata commessa da un pugno di giovanissime, scalze e sbandate, strafatte di droga: l’accusa è fondata su indizi di cartapesta». Autore di analisi sui maggiori gialli irrisoliti della cronaca italiana come gli “omicidi rituali” (uno su tutti, il caso del Mostro di Firenze), Franceschetti inquadra gli indizi di una possibile pista esoterica: «Nessuno degli inquirenti nota alcuni particolari curiosi che, a tacer d’altro, avrebbero perlomeno dovuto insospettire». Roman Polanski, per esempio: «Al momento del delitto non era in casa, ma in Europa a promuovere il suo film appena terminato: “Rosemary’s Baby”. Il film parla di una donna che mette al mondo un bambino per consacrarlo a Satana (nel finale infatti la donna partorisce), e nel cast figura in veste di consulente nientemeno che il fondatore e leader della Chiesa di Satana, Anton La Vey, l’autore del libro “La Bibbia di Satana”. Il film era quindi qualcosa di più di un semplice film di fantasia». Nessuno, continua Franceschetti, notò che una delle vittime attribuite alla Manson Family si chiamava proprio Rosemary. Si tratta di Rosemary LaBianca, uccisa con 41 coltellate l’indomani, 11 agosto, a due passi dal luogo del primo eccidio.«Nonostante questa strana, troppo strana coincidenza, nessuno ipotizza neanche lontanamente un collegamento tra la promozione del film e le due stragi». E’ Carpeoro ad aggiungere un dettaglio fondamentale: «Fu proprio Phil Spector, il produttore dei Beatles, a organizzare il viaggio di Polanski in Europa per promuovere il film». Evidentemente, i due erano in strettissimo contatto. Quanto alla strage di Bel Air, Franceschetti ne esamina la simbologia: «Il delitto avviene infatti a Cielo Drive, ad opera di Manson (man-son, figlio dell’uomo, Cristo). In Cielo, quindi, Cristo uccide la Rosa» (per Franceschetti, l’allusione al fiore potrebbe essere una “firma”: la Rosa Rossa sarebbe un’associazione segreta, dedita agli omicidi rituali). «Manson, il Figlio dell’Uomo, vive nella Death Valley, la valle della morte. Vive cioè nel deserto, ed è senza fissa dimora proprio come – guarda tu che coincidenza – il Cristo dei Vangeli: Matteo 8, 20: “Le volpi hanno una tana, e gli uccelli hanno un nido, ma il figlio dell’uomo non ha un posto dove riposare”. Manco a dirlo, il primo poliziotto ad accorrere sul luogo del delitto si chiama Jerry De Rosa». Il corpo di Sharon Tate viene ritrovato legato a quello del suo giovane amante: «I sospetti sarebbero dovuti ricadere su Polanski, che alcuni considerano tutt’oggi uno dei mandanti della strage, ma nessun investigatore batte questa pista».Da ultimo, annota Franceschetti, c’è da segnalare che anche il nome della vittima più importante sembra non essere affatto casuale. Sharon, infatti, richiama il versetto biblico del Cantico dei Cantici: “Io sono la Rosa di Sharon, il Giglio delle Valli”, da cui è tratta la simbologia rosacrociana della rosa e del giglio. «In altre parole, una rappresentazione: in Cielo (Cielo Drive), il Figlio dell’Uomo (Manson), proveniente dalla Death Valley (Valle della Morte), uccide la Rosa». Se Franceschetti batte in solitaria la pista esoterica, quella del “sacrificio rituale” inscenato da poteri occulti, i giornali si affacciarono anche sull’ipotesi della vendetta, maturata nell’ambiente musicale: a ordinare la strage era stato Charles Manson, scrive la “Stampa”, solo perché le vittime «abitavano nella casa di un produttore discografico che aveva rifiutato di incidere le sue sconclusionate canzoni». Non è esatto, sostiene Carpeoro: è invece possibile che “qualcuno” abbia chiesto a Manson di mandare i suoi “ragazzi”, quella notte, in quella villa, dove la strage era già stata commessa da altri. Obiettivo: incastrare quei giovani, con le impronte digitali, per depistare le indagini? E magari ottenere in cambio, da Spector, l’agognata produzione del disco che Manson sognava?Per suffragare il suo ragionamento, Carpeoro rivela che Spector è stato un satanista: il testo della sua hit di maggior successo, “You’ve lost that lovin’ feeling” (cantata dai Righteous Brothers nel 1965) se ascoltato al contrario riproduce, pari pari, un antico rituale satanico. Di più: «La trrama del film “Rosemary’s Baby” è la storia, vera, della vita di Spector, che Polanski non avrebbe mai dovuto raccontare». Secondo Carpeoro era proprio Spector il bambino “consacrato al diavolo” da genitori satanisti: Sharon Tate sarebbe stata trucidata proprio per punire Polanski. Uccisa da chi? Non dai “fricchettoni” della Manson Family, ovviamente. «Il satanismo è un pericolo concreto», sostiene Carpeoro: «Arruola persone disposte a credere in qualcosa che non in esiste, ma che – in nome di quella cosa – possono anche uccidere». Attenzione: «E’ una delle manipolazioni di cui il potere si è spesso servito». Di cosa aveva paura, all’epoca, il potere? I Beatles, ad esempio – e Lennon in particolare – incarnavano il sentimento giovanile, anche politico, della rivolta contro il sistema. «Fu Spector a introdurre i Beatles all’Lsd», dichiara Carpeoro, «e la sua presenza finì col mettere i Beatles uno contro l’altro».Spector si fece avanti reclamando i diritti di molte canzonui dei Bealtes, che però gli furono negati: il produttiore litigò aspramente con John Lennon. Sciolti i Beatles, Lennon venne assassinato l’8 dicembre 1980 da un giovane fan, Mark David Chapman: una volta arresto, disse che aveva “obbedito alla voce del diavolo”. I diritti dei Beatles, continua Carpeoro, fuorono poi acquisiti da Michael Jackson, anche lui subito “assediato” da Spector perché gli cedesse i diritti dei “Fab Four”. Jackson fu poi ucciso da un’iniezione risultata letale, praticatagli dal dottor Conrad Murray. «Chi aveva presentato quel medico a Michael Jackson? Sempre lui, Phil Spector», aggiunge Carpeoro. E l’ombra dei Beatles – o meglio, della manipolazione che li riguarda – si allunga direttamente su Charles Manson. Ricorda Franceschetti, nella sua ricostruzione: «Secondo il procuratore Vincent Bugliosi, Manson voleva scatenare una rivolta dei neri contro i bianchi, e quella strage doveva dare il buon esempio, innescando la miccia di una rivolta globale. L’idea gli era stata suggerita da una canzone dei Beatles, “Helter Skelter”, e per questo motivo tale movente verrà anche, dai media ufficiali, individuato sinteticamente come “l’Helter Skelter”».Satanismo e rock, potere e politica? Una teoria «complicata, ma decisamente plausibile e sensata, vista specialmente l’epoca storica in cui si colloca», scrive Mazzucco. L’ipotesi è che Manson «fosse un prodotto di laboratorio della Cia, un “controllato mentale” del programma Mk-Ultra, che sarebbe stato utilizzato per gettare discredito sull’intera comunità hippie dell’epoca, e quindi per estensione sulla pericolosissima e rivoluzionaria filosofia dei “figli dei fiori”». Era l’estate del ‘69, l’anno di Woodstock, e i cosiddetti “figli dei fiori” «si stavano facendo conoscere a livello internazionale con una rivoluzione dei valori talmente radicale che certamente non poteva essere tollerata molto più a lungo dai membri dell’establishment politico di quell’epoca». Solo pochi mesi prima, infatti, era diventato presidente il conservatore Nixon. «Sarà un caso, ma i delitti Manson segnano proprio, nella storia, la fine della percezione positiva e pacifista del movimento hippie, e l’inizio di una connotazione negativa, caratterizzata dai valori antisociali professati dalla setta di Manson, che non avrebbe più abbandonato il movimento fino alla fine dei suoi giorni».In proposito, il procuratore Bugliosi (che fece condannare Manson e i suoi seguaci) ha scritto: «Il mantra di quell’epoca era pace, amore e condivisione. Prima del caso Manson la gente non aveva mai identificato gli hippie con la violenza. Poi arrivarono i membri della famiglia Manson, che avevano un’aria da hippie, ma erano criminali omicidi. E’ questo provocò uno shock in America. Come era possibile questo?». E ancora: «I delitti di Manson suonarono la campana a morto per gli hippie e per tutto quello che rappresentavano. Fu la fine di un’era. Gli anni ‘60, il decennio dell’amore, si consclusero quella notte del 9 agosto 1969». Che dite, chiosa Mazzucco: sarà stata solo una coincidenza? I presunti omicidi dell’Helter Skelter «da quella villa uscirono scalzi, per poi allontanarsi in autostop», ricorda Franceschetti. Satanismo e potere, avverte Carpeoro, possono coincidere: il primo viene usato dal secondo come copertura, come arma di distruzione. Finiti i Bealtes, eroi della rivoluzione giovanile di quegli anni. Assassinato John Lennon. Ucciso Michael Jackson, travolto da scandali (tutti inventati) dopo aver pubblicato il brano ribellista “They don’t care about us” (non gliene importa niente, di noi). E poi, ci sono quei due detenuti che non parlano: Manson che tace sulla notte della strage, Spector che si rifiuta di incontrarlo. Se qualcuno aveva paura che Manson parlasse, può rilassarsi: il caso è chiuso, Manson non parlerà più. Nemmeno con Spector.Charles Manson è stato dipinto come il capo di una setta “satanica” di hippies che nell’agosto del 1969 fece una strage in una villa di Beverly Hills. Quella notte morirono, trucidati in modo cruento, l’attrice Sharon Tate e alcuni suoi amici, massacrati con decine di coltellate e persino forchettate al torace e al ventre, poi finiti con un revolver e impiccati. Orrore nell’orrore, si venne a sapere che Sharon Tate, che era la moglie di Roman Polanski, al momento di essere uccisa era incinta di otto mesi. Manson, che viveva col suo gruppo (la Manson Family) nel deserto californiano della Death Valley, non partecipò fisicamente al massacro, ma venne condannato a morte come mandante (condanna poi tramutata in ergastolo, quando la California abolì la pena di morte, nel 1972). «Da allora – ricorda Massimo Mazzucco – Manson è sempre stato dipinto come la quintessenza del male assoluto, come l’uomo capace di manipolare le menti dei suoi seguaci, fino a portarli a compiere degli omicidi così cruenti ed efferati». Ma attenzione: «Furono anche omicidi assolutamente inutili, nel senso che non è mai stato trovato un vero movente, che rendesse ragionevolmente plausibile una strage del genere». Un possibile movente lo ipotizza Gianfranco Carpeoro, massone e simbologo, che collega Manson a John Lennon e Michael Jackson. Filo conduttore, la musica. Personaggio-chiave: Phil Spector, leggendario produttore dei Beatles.
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Costa Concordia: credete davvero che sia stato un incidente?
Sicuri che sia stato davvero un incidente, e non invece un naufragio deliberato? Nel caso, quello della Costa Concordia risulterebbe “firmato” in modo inequivocabile, massonico. Troppe coincidenze alimentano fondati sospetti, afferma l’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, saggista e studioso di simbologia. “Seguite i soldi”, direbbe un detective americano, e forse scoprirete che dietro al disastro della nave da crociera incagliatasi davanti all’Isola del Giglio il 13 gennaio 2012 potrebbe nascondersi il più classico dei moventi, quello economico. E cioè: sbarazzarsi di una nave ormai anziana, scansando gli esorbitanti costi dello smantellamento. Un’ipotesi non così fantascientifica, per Carpeoro, che nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” svela il codice esoterico con cui settori deviati dell’intelligence Nato avrebbero “firmato” gli attentati in Europa eseguiti da manovalanza islamista targata Isis. «In una serie di elementi di questa vicenda – afferma Carpeoro, parlando della Concordia ai microfoni di “Border Nights” – ho trovato qualcosa che somiglia al meccanismo consueto, che è quello della “firma”. Cioè: attraverso la scelta di circostanze e di date, qualcuno l’ha “firmato”, l’evento». Gli ipotetici autori? «Soggetti che generalmente lavorano per servizi, per società segrete anche paramassoniche». E i 32 morti? «Non voluti: probabilmente un errore di calcolo, che però si appoggiava su un’ipotesi criminosa».
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Solange Manfredi: papà, uomo di potere, viveva nel terrore
Paolo (Franceschetti) in questo blog ha scritto alcuni articoli su alcune associazioni esoteriche che hanno fatto sorgere tra i lettori confronti, a volte, anche accesi. Diverse persone hanno commentato gli articoli scrivendo le proprie esperienze, e non solo. Altri sono intervenuti per mettere in guardia dal “fascino” che dette associazioni possono avere su alcune persone. In ultimo, ieri, un’amica di Paolo, letto il suo ultimo articolo sulla Rosa Rossa, gli ha detto che leggerlo fa venir voglia di iscriversi, più che di combattere il fenomeno… fa venire voglia di dire “voglio anche io avere conoscenze superiori, voglio anche io avere potere”. Ed ecco il perché del mio intervento. Ho avuto la straordinaria (nel senso letterale del termine, ovvero fuori dall’ordinario) possibilità di vivere in una famiglia che tale potere aveva, inserita ai massimi livelli italiani. Per tale motivo ritengo opportuno dare la mia testimonianza sull’altra faccia di questo potere che tante persone può affascinare. Questo tipo di potere ha un costo enorme ed è quello della vita e della libertà tua e della tua famiglia. Certo, la mia famiglia aveva potere e denaro, ma a che prezzo cercherò di spiegarvelo nel modo più semplice.Non ho mai visto, un solo giorno, mio padre senza la paura negli occhi. Non l’ho mai visto veramente sereno e sorridente. Era un bravissimo attore e, in società, era considerato un uomo bello, intelligente, simpatico, ironico, tollerante, comprensivo e disponibile. A casa era un uomo chiuso, sospettoso, iroso, intollerante e cinico. Era un uomo spaventato. Perché quando accetti di far parte di questo mondo, o di queste organizzazioni, il prezzo da pagare è questo. Non hai la possibilità di difendere né te stesso, né la tua famiglia. Tutto è loro concesso e tu non puoi rifiutare ai gradi pari, o superiori, nulla. Sei, sostanzialmente, al loro servizio. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che ti viene tolta la dignità e la libertà. Diventi, niente di più e niente di meno, che uno schiavo strapagato. Uno schiavo che deve essere sempre pronto ad esaudire i desideri dell’organizzazione, qualunque essi siano, legali o no.Uno schiavo che non ha la possibilità di difendere neanche la sua famiglia, perché anche quella appartiene all’organizzazione. Uno schiavo che potrà chiedere grandi vantaggi anche per la sua famiglia, certo, ma che se attaccata dall’organizzazione non avrà la possibilità di difenderla. Anzi, se chiesta, sarà lui a doverla concedere. Sarai a conoscenza, quando addirittura non complice od esecutore, di reati che servono sia agli scopi dell’organizzazione sia per renderti uomo ricattabile. Dovrai scattare ad ogni loro richiamo. Dovrai sottostare a qualsiasi loro richiesta. Vivrai nel terrore di sbagliare, sapendo che la pena per tale errore è la più atroce. Ogni giorno vivrai con l’ansia che il telefono squilli, o che qualcuno arrivi nel tuo studio a farti l’ennesima richiesta oscena a cui tu dovrai obbedire; perché hai potere, certo, ma c’è sempre qualcuno sopra di te. Perché magari un giorno, se ti verrà chiesto, dovrai dare l’ordine di uccidere un uomo onesto, solo perché, svolgendo il suo lavoro, si è avvicinato pericolosamente a scoprire l’organizzazione di cui fai parte.E sarà difficile prendere sonno quella notte. Ma lo sarà ancora di più la notte seguente all’attentato che hai ordinato di fare, quando saprai che l’autobomba imbottita di tritolo ha ucciso anche una madre con i suoi due figli, colpevoli soltanto di trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Sarà difficile quella sera rientrare a casa e vederti correre incontro tua figlia, che ha più o meno la stessa età dei bambini morti nell’attentato che hai ordinato, per un abbraccio. Sarà difficile, quasi impossibile, ricevere quell’abbraccio, perché quel contatto potrebbe farti pensare a quei bambini, i cui corpi sono stati ritrovati a decine di metri di distanza, spiaccicati sulla facciata di un palazzo, e farti crollare emotivamente. E allora, probabilmente, allontanerai con rabbia tua figlia, le impedirai qualsiasi contatto, lasciandola delusa e confusa. O forse passerai settimane intere tornando a casa tardi la sera, per essere sicuro che già dorma, per poi svegliarti la mattina quando è già uscita per andare a scuola.Negli anni questo stato ti porterà a chiuderti dentro una corazza, che ogni giorno si farà più stretta, fino a soffocarti. Perché denaro e potere non riescono a cancellare il fatto che ti hanno annullato come uomo, privandoti di dignità e libertà. E anche quando qualcuno dell’organizzazione causerà un danno alla tua famiglia e questa ti chiederà tutela, il non poterla dare, il non poter loro spiegare che quel danno, o quel reato, non può essere denunciato, sarà difficile. Perché tra voi non vi potete denunciare, in quanto considerate i tribunali dello Stato “tribunali profani”, indegni di giudicarvi. Cercherai scuse per non agire e, se la tua famiglia cercherà di tutelarsi da sola, arriverai perfino a rubare da casa i documenti che comprovano il reato per impedire la denuncia. E allora per la tua famiglia diventerai, nella migliore delle ipotesi, un uomo che causa sofferenza e incomprensioni.Sarà difficile reggere tutto ciò. Perché sarà difficile da reggere la recita in pubblico, sempre in tensione ad ogni persona che ti si avvicina e ti dice: “Sono un amico di….le posso parlare?”. Con una “corte” attorno a te di uomini che ti adulano, certo, ma che – tu sai perfettamente – aspettano solo un momento di tua debolezza per pugnalarti alle spalle e prendere il tuo posto, e il relativo potere, nell’organizzazione. E sarà difficile reggere le incomprensioni che il tuo atteggiamento ha causato in casa. Certo, cercherai disperatamente di compensare quelle incomprensioni con quel denaro tanto facile e immeritato che a fiumi ti viene fatto scorrere nelle tasche. Ma può capitare che alla tua famiglia non interessi tanto denaro, interessi avere un padre ed un uomo, ovvero quello che tu non sei più. E allora ogni giorno sarà una sofferenza per te e per chi ti sta accanto.Il momento peggiore, poi, sarà quando non riuscirai più a sopportare tutto ciò e cercherai un modo per uscirne, per trovare una scusa all’ennesima indecente richiesta. Sarà proprio allora che ti verrà ricordato che non sei libero di scegliere, e te lo ricorderanno nei modi peggiori. Magari faranno avvicinare tua figlia da qualcuno che le farà un discorso strano, che lei non sarà in grado di capire, ma che le verrà chiesto di riferirti, perché tu, invece, ne comprenderai perfettamente il significato. E allora inizierà il panico. Un panico incontrollato. E inizierai a tremare ogni qualvolta tua figlia uscirà di casa, ogni volta che ti racconterà di aver conosciuto un ragazzo. Reagirai con la tipica rabbia dettata dalla paura chiedendole di non vedere mai più quella persona, adducendo scuse a tale richiesta, scuse banali e per tua figlia incomprensibili. Questo allontanerà ancora di più tua figlia che, per vivere, inizierà a mentirti e a nasconderti la propria vita. Tutto ciò aumenterà ancora di più la tua paura e la tua sensazione di impotenza.Così avanzerai verso di lei pretese sempre più assurde, cercando di controllare ogni sua amicizia, ogni suo spostamento e, quando tua figlia ti chiederà spiegazioni per questo tuo comportamento, non saprai cosa dire. Perché probabilmente non avrai la forza di spiegarle che rischia la vita, che è pericoloso uscire con un ragazzo incontrato in discoteca, perché lei è usata come strumento di pressione e di ricatto perché tu obbedisca. Perché non potrai spiegarle che quella persona con cui lei ti dice aver passato una bella serata e che, conoscendoti, ti manda i suoi saluti, in realtà voleva farti sapere che è stato così vicino a tua figlia da poterla uccidere con una sola mano. Non potrai. Né potrai spiegarle che vive questa situazione perché tu hai scelto anni prima di avere potere e denaro per poter avere una bella casa, per poter avere incarichi che non meritavi, per non rispondere giudizialmente di eventuali errori nella tua professione, per poter fare le vacanze nei posti più esclusivi, per poter ottenere con facilità cose che non ti spettavano, ecc..Non potrai spiegarle che la sua vita appartiene ad altri perché tu volevi il potere. E non potrai spiegarlo perché, anche se tu trovassi la forza di farlo, sapresti perfettamente che non servirebbe a nulla, se non a far vivere nel panico anche i tuoi cari. E’ a questo punto che ti accorgerai di quanto ti sia costato quel potere, ma non potrai più tornare indietro. Non potrai più porre rimedio a quella scelta fatta per l’ambizione di arrivare dove altrimenti non saresti mai arrivato. Non avrai più via di scampo, come non ce l’avrà la tua famiglia, che vivrà in un incubo senza sapere perché. Nessun rapporto, solo recite in pubblico per la società, che tu obbligherai la tua famiglia a recitare con la paura e il ricatto, i soli strumenti che ti saranno rimasti avendo perso il loro amore, la loro stima e la loro fiducia. E neanche la tua morte salderà il conto, perché la tua famiglia sarà costretta a scegliere: se entrerà nell’organizzazione manterrà ciò che ha, se rifiuterà le verrà tolto tutto.Sì, perché le strutture che tu hai messo in piedi, siano aziende o studi professionali, sono strutture dell’organizzazione, e tu eri solo lo schiavo strapagato che le portava avanti, la cosiddetta testa di legno. Così, se la tua famiglia rifiuterà, le verrà tolto tutto. Se cercherà di ottenere ciò che ritiene suo, e che la legge dice esserlo, verrà massacrata (morte civile, calunnie, minacce, denunce pretestuose, ecc). Se poi un componente della tua famiglia, magari tua figlia, sceglierà di aiutare le persone che cadono vittime della tua organizzazione (e sono tante) perché, grazie alla sua esperienza di vita, vi conosce e riconosce, o cercherà di informare sul meccanismo del vostro potere, saprà che sarà un progetto che non potrà pianificare. Saprà che, probabilmente, una sera ci sarà qualcuno che, come tante volte hai fatto tu in passato, darà l’ordine di eliminare il problema. E l’esecutore, con rapidità ed efficienza, entrerà in azione assicurandosi che il decesso venga archiviato come incidente o suicidio. Questo è il prezzo del potere. Alle singole persone scegliere se vale la pena pagarlo. Io, ho scelto la libertà per poter, come ebbe a dire Paolo Borsellino: «sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità».(Solange Manfredi, “Il prezzo del potere”, dal blog di Paolo Franceschetti del 20 novembre 2008).Paolo (Franceschetti) in questo blog ha scritto alcuni articoli su alcune associazioni esoteriche che hanno fatto sorgere tra i lettori confronti, a volte, anche accesi. Diverse persone hanno commentato gli articoli scrivendo le proprie esperienze, e non solo. Altri sono intervenuti per mettere in guardia dal “fascino” che dette associazioni possono avere su alcune persone. In ultimo, ieri, un’amica di Paolo, letto il suo ultimo articolo sulla Rosa Rossa, gli ha detto che leggerlo fa venir voglia di iscriversi, più che di combattere il fenomeno… fa venire voglia di dire “voglio anche io avere conoscenze superiori, voglio anche io avere potere”. Ed ecco il perché del mio intervento. Ho avuto la straordinaria (nel senso letterale del termine, ovvero fuori dall’ordinario) possibilità di vivere in una famiglia che tale potere aveva, inserita ai massimi livelli italiani. Per tale motivo ritengo opportuno dare la mia testimonianza sull’altra faccia di questo potere che tante persone può affascinare. Questo tipo di potere ha un costo enorme ed è quello della vita e della libertà tua e della tua famiglia. Certo, la mia famiglia aveva potere e denaro, ma a che prezzo cercherò di spiegarvelo nel modo più semplice.
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Stieg Larsson ucciso perché tacesse la verità su Olof Palme?
Ultimamente nelle librerie si trova la trilogia “Millennium”, di Stieg Larsson. Si tratta di tre romanzi molto belli e ben fatti. Un successo da milioni di copie. L’autore è morto subito dopo aver terminato l’ultimo dei tre. Infarto. Avendo ormai capito che nessun successo internazionale arriva per uno scrittore se non c’è un motivo specifico collegato al sistema, mi incuriosisco e decido di capire di più riguardo alla sua morte. Approfondendo si scoprono alcune cose, che rendono evidente che la sua morte non è stata casuale, ma un vero e proprio assassinio. Primo indizio: l’autore muore come il personaggio del suo terzo libro (“La ragazza che giocava con il fuoco”). Muore cioè di infarto, nella redazione del suo giornale. Abbiamo detto che questa tecnica è la legge del contrappasso utilizzata dall’organizzazione che si chiama Rosa Rossa. Secondo indizio: nella prima pagina della rivista “Expo”, ovverosia la rivista da lui fondata e dove esercitava il suo lavoro di giornalista, compare la sua foto con una rosa rossa in mano. La rosa campeggia da anni insieme alla foto dello scrittore.Terzo indizio: il nome del protagonista dei suoi romanzi è Mikael Blomkvist. Costui è conosciuto nel suo ambiente col soprannome di Kalle Blomkvist. Tale soprannome viene da un personaggio di un romanzo di Astrid Lindgren, l’autrice famosa per la saga di Pippi Calzelunghe. Il personaggio si chiama, appunto, Kalle Blomkvist, ed è un ragazzino che capeggia la banda della Rosa Bianca, in perenne conflitto con la banda avversaria della Rosa Rossa. Quarto indizio, la data rituale: 9.11.2004. Il valore numerico di questa data è 8: giustizia. Stieg Larsson è stato quindi probabilmente giustiziato. E la regola del contrappasso viene applicata a chi si è macchiato di una determinata colpa; tale tipo di morte dà quindi un indizio per capire il motivo per cui la persona è stata assassinata. E qui la ragione probabilmente deve essere ricercata nei suoi stessi romanzi e non altrove.Larsson era un collaboratore di Scotland Yard e consulente del ministero della giustizia svedese. Non a caso dopo l’omicidio di Olof Palme i servizi segreti chiesero la sua collaborazione per le indagini. I suoi romanzi dimostrano infatti una buona conoscenza del sistema dei servizi segreti (ad esempio viene ben descritto, nel terzo romanzo, il sistema dei suicidi in ginocchio e degli incidenti, di cui noi abbiamo parlato nei nostri articoli sull’omicidio massonico) e del sistema giudiziario in genere. Probabile quindi che si sia spinto troppo in là nel descrivere i dettagli di alcune operazioni segrete; probabile che i suoi romanzi abbiano attinto troppo dalla realtà, e che per giunta, adottando il soprannome di Kalle Blomkvist, volesse far intendere a chi leggeva che stava descrivendo il “sistema” della Rosa Rossa, dal punto di vista di una persona che tale sistema voleva combatterlo.Tra l’altro i suoi romanzi procedono in un crescendo: si passa da quello che sembra un normale romanzo giallo (il primo), ad una trama sempre più complicata che vede coinvolti i servizi segreti in un traffico di prostitute (il secondo), per arrivare ad un intrigo in cui sono coinvolti magistrati, politici e medici (il terzo). Tale intrigo è molto simile alla realtà. Probabile che nei successivi romanzi Larsson avesse voluto programmare una escalation di intrighi, ma anche di informazioni sul sistema in cui viviamo. Il mistero della sua morte va quindi ricercato, probabilmente, nei suoi futuri romanzi. Ma anche approfondendo e interpretando meglio i tre romanzi già scritti, leggendone il simbolismo, i riferimenti, le metafore, si potrebbero già scoprire molte cose interessanti.E allora mi vengono in mente le parole della Carlizzi, la prima volta che la incontrai e che mi spiegò “il sistema”. Alla mia esclamazione «ma questo è peggio di Dan Brown e di qualsiasi romanzo, siamo nella fantascienza», mi rispose: «Sbagli. La fantasia è inferiore alla realtà, per la complessità e la gravità degli eventi. Se un romanziere provasse a scrivere la verità in un romanzo, non glielo permetterebbero. Perché poi chi legge potrebbe insospettirsi e pensare che sia tutto vero. Quindi nessuno può pubblicare, anche in forma di romanzo, la verità». A mio parere quindi Larsson è stato assassinato non tanto per quel che ha scritto, ma per quello che avrebbe potuto scrivere: la verità sul sistema in cui viviamo.(Paolo Franceschetti, “Il mistero della morte di Stieg Larsson”, dal blog di Franceschetti del 21 ottobre 2010).Ultimamente nelle librerie si trova la trilogia “Millennium”, di Stieg Larsson. Si tratta di tre romanzi molto belli e ben fatti. Un successo da milioni di copie. L’autore è morto subito dopo aver terminato l’ultimo dei tre. Infarto. Avendo ormai capito che nessun successo internazionale arriva per uno scrittore se non c’è un motivo specifico collegato al sistema, mi incuriosisco e decido di capire di più riguardo alla sua morte. Approfondendo si scoprono alcune cose, che rendono evidente che la sua morte non è stata casuale, ma un vero e proprio assassinio. Primo indizio: l’autore muore come il personaggio del suo terzo libro (“La ragazza che giocava con il fuoco”). Muore cioè di infarto, nella redazione del suo giornale. Abbiamo detto che questa tecnica è la legge del contrappasso utilizzata dall’organizzazione che si chiama Rosa Rossa. Secondo indizio: nella prima pagina della rivista “Expo”, ovverosia la rivista da lui fondata e dove esercitava il suo lavoro di giornalista, compare la sua foto con una rosa rossa in mano. La rosa campeggia da anni insieme alla foto dello scrittore.
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Anche la Spagna nel copione “Isis”, con il solito passaporto
«I Mossos, i poliziotti catalani, entrano nel furgone abbandonato sulle Ramblas dopo aver controllato che non avesse esplosivi all’interno e trovano un passaporto spagnolo di un uomo di origine marocchina residente a Melilla, l’enclave iberica in Marocco», scrive la “Stampa”, all’indomani dell’ennesima strage, Barcellona, 17 agosto 2017. Il solito passaporto? Come quello ritrovato sul cruscotto dell’auto del commando di Charlie Hebdo, quello abbandonato sul posto dallo stragista di Berlino poi ucciso in Italia. E’ normale, andare a fare un attentato portando con sé il documento d’identità? E’ normale “dimenticarlo” a bordo del mezzo utilizzato per compiere una strage? Il massacro che inaugurò la modalità dell’investimento di pedoni – Nizza, 14 luglio 2016 – fu preceduto anch’esso da una storia di passaporti: due anni prima, ricorda “Today”, sui social media arabi comparve «un annuncio di “smarrimento” di documenti, intestati a Mohamed Lahouaiej Bouhlel, poi identificato come il franco-tunisino alla guida del camion scagliato contro la folla nell’attacco che ha ucciso almeno 84 persone», a Barcellona. Se è per questo, ricorda Massimo Mazzucco, passaporti di “kamikaze” furono prodigiosamente ritrovati persino nell’inferno fumante di Ground Zero, l’11 Settembre. E un altro famoso passaporto, quello di Lee Harvey Oswald, fu prontamente ritrovato a Dallas, a pochi minuti dall’uccisone del presidente Kennedy.Quella del camion lanciato a bomba contro la folla, sottolinea Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, è una modalità tristemente “pratica”, a basso rischio organizzativo: un furgone non desta sospetti, l’azione criminale può essere rapida, solitaria e micidiale. Il destino dell’attentatore? Sempre lo stesso: viene abbattuto subito, sul posto, come i 5 kamikaze che avrebbero colpito Cambrils, poco dopo Barcellona, o viene comunque ucciso nel giro di poche ore, al massimo qualche giorno, come Anis Amri, caduto a Milano in un conflitto a fuoco con la polizia italiana dopo aver provocato la “strage di Natale” a Berlino. Per l’atroce massacro di Barcellona la polizia ha arrestato due sospetti, ma – precisa il “Corriere della Sera – tra questi «non c’è l’autore materiale dell’attentato», che si sarebbe dileguato. L’uomo identificato, Bouhlel, potrebbe avere le contate: «Se trovano il passaporto, poi lo uccidono», ha sostenuto Maurizio Blondet, in relazione agli altri attentati-fotocopia di Nizza, Berlino e Londra. Un tragico copione? Ebbene sì, sostiene Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni”: «Dati gli strumenti a disposizione dell’intelligence, è matematicamente impossibile, oggi, che si possano compiere stragi senza disporre di connivenze e coperture, negli apparati di sicurezza, da parte di funzionari infedeli, complici dei veri mandanti dei terroristi».Per la prima volta, la sigla “Isis” – qualunque cosa significhi – colpisce il Sud Europa, dopo aver mietuto vittime in Francia, Belgio, Germania e Gran Bretagna. Una minaccia indiretta rivolta all’Italia, paese fortunamente non ancora finito nel mirino, forse anche per il suo ruolo strategico di “autostrada mediterranea” dei migranti? In realtà, sostiene Carpeoro, «gli addetti ai lavori sanno bene che il dispositivo antiterrorismo del nostro paese è il migliore del mondo». Dispositivo particolarmente vigile, aggiunge Magaldi, che fornisce una spiegazione ancora una volta di stampo massonico: «Oggi, i servizi segreti italiani collaborano strettamente con settori dei servizi Usa riconducibili alla super-massoneria internazionale progressista, ostile all’egemonia anche stragistica delle Ur-Lodges neo-conservatrici». Affermazioni estremamente impegnative, che Magaldi – già affiliato alla superloggia “Thomas Paine” – probabilmente circostanzierà nel “sequel” del libro “Massoni”, in uscita entro fine anno, scritto forse anche con il contributo di un eminente supermassone molto controverso come il finanziere George Soros, promotore delle Ong che fanno capo a “Open Society”, struttura sospettata di aver ispirato e supportato golpe, “regime change”, primavere arabe e rivoluzioni colorate, fino all’attuale esodo dei migranti africani e mediorientali veso l’Europa, via Italia.In ogni crimine, la svolta nelle indagini scatta sempre in un momento preciso: quando gli investigatori individuano il movente. Quello del cosiddetto Mostro di Firenze (16 vittime) non è ancora stato accertato: non a caso, in carcere erano finite soltanto tre persone, i “compagni di merende”, e la sentenza indicava la necessità di sviluppare altre indagini, dato che Pacciani – il cui patrimonio si era misteriosamente gonfiato – non poteva aver fatto tutto da solo, con il semplice “aiuto” di Vanni e Lotti. Anche per questo, forse – la mancanza di un movente credibile – le autorità giudiziarie hanno riaperto l’inchiesta. Ipotesi, formulata dall’avvocato di una delle vittime: quegli oscuri delitti accompagnarono in modo cronometrico le tappe di sangue del terrorismo che, all’epoca, devastò l’Italia. Delitti efferati, per distrarre l’opinione pubblica? Gli indagatori della “pista esoterica”, come l’avvocato Paolo Franceschetti, propendono per un’altra ipotesi: delitti rituali, atrocemente compiuti secondo modalità “magico-cerimoniali”. Lo sostenne il criminologo Francesco Bruno, ingaggiato dall’allora capo del Sisde, Vincenzo Parisi: fu il primo a parlare di connotazioni “religiose”. Nel romanzo “Nel nome di Ishmael”, lo scrittore Giuseppe Genna – con il quale si complimentò Cossiga, per l’acume dimostrato – l’oscura setta che, nel libro, uccide bambini, lo fa nella convinzione di “propiziare” attentati politici che seguono, di poche ore, il ritrovamento dei piccoli cadaveri. Attentati e omicidi di rilievo internazionale, da Aldo Moro a Olof Palme, fra retroscena popolati da personaggi del calibro di Kissinger.Per Magaldi, l’ex plenipotenziario della Casa Bianca, nonché fondatore della Trilaterale con David Rockefeller e i Rothschild, è stato anche al vertice della Ur-Lodge “Three Eyes”, che nel libro “Massoni” è indicata come la vera “mente” della Loggia P2 di Licio Gelli e della strategia della tensione in Italia negli anni ‘70. Un’altra superloggia, la “Hathor Pentalpha”, secondo Magaldi fondata da Bush padre all’inzio degli anni ‘80, sarebbe invece l’ispiratrice del neo-terrorismo internazionale, da Al-Qaeda all’Isis: ne avrebbero fatto parte Osama Bin Laden e il “califfo” Abu Bakr Al-Baghdadi, oltre all’entourage Bush e a politici europei come Tony Blair (inventore delle “armi di distruzione di massa” di Saddam) e Nicolas Sarkozy (fautore dell’abbattimento di Gheddafi), nonché il turco Erdogan (organizzatore, in Turchia, delle “retrovie” dell’Isis nell’attacco alla Siria). Una “Spectre del terrore”, che disporrebbe di propri uomini in alcune strutture di intelligence, a loro volta capaci di “coltivare” manovalanza islamista per gli attentati. «La cosiddetta Isis sta aumentando l’intensità delle stragi», ha sostenuto Carpeoro, «perché una parte di quella élite sta “disertando”, si sta sfilando dalla “filiera del terrore”». Carpeoro azzarda un pronostico: «Nel giro di due anni al massimo, magari attraverso Wikileaks, avremo le prove del fatto che Al-Qaeda e Isis sono un’emanazione dei Bush».«I Mossos, i poliziotti catalani, entrano nel furgone abbandonato sulle Ramblas dopo aver controllato che non avesse esplosivi all’interno e trovano un passaporto spagnolo di un uomo di origine marocchina residente a Melilla, l’enclave iberica in Marocco», scrive la “Stampa”, all’indomani dell’ennesima strage, Barcellona, 17 agosto 2017. Il solito passaporto? Come quello ritrovato sul cruscotto dell’auto del commando di Charlie Hebdo, quello abbandonato sul posto dallo stragista di Berlino poi ucciso in Italia. E’ normale, andare a fare un attentato portando con sé il documento d’identità? E’ normale “dimenticarlo” a bordo del mezzo utilizzato per compiere una strage? Il massacro che inaugurò la modalità dell’investimento di pedoni – Nizza, 14 luglio 2016 – fu preceduto anch’esso da una storia di passaporti: due anni prima, ricorda “Today”, sui social media arabi comparve «un annuncio di “smarrimento” di documenti, intestati a Mohamed Lahouaiej Bouhlel, poi identificato come il franco-tunisino alla guida del camion scagliato contro la folla nell’attacco che ha ucciso almeno 84 persone», nel capoluogo della Costa Azzurra. Se è per questo, ricorda Massimo Mazzucco, passaporti di “kamikaze” furono prodigiosamente ritrovati persino nell’inferno fumante di Ground Zero, l’11 Settembre. E un altro famoso passaporto, quello di Lee Harvey Oswald, fu prontamente ritrovato a Dallas, a pochi minuti dall’uccisione del presidente Kennedy.