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Ancora menzogne sulla Grande Guerra, odissea nell’orrore
Certo non si può dire che da Marcello Veneziani l’apologia della Grande Guerra non ce la si potesse aspettare. È in fondo un intellettuale della nuova destra, lo stesso che alla vigilia del 70mo anniversario del 25 aprile aveva riaffermato: «Non celebriamo il 25 aprile perché non è una festa», perché – a suo dire – sarebbe considerata una ricorrenza divisiva, che non è stata concepita «all’insegna della veritas e della pietas». Aveva, Veneziani, anche rincarato la dose, sostenendo che sarebbe «cresciuta l’enfasi per i 70 anni della Liberazione parallelamente a una minore attenzione per i 100 anni della Prima Guerra Mondiale». Se si considera però che Veneziani, giornalista e scrittore, autore di saggi storici e filosofici, è oggi anche membro del comitato scientifico che si occupa degli anniversari della storia d’Italia (istituito a Palazzo Chigi e dal 2013 presieduto da Franco Marini), le sue prese di posizione sulla storia del paese – visto il ruolo “istituzionale” che ricopre – non possono lasciare indifferenti. Così come non lascia indifferenti lo spazio che il “Corriere della Sera” del 20 maggio 2015 ha concesso ad un suo intervento-appello a fare del 24 maggio, almeno quello di quest’anno, l’occasione per una celebrazione istituzionale.Nel suo intervento Veneziani rispolvera tutto l’armamentario ideologico che a proposito della Grande Guerra è stato usato nell’ultimo secolo, riadattato ovviamente ad una sensibilità meno incline di una volta a celebrare l’ardimento e l’eroismo, la guerra e l’annientamento del “nemico”. E infatti Veneziani precisa subito che «ricordando l’entrata in guerra dell’Italia non si vuole certo celebrare l’amore per la guerra». E però, insiste, «col 24 maggio si vuole commemorare la nascita di una nazione con una mobilitazione popolare senza precedenti e un rito di sangue che fu un’ecatombe. Ricordare quel centenario significa ripensare l’Italia, riproporre il tema dell’identità nazionale nello scenario presente e proiettarsi a pensare il futuro senza cancellare o smantellare le storie e le culture nazionali. L’intervento nella Prima Guerra Mondiale portò a compimento, come allora si disse, il Risorgimento, non solo perché ricondusse all’Italia Trento e Trieste, quanto perché coinvolse per la prima volta il paese intero, da nord a sud, popolo e borghesia, e lo indusse a sentirsi nazione e comunità di destino, fino a donare alla patria la propria vita».«Quella conquista unitaria, dovuta nel secolo precedente a una minoranza, diventò con la mobilitazione totale e la leva obbligatoria, patrimonio sofferto di un popolo intero. Non mancarono episodi di valore, un’epica popolare che coinvolse le famiglie italiane, i nostri nonni». Ecco, questo è il senso comune che viene ancora una volta dispensato alle nuove come alle vecchie generazioni, condannate a non avere accesso, sui mezzi di comunicazione mainstream, a strumenti che gli consentano di riflettere in maniera critica sulle vicende che hanno caratterizzato, in maniera spesso drammatica, la storia individuale come quella collettiva. Pochi i testi che tentano di contrastare la retorica mistificatoria del “mito” della Grande Guerra, seppure edulcorato e reso più adatto al contesto di generale, quanto spesso ipocrita, esaltazione della pace, che viene sparso a piene mani; e che trova la sua sintesi forse più brillante nelle drammatiche poesie dal fronte di Ungaretti, lette dal poeta stesso in età avanzata e riproposte in questi giorni dalla Rai col sottofondo della marcetta della “Canzone del Piave”.Tra i testi di fresca pubblicazione che possono costituire uno strumento utile per demistificare in maniera documentata e puntuale tale retorica, ce n’è uno particolarmente interessante. Si tratta del libro scritto di recente da Valerio Gigante, Luca Kocci e Sergio Tanzarella, insegnati e redattori dell’agenzia di stampa Adista i primi due, storico del cristianesimo ed ex deputato nelle file degli indipendenti di sinistra il secondo. “La grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sulla Prima Guerra Mondiale” (Dissensi editore) non è certo l’unico volume attualmente in circolazione ad avere un taglio “critico” di assoluto rigore rispetto agli eventi considerati. Esso ha però il pregio di essere specificamente destinato ad un pubblico di non specialisti, cui gli autori propongono una serie di brevi ma documentati saggi (completi di riferimenti storico-critici, bibliografici, documenti e foto) che cercano di indagare aspetti che della Prima Guerra Mondiale sono certamente noti a cultori, specialisti e studiosi di storia contemporanea ma non al grande pubblico. Fatti che sono però di fondamentale rilievo se si vuole restituire alla Grande Guerra il suo volto più tragico e vero.Gli autori spiegano le ragioni dell’incredibile percorso che in pochi mesi porta forze politiche, grandi giornali ed intellettuali a schierarsi dal neutralismo più convinto all’interventismo più acceso. Il ruolo giocato dalle forze industriali e dai poteri finanziari nel periodo che va dalla fine del 1914 al maggio del 1915. Raccontano l’uso di armi terribili durante i combattimenti, quali l’iprite, uno dei gas impiegati nella guerra chimica, o le mazze ferrate utilizzate dai fanti per finire i nemici agonizzanti, in genere proprio in seguito a un attacco con quel gas. Viene inoltre descritta la capillare organizzazione della prostituzione che lo Stato Maggiore dell’esercito offriva ai fanti ed agli ufficiali – in maniera ovviamente diversa, dal momento che tutta la guerra, come ben emerge da questo lavoro, viene combattuta secondo una rigida concezione classista della vita militare. Una sorta di “sfogo risarcitorio” nei confronti della disumanizzante esperienza del fronte, con il conseguente, brutale sfruttamento delle donne e dei loro corpi, sistematicamente ed istituzionalmente perpetrato.Gli autori svelano poi i casi di patologie mentali diffusi nelle trincee, l’uso sistematico della repressione per impedire che si diffondesse tra i soldati il rifiuto o il dissenso nei confronti della prosecuzione della guerra: il francescano padre Agostino Gemelli, medico e psicologo, collaborò con lo Stato Maggiore nell’individuare le strategie più efficaci per mantenere il consenso e la disciplina tra i soldati. E proprio dal punto di vista del ruolo della Chiesa cattolica nel grande massacro, il libro analizza come – al di là della posizione (sostanzialmente isolata e comunque neutralizzata da parte della gerarchia ecclesiastica) di Benedetto XV – sia stato fondamentale il ruolo dei cappellani militari. Quest’ultimi distribuivano nelle trincee materiale devozionale (di cui nel libro vengono pubblicati alcuni esempi) teso ad esaltare l’eroismo di coloro che si erano immolati per la patria, rappresentavano Gesù nell’atto di accogliere in paradiso i caduti o di incitare i soldati ad andare all’assalto; benedicevano i gagliardetti militari e le truppe lanciate contro il nemico, intonando Te Deum di ringraziamento per le stragi compiute.Eppure, anche dentro questo desolante quadro e nel contesto di una martellante ideologia mistificatoria, si faceva largo una coscienza delle reali ragioni della guerra: ecco allora i capitoli dedicati alle lettere (censurate) dei soldati al fronte; gli appelli di donne ed uomini al re affinché fermasse la strage; le canzoni che raccontavano la realtà di classe della guerra, il cinema che già prima della pace di Versailles aveva cominciato a raccontare cosa quella guerra fosse realmente. Come fa questo libro che, scrivono gli autori nella loro introduzione, intende creare “una solida coscienza critica del perché fu orrore quella guerra, come e più di altre guerre. E suscitare ugualmente orrore nei confronti della ‘grande menzogna’ attraverso la quale ancora oggi molti vorrebbero continuare a ricordarla, nonostante devastazioni, lutti, torture, prigionie, ruberie, deportazioni”.(Giovanni Avena, “Oltre la retorica, l’orrore della Grande Guerra”, da “Micromega” del 22 maggio 2015. Il libro: Valerio Gigante, Luca Kocci, Sergio Tanzarella, “La grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sulla Prima Guerra Mondiale”, Dissensi editore, 170 pagiene, euro 13,90).Certo non si può dire che da Marcello Veneziani l’apologia della Grande Guerra non ce la si potesse aspettare. È in fondo un intellettuale della nuova destra, lo stesso che alla vigilia del 70mo anniversario del 25 aprile aveva riaffermato: «Non celebriamo il 25 aprile perché non è una festa», perché – a suo dire – sarebbe considerata una ricorrenza divisiva, che non è stata concepita «all’insegna della veritas e della pietas». Aveva, Veneziani, anche rincarato la dose, sostenendo che sarebbe «cresciuta l’enfasi per i 70 anni della Liberazione parallelamente a una minore attenzione per i 100 anni della Prima Guerra Mondiale». Se si considera però che Veneziani, giornalista e scrittore, autore di saggi storici e filosofici, è oggi anche membro del comitato scientifico che si occupa degli anniversari della storia d’Italia (istituito a Palazzo Chigi e dal 2013 presieduto da Franco Marini), le sue prese di posizione sulla storia del paese – visto il ruolo “istituzionale” che ricopre – non possono lasciare indifferenti. Così come non lascia indifferenti lo spazio che il “Corriere della Sera” del 20 maggio 2015 ha concesso ad un suo intervento-appello a fare del 24 maggio, almeno quello di quest’anno, l’occasione per una celebrazione istituzionale.
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Fa crollare l’Italia, poi se la compra. Ma chi è BlackRock?
Faccio scoppiare l’Italia con la crisi dello spread, la costringo a svendere i gioielli di famiglia e quindi arrivo io, col portafogli in mano, pronto a rilevare a prezzi stracciati interi settori vitali dell’economia italiana, messa in ginocchio dalla manovra finanziaria. Secondo “Limes”, l’architetto supremo del complotto non è la Germania, ma il colossale fondo d’investimenti statunitense BlackRock, azionista rilevante della Deutsche Bank che nel 2011, annunciando la vendita dei titoli di Stato italiani, fece esplodere il divario tra Btp e Bund causando la “resa” di Berlusconi e l’avvento di Monti, l’emissario del grande business straniero. La rivista di Lucio Caracciolo, riassume Maria Grazia Bruzzone su “La Stampa”, ha messo a fuoco un po’ meglio le dimensioni, gli interessi e il vero potere del primo fondo d’investimenti mondiale, fattosi sotto con l’ascesa di Renzi a Palazzo Chigi, dopo che ormai il Pil italiano era stato letteralmente raso al suolo dai tecnocrati nostrani, in accordo con quelli di Bruxelles. Il “Moloch della finanza globale” vanta la gestione di 30.000 portafogli, per un totale di 4.650 miliardi di dollari: non ha rivali al mondo ed è una delle 4-5 “istituzioni” che ricorrono tra i maggiori azionisti delle banche americane.Con la globalizzazione dell’economia, il valore complessivo delle attività finanziarie internazionali primarie è passato dal 50% al 350% del Pil mondiale, raggiungendo i 280.000 miliardi di dollari, di cui solo il 25% legato agli scambi di merci. E il valore dei derivati negoziati fuori dalle Borse (“over the counter”) a fine giugno 2013 aveva toccato i 693.000 miliardi di dollari, in gran parte legati al mercato delle valute: al Forex si scambiano in media 1.900 miliardi di dollari al giorno. Tutto ha avuto inizio col neoliberismo promosso da Margaret Thatcher e Ronald Reagan: deregulation e meno vincoli per le megabanche, autorizzate a “giocare” con sempre nuovi prodotti finanziari come gli “hedge fund”, i fondi a rischio speculativi e le società di investimento spesso collegate alle banche, innanzitutto anglosassoni. Il colpo di grazia porta la firma di Bill Clinton, che negli anni ‘90 rende assoluta la deregolamentazione della finanza, abolendo il Glass-Steagal Act creato da Roosevelt negli anni ‘30 per limitare la speculazione alle sole banche d’affari e tenere il credito commerciale al riparo dalla “ruolette” finanziaria di Wall Street che aveva causato la Grande Crisi del 1929.A estendere al resto del mondo l’immediata cancellazione dei vincoli di sicurezza provvide il Wto, egemonizzato dagli Usa, su impulso delle megabanche, dell’allora segretario al Tesoro Larry Summers e del suo vice Tim Geithner, futuro ministro di Obama. Questo il clima in cui cominciò l’ascesa di BlackRock, autonoma dal 1992 e basata a New York, pronta a inserirsi in banche e aziende acquistando azioni, obbligazioni, titoli pubblici e proprietà, per un totale di oltre 4.500 miliardi, cioè pari al Pil della Francia sommato a quello della Spagna. BlackRock comincia anche a far politica: entra nel capitale delle due maggiori agenzie di rating, “Standard & Poor’s” (5,44%) e “Moody’s” (6,6%), ottenendo la possibilità di influire sulla determinazione di titoli sovrani, azioni e obbligazioni private, incidendo così su prezzo e valore delle attività acquistate o vendute. Quindi opera anche nell’analisi del rischio, vendendo “soluzioni informatiche” per la gestione di dati economici e finanziari, ed elabora dati che «incorporano anche pesanti elementi politici».Naturalmente sfrutta appieno la crisi del 2007: due anni dopo, lo stesso Geithner consulta proprio BlackWater per valutare gli asset tossici di Bear Stearns, Aig e Morgan Stanley. Compiti che BlackRock esegue, «agendo alla stregua di una sorta di Iri privato». Nel 2009 fa anche un colpo grosso, acquistando Barclays Investment Group, col suo carico immenso di partecipazioni azionarie nelle principali multinazionali. Il colosso finanziario americano informa e «manipola i propri clienti, utilizzando tecniche e software non diversi da quelli impiegati da Google (di cui ha il 5,8%) o dalla Nsa per sondare gli umori della gente», scrive “Limes”. Si serve della piattaforma Aladdin, «con almeno 6.000 computer in 12 siti più o meno segreti, 4 dei quali di nuova concezione, ai quali si rapportano 20.000 investitori sparsi per il mondo». Il suo centro studi d’eccellenza, il “BlackRock Investment Institute”, esamina le variabili politico-strategiche: il maxi-fondo è interessato al profitto «ma anche alla stabilità, sicurezza e prosperità degli Stati Uniti». Il fondatore e leader, Larry Fink, è considerato «il più importante personaggio della finanza mondiale», eppure resta «virtualmente uno sconosciuto» a Manhattan, secondo “Vanity Fair”.Proprio BlackRock, aggiunge “Limes” è probabilmente il vero regista della crisi italiana del 2011, o meglio della capitolazione dell’Italia di fronte agli appetiti della grande finanza. Lo spread fra i Bund tedeschi e i nostri Btp iniziò a dilatarsi non appena il “Financial Times” rese noto che nei primi sei mesi di quell’anno Deutsche Bank aveva venduto l’88% dei titoli che possedeva, per 7 miliardi di euro. «Molti videro un attacco al nostro paese ispirato da Berlino e dai poteri forti di Francoforte», ma forse – secondo “Limes” – non era così. La rivista di Caracciolo rivela che il potente istituto di credito tedesco aveva allora un azionariato diffuso, il 48% del capitale sociale era detenuto fuori dalla Repubblica Federale, e il suo azionista più importante era proprio BlackRock con il 5,1%. Peraltro, aggiunge la Bruzzone sulla “Stampa”, oggi la “Roccia Nera” detiene in Deutsche Bank una quota ancor maggiore (il 6,62%) e ne è il maggior azionista, seguito da Paramount Service Holdings, basato alle Isole Vergini Britanniche. «Si può escludere che il fondo non abbia avuto alcuna parte in una decisione tanto strategica come quella di dismettere in pochi mesi quasi tutti i titoli del debito sovrano di un paese dell’Ue?».«Se attacco c’è stato non è detto che sia stato perpetrato dalle autorità politiche ed economiche della Germania: è un fatto che a picchiare più duramente contro i nostri titoli a partire dall’autunno 2011 siano proprio “Standard & Poor’s” e “Moody’s”». Un’ipotesi, quella di Limes, che getta nuova luce su tanta parte della narrazione di questi anni sulla Germania, l’Europa e i Piigs, a partire dalle polemiche di quell’agosto bollente, «con Merkel e Sarkozy fustigati da Giuliano Amato sul “Sole 24 Ore”», anche se Amato – ricorda la Bruzzone – in quel 2011 era fra l’altro “senior advisor” proprio di Deutsche Bank. «E chissà che senza la decisione di Deutsche Bank di vendere i titoli di Stato di Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna, la tempesta finanziaria non sarebbe iniziata». Un’ipotesi realistica, secondo la Bruzzone, che apre altri interrogativi: sugli intrecci fra potere finanziario e politico, sul “potere sovrano” degli Stati (anche della potente Germania) e sulla composizione azionaria di questi onnipotenti istituti. Banche, fondi, superfondi: di chi sono? Chi decide che cosa, al di là dei luoghi comuni ripetuti delle narrative ufficiali?La fine della Deutsche Bank come motore sano dell’economia industriale tedesca risale all’epoca del crollo dell’Urss, quando l’attenzione della finanza angloamericana si concentra sull’Europa. E avviene a seguito di misteriosi omicidi, scrive la giornalista della “Stampa”, ricordando che Alfred Herrhausen, presidente della banca e consigliere fidato del cancelliere Kohl – un uomo che aveva in mente uno sviluppo della mission tradizionale e stilò addirittura un progetto di rinascita delle industrie ex comuniste, in Germania, Polonia e Russia, andandone persino parlarne a Wall Street – venne «improvvisamente freddato fuori dalla sua villa», a fine 1989. Si disse dalla Raf, o dalla Stasi, o da altri ancora. Stessa sorte toccò al suo successore, altro economista che si era opposto alla svendita delle imprese ex comuniste elaborando piani industriali alternativi alla privatizzazione. Fu ucciso nel 1991 da un tiratore scelto.Dopo di lui, alla sede londinese di Deutsche Bank arriva uno squadrone di ex banchieri della Merrill Lynch, compreso il capo, che diventa presidente, riorganizzando tutto in senso “moderno”. Anche lui però muore, a soli 47 anni, «in uno strano incidente del suo aereo privato». Va meglio al suo giovane braccio destro, Anshu Jain, un indiano con passaporto britannico, cresciuto professionalmente a New York, tutt’oggi presidente della banca diventata prima al mondo per quantità di derivati, spodestando Jp Morgan: la Deutsche Bank infatti è considerata fuori dalle righe “la banca più fallita del mondo”, «esposta per 55.000 miliardi, cioè 20 volte il Pil tedesco», a fronte di depositi per appena 522 miliardi. «Quanto è pericoloso il potere di mercato delle maggiori banche di investimento?». Se lo chiedeva due anni fa lo “Spiegel”, riportando un durissimo scontro fra Deutsche Bank e il ministro tedesco dell’economia, il super-massone Wolfgang Schaeuble.Scriveva il settimanale: «Un pugno di società finanziarie domina il trading di valute, risorse naturali, prodotti a interesse. Migliaiaia di investitori comprano, vendono, scommettono. Ma le transazioni sono in mano a un club di istituti globali come Deutsche Bank, Jp Morgan, Goldman Sachs. Quattro banche maneggiano la metà delle transazioni di valuta: Deutsche Bank, Citigroup, Barclays e Ubs». Un’altra ragione che dovrebbe farci prestare attenzione alla “Roccia Nera”, aggiunge “Limes”, è che ha messo radici in molte realtà imprenditoriali nel nostro paese. Per “L’Espresso”, addirittura, «si sta comprando l’Italia». Se un altro colosso americano, State Street Corporations, ha acquistato la divisione “securities” di Deutsche Bank e nel 2010 ha comprato l’attività di “banca depositaria” di Intesa SanPaolo (custodia globale, controllo di regolarità delle operazioni, calcoli, amministrazione delle quote, servizi ausiliari, gestione dei cambi e prestito di titoli), è proprio BlackRock a far la parte del leone.A fine 2011, il super-fondo americano aveva il 5,7% di Mediaset, il 3,9% di Unicredit, il 3,5% di Enel e del Banco Popolare, il 2,7% di Fiat e Telecom Italia, il 2,5% di Eni e Generali, il 2,2% di Finmeccanica, il 2,1% di Atlantia (che controlla Autostrade) e Terna, il 2% della Banca Popolare di Milano, Fonsai, Intesa San Paolo, Mediobanca e Ubi. E oggi Molte di queste quote sono cresciute e BlackRock è ormai il primo azionista di Unicredit (col 5,2%) e il secondo azionista di Intesa SanPaolo (5%). Stessa quota in Atlantia, mentre avrebbe ill 9,4% di Telecom. «Presidi strategici, che permetteranno a BlackRock di posizionarsi al meglio in vista delle privatizzazioni prossime venture invocate da molti “per far scendere il debito”», scrive “Limes”. E’ la nuova ondata in arrivo, dopo quella del 1992-93 a prezzi di saldo. «La crisi dei Piigs a che altro serve, se no?».Chi è BlackRock? Il web rivela, più che altro, un labirinto. Secondo “Yahoo Finanza”, il maggiore azionista (21,7%) sarebbe Pnc, antica banca di Pittsburgh, quinta per dimensioni negli Usa ma poco nota. Azionisti numero uno e due sarebbero Norges Bank, cioè la banca centrale di Norvegia, e Wellington Management Co., altro fondo di investimenti, di Boston, con 2.100 investitori istituzionali in 50 paesi e asset per 869 miliardi di dollari. Poi ci sono State Street Corporation, Fmr-Fidelity e Vanguard Group, che a loro volta sono gli unici investitori istituzionali di Pnc. Sempre loro, i “magnifici quattro”, si ritrovano con varie quote fra gli azionisti delle principali megabanche: non solo Jp Morgan, Bank of America, Citigroup e Wells Fargo, ma anche le banche d’affari come Goldman Sachs, Morgan Stanley, Bank of Ny Mellon. A ricorrere nell’azionariato di questi istituti ci sono anche altre società e banche, ma i “magnifici quattro” non mancano mai.Oltre ai soliti BlackRock, Vanguard, in Barclays – megabanca britannica che risale al 1690 – è presente anche Qatar Holding, sussidiaria del fondo sovrano del Golfo, specializzata in investimenti strategici. La stessa holding qatariota è anche maggior azionista di Credit Suisse, seguita dall’Olayan Group dell’Arabia Saudita, che ha partecipazioni in svariate società di ogni genere, mentre nell’altra megabanca elvetica, Ubs, si ritrovano BlackRock, una sussidiaria di Jp Morgan, una banca di Singapore e la solita Banca di Norvegia. Barclays Investment Group compariva tra i grandi azionisti di BlackRock, e viceversa, ma prima della crisi del 2008: dopo, non più – almeno in apparenza. Su “Global Research”, Matthias Chang mostra come nel 2006 “octopus” Barclays fosse davvero una piovra con tentacoli ovunque: Bank of America, Wells Fargo, Wachovia, Jp Morgan, Bank of New York Mellon, Goldman Sachs, Merrill Lynch, Morgan Stanley, Lehman Brothers e Bear Sterns, senza contare un lungo elenco di multinazionali di ogni genere, americane ed europee, comprese le miniere, senza dimenticare i grandi contractor della difesa.Dopo la crisi, che ha rimescolato le carte dell’élite finanziaria, il paesaggio cambia: Barclays Global Investors viene comprata nel 2009 da BlackRock. Il maxi-fondo, che nel 2006 aveva raggiunto il trilione di dollari in asset, dal 2010 al 2014 cresce ancora (fino ai 4.600 miliardi di dollari) insieme a Vanguard, presente in Deutsche Bank. Seguite i soldi, raccomanda il detective. Chi c’è dietro? «Attraverso il crescente indebitamento degli Stati – scrive la Bruzzone – megabanche e superfondi collegati, già azionisti di multinazionali, stanno entrando nel capitale di controllo di un numero crescente di banche, imprese strategiche, porti, aeroporti, centrali e reti energetiche. Solo per bilanciare l’espansione dei cinesi?». E’ un processo che va avanti da anni, «accelerato molto dalla “crisi” del 2007-8 e dalle politiche controproducenti come l’austerità, che sempre più si rivela una scelta politica». Tutto ciò è «evidentissimo nei paesi del Sud Europa, Grecia in testa, ma presente anche altrove e negli stessi Stati Uniti». Lo dicono blogger come Matt Taibbi ed economisti come Michael Hudson. Titolo del film: più che Germania contro Grecia, è la guerra delle banche verso il lavoro. Guerra che continua, dopo Thatcher e Reagan, nel mondo definitivamente globalizzato dai signori della finanza.Faccio scoppiare l’Italia con la crisi dello spread, la costringo a svendere i gioielli di famiglia e quindi arrivo io, col portafogli in mano, pronto a rilevare a prezzi stracciati interi settori vitali dell’economia italiana, messa in ginocchio dalla manovra finanziaria. Secondo “Limes”, l’architetto supremo del complotto non è la Germania, ma il colossale fondo d’investimenti statunitense BlackRock, azionista rilevante della Deutsche Bank che nel 2011, annunciando la vendita dei titoli di Stato italiani, fece esplodere il divario tra Btp e Bund causando la “resa” di Berlusconi e l’avvento di Monti, l’emissario del grande business straniero. La rivista di Lucio Caracciolo, riassume Maria Grazia Bruzzone su “La Stampa”, ha messo a fuoco un po’ meglio le dimensioni, gli interessi e il vero potere del primo fondo d’investimenti mondiale, fattosi sotto con l’ascesa di Renzi a Palazzo Chigi, dopo che ormai il Pil italiano era stato letteralmente raso al suolo dai tecnocrati nostrani, in accordo con quelli di Bruxelles. Il “Moloch della finanza globale” vanta la gestione di 30.000 portafogli, per un totale di 4.650 miliardi di dollari: non ha rivali al mondo ed è una delle 4-5 “istituzioni” che ricorrono tra i maggiori azionisti delle banche americane.
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I potenti al tempo di Matteo, fuoriclasse nel fregare tutti
“I potenti al tempo di Renzi” è il titolo di un libro venuto alla luce in questi giorni, suscitando curiosità. Scritto da Luigi Bisignani con Paolo Madron (entrambi giornalisti, anche se il primo non si è limitato a lavorare in redazione: si è occupato di molto altro), racconta i retroscena della politica e le gesta dei suoi protagonisti, quasi tutti arrampicatori, alcuni acrobati. Da quel che si legge nel volume, edito da “Chiarelettere”, si capisce che nella presente congiuntura il più abile e spericolato scalatore è l’attuale premier, il quale sin da quando frequentava la scuola materna ha sempre puntato non a essere il primo della classe, cosa di cui non gli importava e non gli importa nulla, bensì a impadronirsi del potere. Si è talmente allenato nell’esercizio di conquistarlo e amministrarlo da non avere, oggi, alcun rivale in grado di contrastarlo. Bisignani e Madron, stimolandosi a vicenda, ricostruiscono per filo e per segno i passi da gigante compiuti dal giovin fiorentino per giungere in fretta sulle più alte vette istituzionali.Contornandosi di amici di ogni tipo, specialmente democristiani, ex boy scout, progressisti all’acqua di rose e cattolici opportunisti, a 28 anni Renzi aveva già il bastone del comando in mano e l’ha utilizzato per farsi eleggere presidente della Provincia di Firenze, infinocchiando col sorriso sulle labbra i reduci del comunismo militante che avevano visto in lui un astro nascente. Nell’arte sovrana di fottere i compagni, Matteo ha la stoffa del fuoriclasse. Basti pensare alla destrezza con cui è passato da sindaco del capoluogo toscano a segretario del Pd: si è mangiato l’ottimo Pier Luigi Bersani come una merendina, poi si è divorato in un sol boccon l’ingenuo Enrico Letta e si è insediato a Palazzo Chigi, da cui medita di uscire coi piedi davanti, cioè post mortem. Le premesse affinché il suo piano – resistere a capo del governo sino al termine della vita – si compia, ci sono tutte. Le ha create egli stesso assegnando i posti chiave a pretoriani fidatissimi che lo proteggono; di più, lo adorano perché senza la sua spinta non sarebbero mai entrati nelle stanze che contano.Renzi in pratica si è dotato di un esercito di miracolati, la sopravvivenza dei quali è legata alla sua. Per cui essi si batteranno senza risparmio per salvarlo in quanto è l’unico modo per salvare sé medesimi. Così si fa per durare. Nell’estensione e nella conservazione del potere, Renzi ha fatto proprie le tecniche dei vecchi principi della Democrazia cristiana (Amintore Fanfani e Giulio Andreotti), affinandole, perfezionandole e adeguandole alla velocità che caratterizza la nostra epoca. Egli vuole tutto e subito. Se non lo ottiene, finge di averlo ottenuto e strombazza risultati illusori camuffandoli in maniera che sembrino autentici, credibili agli occhi del popolo, ovviamente bue. Il presidentino non si arrende, ma arretra, cambia idea e tattica, spacciando ogni mutamento di linea come un aggiustamento di tiro. Il suo ottimismo è persuasivo e contagioso. I suoi discorsi si bevono come acqua fresca e rigenerante, fanno digerire il politichese che gli italiani hanno ingoiato per 70 anni fino a provarne nausea.Egli è imbattibile nel prendere in giro l’uditorio e nel sedurlo inondandolo di parole che dipingono sogni irrealizzabili. “L’Italia riparte” è il suo slogan preferito e idoneo a far scattare l’applauso. Oddio, il paese in effetti è ripartito, però a marcia indietro; questo almeno si evince dall’esame dei dati macroeconomici. Pochi si accorgono dei bluff renziani. L’uomo ama sorprendere. Non calcola i propri attacchi, li azzarda, prende alla sprovvista gli avversari e li rottama. Non conosce né la coerenza né la lealtà: va dritto verso l’obiettivo e, se non lo raggiunge, si giustifica così: calma, quasi ci siamo. Non sarà facile scalzarlo. Manca chi sia attrezzato per dargli lo spintone decisivo. La destra è impegnata a riorganizzarsi e non è pronta a superarlo. La sinistra è disorientata dal proprio leader e lo subisce come una calamità naturale. Insomma, il cosiddetto “uomo solo al comando” arriva sempre primo proprio perché corre da solo, privo di antagonisti all’altezza.La vicenda dell’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella, nella ricostruzione di Bisignani e Madron, merita di essere letta. Nei giorni delle votazioni, dentro il Palazzo è successo di tutto. Nelle trattative mise il becco anche Pier Ferdinando Casini, e ciò spiega perché il centrodestra se la pigliò in saccoccia. Pagine che oscillano tra la cronaca e la barzelletta: imperdibili per chi desideri comprendere in quale paese ci tocca campare. Alla stessa stregua si gustano i brani del capitolo che affronta le fregature rifilate da Renzi al suo mentore Francesco Rutelli. Matteo gli ha sfilato i migliori collaboratori, isolandolo completamente. Invece di premiarlo per l’aiuto ricevuto, lo ha scaricato senza indugio, considerandolo probabilmente un pezzo di ferro arrugginito. Il cinismo è l’arma migliore del signorino premier. Un’arma che egli maneggia con maestria. Quanto alle donne, di cui ama circondarsi quali collaboratrici (domestiche), le usa e da esse non si fa usare. Chiamatelo fesso.(Vittorio Feltri, “Matteo fuoriclasse, a fregare gli altri”, da “Il Giornale” del 16 aprile 2015. Il libro: Luigi Bisignani e Paolo Madron, “I potenti al tempo di Renzi”, Chiarelettere, 250 pagine, 15 euro).“I potenti al tempo di Renzi” è il titolo di un libro venuto alla luce in questi giorni, suscitando curiosità. Scritto da Luigi Bisignani con Paolo Madron (entrambi giornalisti, anche se il primo non si è limitato a lavorare in redazione: si è occupato di molto altro), racconta i retroscena della politica e le gesta dei suoi protagonisti, quasi tutti arrampicatori, alcuni acrobati. Da quel che si legge nel volume, edito da “Chiarelettere”, si capisce che nella presente congiuntura il più abile e spericolato scalatore è l’attuale premier, il quale sin da quando frequentava la scuola materna ha sempre puntato non a essere il primo della classe, cosa di cui non gli importava e non gli importa nulla, bensì a impadronirsi del potere. Si è talmente allenato nell’esercizio di conquistarlo e amministrarlo da non avere, oggi, alcun rivale in grado di contrastarlo. Bisignani e Madron, stimolandosi a vicenda, ricostruiscono per filo e per segno i passi da gigante compiuti dal giovin fiorentino per giungere in fretta sulle più alte vette istituzionali.
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Mattarella al Quirinale, Renzi accolto nel Tempio di Draghi
«Un Presidente sopra le parti e mai sopra le righe: così l’ha definito Mario Monti e così sarà». Parola di Eugenio Scalfari, l’uomo delle cenette riservate con Mario Draghi, Giorgio Napolitano e l’allora premier Enrico Letta, incaricato di spremere gli italiani con “l’inevitabile” tortura del rigore Ue. Scalfari addirittura considera Sergio Mattarella «un Capo dello Stato che proseguirà al vertice delle istituzioni l’esempio dato da Einaudi, Pertini, Scalfaro, Ciampi, Napolitano». Perché accostare Einaudi e Pertini a Ciampi e Napolitano? L’eurocrate Ciampi “staccò” Bankitalia dal Tesoro, mettendo il paese nelle mani della finanza speculativa e facendo esplodere un debito pubblico non più controllabile, mentre Napolitano – com’è ormai chiaro a chiunque, persino all’ex ministro di Obama, Tim Geithner – è stato il massimo garante dei poteri forti internazionali, interessati a depredare il paese imponendo “commissari” come Monti e Letta, fino all’ambiguo outsider Renzi, che oggi viene celebrato come il king-maker di Mattarella. Errore, avverte Francesco Maria Toscano: l’accordo sul Quirinale non è nato a Palazzo Chigi, ma nella ristrettissima cerchia delle super-lobby di Mario Draghi e Christine Lagarde, la signora del Fmi.«Mario Draghi ha aperto le porte del tempio all’aspirante massone Matteo Renzi», scrive Toscano nel blog “Il Moralista”. Toscano è uno stretto collaboratore di Gioele Magaldi, gran maestro del “Grande Oriente Democratico” e autore di “Massoni” (Chiarelettere), inedita rilettura del ‘900 partendo dal ruolo decisivo delle Ur-Lodges, le superlogge internazionali al crocevia del massimo potere mondiale. «Dopo il lungo e nefasto regno di Napolitano – scriveva Toscano alla vigilia del voto per il Quirinale – si intravede all’orizzonte la possibilità che al Colle ci finisca ora un personaggio grigio e oscuro come Sergio Mattarella». Fra tutti i nomi circolati sui quotidiani, «quello di Mattarella è certamente il più modesto e dimesso; così dimesso da far tornare alla mente quella famosa massima democristiana che spiegava come “alcune nomine servano in realtà a rendere strutturalmente vacante la posizione occupata”». Toscano parla di «un mosaico solo in parte visibile». Domanda: chi comanda davvero in Italia? Quali uomini decidono davvero le linee di indirizzo politico «poi pedissequamente recepite da partiti eterodiretti dall’esterno?».Fino a ieri il gioco era abbastanza scoperto, continua Toscano: «Giorgio Napolitano, iniziato presso la Ur-Lodge “Three Eyes” al pari di Mario Draghi, supervisionava il progressivo svuotamento del benessere e della democrazia italiana per assecondare le bramosie speculative del mercato finanziario privato». Esaurito il mandato di Napolitano, «il sistema è costretto a ridisegnare un equilibrio di potere che finga di cambiare tutto per non cambiare nulla». Secondo Toscano, «l’occulto padrone e regista della vita politica italiana è il “venerabilissimo maestro” Mario Draghi, padre dell’austerità in Europa, che tratta l’Italia quasi fosse una sua dependance personale». Il presidente della Bce «esercita il suo potere riservatamente e con discrezione, lasciando che la pubblica opinione si distragga osservando le gesta di tanti figuranti che popolano il Parlamento con lo specifico compito di fare ammuina». Ma, «come ogni Sultano che si rispetti», anche Draghi «ha bisogno di nominare un Gran Visir al quale affidare il disbrigo degli affari correnti». E dunque chi, dopo Napolitano, «interpreterà ora il ruolo di cinghia di trasmissione dei voleri delle potentissime Ur-Lodges frequentate con costrutto dal capo della Bce? Mattarella? Niente affatto».Per Toscano, «il nuovo portavoce e plenipotenziario della massoneria reazionaria in Italia è Matteo Renzi, pronto per essere iniziato presso una delle Ur-Lodge più potenti e perverse del pianeta». Finito il periodo di “tegolatura”, cioè di attesa, l’ex sindaco fiorentino sarebbe oramai «sulla soglia del Tempio». Una volta «divenuto organico alle superlogge», il nuovo Renzi «potrà quindi finalmente rapportarsi direttamente con i “padroni”». Ma attenzione: «Per calarsi compiutamente nei panni di longa manus della massoneria oligarchica, Renzi ha però bisogno che sul Colle venga eletto un uomo incapace di fargli ombra. Un uomo cioè che si limiti a interpretare il ruolo in maniera neutra e notarile, lasciando cioè mano libera ad un premier oramai pienamente riconosciuto e legittimato dai vertici delle istituzioni latomistiche mondiali». Questo schema soddisfa tutti tranne Berlusconi: «Il vecchio re di Arcore è stato bastonato di nuovo da quegli stessi poteri che nel novembre del 2011 lo cacciarono senza complimenti e a calci in culo per fare spazio a Mario Monti con la scusa dello spread». Come aveva più volte preannunciato lo stesso Gioele Magaldi, il Patto del Nazareno «altro non era se non un patto “fra straccioni”, già pubblicamente sconfessato dalla massoneria che conta, per tramite di un articolo vergato tempo fa sul “Corriere della Sera” dal fedele scrivano Ferruccio De Bortoli».«Mattarella è stato indicato da Draghi», scrive Toscano, spiegando che «l’operazione portata a termine con astuzia dal capo della Bce è chiarissima». Il defunto Patto del Nazareno, amplificato ad arte dalla stampa, «univa in realtà due debolezze». Ovvero: «Due parvenu, Renzi e Berlusconi, estranei ai circoli massonici più elitari ed esclusivi, avevano deciso di stipulare un patto potenzialmente in grado di affrancarli in parte dal controllo delle Ur-Lodges più importanti. Tale accordo, che esprimeva come garante un massone casereccio e di basso livello come Denis Verdini, non poteva reggere di fronte all’offensiva di un peso massimo del livello del “venerabile” Draghi. E infatti non ha retto». A Renzi, continua Toscano, del “Nazareno” non è mai importato nulla: «Il nostro spregiudicato Rottamatore ha semplicemente usato il decadente Berlusconi per aumentare il suo potere contrattuale nei confronti dell’aristocrazia massonica sovranazionale. “O fate entrare in Loggia anche me”, questo lo spirito con il quale Renzi ha vissuto lo strumentale abbraccio con il Biscione, “oppure io riabilito il puzzone e comincio a menare fendenti contro l’Europa dei burocrati”». Alla fine, conclude Toscano, Renzi «ha ottenuto con il ricatto quello che voleva: a breve infatti il pinocchietto fiorentino verrà ritualmente iniziato presso una delle Ur-Lodge più influenti del globo terracqueo».Secondo indiscrezioni circolate nell’ambiente massonico, aggiunge ancora Toscano, Renzi potrebbe essere affiliato a breve alla superloggia di destra “Compass-Star Rose” o alla gemella “Pan-Europa”, entrambe caratterizzate dalla presenza di Christine Lagarde, esponente dell’oligarchia neo-aristocratica europea, secondo cui gli Stati dovrebbero prepararsi a tagliare drasticamente le pensioni a causa dell’innalzamento dell’aspettativa di vita degli anziani in Europa. Secondo le esplosive rivelazioni fornite da Magaldi, le superlogge come la “Three Eyes”, la “Pan-Europa” e la “Compass-Star Rose” costituirebbero la “cupola di potere” protagonista della sconfitta storica della sinistra sociale in tutto l’Occidente: dal declino insanguinato dei Kennedy alla fine del glorioso welfare europero, seppellito dal neoliberismo selvaggio e globalizzatore imposto attraverso l’influenza di istituzioni “paramassoniche” come la Commissione Trilaterale fondata da David Rockefeller. Di qui l’assetto oligarchico dell’Unione Europea e l’imposizione delle “riforme strutturali”, brandite infatti anche da Renzi, con le quali colpire il mondo del lavoro e svuotare lo Stato, a beneficio delle grandi lobby economico-finanziarie.Sergio Mattarella è accolto al Quirinale tra cori di rispettoso consenso: il mainstream gli riconosce estrema sobrietà personale e rigorosa lealtà verso la Costituzione. Riuscirà a opporsi al disegno oligarchico euro-diretto contro l’Italia, nonostante sia stato candidato proprio dagli esecutori nazionali del sabotaggio dell’economia italiana? Il blog “Senza Soste” è pessimista, e parla dell’Italia come di «un paese che si spegne nel silenzio». La carriera di Mattarella si sarebbe sviluppata in modo “coestensivo” rispetto al declino italiano: «Se c’è un nucleo di scelte, tra gli anni ’80 e ’90, che hanno portato questo paese al disastro, Sergio Mattarella, da democristiano e da ministro della Repubblica, le ha condivise tutte». Tra le maggiori ombre, la legge che inaugurò il sistema elettorale maggioritario e la fedeltà atlantica dimostrata nella Guerra del Kosovo, coi bombardamenti sulla Serbia costati tremila vittime inermi. «Nella vicinissima Libia – continua “Senza Soste” – è in corso una guerra civile senza quartiere con una delle fazioni in campo direttamente affiliata all’Isis: in caso di necessità, il decisionismo militare di Mattarella sarebbe già stato testato per lo sforzo bellico». Stessa situazione «a quattro guanciali» per Bce, Ue e Fmi: «Non sarà certo Mattarella a mettere in discussione l’assetto continentale».A pochi giorni dal voto greco, aggiunge “Senza Soste”, «in risposta a quanto avvenuto ad Atene, l’Italia renziana e liberista ha dato quindi la sua risposta alla delegittimazione ellenica della Troika eleggendo un presidente di provata compatibilità con un ordoliberismo sottile quanto feroce». Mentre il paese affonda, «il settennato di Sergio Mattarella si avvia in democristiano torpore», anche grazie a una nomenklatura che riesce sempre a proteggere se stessa dal disastro nel quale sprofonda la nazione. Altrettanto diffidente, sul nuovo capo dello Stato, il blog “Sollevazione”: «C’è chi dice che non sarà solo un passacarte, che Mattarella si farà valere, che farà rispettare la Costituzione. Noi non ci crediamo. Renzi prima di renderlo papabile avrà ottenuto dal Nostro le sue garanzie. Mattarella non solo è stato un uomo chiave democristiano della “Seconda Repubblica”, ne è stato anzi uno degli architetti – la infame legge elettorale che nel decisivo 1993 scardinò il principio proporzionale non a caso porta il suo nome». La sinistra Pd e Sel lo hanno votato sperando che freni l’azione di Renzi? Si illudono: «Nelle prossime settimane si vota sulle “riforme” (leggi scasso) della Costituzione e sulla legge elettorale Italicum. Noi scommettiamo che Mattarella seguirà, pur con un più basso profilo proprio per non fare ombra a Renzi, le orme di chi l’ha preceduto e che non a caso è stato il suo principale sponsor». Perlomeno, il suo sponsor italiano. Se è vero – come scrive Toscano – che il vero sponsor risiede lontano dall’Italia, ben al di sopra del Parlamento di Roma.«Un Presidente sopra le parti e mai sopra le righe: così l’ha definito Mario Monti e così sarà». Parola di Eugenio Scalfari, l’uomo delle cenette riservate con Mario Draghi, Giorgio Napolitano e l’allora premier Enrico Letta, incaricato di spremere gli italiani con “l’inevitabile” tortura del rigore Ue. Scalfari addirittura considera Sergio Mattarella «un Capo dello Stato che proseguirà al vertice delle istituzioni l’esempio dato da Einaudi, Pertini, Scalfaro, Ciampi, Napolitano». Perché accostare Einaudi e Pertini a Ciampi e Napolitano? L’eurocrate Ciampi “staccò” Bankitalia dal Tesoro, mettendo il paese nelle mani della finanza speculativa e facendo esplodere un debito pubblico non più controllabile, mentre Napolitano – com’è ormai chiaro a chiunque, persino all’ex ministro di Obama, Tim Geithner – è stato il massimo garante dei poteri forti internazionali, interessati a depredare il paese imponendo “commissari” come Monti e Letta, fino all’ambiguo outsider Renzi, che oggi viene celebrato come il king-maker di Mattarella. Errore, avverte Francesco Maria Toscano: l’accordo sul Quirinale non è nato a Palazzo Chigi, ma nella ristrettissima cerchia delle super-lobby di Mario Draghi e Christine Lagarde, la signora del Fmi.
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Foa: avremo un altro Napolitano, pronto a tradire l’Italia
L’alibi è sempre lo stesso, l’indifendibile Berlusconi, quello delle “cene eleganti” ad Arcore con la “nipote di Mubarak” mentre esplodeva la tempesta dello spread. Imbarazzante, e pure ingombrante: amico di Putin e di Gheddafi. L’Italia “non se lo può permettere”, recitava la propaganda mainstream allineata a un centrosinistra che per vent’anni gli aveva attribuito ogni male, fingendo di ignorare che la radice della crisi italiana – la fine della finanza pubblica, la grande privatizzazione, la precarizzazione del lavoro – è da imputare proprio alla sinistra “istituzionale” e tecnocratica dei vari Prodi, Ciampi, D’Alema, Padoa Schioppa. Una vicenda devastante, il cui ultimo decisivo capitolo l’ha scritto Giorgio Napolitano. Ripercorrendo la storia di questo decennio, scrive Marcello Foa sul “Giornale”, si scopre che, nei momenti più critici, Napolitano ha usato tutto il suo prestigio per spingere italiani e politici «nella direzione voluta dall’establishment europeo, che appare come un referente più forte, alto e influente della Costituzione italiana». Sicché, «parlare di tradimento del mandato non è improprio: di certo quello di Re Giorgio appare come un tradimento dell’Italia».Non illudiamoci che a Napolitano subentri un eletto «autenticamente patriottico», continua Foa, visto che le condizioni non sono affatto cambiate: il “padrone” è sempre l’élite finanziaria europea neoliberista, mercantilista, neo-feudale, quella a cui – probabilmente con l’eccezione del solo Berlusconi, peraltro prigioniero dei suoi conflitti d’interesse – ogni potente italiano ha sempre obbedito, negli ultimi decenni. Napolitano non fa certo eccezione: «Non è stato un buon presidente – scrive Foa – per la semplice ragione che non ha rispettato l’essenza, l’anima, la missione di un Capo dello Stato: che è quello di servire il popolo, di rispettare in modo inflessibile la Costituzione, di difendere la sovranità». L’uomo del Colle, invece, «appartiene a quella élite di politici che, in Italia ma non solo, di fatto si prodiga per svuotare di significato proprio la carica, le istituzioni e in ultima analisi il paese che dovrebbe difendere», anche se lo fa illudendo l’opinione pubblica con «il rispetto formale del mandato e della Costituzione», così come «i richiami ai valori nazionali e al senso dello Stato». Un copione «rituale, retorico, obbligato».Ma attenzione: «Il tono cambia quando il presidente parla di Unione Europea; in questo caso – osserva Foa – trapela l’appartenenza, la convinzione, il senso storico di una missione». Infatti, «il presidente che dovrebbe difendere la Costituzione curiosamente lancia continuamente appelli alla cessione di sovranità e di poteri a favore della Ue, di cui auspica l’unione politica», naturalmente «per il bene degli italiani». Peccato che Napolitano si sia prodigato «per difendere, proteggere e al momento giusto lanciare quei politici o quei tecnici che la pensano come lui e con cui condivide le stesse referenze sovranazionali», non esattamente “amiche” dell’Italia. «E’ stato Napolitano ad avallare il colpo di Stato con cui le élite europee hanno fatto cadere Berlusconi nel 2011, attribuendo simultaneamente l’incarico al suo grande amico e sodale Mario Monti, tra l’altro beneficiandolo della nomina improvvisa a senatore a vita; dunque rendendo possibile l’attuazione di un piano che, come ormai ampiamente dimostrato, è stato concepito mesi prima della caduta del Cavaliere».Poco dopo, è lo stesso Napolitano a spingere «un altro giovane emergente sodale», Enrico Letta, a Palazzo Chigi. E poi, dopo pochi mesi, a «benedire l’improvvisa ascesa, ma gradita a certi ambienti, di Matteo Renzi, superando un’antipatia e una diffidenza personale che ora traspare, ma a cui si è inchinato in ossequio a logiche che al popolo non vengono mai spiegate: un “obbedisco” a modo suo». Nessuna illusione sul futuro: le forze che dominano in Parlamento, inclusa Forza Italia, non osano infatti mettere in discussione i diktat del rigore, dal Fiscal Compact al pareggio di bilancio, cioè le misure (da tutti votate) che in tre anni hanno “suicidato” il paese, facendogli pagare una flessione del Pil da 450 miliardi e provocando la catastrofe della disoccupazione, il fallimento di migliaia di aziende, il crollo dei consumi e del gettito fiscale, l’esplosione di un debito pubblico micidiale perché non denominato in moneta sovrana. Gli italiani fiutano la rovina: tre anni di guerra, milioni di poveri, le pensioni tagliate dalla riforma Fornero votata anche dal Pd. Italia kaputt, come voleva il “padrone” tedesco che temeva la concorrenza del made in Italy. Ecco perché «via un Napolitano se ne farà un altro, che offra le stesse garanzie e vanti le stesse appartenenze», profetizza Foa. «Perché questa è la logica del potere che governa davvero l’Europa. E dunque anche quel che resta dell’Italia. Ma agli italiani non va detto e men che meno spiegato».L’alibi è sempre lo stesso, l’indifendibile Berlusconi, quello delle “cene eleganti” ad Arcore con la “nipote di Mubarak” mentre esplodeva la tempesta dello spread. Imbarazzante, e pure ingombrante: amico di Putin e di Gheddafi. L’Italia “non se lo può permettere”, recitava la propaganda mainstream allineata a un centrosinistra che per vent’anni gli aveva attribuito ogni male, fingendo di ignorare che la radice della crisi italiana – la fine della finanza pubblica, la grande privatizzazione, la precarizzazione del lavoro – è da imputare proprio all’obbedienza ai poteri forti da parte della sinistra “istituzionale” e tecnocratica dei vari Prodi, Ciampi, D’Alema, Padoa Schioppa. Una vicenda devastante, il cui ultimo decisivo capitolo l’ha scritto Giorgio Napolitano. Ripercorrendo la storia di questo decennio, scrive Marcello Foa sul “Giornale”, si scopre che, nei momenti più critici, Napolitano ha usato tutto il suo prestigio per spingere italiani e politici «nella direzione voluta dall’establishment europeo, che appare come un referente più forte, alto e influente della Costituzione italiana». Sicché, «parlare di tradimento del mandato non è improprio: di certo quello di Re Giorgio appare come un tradimento dell’Italia».
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Luttwak: ok Prodi al Quirinale, a un patto: rinneghi l’euro
Romano Prodi al Quririnale, con l’appoggio degli Usa? A una condizione su tutte: deve rinnegare l’orrore monetario rappresentato dall’euro, che sta decretando la fine del benessere in Europa. «Prodi è un economista provato e una persona onesta. E di onestà, nella politica italiana, non c’è un’offerta illimitata. Però lui dovrebbe dire: sono onesto e competente, ma ho fatto un grave errore: l’euro». Parola di Edward Luttwak, intervistato da “Italia Oggi”. «Traducendo liberamente dall’inglese-americano all’italiano», ad Aldo Giannuli suona così: “Prodi è stato un nostro nemico e un fautore di quella porcheria di moneta, però è uno dei pochi in Italia che capisca qualcosa di economia, per cui, se non si intestardisce a fare il filo-tedesco e a difendere l’euro, se ne può discutere”. Per orientarsi nella battaglia che sta per iniziare intorno al Quirinale, aggiunge Giannuli, occorre capire che c’è una novità rispetto al passato: questa volta il presidente della Repubblica, molto più che da Montecitorio e Palazzo Madama, scaturirà da telefonate tra Mosca, Berlino, Francoforte e Washington.Oggi, continua Giannuli sul suo blog, la globalizzazione impone dinamiche diverse: il Quirinale è diventato più interessante di Palazzo Chigi anche in ragione della stabilità settennale del primo e della precarietà del secondo. Al centro della crisi mondiale, la guerra valutaria in atto, in cui il dollaro non è più il signore incontrastato di un tempo: «Oggi il dollaro deve fare i conti con lo yuan renminbi cui è legato da un perverso intreccio: il secondo si tiene volutamente sotto-apprezzato per favorire le esportazioni, ma inizia ad essere accettato come moneta di scambio internazionale (come è accaduto da ultimo nel contratto sino-russo per il gas e da altre intese con paesi asiatici e latino-americani)». Cercare di destabilizzarlo, secondo Giannuli «sarebbe non solo difficile e poco utile, ma anche pericoloso, visto che, nella pancia della banca centrale cinese riposano tremila miliardi di dollari fra banconote e T-bond pronti ad essere riversati sul mercato, con gli effetti che è facile immaginare».D’altro canto, «anche ai cinesi non conviene tirare la corda più di tanto, perché, se il dollaro va a fondo, quei tre milioni di miliardi vanno in fumo, e poi si brucia il principale mercato di sbocco delle sue merci». Ai cinesi dà fastidio che gli americani emettano liquidità “facile”, con l’effetto di svalutare i loro stessi crediti, ma poi, alla fine, conviene acconciarsi in un equilibrio precario, che non esclude i colpi bassi, ma non può mai saltare del tutto. «Come terzo incomodo fra i due colossi c’è l’euro, una moneta sbagliata che non dovrebbe esistere e invece esiste», e rischia di rendere «molto più precario» l’equilibrio fra dollaro e yuan. «Non è un mistero che una parte degli americani vedrebbe volentieri sparire questa moneta», mentre altri temono che il crollo dell’euro potrebbe innescare un effetto domino. «Ma, sia che si voglia far fuori l’euro, sia che lo si voglia solo ridimensionare (come si fece con lo yen nel 1985), occorre metterci le mani su, e il modo migliore è controllarne il punto debole». Se la Germania è il punto forte, l’Italia è quello debole: la Grecia, il Portogallo e forse la Spagna «possono rappresentare malanni seri ma curabili», mentre l’Italia, «con il suoi 2.000 e passa miliardi di debito, rappresenta il vero rischio mortale: a un default italiano, l’euro non sopravvivrebbe».Senza più moneta sovrana, si sa, il debito pubblico – risorsa fondamentale e leva strategica per lo sviluppo dell’economia – diventa invece un problema. Non potendo più ricorrere alla libera emissione di valuta per sostenere la spesa pubblica, «la pressione fiscale indotta dal peso degli interessi condanna la nostra economia a lenta morte per asfissia», con il Pil condannato a scendere e quindi il debito destinato a crescere ancora in rapporto al Pil. Senza contare la scure finale dell’Ue, pareggio di bilancio e Fiscal Compact: «C’è chi pretende che troviamo altri 100 miliardi all’anno per rispettare il patto di stabilità che prevede il dimezzamento del debito entro un certo numero di anni: follie». L’Italia straziata dall’euro è diventata «un cadavere tenuto a galla con interventi-tampone»? Prima o poi, allora, «è di qui che occorrerà partire per rifare l’ordine monetario del continente». In questo quadro, continua Giannuli, Napolitano ha agito come sorta di garante-commissario, diventando il vero interlocutore a livello internazionale, mentre Berlusconi, Monti, Letta e Renzi si succedevano l’uno all’altro. «Si capisce che, per il sistema internazionale, un interlocutore stabile sia una esigenza di primaria importanza. Ed è importante che il presidente sia “la persona giusta”, capace di usare i “poteri silenti” previsti dalla Carta Costituzionale. Di qui le crescenti interferenze su una questione che, in altri tempi, sarebbe stata assai meno notata nell’agenda internazionale».Chi lo ha capito per primo, fra i candidati, è stato proprio Prodi, «che ha iniziato una complessa manovra avvolgente proprio sul piano internazionale, capendo che i voti necessari si possono raccogliere più facilmente fuori che in Italia». Dopo la visita di Prodi a Mosca, dall’amico Putin, «il Cavaliere ha esplicitamente lasciato cadere il veto su di lui dicendosi pronto a discuterne, mentre Minzolini e Rossella hanno esplicitamente invitato Berlusconi a far sua questa candidatura». Sicuramente, aggiunge Giannuli, «Prodi non ha problemi a farsi appoggiare da Berlino, di cui è stato sempre tanto amico. E anche da Francoforte non dovrebbe mancare la simpatia. In fondo, poi Prodi potrà sdebitarsi con Draghi assicurandogli l’appoggio italiano per la candidatura al Fmi». Il problema più serio? E’ il nulla osta a stelle e strisce. «Per quanto russi, tedeschi e Bce possano essere autorevoli, sarebbe dura spuntarla contro un veto americano». Inoltre, Prodi non è il candidato naturale di Renzi: il premier «capisce perfettamente che, con Prodi al Quirinale, la sua permanenza a Palazzo Chigi potrebbe durare meno di un mese».Renzi potrebbe tentare di convincere gli americani e «ostentare la più schietta ortodossia atlantica, pur di evitare che la “mortadella dal volto umano” si insedi sul Colle». Viceversa, se ci fosse una pressione congiunta dei russi, dei tedeschi e della Bce, «con un appoggio americano anche solo tiepido», alla fine Renzi sarebbe costretto ad accettarlo e magari a proporlo, «per evitare di subirlo apertamente». Ma gli americani che pensano di Prodi? «E’ sempre stato amico della Germania, da sette-otto anni lo è pure della Cina», in più «tresca con i russi ed è stato ostile alla guerra del Golfo». Con questi precedenti non dovrebbe avere speranza alcuna. «Ma, in politica, mai dire mai». Specie dopo le parole di un uomo come Luttwak, ben addentro all’establishment di Washington. Insomma, conclude Giannuli, «non è detto che dal Potomac debba necessariamente arrivare un “niet”», e d’altra parte gli americani non saprebbero che farsene di una Pinotti, di un Veltroni o di un Franceschini. Serve un candidato di caratura internazionale. Prodi saprà convincere i suoi vecchi antipatizzanti? Per Giannuli, «la partita è molto più aperta di quel che si pensi». Potrebbero spuntare Amato, D’Alema, Cassese, forse Gentiloni. Ma intanto «l’unica candidatura in pista a livello internazionale è quella di Prodi: per ora, è il solo nome che si fa».Romano Prodi al Quririnale, con l’appoggio degli Usa? A una condizione su tutte: deve rinnegare l’orrore monetario rappresentato dall’euro, che sta decretando la fine del benessere in Europa. «Prodi è un economista provato e una persona onesta. E di onestà, nella politica italiana, non c’è un’offerta illimitata. Però lui dovrebbe dire: sono onesto e competente, ma ho fatto un grave errore: l’euro». Parola di Edward Luttwak, intervistato da “Italia Oggi”. «Traducendo liberamente dall’inglese-americano all’italiano», ad Aldo Giannuli suona così: “Prodi è stato un nostro nemico e un fautore di quella porcheria di moneta, però è uno dei pochi in Italia che capisca qualcosa di economia, per cui, se non si intestardisce a fare il filo-tedesco e a difendere l’euro, se ne può discutere”. Per orientarsi nella battaglia che sta per iniziare intorno al Quirinale, aggiunge Giannuli, occorre capire che c’è una novità rispetto al passato: questa volta il presidente della Repubblica, molto più che da Montecitorio e Palazzo Madama, scaturirà da telefonate tra Mosca, Berlino, Francoforte e Washington.
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Tasse, privatizzazioni e via il contante: Renzi, cioè Monti
Il monopolio delle multinazionali contro il sistema delle piccole e medie imprese, da caricare di tasse. Maxi-torta in arrivo: lo smantellamento dei servizi, da “regalare” ai grandi gruppi dopo aver smantellato il Titolo V della Costituzione, che ne tutela il controllo pubblico ancora affidato a Comuni e Regioni. E infine, la sparizione del denaro contante: fine della privacy nelle transazioni commerciali e «tracciabilità di tutti gli acquisti dei cittadini come nemmeno in Unione Sovietica accadeva». Sbucci Renzi e scopri Monti, sostiene Marcello Foa: il “bomba”, quello delle «promesse che non si realizzano mai», è stato piazzato a Palazzo Chigi al posto di Letta, troppo timido sul fronte della privatizzazione dello Stato, e ovviamente dopo Monti, penalizzato dall’immagine del rigore assoluto. Renzi? Fa la stessa politica di Monti, ma col sorriso. E, a differenza del predecessore, grazie al suo «ego ipertrofico» va avanti, distraendo gli italiani a suon di retorica e propaganda, in modo che nessuno capisca quello che sta avvenendo veramente, cioè il dominio definitivo dei poteri forti, a spese dei cittadini.«La politica economica di Renzi – scrive Foa nel suo blog sul “Giornale” – non è volta a difendere e incentivare la piccola e media impresa italiana, ma è favorevole soprattutto alle multinazionali, smaniose di trasformare ancor di più l’Italia in una riserva di talenti e di professionisti a buon mercato». Non è un caso che Renzi prediliga le sedi delle multinazionali nelle sue uscite pubbliche, prodigandosi in elogi nei loro confronti. «Ed è significativo l’atteggiamento elusivo del suo governo sui licenziamenti alla Thyssen Krupp: premuroso con i grandi gruppi, retorico e inconcludente con le piccole e medie imprese italiane». La verità? Più tasse e meno mercato. «Scusate, ma io i tanto promessi alleggerimenti fiscali e burocratici proprio non li vedo. Semmai, come ai tempi di Monti, assistiamo al moltiplicarsi di balzelli indiretti e occulti», come «la riforma per far pagare il canone Rai a tutti attraverso la bolletta della luce», esteso ai proprietari di case sfitte o di seconde o terze case. Ancora una volta, «emerge la volontà centralista vessatoria che caratterizza l’operato dei governi dalla caduta di Berlusconi in poi».Quindi, le privatizzazioni. Renzi ha predisposto la riforma del Titolo V: «Se passasse, permetterebbe al premier di privatizzare tutte le municipalizzate del settore delle utilities, con la conseguenza che ben conosciamo: non di liberalizzare e mettere in concorrenza più fornitori, ma di sostituire un monopolio pubblico con un monopolio privato, com’è inevitabile quando per la tipologia del servizio la concorrenza è di fatto impossibile». Valga l’esempio delle autostrade cedute ai privati: da Roma a Milano ne esiste solo una, o prendi quella o percorri le statali. Il mercato dov’è? Per molte utilities la situazione è analoga. Infine, si aggiunge la mazzata dell’abolizione del contante, come spiega Enzo Pennetta sul blog “Critica Scientifica”. Primo passo, informatizzare il paese – e sin qui, ok. Poi viene annunciato che si procederà all’eliminazione dello scontrino per ottenere la “tracciabilità totale”, «notizia criptica ma vagamente liberatoria». Quello che non viene detto, sottolinea Pennetta, è che questo significa procedere all’eliminazione del contante.«La tracciabilità assoluta e il superamento della necessità dello scontrino – scrive “Critica Scientifica” – non si possono conseguire che eliminando la possibilità di pagare in contanti, cosa che avrebbe dovuto essere detta con chiarezza». E così, senza neanche nominare il contante, è stato dato l’annuncio della sua prossima eliminazione. Notizia sfuggita al “Corriere della Sera”, che ha pubblicato per primo l’annuncio di Renzi, ma anche ai 58 lettori del “Corriere” che hanno commentato l’articolo. Nessuno ha intuito qual è la vera posta in gioco. E chi aveva proposto l’abolizione del contante? Mario Monti, risponde Foa, osservando che l’eliminazione del cash equivale alla cancellazione definitiva di ogni forma di privacy: saranno millimetricamente tracciati tutti gli acquisti dei cittadini, come non accadeva nemmeno in Urss. «Domenico Idone, su “Twitter”, mi ha ricordato questo articolo. Era il 2012 e Renzi diceva: “Sarò il Monti bis”. Ancora dubbi?».Il monopolio delle multinazionali contro il sistema delle piccole e medie imprese, da caricare di tasse. Maxi-torta in arrivo: lo smantellamento dei servizi, da “regalare” ai grandi gruppi dopo aver smantellato il Titolo V della Costituzione, che ne tutela il controllo pubblico ancora affidato a Comuni e Regioni. E infine, la sparizione del denaro contante: fine della privacy nelle transazioni commerciali e «tracciabilità di tutti gli acquisti dei cittadini come nemmeno in Unione Sovietica accadeva». Sbucci Renzi e scopri Monti, sostiene Marcello Foa: il “bomba”, quello delle «promesse che non si realizzano mai», è stato piazzato a Palazzo Chigi al posto di Letta, troppo timido sul fronte della privatizzazione dello Stato, e ovviamente dopo Monti, penalizzato dall’immagine del rigore assoluto. Renzi? Fa la stessa politica di Monti, ma col sorriso. E, a differenza del predecessore, grazie al suo «ego ipertrofico» va avanti, distraendo gli italiani a suon di retorica e propaganda, in modo che nessuno capisca quello che sta avvenendo veramente, cioè il dominio definitivo dei poteri forti, a spese dei cittadini.
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Da Ferguson all’Eternit, la nostra rabbia non li preoccupa
Ferguson come l’Eternit, come Stefano Cucchi e le elezioni in Emilia Romagna. Non è una forzatura. Sono molti i fili che legano quattro episodi lontani tra loro geograficamente, socialmente, per poteri statuali interessati. Il primo, il più evidente, è la logica sostanziale della giustizia, che riguarda i primi tre. Non è una novità che gli industriali vengano assolti per i reati commessi all’interno della propria “attività imprenditoriale”, così come non lo è la salvezza garantita ai poliziotti che ammazzano senza alcun motivo. La novità sta nella dimensione della strage. La sentenza Eternit arriva a cancellare responsabilità per oltre 2.000 morti accertati finora e per le migliaia che si verificheranno nei prossimi anni. E non dovrebbe esistere differenza, in sede giudiziaria, tra un omicidio commesso con un’arma da fuoco o da taglio e uno (un numero indefinibile, in questo caso) realizzato esponendo consapevolmente un’intera popolazione all’azione cancerogena dell’amianto. Un veleno è un veleno; non c’è differenza tra il metterlo nella minestra o sulla catena di montaggio. Cambia solo la dimensione.Ferguson e Cucchi sono molto più simili. Non c’è differenza tra un bianco e un nero, tra Italia e Usa. Lì come qui, i poliziotti che uccidono ritengono di “aver semplimente fatto il nostro lavoro”, o perlomeno si giustificano con questa frasetta usata da tutti i nazisti di seconda schiera (e che non venne accolta nel processo di Norimberga, giustamente). E pretendono l’impunità, minacciando. La novità sta nel ritorno prepotente al passato remoto, all’impunità dichiarata per il potere economico e i suoi guardiani armati. La novità sta dunque nella cancellazione totale delle culture sorte dalla grande sommossa globale degli anni ‘60 e ‘70, che avevano – tra l’altro – spinto decisamente per inverare il principio giuridico astratto “la legge è uguale per tutti”. Processando i criminali economici e militari nelle piazze e spesso anche nei tribunali, portando il barlume della coscienza critica anche tra alcuni magistrati, e persino tra alcuni poliziotti.Sarebbe facile concluderne che si tratta solo della solita “giustizia di classe”, quindi di una riscoperta dell’acqua calda. La definizione è giusta, naturalmente, ma se ripetuta in modo atemporale, per eventi distanti migliaia di chilomentri o alcune decine di anni, diventa uno slogan già sentito, che spiega poco. Che disarma, invece di mobilitare. Intanto: di quale classe? E con quali metodi? Parlare di “borghesia” quando si analizzano le imprese multinazionali o i consigli di amministrazione delle banche d’affari globali restringe la possibilità di capire. Stiamo parlando di un’evoluzione della specie che fa apparire i “padroni” del Novecento come una scimmia a confronto con l’uomo. Non a caso i nostrani “padroncini” italiani si comportano esattamente come residui di un modo di “fare impresa” che era arretrato anche cinquant’anni fa: evasione fiscale, bilanci truccati, appalti pubblici, mazzette, bassi salari e zero diritti, dipendenza dal sistema bancario, familismo amorale.Idem per i metodi, per le “regole di ingaggio” con cui le forze di polizia affrontano qualsiasi situazione da “normalizzare”. Sopravvivono ancora i manganellamenti di massa, l’uso di gas lacrimogeni; anzi, vengono estesi anche a soggetti per 40 anni riconosciuti tra gli interlocutori legittimi (la Fiom e non solo). Ma è impossibile non vedere la militarizzazione delle forze repressive, ovvero il trasferimento dagli eserciti alle polizie di strumenti, armamenti, “regole di ingaggio” proprie delle zone di guerra. Ed altri armamenti, ipertecnologici, sono allo studio da anni, specifici per le “proteste di massa”. Stiamo diventando tutti palestinesi agli occhi di polizie “israelianizzate”. È un modello di governance del capitalismo occidentale che assume rapidamente le caratteristiche del “modello Gaza”.Va bene, direte voi, ma che c’entrano le elezioni emiliane? Un potere così fatto, quello multinazional-finanziario, non ha più bisogno di una relazione costante e biunivoca con la popolazione. Non si può permettere di mantenere in vita “corpi intermedi” che trasformano interessi sociali diversi in proposte legislative, meccanismi di welfare, istituzioni e servizi “costosi” (dalla sanità all’istruzione). Non ha bisogno neppure, dunque, di una legittimazione elettorale vera. Basta una maggioranza qualsiasi, senza alcun riferimento agli aventi diritto. L’astensione è voluta, ricercata, incentivata, spiegata in cento modi. “Lo Stato non è vostro”, ci gridano da palazzo Chigi e dalla Casa Bianca. E i tribunali trasformano questa realtà in sentenze.L’astensione e la rabbia, l’ostilità e i saccheggi, l’estraneità e gli incendi sono messi nel conto. Il giudice che in soli 25 giorni ha deciso che il poliziotto Darren Wilson non andava neppure processato per l’omicidio di Michael Brown, sapeva benissimo che avrebbe scatenato qualcosa del genere. E ha deciso che bisognava far vedere chi comanda, senza mediazioni. Tanto – è la considerazione politico-militare sottostante la decisione – “più di questo non potrete fare”. Che la rabbia esploda pure, dunque. Senza un progetto e una visione, senza organizzazione generale, non potrà danneggiare il potere. Al massimo qualche auto della polizia e qualche negozio. Siamo noi a dover capire che “la rabbia” è sacrosanta, ma è solo una “materia prima”. È come la benzina: se fa marciare una macchina ha una potenza trasformativa, se prende fuoco e basta consuma se stessa e poco altro.(Alessandro Avvisato, “La rabbia corta non fa paura”, da “Contropiano” del 26 novembre 2014).Ferguson come l’Eternit, come Stefano Cucchi e le elezioni in Emilia Romagna. Non è una forzatura. Sono molti i fili che legano quattro episodi lontani tra loro geograficamente, socialmente, per poteri statuali interessati. Il primo, il più evidente, è la logica sostanziale della giustizia, che riguarda i primi tre. Non è una novità che gli industriali vengano assolti per i reati commessi all’interno della propria “attività imprenditoriale”, così come non lo è la salvezza garantita ai poliziotti che ammazzano senza alcun motivo. La novità sta nella dimensione della strage. La sentenza Eternit arriva a cancellare responsabilità per oltre 2.000 morti accertati finora e per le migliaia che si verificheranno nei prossimi anni. E non dovrebbe esistere differenza, in sede giudiziaria, tra un omicidio commesso con un’arma da fuoco o da taglio e uno (un numero indefinibile, in questo caso) realizzato esponendo consapevolmente un’intera popolazione all’azione cancerogena dell’amianto. Un veleno è un veleno; non c’è differenza tra il metterlo nella minestra o sulla catena di montaggio. Cambia solo la dimensione.
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Gaglianone, film: val Susa, la strana guerra contro tutti noi
Non possiamo non dirci NoTav? E’ la domanda che aleggia attorno all’indagine cinematografica che Daniele Gaglianone conduce in valle di Susa, tra la popolazione che da oltre vent’anni si oppone al progetto di una grande opera come la Torino-Lione, considerata devastante, costosissima e completamente inutile. In due ore, il regista de “I nostri anni”, “Ruggine” e “Rata Nece Biti” interroga l’umanità della “valle che resiste” – ieri al progetto Tav in quanto tale, oggi anche e soprattutto al sistema di potere, percepito come oligarchico e repressivo, post-democratico, che vorrebbe imporre ad ogni costo i maxi-cantieri, ai quali ormai persino l’Ue e la Francia sembrano aver voltato le spalle. Nel documentario “Qui” (Torino Film Festival 2014), emergono le voci di un popolo, fatto di italiani che si sentono abbandonati e traditi dalle istituzioni politiche, dopo anni di vani appelli al dialogo, sempre respinti. In controluce, una tacita rivelazione: siamo ormai in tempo di guerra, e i primi a scoprirlo sono stati proprio loro, i NoTav della valle di Susa.Travolti dal loro problema – il conflitto fisiologico tra grande opera e benessere del territorio – si sono comportati da cittadini democratici, appellandosi ai diritti previsti dalla Costituzione. Tutto inutile: sono convinti che il potere non abbia lasciato loro altra scelta che vedersela coi reparti della polizia antisommossa. La vertenza NoTav ha origini ormai lontane anni luce dall’attualità odierna, risale infatti a prima del Duemila. Nel documentario di Gaglianone, il primo grande scontro – quello del 2005 – è rievocato dal sindaco di Venaus, Nilo Durbiano, che fece suonare le campane a distesa per far accorrere la popolazione a sostegno degli inermi manifestanti, manganellati a freddo in piena notte. La rottura istituzionale è già perfettamente leggibile: Durbiano racconta di come, in quanto primo cittadino, fu convocato alle tre di notte alla Prefettura di Torino. Un colloquio gelido, evidentemente per sondare il sindaco alla vigilia del pestaggio destinato a sgomberare i NoTav dall’area di Venaus, dove allora doveva sorgere il cantiere della galleria preliminare esplorativa, oggi trasferito a Chiomonte.Assenza di dialogo: come se fosse già in corso una sorta di guerra, non dichiarata, contro la popolazione. L’unico precedente, all’epoca, era stato il trauma del G8 di Genova, la Diaz e Bolzaneto, che stroncò il movimento no-global, di cui le multinazionali globaliste avevano paura. Subito dopo, l’infarto mondiale dell’11 Settembre e la “guerra infinita” da esso originata: Afghanistan, Iraq, Gaza, Libia, Siria, Ucraina. E poi ancora Iraq, seguendo le eroiche imprese dell’Isis guidato dal “califfo” Al-Baghdadi. Un avventuriero che, secondo varie fonti – ultimo, il massone Gioele Magaldi col suo libro sulle super-logge del potere occulto – fu liberato proprio perché mettesse in piedi l’armata jihadista. Quanto è lontana la valle di Susa dalle “armi chimiche” siriane e dalla manipolazione dello spread per imporre Monti a Palazzo Chigi? Molto meno di quanto si pensi, stando ai resoconti disarmati degli interlocutori di Gaglianone, praticamente smarriti di fronte alla dissoluzione di ogni solido punto di riferimento: la solitudine siderale del cittadino trova parziale conforto solo nella democrazia spontanea che la stessa cittadinanza alimenta, sotto forma di movimento civile.Servono risposte, e non arrivano mai. Così, dopo un po’ ci si arrende all’evidenza. Magari pregando, come fanno gli attivisti cattolici, il gruppo di Gabriella Tittonel che accompagna la troupe lungo i reticolati di Chiomonte, filo spinato di fabbricazione israeliana. O cercando di dialogare coi reparti antisommossa, come fa l’infermiera Cinzia Dalle Pezze, esasperata dall’abuso di lacrimogeni e gas tossici. Il documentario propone la voce di antagonisti come Aurelio Loprevite di “Radio Blackout”, in diretta telefonica con Luca Abbà quando l’attivista precipitò dal traliccio sul quale si era arrampicato per protesta, e militanti dal passato sorprendente come Alessandro Lupi, carabiniere in congedo e convinto NoTav, gravemente ferito al volto da un lacrimogeno. La telecamera raccoglie parole e silenzi di persone finite in carcere, pensionati decisi ad ammanettarsi alle recinzioni militarizzate, famiglie disposte a tutto per difendere la loro casa, minacciata dalla nuova arteria ferroviaria.Sullo sfondo, i fantasmi di ogni realizzazione faraonica – devastazione ambientale, crisi idrogeologica, dissesto urbanistico, impatto insostenibile dei cantieri, rischi concreti per la salute e l’incolumità della popolazione – e in più, in questo caso, la sordità autistica ed esasperante dell’élite di potere di fronte alle più argomentate osservazioni tecniche, sciorinate dai migliori esperti dell’università italiana: la linea Tav Torino-Lione non è solo l’ennesimo attentato alle dissanguate finanze pubbliche del paese, non è solo l’ennesimo invito a nozze per l’imprenditorialità mafiosa, ma è anche e soprattutto uno spreco totalmente folle, visto che l’attuale linea ferroviaria internazionale che già attraversa la valle di Susa è praticamente deserta. Nonostante il recente e costoso ammodernamento del traforo del Fréjus, non esiste più traffico merci tra Italia e Francia: secondo l’osservatorio europeo per i trasporti alpini, affidato alla Svizzera, l’attuale linea valsusina italo-francese potrebbe tranquillamente incrementare del 900% il volume dei transiti. Perché allora incancrenire lo scontro sociale rincorrendo il miraggio di un super-treno miliardario da imporre a mano armata?Perché non siamo più in tempo di pace, e da parecchi anni, sembrano suggerire i valsusini ascoltati da Gaglianone, i primi a constatare sulla loro pelle l’avvento del cambio d’epoca: loro erano già sulle barricate molto prima di Occupy Wall Street, prima degli “attentati” all’articolo 18, prima della guerra di Marchionne contro la Fiom. Erano in campo, i cittadini italiani della valle di Susa, ben prima della riforma Fornero, o delle recenti “rivelazioni” di Geithner sul “golpe dello spread”. La Merkel, Draghi, la “dittatura bancaria” dell’euro, la privatizzazione globale. E poi il Ttip, le torture inflitte alla Grecia, la teologia disonesta dell’austerity, la fine del welfare europeo. Ormai il capolinea lo vedono tutti: l’abisso precario della disoccupazione, la sparizione del futuro. Loro, i valsusini, l’hanno avvistato in anticipo. Se c’è una parola che può riassumerli tutti, probabilmente questa parola è “democrazia”. Se ne avverte la dolorosa assenza, la nostalgia. «Se qualcuno mi parla ancora di Tav», scrisse Giorgio Bocca all’indomani dell’insurrezione popolare della valle del 2005, «tiro fuori il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo seppellito nel ‘45».Vedeva lungo, il giornalista-partigiano. E oggi, la causa NoTav vanta autorevolissimi sostenitori, nel mondo culturale italiano: ormai le istanze democratiche della popolazione hanno trovato piena cittadinanza, nell’Italia tramortita dalla cosiddetta crisi. Malgrado il costante depistaggio dalla disinformazione “mainstream”, ognuno percepisce la minaccia concreta di un declino che pare inesorabile. Finalmente, con Gaglianone, protagonisti e testimoni della remota trincea valsusina ora affiorano in superficie, mostrando le loro voci e i loro volti, in una quotidianità che si sforza di restare ordinaria, benché terremotata dagli eventi. E’ un’umanità che si esprime con gesti semplici e rivela una natura mite, costretta a misurarsi con la violenza dell’imposizione, nel vuoto cosmico della politica. Anni fa, espressioni come “destra” e “sinistra” avevano ancora maschere rappresentative. Puro teatro, ormai, come sperimentato nella valle alpina che unisce Torino alla Francia. Dove però la grande calamità collettiva ha cementato una comunità plurale, di italiani che resistono e sperano. E che, nel film di Gaglianone, parlano una lingua immediatamente riconoscibile e universale.(Il film: “Qui”, di Daniele Gaglianone, Italia 2014, 120′, prodotto da Gianluca Arcopinto e Domenico Procacci – produzione “Axelotil Film”, “Fandango”, in collaborazione con Babydoc Film – distribuito da “Pablo”).Non possiamo non dirci NoTav? E’ la domanda che aleggia attorno all’indagine cinematografica che Daniele Gaglianone conduce in valle di Susa, tra la popolazione che da oltre vent’anni si oppone al progetto di una grande opera come la Torino-Lione, considerata devastante, costosissima e completamente inutile. In due ore, il regista de “I nostri anni”, “Ruggine” e “Rata Nece Biti” interroga l’umanità della “valle che resiste” – ieri al progetto Tav in quanto tale, oggi anche e soprattutto al sistema di potere, percepito come oligarchico e repressivo, post-democratico, che vorrebbe imporre ad ogni costo i maxi-cantieri, ai quali ormai persino l’Ue e la Francia sembrano aver voltato le spalle. Nel documentario “Qui” (Torino Film Festival 2014), emergono le voci di un popolo, fatto di italiani che si sentono abbandonati e traditi dalle istituzioni politiche, dopo anni di vani appelli al dialogo, sempre respinti. In controluce, una tacita rivelazione: siamo ormai in tempo di guerra, e i primi a scoprirlo sono stati proprio loro, i NoTav della valle di Susa.
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L’intoccabile: scalare l’Italia in pochi anni, con l’aiuto di chi?
«Solo gli ingenui possono pensare che un boy scout di provincia, noto fra gli amici come “il Bomba” per la spiccata attitudine a spararle grosse, possa scalare il potere in un paese come l’Italia con una tale rapidità e facilità, e soprattutto da solo». A spiegarne la strepitosa arrampicata, scrive Marco Travaglio, non bastano le sue innegabili doti di coraggio, prontezza, velocità, abilità comunicativa e sintonia con la pancia del paese, dopo il faticoso ventennio berlusconiano. «Il self-made man è roba americana, non italiana. Il nostro italianissimo selfie mad man ha, dietro le spalle, robusti appoggi. La qual cosa non sarebbe affatto uno scandalo, se fosse tutto dichiarato e alla luce del sole. Purtroppo non lo è». Al “mistero” dell’ascesa di Renzi è dedicato “L’intoccabile”, l’ultimo libro-indagine di Davide Vecchi, reporter del “Fatto Quotidiano”. Punto di partenza: Matteo Renzi non è soltanto il più giovane presidente del Consiglio della storia d’Italia, davanti a Benito Mussolini. È anche il più osannato e soprattutto il più misterioso. «Nessuno sa davvero come il giovanotto di Rignano sull’Arno abbia costruito il suo sistema di relazioni e protezioni nell’attesa di metter fuori il periscopio e uscire allo scoperto».Dalla sua prima vera campagna elettorale, quella del 2003-2004 che lo portò alla presidenza della Provincia di Firenze, fino sulle poltrone di sindaco della sua città, poi segetario del Pd e infine di capo del governo. «Quando Matteo era sindaco di Firenze – scrive Travaglio su “Micromega” – l’amico Marco Carrai gli metteva gentilmente a disposizione, a titolo gratuito, un pied-à-terre in via degli Alfani, senza neppure fargli pagare l’affitto e in palese conflitto d’interessi, visti i numerosi incarichi pubblici che Carrai ricopre». Altra «affettuosa amicizia», quella col berlusconiano Denis Verdini, «che nessuno sa di preciso quando sia cominciata né perché». Il libro di Vecchi rievoca il fallimento di una società del padre, Tiziano Renzi, e l’inchiesta della Procura di Genova per bancarotta fraudolenta: «Salta fuori un groviglio di aziende che passano di mano in mano, fra soci effettivi e prestanome, e che soprattutto usano con disinvoltura contratti atipici di precariato e addirittura impiegano extracomunitari clandestini in nero, con strascichi di cause di lavoro che almeno in tre occasioni certificano violazioni dello Statuto dei lavoratori. Altro che articolo 18».Centrale, ovviamente, l’atipico rapporto con Berlusconi, ovvero «l’unico politico della “vecchia guardia” che il polemicissimo Renzi non attacca, non sfancula, non critica, non sfida, non contraria, non scontenta mai». Secondo Vecchi, il forte legame tra i due non è mediato da Verdini: «E’ diretto, profondo, antico e naturalmente misterioso», annota Travaglio. Nel libro, Vecchi risale allo zio di Renzi, Nicola Bovoli, fratello della madre di Matteo, che fu dirigente del gruppo Rizzoli e poi entrò in affari con Fininvest, «al punto da raccomandare il nipote prediletto per la famosa e fruttuosa (un bottino di 48 milioni di lire in cinque puntate) comparsata alla “Ruota della fortuna” nel 1994», condotto da Mike Bongiorno. «Poi, certo, arrivarono gli incontri ufficiali e ufficiosi: quello del 2005 fra il Caimano e il presidente della Provincia alla Prefettura di Firenze, con Verdini a fare da sensale. E quello del 2010, già con la fascia tricolore di sindaco, nella villa di Arcore: Matteo – scrive Travaglio – si credeva così furbo da riuscire a tenerlo segreto, ma a divulgarlo provvide l’entourage del Cavaliere, costringendolo a imbarazzate e imbarazzanti spiegazioni».Ora, Berlusconi e Renzi «si vedono di continuo e dappertutto: dal Nazareno a Palazzo Chigi, senza neppure nascondersi». Il Cavaliere «considera Matteo il suo unico erede: populista, bugiardo e gattopardesco», infatti «ne fiancheggia con entusiasmo e spudoratezza il governo (che peraltro completa la sua opera lasciata a metà)», compreso il sogno del “partito unico della nazione”. «Basta il fatto che lo Spregiudicato di Rignano abbia sdoganato il Pregiudicato di Arcore a spiegare tanta corrispondenza di amorosi sensi? O c’è qualcosa nel loro passato che dobbiamo ancora scoprire?». Una pista americana, per esempio: «Che ci faceva un uomo delle operazioni riservate Cia come Michael Ledeen al matrimonio di Carrai, in mezzo a banchieri, prelati, alti magistrati, imprenditori, nobiluomini, giornalisti, editori, top manager, finanzieri, faccendieri, oltre naturalmente a Matteo, premier e testimone dello sposo, impegnato proprio in quei giorni a dipingersi come vittima inerme e piagnucolante dei “poteri forti”?». Domanda fondamentale: «Oltre alla squadra di governo che tutti purtroppo vediamo, formata da ragazzotti e fanciulle tanto mediocri e ignoranti quanto pretenziosi e arroganti, ce n’è un’altra che dirige il traffico da dietro le quinte?».(Il libro: Davide Vecchi, “L’intoccabile. Matteo Renzi, la vera storia”, Chiarelettere, 188 pagine, euro 13,90).«Solo gli ingenui possono pensare che un boy scout di provincia, noto fra gli amici come “il Bomba” per la spiccata attitudine a spararle grosse, possa scalare il potere in un paese come l’Italia con una tale rapidità e facilità, e soprattutto da solo». A spiegarne la strepitosa arrampicata, scrive Marco Travaglio, non bastano le sue innegabili doti di coraggio, prontezza, velocità, abilità comunicativa e sintonia con la pancia del paese, dopo il faticoso ventennio berlusconiano. «Il self-made man è roba americana, non italiana. Il nostro italianissimo selfie mad man ha, dietro le spalle, robusti appoggi. La qual cosa non sarebbe affatto uno scandalo, se fosse tutto dichiarato e alla luce del sole. Purtroppo non lo è». Al “mistero” dell’ascesa di Renzi è dedicato “L’intoccabile”, l’ultimo libro-indagine di Davide Vecchi, reporter del “Fatto Quotidiano”. Punto di partenza: Matteo Renzi non è soltanto il più giovane presidente del Consiglio della storia d’Italia, davanti a Benito Mussolini. È anche il più osannato e soprattutto il più misterioso. «Nessuno sa davvero come il giovanotto di Rignano sull’Arno abbia costruito il suo sistema di relazioni e protezioni nell’attesa di metter fuori il periscopio e uscire allo scoperto».
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Curioso, il finanziere di Renzi punta sul crollo Mps. E vince
A volte può bastare un annuncio a effetto, per fermare il terremoto. Se invece l’annuncio non arriva, e se il terremoto si chiama Monte dei Paschi di Siena, ci rimetteranno sia i rispamiatori di Mps che i contribuenti, che saranno poi chiamati a sostenere la banca. Ci rimettono tutti? Non proprio. C’è anche chi specula sul crollo, per farci soldi a palate. Per esempio Davide Serra, il finanziere di Renzi, ospite fisso alla Leopolda da cui impartisce lezioni politiche contro operai e sindacati. Tutto questo, sostiene il blog “Senza Soste”, si chiama scandalo. Perché è impossibile non vedere la concertazione degli eventi, il silenzio del premier che non è intervenuto per impegnarsi su Mps e la fiduciosa attesa di Serra, un broker che gioca al ribasso, sicuro di vincere. «Sì, proprio lui, l’amministratore delegato del fondo Algebris, che ha la gigantografia di Mandela in ufficio a Londra, comprata ad un’asta dove c’era Angela Merkel, e che chiede di sanzionare chi fa sciopero in Italia. Insomma lo sponsor finanziario più noto di Matteo Renzi».Nell’ambiente, Serra è noto come operatore che fa vendite allo scoperto: acquista in anticipo l’obbligo di vendita di azioni e obbligazioni a una determinata data, sperando che nel frattempo il loro valore crolli, in modo da rivendere guadagnandoci, senza aver prima acquistato neppure un titolo. «Grossomodo è quello che è accaduto realmente, quando Serra ha incassato forti dividendi dal crollo in borsa di Mps», scrive “Senza Soste”. In questi casi, la vigilanza bancaria può segnalare la posizione di vendita ribassista allo scoperto, e la Consob qui lo ha fatto prima che il titolo crollasse. «Ma può fare anche un’altra cosa: può direttamente vietare la vendita allo scoperto per impedire comportamenti speculativi. La Consob naturalmente non ha vietato nulla, il titolo Mps ha finito di crollare e Serra ha guadagnato». Cosa poteva fare il governo? «Elementare: tutelare i risparmiatori Mps, e i contribuenti che dovranno ripianare la voragine di Siena».Sarebbe bastato «portare il presidente del Consiglio davanti ai microfoni, gesto che gli riesce benissimo, per dichiarare che si sarebbe fatto di tutto per salvare Mps, in modo da far risalire il titolo e contenere i danni sia ai risparmiatori che ai contribuenti». Questo però avrebbe mandato in fumo la scommessa di Serra sul crollo della banca toscana. Così, Palazzo Chigi rischia di apparire come «il più gigantesco covo di insider trading del paese», una postazione privilegiata «dove si detengono informazioni riservate, ad esempio, su Mps e, guarda te il caso, dove gli amici del presidente del Consiglio su Mps finiscono per guadagnarci». Conclude “Senza Soste”: «Una volta poi smantellato il sistema locale del credito in Toscana poi qualcuno pagherà: contribuenti e rispamiatori, ad esempio. Bravi bischeri che votate Pd, continuate così: votate chi lascia, noi e voi, in mutande».A volte può bastare un annuncio a effetto, per fermare il terremoto. Se invece l’annuncio non arriva, e se il terremoto si chiama Monte dei Paschi di Siena, ci rimetteranno sia i rispamiatori di Mps che i contribuenti, che saranno poi chiamati a sostenere la banca. Ci rimettono tutti? Non proprio. C’è anche chi specula sul crollo, per farci soldi a palate. Per esempio Davide Serra, il finanziere di Renzi, ospite fisso alla Leopolda da cui impartisce lezioni politiche contro operai e sindacati. Tutto questo, sostiene il blog “Senza Soste”, si chiama scandalo. Perché è impossibile non vedere la concertazione degli eventi, il silenzio del premier che non è intervenuto per impegnarsi su Mps e la fiduciosa attesa di Serra, un broker che gioca al ribasso, sicuro di vincere. «Sì, proprio lui, l’amministratore delegato del fondo Algebris, che ha la gigantografia di Mandela in ufficio a Londra, comprata ad un’asta dove c’era Angela Merkel, e che chiede di sanzionare chi fa sciopero in Italia. Insomma lo sponsor finanziario più noto di Matteo Renzi».
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Feltri: nazisti Ue, buttateci fuori così poi ridiamo noi
La lettera minatoria che il presidente della Commissione Europea, Barroso, ha inviato a Palazzo Chigi è la dimostrazione plastica che Bruxelles considera l’Italia una scolaretta negligente e, pertanto, ritiene lecito tirarle le orecchie e prenderla a bacchettate con disinvoltura. Può darsi che in assoluto noi meritiamo simile trattamento, perché da anni giuriamo di stare in riga e invece, passando da Berlusconi a Monti e da Enrico Letta a Renzi, non abbiamo fatto altro che sbandare, come certificano i dati economici degli ultimi tre anni, andati via via peggiorando rispetto a quelli registrati in epoca di centrodestra. Ammesso e non concesso che siamo asini, non si capisce comunque perché l’Ue si arroghi il diritto di darci la pagella secondo pregiudizi, e non giudizi, che prescindono dalla conoscenza dei fatti. In altri termini, più crudi, se la Germania e i suoi camerieri scodinzolanti non apprezzano la politica romana sono liberi sì di criticarci e, al limite, di buttarci fuori dal club burocratico in cui guazzano, ma non di recapitarci una missiva dai toni ultimativi, sgradevoli, maleducati e arroganti, degni del Quarto Reich, anzi del Terzo.Essi ci hanno invitato perentoriamente a rispondere entro 24 ore al loro diktat in cui si dice che la nostra manovra (legge di stabilità) fa praticamente ribrezzo ed è quindi necessario correggerla, altrimenti… Altrimenti che? Cosa fate, ci cacciate? Provateci, fessacchiotti. Senza Italia nel mucchio selvaggio di 28 paesi, in cerca di una unione fittizia, salterebbe per aria non solo la Ue, ma anche la moneta unica difesa con spocchia dagli affamatori del popolo, cioè banchieri, finanzieri e loro utili idioti, tra cui economisti da talk show. Ecco perché ci auguriamo che Matteo Renzi (costretti ad affidarci a lui, già siamo nelle sue mani, oddio in che mani siamo), attingendo una tantum all’aulico linguaggio di Beppe Grillo, e rivolgendosi a Barroso e complici, pronunci il classico vaffanculo. Quando ci vuole, ci vuole.Non ci vengano a dire lorsignori di Berlino e Bruxelles che se disubbidiamo agli ordini saremo commissariati, come se il nostro paese fosse una colonia dei tognini. Manderanno in trasferta a Roma i commissari? Li accoglieremo nel migliore albergo. Va bene l’Excelsior di via Veneto? Ok. Qui rimpinzeremo gli ospiti di spaghetti all’amatriciana e di pizza e, l’indomani, li caricheremo sulle auto blu invendute rispedendoli a casa, oltre frontiera. Ce la siamo sempre cavata da soli nei momenti più tragici, compresi due dopoguerra mondiali e una tentata rivoluzione dei brigatisti rossi (indimenticabili quanto portentosi coglioni), vi pare che ci possano far tremare le ginocchia quattro contabili avvezzi a misurare la lunghezza degli zucchini e a disporre la distruzione delle arance siciliane? Andate all’inferno.Noi con la politica dei piccoli passi (da gambero) ci eravamo guadagnati una buona posizione, poi siete arrivati voi menagramo con l’euro fasullo e coniato non per aiutare il popolo europeo, che non esiste (esistono tanti popoli europei privi di un denominatore comune), e ci siamo lasciati infinocchiare, affascinati dall’idea di appartenere a una élite che avesse in tasca le stesse banconote. Prodi e Ciampi, nel predisporci a essere presi in giro, ci misero del loro, ma sorvoliamo per rispetto della terza età (cui mi avvicino). Constato che Renzi non usa le buone maniere ma preferisce la pressa delle rottamazioni rapide. Lo preghiamo vivamente di non intimidirsi davanti a un portoghese (vocabolo che da noi ha un significato giustamente sinistro) e di apprestarsi piuttosto a mandarlo a quel paese, il suo, dove troverà altri portoghesi più malleabili di noi. Chiaro il concetto? Caro presidente Renzi, lei che ha fatto fuori le cariatidi del Pd in pochi mesi, non faticherà a far secco anche questo intruso, Barroso, un nome che evoca quello di un calciatore, anzi di vari calciatori, tutti modesti.Ci aspettiamo da lei un atteggiamento dignitoso, un atto di coraggio che riaffermi la nostra sovranità nazionale a costo di sfidare il Quarto Reich che, senza di noi, farebbe la fine del Terzo, sul serio. Un’ultima osservazione prima di chiudere. L’Ue si è risentita perché Padoan, ministro dell’economia, ha pubblicato la lettera minatoria sul sito del proprio ministero. Ma da quando in qua gli atti ufficiali in democrazia rimangono segreti? Ha fatto benissimo Padoan a divulgarla. Chi lancia il sasso e nasconde la mano è un vile; chi ambisce perfino a nascondere il sasso è un pistola. P.S.: Presidente Renzi, le rammento che nel 2011 Berlusconi ricevette una lettera dalla Ue e, non avendola rispedita al mittente con un circostanziato vaffa, fu sfanculato. Politico avvisato, mezzo salvato.(Vittorio Feltri, “Buttateci fuori che poi ridiamo noi”, da “Il Giornale” del 24 ottobre 2014).La lettera minatoria che il presidente della Commissione Europea, Barroso, ha inviato a Palazzo Chigi è la dimostrazione plastica che Bruxelles considera l’Italia una scolaretta negligente e, pertanto, ritiene lecito tirarle le orecchie e prenderla a bacchettate con disinvoltura. Può darsi che in assoluto noi meritiamo simile trattamento, perché da anni giuriamo di stare in riga e invece, passando da Berlusconi a Monti e da Enrico Letta a Renzi, non abbiamo fatto altro che sbandare, come certificano i dati economici degli ultimi tre anni, andati via via peggiorando rispetto a quelli registrati in epoca di centrodestra. Ammesso e non concesso che siamo asini, non si capisce comunque perché l’Ue si arroghi il diritto di darci la pagella secondo pregiudizi, e non giudizi, che prescindono dalla conoscenza dei fatti. In altri termini, più crudi, se la Germania e i suoi camerieri scodinzolanti non apprezzano la politica romana sono liberi sì di criticarci e, al limite, di buttarci fuori dal club burocratico in cui guazzano, ma non di recapitarci una missiva dai toni ultimativi, sgradevoli, maleducati e arroganti, degni del Quarto Reich, anzi del Terzo.