Archivio del Tag ‘pace’
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Madison: la democrazia è un trucco, per proteggere i ricchi
Nel linguaggio di Angela Volpini, che è una mistica cristiana, nella vita ci sono due cose importanti. Uno: essere davvero se stessi – cioè, diventare se stessi, non rimanere conformi alle regole esterne (che ci vogliono omologati) ma avere il coraggio di seguire una strada libera, in ascolto con chi si è, per realizzare – nel mondo – chi siamo, e portare quindi la nostra qualità interiore, come direbbero i greci. E nel buddismo si dice che chi fa questo è persona felice. Poi c’è una seconda scelta, da fare: scegliere di praticare soltanto l’amore, e non il potere. Dunque: essere davvero se stessi, diventare chi si è. Ma mentre un gatto lo diventa di sicuro, un essere umano no. Perché mentre un gatto segue l’istinto, è guidato dalla specie, l’essere umano si è creato una cultura, e dentro la cultura ci sono le intrusioni del potere-dominio, della sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Se seguiamo il cardinale Martini, ci dice: c’è un solo peccato, l’oppressione dell’uomo sull’uomo, cioè l’utilizzo del potere. Raimon Panniker dice: due sono le forze, il potere e l’amore. La prima cosa da fare, dunque, è diventare se stessi: ed è difficile, perché il potere si esprime attraverso i consizionamenti sociali.Saper riconoscere i condizionamenti sociali distinguendoli da chi veramente siamo, e quindi compiere scelte coerenti con quello che siamo, è una strada difficile, che richiede una libertà interiore. Libertà da che cosa? Dalla paura, ci dice Krishnamurti: se continui ad aver paura, non puoi essere te stesso. E quindi non puoi neppure essere intelligente, non puoi comprendere. Libertà dalla paura, quindi. Paura di che cosa? La paura del giudizio che ci viene fa fuori, che ci dice se abbiamo fatto bene o male, ci ricorda quali sono le norme e le aspettive, ci dice che avremmo dovuto fare questo e quest’altro. Libertà dalla paura del giudizio, quindi del condizionamento sociale nel quale ha fatto irruzione – in modo massiccio, sempre di più – il potere, cioè l’opposto dell’amore. Ecco perché, senza libertà, non ci può essere amore – perché, senza libertà, non puoi essere te stesso; e se non realizzi te stesso, non puoi essere radiante di amore, perché sei incattivito.Da dove viene, il termine cattivo? Da “captivus”: prigioniero. Quindi, chi non è se stesso è prigioniero del condizionamento sociale. Ecco da dove viene la schiavitù salariale. Nel mondo, è questo che abbiamo creato: non dei lavori degni di esseri umani liberi dalla paura. La terza caratteristica indicata da Angela Volpini è la creatività. Un essere umano che sia libero, che abbia scelto l’amore, è creativo. E’ fatto a somiglianza del Dio-creatore, quindi è creatore. Di che cosa? Di se stesso. Cioè: manifesta chi veramente è, e quindi è creativo. Quando? In ogni momento della vita. E se è libero, ama ed è creativo, come si sentirà? Felice. Questo è il messaggio che Angela Volpini sta portando avanti da 63 anni. Non è un messaggio facile, come sapete, perché il condizionamento culturale è ovunque. Le stratificazioni di potere e le posizioni di rendita sono ovunque. E toccare le rendite è difficilissimo – che siano di soldi, di potere, di status.Si parla di principio di eguaglianza, ma non è vero. Si parla di democrazia, ma non c’è niente di vero. Queste parole sono ormai corrotte: non significano più nulla. A una persona, in Danimarca, una volta chiesero: cos’è, per te, la democrazia? Non so se avesse fatto studi di filosofia politica, ma rispose semplicemente: non preoccuparsi di chi verrà eletto, perché chiunque verrà eletto sarà una persona onesta e competente; potrà fare scelte di un tipo o di un altro, ma saranno per il bene comune. Ma l’origine della democrazia, in Occidente, non è questa. Madison parlò del peccato originale della democrazia americana: «La democrazia è la forma di governo che serve a proteggere i ricchi (pochi) dai poveri (tanti)». Questo non viene detto, nella Carta costituzionale, ma è stato detto nelle riunioni per produrla. E’ il peccato d’origine: e quella americana non ha fatto eccezione, tra le nostre democrazie. La democrazia è una struttura che “copre” questo fondamentale principio. Aristotele ha detto: non può esistere democrazia dove c’è troppa disparità tra ricchi e poveri. E’ impossibile: perché i ricchi, avendo diritto di voto, faranno in modo da distribuire la ricchezza a loro vantaggio. E allora?Restano due possibilità: o non si fa una democrazia, oppure si fa una democrazia falsa, in cui si dice che è una democrazia, ma in realtà si hanno dei mezzi per manipolarla, in modo da garantire quello che Madison, con chiarezza, ha dichiarato (privatamente) nel periodo di formazione della Costituzione americana. Questo è un quadro di ciò che è importante comprendere, per essere persone libere dalla paura del giudizio che proviene dal condizionamento sociale, che al suo interno contiene le strutture di potere. Se sottostiamo al giudizio sociale, queste strutture le interiorizziamo: e quindi non c’è più bisogno di nessuno che ci domini da fuori, perché ci auto-dominiamo da soli. Questa è la nostra situazione. Se non si fa qualcosa di molto specifico e consapevole, noi rimaniamo continuamente prigionieri di una struttura di potere interiorizzata. E siccome potere significa anche conflitto, saremo sempre prigionieri del conflitto. Ecco perché non possiamo vivere in pace: viviamo in conflitto, e il conflitto è sofferenza.(Mauro Scardovelli, estratto dal vicdeo-intervento “Liberi dalla paura”, pubblicato su YouTube il 26 maggio 2011. Giurista, psicologo e musicologo, Scardovelli è stato docente all’università di Genova. E’ animatore dell’associazione formativa Aleph Umanistica).Nel linguaggio di Angela Volpini, che è una mistica cristiana, nella vita ci sono due cose importanti. Uno: essere davvero se stessi – cioè, diventare se stessi, non rimanere conformi alle regole esterne (che ci vogliono omologati) ma avere il coraggio di seguire una strada libera, in ascolto con chi si è, per realizzare – nel mondo – chi siamo, e portare quindi la nostra qualità interiore, come direbbero i greci. E nel buddismo si dice che chi fa questo è persona felice. Poi c’è una seconda scelta, da fare: scegliere di praticare soltanto l’amore, e non il potere. Dunque: essere davvero se stessi, diventare chi si è. Ma mentre un gatto lo diventa di sicuro, un essere umano no. Perché mentre un gatto segue l’istinto, è guidato dalla specie, l’essere umano si è creato una cultura, e dentro la cultura ci sono le intrusioni del potere-dominio, della sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Se seguiamo il cardinale Martini, ci dice: c’è un solo peccato, l’oppressione dell’uomo sull’uomo, cioè l’utilizzo del potere. Raimon Panniker dice: due sono le forze, il potere e l’amore. La prima cosa da fare, dunque, è diventare se stessi: ed è difficile, perché il potere si esprime attraverso i condizionamenti sociali.
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Trump in Medio Oriente: lo status quo, con il minimo sforzo
Prima l’uccisione di Soleimani in Iraq, poi la strana proposta unilaterale di pace per chiudere il conflitto israelo-palestinese. «Al centro delle preoccupazioni statunitensi rimane l’Iran, Stato-civiltà, nascente potenza nucleare che con la sua carica rivoluzionaria è in grado di sovvertire gli equilibri dal Mare Arabico al Mediterraneo, dallo Yemen al Libano». Lo afferma Leonardo Tirabassi, autore di un’articolata analisi sugli sviluppi mediorientali proposta dal “Sussidiario”. Dopo che nel 2011 gli americani avevano lasciato Baghdad, premette Tirabassi, insieme ai soldati di altri 22 nazioni erano tornati in Iraq nel 2014, richiamati dal governo iracheno per contrastare l’Isis. «Ma a combattere la sunnita Daesh in Iraq e in Siria era arrivato fin da subito anche Soleimani, con i propri uomini e fornendo addestramento, finanziamenti e armi alle milizie sciite irachene: tutte forze che operavano in modo indipendente dalla coalizione internazionale a guida Usa». L’Iran, sottolinea l’analista, agisce con un disegno preciso: assumere l’egemonia regionale e realizzare sul terreno il sogno della Mezzaluna Sciita, unendo sotto un’unica bandiera le province sciite e “farsi” (persiane), dall’Afghanistan al Libano, con l’ambizione di veder rinascere l’Impero Persiano al di là dei confini stabiliti con il Trattato di Zuhab concluso il 17 maggio 1639 tra la Persia e l’Impero Ottomano.Difficilmente difendibile la responsabilità di Trump nella violenta eliminazione di Soleimani: ha ucciso un soldato con importanti ruoli politici, e l’ha fatto di un paese non in guerra. Un omicidio mirato in uno Stato terzo, senza chiederne l’autorizzazione né informarne le autorità, oltretutto uccidendo anche cittadini iracheni. E comunque: si può giudicare razionale l’azione americana di eliminazione del generale iraniano? Inoltre: quali sono gli obiettivi di lungo periodo che gli Usa vogliono raggiungere, in Medio Oriente? Infine: quali mezzi militari sono adatti a raggiungere questi obiettivi strategici? L’uccisione di Soleimani, scrive Tirabassi, conferma la storica ostilità americana verso Teheran: l’Iran non deve avere armi nucleari e deve cessare la ricerca di un’egemonia regionale, dall’Iraq allo Yemen, alla Siria e al Libano (con gli alleati Hezbollah e Hamas), smettendo di minacciare Israele e l’Arabia Saudita. Massima pressione contro il regime degli ayatollah, confermata anche dall’uscita dall’accordo sul nucleare e dall’inasprimento delle sanzioni economiche. Obiettivo: interrompere il flusso di finanziamenti da parte iraniana ai vari partner stranieri (Hezbollah e Hamas, gli Huthi in Yemen), «con la conseguenza di dissanguare le casse dello Stato, ormai ridotte allo stremo, incrinando il consenso, e quindi la forza degli ayatollah».Mentre la tecnologia estrattiva del fracking ha assicurato agli Stati Uniti un’autosufficienza energetica che li mette al riparo dal ricatto petrolifero, le conseguenze delle sanzioni sull’economia iraniana non si sono fatte attendere: nel 2019 il Pil di Teheran si è contratto del 9,5%. Se le cose non cambiamo, nel 2020 l’economia iraniana «calerà più del doppio, mentre l’inflazione viaggia al 30%». La deterrenza militare esibita da Trump nell’operazione-Soleimani «dimostra il predominio militare americano», e sopratutto «manda in frantumi la percezione di impunità che avevano a Teheran». Secondo Tirabassi, gli ayatollah avevano scambiato per debolezza l’indecisione degli Usa, che aveva disorientato gli alleati americani in Medio Oriente, «sorpresi e impauriti dalla mancanza di reazione di Trump e dalle sue parole concilianti dopo l’abbattimento da parte iraniana di un drone americano il 20 giugno dello scorso anno e l’attacco ai pozzi di petrolio sauditi del settembre 2019». Ben 20 droni e 11 missili, partiti da una base iraniana al confine con l’Iraq, avevano colpito i siti di Abqaiq e Khurais. «Azioni culminate con l’uccisione del contractor americano a Kirkuq e l’assalto all’ambasciata americana di Baghdad, orchestrato secondo gli Usa dagli iraniani, in conseguenza del bombardamento di una base della milizia irachena».Azioni però destinate a far cambiare idea al presidente americano – spiega Tirabassi – perché colpivano immediatamente l’autorevolezza Usa avendo anche un’enorme potenza mediatica, facendo ricordare i giorni bui del sequestro di 52 membri dell’ambasciata statunitense a Teheran, dal 4 novembre 1979 al 20 gennaio 1981. Il lancio del missile su Soleimani? «Risponde alla logica del colpo su colpo, affinché il nemico capisca in modo inequivocabile che non può agire impunemente». Ed è anche un messaggio chiaro per il governo di Baghdad, o meglio di quella parte che flirta con l’Iran. Ma, a parte questo, la Casa Bianca ha una visione per il Medio Oriente? Nonostante la raggiunta indipendenza energetica, spiega sempre Tirabassi, gli Usa puntano comunque alla stabilità della produzione petrolifera, fondamentale per far l’economia del mondo. Questo comporta l’impegno automatico al fianco dell’Arabia Saudita. Altro caposaldo: lo strettissimo rapporto di Trump con Israele, al punto da proporre un piano di pace che però impedisca ai profughi palestinesi di tornare alle loro case. Se Bush voleva ridisegnare la mappa del Medio Oriente, e Obama tentava accordi “impossibili” «con regimi e nemici che tutto vogliono meno che la pace», Trump si muove in modo diverso: vorrebbe «mettere fine ai “regime change” sia in veste neocon che democratica, lezione rafforzata dal caso venezuelano».Quello che emerge, secondo Tirabassi, è un disegno americano del Medio Oriente dai tratti negativi: «Trump non fa altro che fissare di nuovo gli interessi in purezza degli Stati Uniti, al di là dei desideri, volontà e ideologie. E da questa considerazione traccia una conseguente strategia militare, del massimo risultato con le minime perdite, ottenuto sfruttando appieno il “vantaggio competitivo” Usa della sua strabiliante forza militare che a sua volta riposa su un predominio economico, tecnologico e logistico senza pari nel mondo». Tradizione anglosassone declinata in epoca postmoderna: una «visione isolazionista-imperiale», fatta di «controllo assoluto dei mari, dell’aria, dello spazio e del cyberspace: flotte che solcano i mari, aerei continuamente in volo, satelliti nello spazio, basi Usa dislocate in tutto il mondo». In sostanza: «Obiettivi politici limitati», ottenuti grazie alla superiorità militare, e senza puntare a cambi di regime (neppure in Siria, dove la Russia ha potuto esercitrare un ruolo decisivo, concordato con la Casa Bianca). «Rimane tutto da vedere – conclude Tirabassi – se questo tipo di strategia è capace di produrre qualche tipo di ordine, e se permetta di sganciarsi dal caos mondano, consentendo agli Stati Uniti di rompere solo saltuariamente e per il tempo strettamente necessario il loro nuovo isolamento». Fosse per Trump, aggiunge l’analista, il compito di stare sul terreno sarebbe demandato di volta in volta agli altri Stati, dalla Russia ai partner della Nato. Basterà?Prima l’uccisione di Soleimani in Iraq, poi la strana proposta unilaterale di pace per chiudere il conflitto israelo-palestinese. «Al centro delle preoccupazioni statunitensi rimane l’Iran, Stato-civiltà, nascente potenza nucleare che con la sua carica rivoluzionaria è in grado di sovvertire gli equilibri dal Mare Arabico al Mediterraneo, dallo Yemen al Libano». Lo afferma Leonardo Tirabassi, autore di un’articolata analisi sugli sviluppi mediorientali proposta dal “Sussidiario“. Dopo che nel 2011 gli americani avevano lasciato Baghdad, premette Tirabassi, insieme ai soldati di altri 22 nazioni erano tornati in Iraq nel 2014, richiamati dal governo iracheno per contrastare l’Isis. «Ma a combattere la sunnita Daesh in Iraq e in Siria era arrivato fin da subito anche Soleimani, con i propri uomini e fornendo addestramento, finanziamenti e armi alle milizie sciite irachene: tutte forze che operavano in modo indipendente dalla coalizione internazionale a guida Usa». L’Iran, sottolinea l’analista, agisce con un disegno preciso: assumere l’egemonia regionale e realizzare sul terreno il sogno della Mezzaluna Sciita, unendo sotto un’unica bandiera le province sciite e “farsi” (persiane), dall’Afghanistan al Libano, con l’ambizione di veder rinascere l’Impero Persiano al di là dei confini stabiliti con il Trattato di Zuhab concluso il 17 maggio 1639 tra la Persia e l’Impero Ottomano.
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Trump-Netanyahu, cabaret: la pace, ma senza i palestinesi
Ho appena assistito ad uno spettacolo metafisico. In diretta sulla Cnn, il presidente americano Trump ha annunciato al mondo il suo nuovo piano di pace per la Palestina. Dico “metafisico” perché non mi era mai capitato di assistere ad un annuncio di tale importanza, che prevede un accordo definitivo e duraturo fra Israele e Palestina, con la sola presenza di uno dei due interessati. Accanto a Trump infatti c’era Benjamin Netanyahu, ma non c’era nessuno a rappresentare i palestinesi. La sceneggiata è andata avanti a lungo, con Trump che faceva i complimenti a Netanyahu, il quale lo applaudiva. Poi toccava a Netanyahu parlare, ed era Trump ad applaudirlo. E poi ciascuno ringraziava i propri ambasciatori, come se avessero portato a casa l’impresa del secolo. Sembrava quasi una cerimonia degli Oscar, nella quale i vincitori recitano la lunga litania di ringraziamenti alle mogli, ai produttori, ai parrucchieri, e a tutti quelli che li hanno aiutati a raggiungere quel traguardo.Poi, fra un ringraziamento all’altro, fra un applauso all’altro, Trump ha anche trovato il modo di illustrare alcuni dei dettagli principali di questo presunto accordo. E se è vero che ha apertamente appoggiato la famigerata soluzione dei due Stati, sembra proprio che nei termini dell’accordo vi siano alcune cose assolutamente indigeribili per i palestinesi: fra queste, il mantenimento per Israele degli insediamenti occupati, il mantenimento delle alture del Golan, e soprattutto il fatto che «Gerusalemme debba restare capitale indivisa di Israele». Ma Trump, da buon negoziatore, ha subito aggiunto che i palestinesi riceveranno 50 miliardi di aiuto, come se in qualche modo si potesse barattare la loro storia e la loro tradizione con un semplice assegno – per quanto decisamente cospicuo.Come dicevo, stonava fortemente questo tono celebratorio, nel quale Trump ha parlato come se si trattasse non solo di un accordo già concluso, ma addirittura di un accordo estremamente favorevole per i palestinesi. Mentre tutti i presenti nella stanza continuavano ad alzarsi ogni 30 secondi per fare una standing ovation al duo Trump-Netanyahu, tutti sembravano essersi dimenticati che Abbas ha già respinto questa ipotesi di accordo, ancora prima che venisse presentata al pubblico. Ma tant’è, viviamo nell’era della rappresentazione. Sappiamo benissimo che sia Trump che Netanyahu si trovano in un momento estremamente delicato della loro carriera politica, e che ambedue hanno un grande bisogno di appuntarsi al petto una medaglia importante come quella di uno storico accordo tra Israele e Palestina. Anche se, ovviamente, nessuno si è preoccupato di chiedere ufficialmente ai palestinesi il loro parere.(Massimo Mazzucco, “Trump-Netanyahu: il teatro dell’assurdo”, dal blog “Luogo Comune” del 28 gennaio 2020).Ho appena assistito ad uno spettacolo metafisico. In diretta sulla Cnn, il presidente americano Trump ha annunciato al mondo il suo nuovo piano di pace per la Palestina. Dico “metafisico” perché non mi era mai capitato di assistere ad un annuncio di tale importanza, che prevede un accordo definitivo e duraturo fra Israele e Palestina, con la sola presenza di uno dei due interessati. Accanto a Trump infatti c’era Benjamin Netanyahu, ma non c’era nessuno a rappresentare i palestinesi. La sceneggiata è andata avanti a lungo, con Trump che faceva i complimenti a Netanyahu, il quale lo applaudiva. Poi toccava a Netanyahu parlare, ed era Trump ad applaudirlo. E poi ciascuno ringraziava i propri ambasciatori, come se avessero portato a casa l’impresa del secolo. Sembrava quasi una cerimonia degli Oscar, nella quale i vincitori recitano la lunga litania di ringraziamenti alle mogli, ai produttori, ai parrucchieri, e a tutti quelli che li hanno aiutati a raggiungere quel traguardo.
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Magaldi: bravo Salvini, si fa processare sfidando gli ipocriti
Fa benissimo, Matteo Salvini, a sfidare apertamente chi lo vorrebbe alla sbarra. Ottima idea, quella del leader della Lega: opportuna e coraggiosa la decisione di sottoporsi al processo per il caso della nave Gregoretti, fermata l’estate scorsa davanti al porto siciliano di Augusta con i suoi 116 migranti. Lo afferma Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt: se qualcuno pensa di tornare a processare la politica nei tribunali (in questo caso, tentando di fermare per via giudiziaria un leader che sembra politicamente imbattibile), tanto vale affrontare l’accusa in aula e porre il problema, una volta per tutte, davanti alla nazione. Ha senso inquisire un ministro per i suoi atti politici? Tema drammaticamente illuminato dal film “Hammamet”, appena uscito nelle sale, e dai tanti libri freschi di stampa che propongono una radicale rilettura della sorte di Bettino Craxi, liquidato vent’anni fa ricorrendo all’iniziativa del pool Mani Pulite. Troppo spesso, sottolinea Magaldi, si è cercato di strumentalizzare le toghe (magari inconsapevoli) per fini politici: e il clamore sul caso Gregoretti, dove l’accusa di sequestro di persona appare effettivamente debole, secondo il leader del Movimento Roosevelt ha l’aria di una mera speculazione politica di basso profilo.In video-chat su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Magaldi chiarisce la sua posizione: per i politici (almeno, fin che sono in carica) è necessaria la tutela dell’immunità parlamentare assicurata nel modo più forte, anche per salvaguardare la piena dignità della funzione politica. Quanto a Salvini, ben venga il salto di qualità della sua condotta: fino a ieri, di fronte ad analoghe contestazioni (nave Diciotti), il capo della Lega era passato dall’ostentare tranquillità al quasi-implorare l’immunità, fino a essere “salvato” da Conte e Di Maio. Oggi, con il quadro parlamentare ribaltato e i 5 Stelle al governo col Pd, il no” agli sbarchi diventa materia giudiziaria: un pretesto per cercare di indebolire il nuovo leader dell’opposizione. Eloquente il parere di Zingaretti, secondo cui Salvini (che starebbe esasperando la vicenda) agirebbe «per motivi personali». Il che la dice lunga sulla perdurante ipocrisia di un Pd che, in fondo, è l’erede diretto di quella “casta di maggiordomi” che accettò senza condizioni il vincolo esterno dell’Ue, pur di sedersi al governo dopo il crollo (giudiziario) della Prima Repubblica. Un Pd senza idee né identità, che strizza l’occhio al neo-ambientalismo propagandistico di Greta e all’imbarazzante exploit delle Sardine, che pretendono di imbavagliare i ministri negando loro accesso a Twitter.Salvini tira dritto: vuole andare a processo per la Gregoretti (spiazzando anche la Meloni e Forza Italia) e intanto si protegge le spalle omaggiando Trump e Netanyahu: clamoroso l’applauso del leghista per l’uccisione americana del generale iraniano Qasem Soleimani, temuto da Israele. E a proposito: Salvini è tornato sul tema mediorientale, tifando per la promozione di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico, dopo aver equiparato l’antisemitismo alle critiche al sionismo. In un recente convegno alla presenza dell’ambasciatore israeliano in Italia, l’ex vicepremier si è rammaricato dell’assenza di Liliana Segre: «Lei avrebbe tanto da insegnare, Carola Rackete no», ha aggiunto, attaccando la “capitana” della Sea Watch che speronò una motovedetta della Guardia di Finanza. Il fatto che una tragedia come la Shoah venga costretta a galleggiare nello stesso mare in cui nuotano i migranti descrive bene il tenore della speculazione politica corrente, mentre l’Italia perde i pezzi: vessato dalla Commissione Europea, il Belpaese non riesce a risolvere nessuna delle sue crisi industriali, e in più assiste impotente anche alla perdita della Libia, ormai “appaltata” al duopolio russo-turco senza che il fantasmatico Conte-bis riesca a battere un colpo per dimostrare di esistere.«Salvini sta studiando», disse Magaldi la scorsa estate, dopo la diserzione del Papeete e la fine del governo gialloverde, clamorosamente rimpiazzato da quello giallorosso. Per i detrattori (e i grandi media), si trattò di un autogoal: il capo della Lega sperava nelle elezioni anticipate, mai si sarebbe aspettato che i 5 Stelle si stringessero al Pd – e a Renzi – per giunta mantenendo Conte a Palazzo Chigi. Salvini fornisce una versione diversa: gli sarebbe stato impossibile giustificare ancora, presso l’elettorato leghista, un governo senza risultati. Non solo la problematica autonomia regionale per il Nord-Est, ma soprattutto il miraggio della Flat Tax, o comunque il sollievo fiscale promesso da Armando Siri. Ai gialloverdi, leghisti inclusi, Magaldi non ha mai fatto sconti: «Bravissimi ad abbaiare contro Bruxelles, e altrettanto bravi a prendere ceffoni, tornando a Roma con le pive nel sacco e senza neppure la magra consolazione del 2,4% di deficit». Erano i tempi in cui il campione sovranista Salvini flirtava con Marine Le Pen e l’ungherese Orban, insieme all’intero cartello di Visegrad ostile alle frontiere aperte. Poi è arrivata la bombetta-Moscopoli, con i silenzi imbarazzati sulla presenza di Savoini al Metropol, intercettato (da quale servizio segreto?) mentre discuteva di forniture energetiche, non si sa a che titolo, con oligarchi russi.Nella conversione atlantista di Salvini, peraltro anticipata già nella visita in Israele lo scorso anno, Magaldi vede il bicchiere mezzo pieno: «Salvini si sta schierando, dopo esser stato tacciato di essere inaffidabile in quanto filo-russo». Per la precisione, si sta allineando a Trump e Netanyahu. Magaldi apprezza: «Sono a favore della creazione di uno Stato palestinese e denuncio gli abusi della politica israeliana», premette, non senza aggiungere: «Israele resta pur sempre l’unica democrazia dell’area: se si vuole la pace, è più facile partire proprio dagli elementi israeliani progressisti, piuttosto che dai paesi – tutti autoritari – che circondano lo Stato ebraico». E cita il coraggioso tentativo di Yitzhak Rabin, «massone progressista» assassinato nel ‘95 da un colono ultra-sionista per aver tentato, davvero, di stringere una pace storica coi palestinesi. Nulla di simile è oggi all’orizzonte: era ancora vivo Arafat quando la scelta della pace fu pagata, dall’Olp, con la secessione di Gaza, finita sotto il controllo di Hamas, «una formazione fondamentalista sciita, vicina all’Iran, che nega tuttora a Israele il diritto di esistere». Mala tempora currunt: Medio Oriente nel caos, Libia contesa da potenze lontane dall’Ue, Europa inesistente, Italia paralizzata da una crisi che sembra senza vie d’uscita. E in mezzo a questo disastro, l’impresentabile Pd pretende di crocifiggere Salvini, per via giudiziaria, con il pretesto dell’opposizione agli sbarchi?A far salire la temperatura, ovviamente, sono le imminenti regionali in Emilia Romagna: una lunghissima campagna elettorale, punteggiata dai comizi casa per casa dell’onnipresente Salvini, cui si oppone – agitando addirittura l’antifascismo – l’ambigua ciurma delle Sardine prodiane. Per Magaldi, sono tappe della guerra tattica che, dietro le quinte, vede contrapposti due supermassoni occulti, «il “fratello” Romano Prodi e il “fratello” Mario Draghi, entrambi proiettati verso la conquista del Quirinale, dopo Mattarella». Quanto all’Emilia, si tratta di una Regione «ben governata dall’uscente Stefano Bonaccini». Se dovesse perdere, però, non sarebbe una tragedia: «E’ inconcepibile – dice Magaldi – la pretesa di mantenere al potere sempre la stessa parte politica, ininterrottamente, per mezzo secolo: non bisogna avere paura dell’alternanza, che è il sale della democrazia, e questo dovrebbe valere anche per la Lega». Nel frattempo, resta comunque inevasa la questione di fondo: «L’Italia – sintetizza Magaldi – ha bisogno di un cambio radicale nella governance dell’Ue, ottenendo il via libera a investimenti per 200 miliardi non computabili nel deficit. C’è un paese da ricostruire, facendolo uscire dall’incubo artificiale dell’austerity, progettata da un’élite reazionaria di cui sia Draghi che Prodi sono stati al servizio, con la differenza che oggi Draghi si dice pentito del suo operato, mentre Prodi se ne guarda bene».Fa benissimo, Matteo Salvini, a sfidare apertamente chi lo vorrebbe alla sbarra. Ottima idea, quella del leader della Lega: opportuna e coraggiosa la decisione di sottoporsi al processo per il caso della nave Gregoretti, fermata l’estate scorsa davanti al porto siciliano di Augusta con i suoi 116 migranti. Lo afferma Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt: se qualcuno pensa di tornare a processare la politica nei tribunali (in questo caso, tentando di neutralizzare per via giudiziaria un leader che sembra politicamente imbattibile), tanto vale affrontare l’accusa in aula e porre il problema, una volta per tutte, davanti alla nazione. Ha senso inquisire un ministro per i suoi atti politici? Tema drammaticamente illuminato dal film “Hammamet”, appena uscito nelle sale, e dai tanti libri freschi di stampa che propongono una radicale rilettura della sorte di Bettino Craxi, liquidato trent’anni fa ricorrendo all’iniziativa del pool Mani Pulite, ai tempi in cui la Lega Nord, in Parlamento, agitava il cappio. Troppo spesso, sottolinea Magaldi, si è cercato di strumentalizzare le toghe (magari inconsapevoli) per fini politici: e il clamore sul caso Gregoretti, dove l’accusa di sequestro di persona appare effettivamente debole, secondo il leader del Movimento Roosevelt ha l’aria di una mera speculazione politica di basso profilo.
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Usa nel fango, grazie a Israele: la dura lezione di Soleimani
La politica americana è una continuazione delle guerre di Israele con altri mezzi. Il teorico mitare prussiano del XIX secolo Carl von Clausewitz aveva fato notare che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Questa è una descrizione appropriata della strategia militare e della geopolitica iraniana. È coerente con la logica che aveva guidato il generale Qasem Soleimani negli ultimi due decenni. Da stratega militare di notevole valore, Soleimani aveva capito che la distanza tra A e B non è necessariamente identica alla distanza tra B ed A. Iran e Israele non condividono un confine fisico, Teheran e Tel Aviv sono distanti circa 1.000 miglia. Nonostante le incessanti minacce di Israele di attaccare l’Iran, non è mai stato chiaro se Israele abbia le capacità militari per causare danni significativi all’Iran. Non è chiaro come i piloti israeliani potrebbero coprire una simile distanza e volare inosservati sulla Giordania, la Siria o l’Iraq. Dove o come si rifornirebbero gli aerei israeliani e così via. Israele non è ancora riuscito a risolvere questo problema di logistica militare. Ma è stato abbastanza intelligente da capire che spingere l’America in un conflitto totale con la Repubblica Islamica potrebbe fornire una soluzione all’enigma.Nonostante la concorrenza (con Gran Bretagna, Francia e Germania), gli Stati Uniti sono la colonia più sottomessa di Israele. Per anni hanno giosamente sacrificato i propri figli e le proprie figlie sull’altare sionista. Il generale Soleimani aveva ideato tattiche militari brillanti per contrastare i piani americani ed israeliani; anche se Israele non condivide un confine con l’Iran, l’Iran condivide sicuramente un confine con Israele. Il dispiegamento delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, insieme alle milizie filo-iraniane locali nelle aree di conflitto, aveva permesso a Soleimani di circondare lo Stato ebraico con un muro di accanita resistenza. Gli alleati regionali iraniani sono superbamente addestrati, motivati sia dal punto di vista religioso che ideologico, e hanno il vantaggio di poter disporre della tecnologia e del ricco arsenale balistico iraniano, in grado di colpire in modo letale Israele in caso di conflitto.Già da tempo, l’élite militare e gli analisti israeliani hanno dovuto accettare il fatto che, nel contesto di una tale guerra Israele-Iran, l’Iran, insieme ai suoi alleati regionali, sarebbe in grado di far piovere su Israele migliaia di missili balistici, da crociera e ad alta precisione. Una tale eventualità potrebbe spazzare via le città israeliane in pochi giorni.Tattiche simili erano state messe in atto dal generale Soleimani nei confronti delle forze militari americane nella regione. L’Iran potrebbe anche non condividere un confine con gli Usa, ma le milizie irachene filo-iraniane sono riuscite a circondare e a tenere sotto pressione le forze americane in Iraq. L’Iran domina anche i passaggi più strategici nel Golfo Persico attraverso le milizie sciite nello Yemen. L’attacco iraniano alle basi aeree americane ha anche dimostrato che i leader supremi dell’Iran hanno fatto propria la filosofia di Clausewitz. L’attacco è stato misurato. E’ stato portato contro basi militari americane e, secondo i rapporti, sono state colpite piste di atterraggio ben selezionate e strutture vuote. Inoltre, l’attacco è stato condotto dal territorio iraniano ed è stato apertamente rivendicato dal regime iraniano. Ha trasmesso in modo efficace la determinazione e la fermezza iraniana; è stato tuttavia abbastanza misurato da dare all’amministrazione Trump l’opportunità di scendere dall’albero su cui era incautamente salita, ma le ha dato anche abbastanza corda per impiccarsi, se proprio ci tiene.Il conflitto degli Usa con l’Iran è peculiare; è irrazionale in modo tale da rasentare persino la follia. L’America non dipende più dal petrolio del Golfo. La sua strategia generale nella regione è inutile ed autolesionista. L’Iraq vuole che l’esercito americano se ne vada. In Siria, le forze americane sono state sconfitte. La Russia si sta occupando adesso di ciò che in passato l’America aveva affermato di supervisionare, ma che in pratica non aveva mai fatto. Ci si chiede, che cosa sta facendo l’America in Iraq o in Siria? Dove sta portando tutto questo? Numerosi studi accademici hanno stabilito che la politica estera americana è dominata dalla lobby israeliana. La verità devastante è che l’America ha combattuto per decenni le guerre di Israele. Fino ad ora, questo ha comportato scontri contro forze militari inferiori. Ma una battaglia con l’Iran potrebbe rivelarsi molto più complicata. Decenni di sanzioni hanno trasformato l’Iran in una superpotenza tecnologica indipendente. La tecnologia dei droni iraniani è avanzata almeno quanto quella di Israele e degli Stati Uniti, e l’Iran è all’avanguardia nel settore dei missili guidati di precisione e da crociera.A differenza dei soldati americani che combattono per Israele e a cui vengono spesso fornite informazioni fuorvianti da fonti israeliane, gli iraniani e le milizie sciite locali combattono sul proprio territorio. La battaglia è destinata a diventare una sfida per l’esercito Usa e le sue conseguenze sono imprevedibili. Circondato dall’incompetenza, Trump ha preso decisioni disastrose che hanno trasformato l’America e Israele nei maggiori pericoli per la pace nel mondo. La situazione è così grave per l’America che quasi non riesce a trovare la forza dentro di sé per rendersi conto del vicolo cieco in cui si è cacciata da sola. L’unico modo per comprendere l’assurda operazione americana è accettare un approccio un po’ diverso alla visione di Clausewitz: la politica americana è una continuazione delle guerre sioniste con altri mezzi. L’America ha dilapidato il proprio prestigio mondiale per colpa dello Stato ebraico.I politici americani promettono spudoratamente fedeltà allo Stato ebraico anziché al proprio. Si fanno in quattro per placare i gruppi della lobby ebraica, che si tratti dell’ultra sionista Aipac o dell’opposizione controllata Jstreet. Gli Stati Uniti non saranno la prima superpotenza ad essere stata distrutta da Sion. Il problema è che una guerra regionale che coinvolga America ed Israele renderebbe irrilevante Extinction Rebellion, dal momento che queste due distruttive potenze potrebbero ridurre in polvere il nostro pianeta solo per salvare i loro attuali leader dai problemi legali che li assillano. Non ho dubbi sul fatto che molti americani siano consapevoli dei pericoli all’orizzonte. Tuttavia, la matrice del potere sionista in America ha smantellato la capacità degli americani di dire pane al pane, in quanto considerata “antisemita.”Gilad Atzmon, “Clausewitz, Trump e Soleimani”, dal blog di Atzmon dell’8 gennaio 2020; articolo tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).La politica americana è una continuazione delle guerre di Israele con altri mezzi. Il teorico mitare prussiano del XIX secolo Carl von Clausewitz aveva fato notare che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Questa è una descrizione appropriata della strategia militare e della geopolitica iraniana. È coerente con la logica che aveva guidato il generale Qasem Soleimani negli ultimi due decenni. Da stratega militare di notevole valore, Soleimani aveva capito che la distanza tra A e B non è necessariamente identica alla distanza tra B ed A. Iran e Israele non condividono un confine fisico, Teheran e Tel Aviv sono distanti circa 1.000 miglia. Nonostante le incessanti minacce di Israele di attaccare l’Iran, non è mai stato chiaro se Israele abbia le capacità militari per causare danni significativi all’Iran. Non è chiaro come i piloti israeliani potrebbero coprire una simile distanza e volare inosservati sulla Giordania, la Siria o l’Iraq. Dove o come si rifornirebbero gli aerei israeliani e così via. Israele non è ancora riuscito a risolvere questo problema di logistica militare. Ma è stato abbastanza intelligente da capire che spingere l’America in un conflitto totale con la Repubblica Islamica potrebbe fornire una soluzione all’enigma.
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Magaldi: Iran, Cia e Mossad. Ma in palio c’è la democrazia
Forse la verità la si vede meglio da lontano: era il 1978 quando l’ayatollah Khomeini diede inizio alla rivoluzione islamica in Iran, che si sarebbe conclusa solo un anno dopo, in un paese intimidito dalla feroce polizia politica dello Scià e, anni prima, colpito al cuore con la deposizione “coloniale” del suo leader, Mohamed Mossadeq, concepita per rimettere sotto il controllo dell’Occidente le risorse petrolifere della Persia. Stiamo parlando di un paese ricchissimo di storia e di cultura, nel cuore del Medio Oriente, sulla direttrice tra Gerusalemme e l’Afghanistan devastato dagli Usa, immediata retrovia dell’India e della Cina. E’ la patria del leggendario Impero Persiano, culla della religione più antica della Terra – il Mazdeismo di Zoroastro – e poi dell’ala più mistica e inziatica dell’Islam, il Sufismo dei dervisci. Si fa presto a dire Iran: oltre ai persiani, tra gli 80 milioni di abitanti si annoverano etnie di lingua turca, curda, pashtu. Ci sono tatari, baluci, arabi, tagiki. L’Iran ha dato al mondo uno tra i maggiori registi cinematografici contemporanei, Abbas Kiarostami. «Meglio il caos iraniano che questo Occidente», disse, dopo esser stato respinto – per via del suo passaporto – all’aeroporto Jfk di New York, dov’era atteso per un festival (espulsione che costò l’immediata partenza, per rappresaglia, di un altro grande del cinema d’autore, il finlandese Aki Kaurismaki). Ma attenzione: erano gli anni, orribili, del Patriot Act dell’era Bush, appena dopo l’11 Settembre.«Un’élite occulta e reazionaria si era impossessata delle istituzioni statunitensi, progettando direttamente l’attentato delle Torri Gemelle». Il piano: «Fingere di “esportare la democrazia” in Medio Oriente, usando il terrorismo “false flag” (fabbricato in casa) per promuovere guerre devastanti come quelle che hanno prostrato l’Iraq, col risultato di distruggere il prestigio degli Usa nella regione». Parola di Gioele Magaldi, che nel bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014) ha svelato nomi e cognomi del club del terrore chiamato “Hathor Pentalpha”, inventore delle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. Stragismo atlantico clandestino, cinicamente progettato con l’affiliazione nella “Hathor” di supermassoni occulti come Osama Bin Laden (Al-Qaeda) e poi Abu Bakr Al-Bahdadi, sedicente “califfo” dell’Isis. La “Hathor” fu creata da Bush senior poco dopo l’insediamento a Teheran del regime degli ayatollah: era comodissimo, il turbante di Khomeini, per prepararsi a inoculare nei media occidentali il veleno del famoso “scontro di civiltà”. La tesi: l’Islam è un nemico, non può coesistere col sistema socio-economico occidentale. Bufale, e tanta ipocrisia: «Gli Usa – sottolinea Magaldi – convivono tuttora benissimo con le monarchie petrolifere del Golfo come l’Arabia Saudita, il cui autoritarismo teocratico è forse persino peggiore di quello dell’Iran khomeinista».Il grande alibi, per tutti, è sempre stato Israele: ovvero l’ostilità islamica verso lo Stato ebraico, accusato di aver schiacciato i palestinesi. L’uomo che stava per metter fine a mezzo secolo di massacri – Yitzhak Rabin, Premio Nobel per la Pace – venne assassinato nel 1995 da un fanatico israeliano ultra-sionista. Tolto di mezzo il massone progressista Rabin (e il miraggio dello Stato palestinese) si sono scatenati i “neocon” statunitensi, con il loro piano di egemonia e business fondato sulla “guerra infinita”, alimentata dagli “inside job” del terrorismo condotto sotto falsa bandiera, da manovalanza jihadista pilotata da servizi segreti occidentali. Attorno alle macerie dell’Iraq e della tormentatissima Striscia di Gaza sono quindi gradualmente riaffiorate le potenze regionali, accanto a Israele: l’Arabia Saudita, la Turchia e, naturalmente, l’Iran. Quest’ultimo, di recente, ha ampliato enormemente la sua sfera d’influenza: dallo Yemen al Libano, da Gaza alla Siria fino al vicino Iraq. Uomo-chiave della Mezzaluna Sciita, il grande stratega Qasem Soleimani, considerato una sorta di eroe nazionale per aver fermato i tagliagole dell’Isis tenendoli lontani dalle frontiere iraniane, indirettamente minacciate dagli impresari occulti dello Stato Islamico.Proprio la riconosciuta funzione patriottica di Soleimani – oltre alle sconcertanti modalità della sua morte, un atto terroristico apertamente rivendicato dagli Usa – spiega la folla oceanica ai funerali, milioni di persone (e addirittura una quarantina di morti, nella calca, in una manifestazione di dolore collettivo, intensamente popolare, esibito per giorni di fronte al mondo). Un militare integerrimo, Soleimani, che aveva rifiutato la politica per restare tra i suoi soldati, la temutissima brigata Al-Quds, specializzata in operazioni coperte, oltre i confini. L’eroe di Teheran era da tempo nel mirino del Mossad, che ne temeva le mosse d’intesa con Hamas a Gaza e con Hezbollah in Libano. In Iraq, era stato determinante (accanto alle forze coordinate da Trump) nello sconfiggere il Califfato. Idem in Siria: con i russi, l’esercito di Assad e i miliziani sciiti libanesi, Soleimani aveva contribuito in modo decisivo a ripulire il paese dai terroristi inizialmente armati, addestrati e protetti dall’Occidente. Perché sia stato ucciso il 3 gennaio 2020 (e in quel modo, in un paese terzo, con un missile sparato da un drone) resta un mistero.Le fonti mainstream occidentali lo accusano di aver orchestrato, nei giorni precedenti, l’assalto all’ambasciata statunitense di Baghdad. Il governo iracheno smentisce: al contrario, afferma, Soleimani era stato chiamato dall’Iraq per una delicata missione diplomatica. Doveva innanzitutto calmare le acque tra le milizie sciite (alcune ostili al predominio iraniano) e, soprattutto, consegnare un messaggio strategico destinato all’Arabia Saudita, cui Teheran proponeva una de-escalation nella regione. Chi ha ucciso Soleimani, dunque, intendeva tagliare le gambe a una possibile intesa di pace tra la nazione leader degli sciiti e quella dei sunniti? Altre vere spiegazioni, del resto, non giungono da nessun’altra parte: la propaganda mediatica statunitense s’è limitata, in modo imbarazzante, a definire “un terrorista” l’uomo-chiave dell’intelligence militare dell’Iran. Giulietto Chiesa ricorda i propositi omicidi di Yossi Cohen, il capo del Mossad, e cita il senatore repubblicano Lindsay Graham, che ha minacciato Trump: se ritira le truppe Usa dal Medio Oriente, può scordarsi l’appoggio di metà del partito al Senato, quando si dovrà decidere sull’impeachment. Il solito network filo-sionista, che il cospirazionismo chiama impropriamente lobby ebraica?Gianfranco Carpeoro, dirigente del Movimento Roosevelt fondato da Magaldi, fa un’altra ipotesi: sempre sotto la minaccia dell’impeachment (e quindi dell’appoggio condizionato per le imminenti elezioni presidenziali) sarebbe stata proprio la famigerata “Hathor Pentalpha”, annidata nel Deep State americano, a indurre Trump a colpire Soleimani per “rimediare” alla recente, sbandierata uccisione di Al-Baghdadi, esponente della “Hathor”. Una ricostruzione che però non convince Magaldi: «Il network massonico-progressista internazionale, a cui io stesso appartengo – dice – contribuì a far eleggere Trump proprio per tenere lontana la “Hathor” dalle stanze del potere». E inoltre – aggiunge Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” – i supermassoni della “Hathor” «continuano a vedere Trump come il fumo negli occhi: impensabile un accordo tra loro e la Casa Bianca». Ma allora, perché Soleimani è stato ucciso proprio ora? Secondo Magaldi, l’episodio fa parte della spietata logica simmetrica della guerra permanente, che è aberrante ma tragicamente coerente: se hai a lungo sfidato la superpotenza egemone (e i suoi terroristi) anche utilizzando milizie pronte a usare il medesimo terrorismo, non puoi non sapere che un giorno potresti cadere sul campo a tua volta, come qualsiasi altro combattente.Soleimani però non era un combattente qualsiasi, era il massimo responsabile della politica dell’Iran sul terreno mediorientale. Di più: era il grande protagonista della riconquista sciita dei territori disastrati dall’imperialismo Usa, tra le macerie della regione petrolifera perennemente funestata dalla piaga dell’irrisolto conflitto israelo-palestinese, spesso usato come alibi da entrambe le parti per perseguire politiche di potenza. «Non è un mistero – dice Magaldi – che i “falchi” israeliani si siano accordati, in passato, anche con i “falchi” iraniani: si finge di combattersi all’infinito, e lo spettro del nemico esterno – vero o presunto – è comodissimo per rafforzare il potere interno». Magaldi invita a esaminare quale fosse il principale referente di Soleimani: l’ayatollah Khamenei, guida suprema dell’Iran e capo dell’ala più reazionaria del regime. Gli stessi Pasdaran, di cui la Quds Force di Soleimani è la punta di lancia, rappresentano una bella fetta del potere, anche economico, della teocrazia sciita. Un bersaglio perfetto, il valoroso generale, per chi avesse voluto colpire la radice più intransigente dei “padroni” di Teheran: un capitolo di quella che Federico Rampini chiama “la seconda guerra fredda”, che oggi vede Trump fronteggiare bruscamente la Cina e i suoi alleati. Nel mirino c’è quindi l’Iran, snodo nevralgico del Golfo Persico lungo la nuova Via della Seta. Un paese da quarant’anni ostile agli Usa, e ora alleato con Pechino e Mosca.«Non mi sorprende l’estrema prudenza con cui Cina e Russia hanno reagito all’uccisione di Soleimani», ribadisce Magaldi, il primo a scommettere – a caldo – sul fatto che l’omicidio (benché così eccellente) non avrebbe provocato l’Armageddon bellico paventato da più parti. Violazione del diritto internazionale? Certo: «Sono episodi brutali, ai quali non vorremmo mai assistere, ma – ripeto – in qualche modo simmetrici, e dettati da una spietata logica squisitamente geopolitica». Al punto che oggi Magaldi arriva a sostenere che Trump, vista l’assenza di ritorsioni clamorose da parte dell’Iran (eccetto il bombardamento missilistico solo dimostrativo, su alcune basi statunitensi in Iraq) sia da considerarsi un obiettivo tecnicamente raggiunto, senza troppi danni: «Se volevano liberarsi di Soleimani, ci sono riusciti: e questo è un fatto». Meglio quindi non lasciarsi condizionare dall’emotività, insiste Magaldi: l’indignazione non aiuta a capire cosa si muove veramente, là fuori, oltre il teatro anche sanguinoso delle apparenze. Sempre secondo Magaldi, poi, l’espansionismo sciita – orchestrato dal regime teocratico di Teheran – oltre Atlantico è considerato come speculare, in qualche modo (almeno, nel richiamo esplicito alla legge coranica, interpretata nel modo più drastico) al terrorismo dell’Isis: stessa visione politica violenta, figlia di un’analoga interpretazione fanatica del medesimo credo religioso?Le differenze sono vistose: in Iran non sono all’opera tagliagole. I macellai dell’Isis, messi in campo dall’Occidente, hanno invece terrorizzato per anni interi Stati mediorientali. Per contro, a Teheran resiste un regime che ignora i diritti civili e pratica una brutale censura, mortifica le donne, nega ogni libertà di espressione, reprime il dissenso, tortura e fa sparire i detenuti scomodi. In altre parole una sorta di dittatura, che trae la sua forza proprio dal durissimo assedio al quale è stata ininterrottamente sottoposta a partire dalla comparsa del turbante di Khomeini. Embargo, sanzioni, minacce militari dirette e indirette. Timidi i tentativi di tregua, come lo storico accordo promosso da Obama sul nucleare, ora stracciato da Trump anche col sangue di Soleimani. Se lo spettacolo non è esattamente edificante, Magaldi si sforza di guardare oltre: la vera sfida, ripete, oppone democrazia e oligarchia, progressisti e reazionari. «Un errore imperdonabile, da parte dell’élite globalista, è stato quello di aver concesso alla Cina di entrare, senza nemmeno uno straccio di democrazia formale, nel grande gioco del commercio planetario, permettendole così di diventare una grande potenza». Sbaglia, sostiene Magaldi, chi si limita a puntare il dito contro l’imperialismo americano: la lobby (massonica) che ha costruito questa globalizzazione senza diritti, mettendo in ginocchio anche il lavoro in Occidente con la tragedia delle delocalizzazioni, era composta da oligarchi di svariati paesi, incluso il gigante cinese. E questa cupola è ancora largamente al comando, mettendo in campo soggetti solo formalmente democratici (come l’Ue) e protagonisti geopolitici che non tentano neppure di fingersi ispirati dalla democrazia.La dialettica tra esponenti progressisti e reazionari, aggiunge Magaldi, «attraversa tutti i gangli del vero potere, persino le più importanti strutture di intelligence come la Cia e il Mossad, dove storicamente coesistono anime antitetiche tra loro». Tutto questo avverrebbe molto in alto, a nostra insaputa, e spesso al di sopra dei governi stessi, ridotti a pedine. Anche per questo, forse, è morto il conservatore Qasem Soleimani, leale soldato dell’Iran degli ayatollah? Secondo il grande antropologo francese Claude Lévi-Strauss, teorico dello strutturalismo, tutto è relativo: nessuno può arrogarsi il diritto di decretare quale sia il sistema politico migliore. Quando scriveva le sue opere, però, la globalizzazione non si era ancora manifestata in tutta la sua potenza: il cosiddetto terzo mondo lottava per liberarsi dai suoi parassitari colonizzatori. All’epoca, da Teheran, non partivano Boeing ucraini carichi di studenti iraniani diretti in Canada. Tragedia nella tragedia, l’abbattimento del volo civile nei cieli della capitale iraniana. «Intendiamoci: non è certo una specialità dell’Iran», precisa Magaldi: «Ne sappiamo qualcosa in Italia, con il caso di Ustica». Amato da Godard e Scorsese, il cinema di Kiarostami ha mostrato al mondo un Iran meraviglioso, fatto di umanità e silenzi. Ricordarsi che esiste anche quello, forse, può aiutare a uscire dal buio sanguinoso di un’attualità nutrita di propaganda, ignoranza e rombanti menzogne quotidiane.Forse la verità la si vede meglio da lontano: era il 1978 quando l’ayatollah Khomeini diede inizio alla rivoluzione islamica in Iran, che si sarebbe conclusa solo un anno dopo, in un paese intimidito dalla feroce polizia politica dello Scià e, anni prima, colpito al cuore con la deposizione “coloniale” del suo leader, Mohamed Mossadeq, concepita per rimettere sotto il controllo dell’Occidente le risorse petrolifere della Persia. Stiamo parlando di un paese ricchissimo di storia e di cultura, nel cuore del Medio Oriente, sulla direttrice tra Gerusalemme e l’Afghanistan devastato dagli Usa, immediata retrovia dell’India e della Cina. E’ la patria del leggendario Impero Persiano, culla della religione più antica della Terra – il Mazdeismo di Zoroastro – e poi dell’ala più mistica e inziatica dell’Islam, il Sufismo dei dervisci. Si fa presto a dire Iran: oltre ai persiani, tra gli 80 milioni di abitanti si annoverano etnie di lingua turca, curda, pashtu. Ci sono tatari, baluci, arabi, tagiki. L’Iran ha dato al mondo uno tra i maggiori registi cinematografici contemporanei, Abbas Kiarostami. «Meglio il caos iraniano che questo Occidente», disse, dopo esser stato respinto – per via del suo passaporto – all’aeroporto Jfk di New York, dov’era atteso per un festival (espulsione che costò l’immediata partenza, per rappresaglia, di un altro grande del cinema d’autore, il finlandese Aki Kaurismaki). Ma attenzione: erano gli anni, orribili, del Patriot Act dell’era Bush, appena dopo l’11 Settembre.
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Giulietto Chiesa: complici dei criminali che sventolano diritti
In una intervista su “The Times of Israel” dello scorso ottobre, il capo del Mossad, Yossi Cohen, ha dichiarato: l’assassinio del generale Soleimani non è impossibile. Il vero motore dell’attacco all’Iran è proprio Israele, nella persona del primo ministro Netanyahu e della sua politica di questi anni. Insieme a Ntanyahu e Israele c’è una potente lobby ebraica sionista, che controlla una buona metà del Senato degli Stati Uniti e della Camera dei Rappresentanti. Sono calcoli forniti da autorevoli esperti. Questa lobby è quindi in grado di determinare anche il destino di Donald Trump. Non dimentichiamo che il senatore repubblicano Lindsay Graham ha detto esplicitamente e pubblicamente che, se ci fosse una decisione di Trump di ritirare le sue truppe dal Medio Oriente, non potrebbe garantire che una importante quota dei parlamentari repubblicani non possa votare a favore dell’impechment. Quindi a Trump è stato detto con tutta chiarezza: o procedi sulla linea che ti viene dettata, da Israele e dagli amici americani di Israele, oppure noi ti facciamo perdere l’impeachment e facciamo saltare la tua rielezione a presidente degli Stati Uniti. Per Trump questo è un colpo drammatico: per il suo destino. E non credo che riuscirà a recuperare, perché comunque sarà sotto accusa da ogni parte.Trump ha perduto nettamente tutto il Medio Oriente: non solo gli sciiti, che ormai si sono compattati interamente. Il problema è che anche una parte dei sunniti non potrà reggere a questa situazione: in caso di aggravamento della situazione, anche forze sunnite importanti del Golfo Persico possono sentirsi minacciate. Cinque importanti rappresentanti governativi del Qatar hanno chiesto il passaporto di Malta. Molte cose si stanno muovendo, nel campo islamico. Il Parlamento iracheno ha chiesto l’uscita delle truppe americane dal paese, e il problema non verrà risolto se non con l’uscita delle truppe. Trump nel frattempo sta già cercando di non parlare più dell’accaduto, come se non fosse successo nulla: è chiaro che il presidente americano è in piena ritirata, ma non credo che potrà rititarsi. L’atto è stato compiuto, e i rapporti politici, emotivi e istituzionali sono profondamente cambiati. Credo che la questione non si chiuda adesso, non c’è neanche da pensarci. Non credo che l’Iran farà azioni di grande portata. Credo invece che Trump dovrà cercare di tenere a freno la situazione, e mi auguro che gli europei siano in grado di capirlo: perché se le forze che vogliono la guerra (che non sono l’Iran) non saranno fermate dagli Stati Uniti, da Trump, dagli europei, io credo che andremo incontro a una crisi di proporzioni gigantesche.Non sottovalutiamo questa situazione: è in mano a veri e propri irresponsabili e criminali. Sono convinto che ci saranno dei gravi avvenimenti, nell’immediato futuro. Un punto importante è il ruolo della Russia: Putin è andato a Damasco a parlare con Assad, poi ad Ankara per inaugurare con Erdogan il Turkish Stream. Cioè, Putin sta dicendo che la Russia è in Medio Oriente, proprio nel momento in cui l’America viene invitata ad andarsene. Io credo che il destino della pace, in questo momento, sia in gran parte nelle mani della Russia e della Cina. Ritengo che la Russia dovrebbe dire, esplicitamente, che non accetterà in nessun modo un attacco contro l’Iran. Dovrebbe dirlo ora, perché ci sono forze che a questo attacco stanno pensando. Farebbe capire a tutti che oggi la pace è sotto il controllo della Russia e della Cina. I primi a sapere di poter sfidare militarmente gli Usa sono proprio i dirigenti iraniani. Nello stesso tempo, l’Iran è troppo forte per essere considerato un paese sconfiggibile: l’Iran non può vincere, ovviamente, ma non può neppure essere sconfitto. O meglio: potrebbe essere sconfitto solo con una gigantesca catastrofe internazionale, mondiale, nella quale noi europei saremmo coinvolti.Le cifre parlano chiaro: dallo Stretto di Hormuz passa il 22% del petrolio che è necessario alla vita quotidiana dell’intera Europa. Se attaccato, l’Iran può impedire l’uscita di quel petrolio, che è vitale anche per la Cina. Gli Stati Uniti, per quanto forti, sono in grado di imporre una catastrofe economica che si abbattesse sull’Europa e sulla Cina? Ne dubito. E quindi, la questione dovrebbe essere sul tavolo di tutti i paesi europei. Bisognerebbe riuscire a stabilire che gli interessi dell’Europa non coincidono più con quelli di un’America che non rispetta più le regole della convivenza internazionale. In qualche misura, bisogna che l’Europa agisca ora. Riteniamo che non succederà niente? Questa è una visione inaccettabile, di una miopia e di una stupidità assoluta, perché il mondo non è più quello di 25 anni fa: non capirlo, significa esporsi a gravi pericoli. Quindi, l’Europa e l’Italia dovrebbero essere capaci di dire agli americani: noi non vi seguiremo, non siamo d’accordo di andare a una rottura con l’Iran, bisogna ricucire. Se non siamo capaci di dire almeno questo, ci rendiamo complici dell’assurda pretesa di consegnare il pianeta a un gruppo di irresponsabili.Un giurista come Ugo Mattei dice che i diritti umani, insieme al diritto internazionale, sono stati usati essenzialmente come foglia di fico per il nostro colonialismo? Direi così: le foglie di fico servono per governare e ingannare le masse. Ma ci sono momenti in cui, se queste foglie di fico te le togli di dosso, le masse non saranno più governabili. Questo è il vero problema che sta di fronte a questa crisi, in Iran: quando vedi l’immensa partecipazione popolare ai funerali di Soleimani, e quando vedi piangere i due leader del paese, l’ayatollah Khamenei e il presidente Rohani – se li vedi piangere, di fronte al loro popolo che piange – tu non puoi ignorare che la foglia di fico è stata tolta, brutalmente. Conosciamo la durezza della realpolitik, e abbiamo avuto dirigenti che hanno corso il pericolo di essere uccisi – e sono stati uccisi (come Enrico Mattei) perché hanno avuto di coraggio e dire e fare quello che andava detto e fatto. I nostri politici devono fare il nostro interesse nazionale. Non si può esporre il nostro popolo a un rischio così grave, senza avere il coraggio di dire – nel modo giusto – che non si è d’accordo. Bisogna capire il momento. De Gaulle e altri grandi leader europei hanno saputo dire dei “no”, in certi momenti. Lo stesso Craxi pagò un caro prezzo per il suo “no” a Sigonella. Oggi però non abbiamo più un dirigente capace di dire, con garbo e fermezza: noi non siamo d’accordo. Non è giusto, e non lo faremo: perché è contro l’interesse del popolo italiano. Ci sarà qualcuno capace di dire almeno questo?(Giulietto Chiesa, dichiarazioni rilasciate l’8 gennaio 2020 alla trasmissione web-streaming su YouTube “Speciale #TgTalk”, condotta su “ByoBlu” da Claudio Messora e Francesco Toscano).In una intervista su “The Times of Israel” dello scorso ottobre, il capo del Mossad, Yossi Cohen, ha dichiarato: l’assassinio del generale Soleimani non è impossibile. Il vero motore dell’attacco all’Iran è proprio Israele, nella persona del primo ministro Netanyahu e della sua politica di questi anni. Insieme a Ntanyahu e Israele c’è una potente lobby ebraica sionista, che controlla una buona metà del Senato degli Stati Uniti e della Camera dei Rappresentanti. Sono calcoli forniti da autorevoli esperti. Questa lobby è quindi in grado di determinare anche il destino di Donald Trump. Non dimentichiamo che il senatore repubblicano Lindsay Graham ha detto esplicitamente e pubblicamente che, se ci fosse una decisione di Trump di ritirare le sue truppe dal Medio Oriente, non potrebbe garantire che una importante quota dei parlamentari repubblicani non possa votare a favore dell’impechment. Quindi a Trump è stato detto con tutta chiarezza: o procedi sulla linea che ti viene dettata, da Israele e dagli amici americani di Israele, oppure noi ti facciamo perdere l’impeachment e facciamo saltare la tua rielezione a presidente degli Stati Uniti. Per Trump questo è un colpo drammatico: per il suo destino. E non credo che riuscirà a recuperare, perché comunque sarà sotto accusa da ogni parte.
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Gilad Atzmon: Soros e il totalitarismo dell’Ebreo Universale
Mentre la lobby ebraica e le sue squadre di psico-poliziotti sono indaffarate ad inquadrare e distruggere chiunque osi menzionare l’etnia di Soros, Avraham Burg, eminente politico israeliano, presidente dell’Agenzia Ebraica e già presidente ad interim di Israele, plaude a George Soros come alla perfetta icona di “ebreo-universale”. In un suo recente articolo su “Haaretz” intitolato “Preparatevi per il decennio ‘ebraico-universale’ di George Soros e della Open Society”, il politico israeliano afferma che solo «alcune persone hanno il coraggio di resistere ai nuovi tiranni del decennio al comando delle democrazie illiberali». Apparentemente «una di queste persone di coraggio è Soros». Secondo Burg, Soros «rappresenta un punto fermo ‘ebraico-universale,’ un simbolo ebraico alternativo a quello semplicistico abbracciato da Netanyahu, Trump e dai loro sostenitori». Secondo il concetto del cosiddetto “ebraismo-universale,” il 52% degli inglesi che vogliono separarsi dall’Ue sono da considerarsi una «rumorosa minoranza suicida». Sembra che il cosiddetto “ebreo-universale” non sia molto tollerante nei confronti delle persone che votano per i conservatori, Trump o Netanyahu.Questo “ebreo-universale” sembrerebbe essere anche piuttosto ostile nei confronti di coloro che apprezzano i punti di vista dei conservatori o che sono così sfortunati da avere la pelle bianca. E, come abbiamo scoperto, l’”ebreo-universale” non è molto tollerante neanche nei confronti della letteratura e della libertà di parola. Abbiamo visto gli enti finanziati da Soros lavorare instancabilmente per bruciare libri, eliminare testi e persino rimuovere reperti storici ritenuti importanti dalle persone con cui [Soros] è in disaccordo. Il concetto di Burg di ebreo-universale non ha alcuna relazione con la nozione greca di “universale ” o di “universalismo”. Anche se Burg non approva il volto barbaro di Israele e del sionismo, in qualche modo considera Soros come l’incarnazione dell’impegno ebraico al Tikun Olam, cioè al perfezionamento del mondo. «Mentre così tanti ebrei stanno facendo del loro meglio per diventare criminali ultra-nazionalisti e violenti, duri e insensibili, Soros rappresenta, forse inconsapevolmente, l’altro volto della civiltà ebraica, quello nascosto e incantato, il cui obbligo principale è l’impegno di riparare le ingiustizie del mondo, non solo per gli ebrei ma per tutti». Tendo a pensare che il mondo sarebbe un posto molto più bello e più sicuro se gli ebrei decidessero di essere leggermente meno appassionati nel salvare gli altri e si concentrassero invece nel mettere a posto il loro Stato Ebraico.Nel suo commento su “Haaretz”, Burg fa riferimento al mentore di Soros, Karl Popper, autore di “The Open Society and its Enemies” [L’Open Society e i suoi nemici]. Secondo Popper, nessuna persona o organizzazione ha il monopolio della verità, quindi, maggiore è il numero di opinioni diverse tra le persone che vivono in pace e tolleranza l’una con l’altra, maggiori sono i benefici che ne derivano per tutti. Sfortunatamente, Soros e la sua Open Society non seguono il mantra filosofico di Popper. L’”universalismo-ebraico” di Soros è un costrutto divisivo. Frantuma la società in una varietà di segmenti identitari che sono definiti dalla biologia (razza, genere, preferenza sessuale). Nel regno dell’”ebreo-universale”, le persone non vengono identificate come semplici esseri umani che cercano di vivere la loro comune esperienza umana. Al contrario, ogni identità impara a parlare nel dialetto di “come un” (“come una donna …,” “come un ebreo …,” “come un nero …,” “come un gay”, ecc.). Nel mondo dell’”ebreo-universale” le persone cercano caratteri identificativi che li differenziano dal resto dell’umanità. L’esclusività e la differenza vengono tenute nella massima considerazione, anche se contraddicono la ricerca del valore ultimo della fratellanza umana.La “giurisdizione” ebraica-universale riduce l’universo ad una semplice versione ampliata delle “tribù di Israele“: tribù di identitari impegnate in guerre settarie, razziali e di genere. La falsa “diversità” e la fasulla “tolleranza” offerte dall’”ebreo-universale” sono, in effetti, autoritarie e intolleranti nei confronti delle masse. Il cosiddetto “ebreo-universale” è un concetto eccezionalista, progettato per “estraniare” quelli con cui non si va d’accordo. Inavvertitamente, Burg ci ha rivelato che la «guerra tra aperto e chiuso, tra gli isolazionisti e i fautori dell’inclusione» è, in realtà, una battaglia interna ebraica tra i Netanyahu del mondo (Trump, Giuliani, Orban) e gli ebrei-universalisti che chiama “ebrei Soros”: quelli che, secondo Burg, «combattono senza paura affinché il nuovo decennio sia il nostro». Nostro?Immagino che un Gentile possa chiedersi, chi è il “nostro” e “sono compreso anch’io?”. Coloro che hanno votato Trump, Johnson, la Brexit, Orban o Bibi sono anch’essi inclusi nell’”utopia ebraica-universale”? Certamente no! Sono il paniere dei deplorevoli, come li definiva l’”ebrea-universalista” Clinton, appena prima che i suoi sogni presidenziali svanissero nel nulla. Quelli che si fanno infinocchiare da Soros e dal concetto di “ebreo-universale” non dovrebbero essere sorpresi dal successo travolgente della politica della destra. Nei sogni dell’”ebreo-universale” il mondo è spezzato in un amalgama di identità cosmopolite destinate a combattersi tra loro, invece di lottare contro Wall Street e la City. Nella realtà dell’”ebreo-universale“, la sinistra è tenuta in piedi da un “filantropo” capitalista. Se la sinistra intende sostenere i valori dei lavoratori e delle classi lavoratrici, dovrebbe prendere in considerazione la possibilità di sostenere i valori e le esigenze dei lavoratori, piuttosto che accettare il denaro sporco di un magnate capitalista. Se la sinistra vuole essere rilevante, è meglio che capisca come ripristinare l’universale e l’universalismo. Chiudo questo breve articolo rilevando che non vi è alcuna indicazione che la sinistra voglia ripristinare il suo ruolo politico o sociale. Essere pagata da una istituzione della società ebraica-universale sembra essere il suo modo preferito di agire.(Gilad Atzmon, “Burg, Soros e l’Ebreo-Universale”, dal blog di Atzmon del 1° gennaio 2020; post tradotto e ripreso da “Come Don Chisciotte”. Ebreo, Atzmon è uno scrittore e brillante musicista jazz formatosi a Gerusalemme, che vive e lavora a Londra. E’ noto come militante anti-sionista. Nel 2006 ha rilasciato la seguente dichiarazione ad “Al Jazeera”: «Non si può fare un confronto tra Israele e il nazismo: dobbiamo ammettere che Israele è il male assoluto, più della Germania nazista»).Mentre la lobby ebraica e le sue squadre di psico-poliziotti sono indaffarate ad inquadrare e distruggere chiunque osi menzionare l’etnia di Soros, Avraham Burg, eminente politico israeliano, presidente dell’Agenzia Ebraica e già presidente ad interim di Israele, plaude a George Soros come alla perfetta icona di “ebreo-universale”. In un suo recente articolo su “Haaretz” intitolato “Preparatevi per il decennio ‘ebraico-universale’ di George Soros e della Open Society”, il politico israeliano afferma che solo «alcune persone hanno il coraggio di resistere ai nuovi tiranni del decennio al comando delle democrazie illiberali». Apparentemente «una di queste persone di coraggio è Soros». Secondo Burg, Soros «rappresenta un punto fermo ‘ebraico-universale,’ un simbolo ebraico alternativo a quello semplicistico abbracciato da Netanyahu, Trump e dai loro sostenitori». Secondo il concetto del cosiddetto “ebraismo-universale,” il 52% degli inglesi che vogliono separarsi dall’Ue sono da considerarsi una «rumorosa minoranza suicida». Sembra che il cosiddetto “ebreo-universale” non sia molto tollerante nei confronti delle persone che votano per i conservatori, Trump o Netanyahu.
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Bradanini: gli Usa Stato-canaglia, ritiriamo le truppe italiane
La forza militare dell’Iran non è neanche lontanamente paragonabile a quella americana, però l’Iran è in grado di fare danni, politici e militari, sia ai soldati americani nelle basi attorno all’Iran, sia agli amici degli americani. Quindi l’America deve valutare qual è il “trade off” tra vantaggi e inconvenienti, in una escalation. Soleimani era un personaggio importante, ma – come si dice a Roma – morto un Papa, se ne fa un altro. In realtà l’Iran perde una persona, ma non perde la sua capacità di colpire in tanti modi, e non perde gli amici che si è fatto nella regione negli ultimi anni. Perché l’America ha colpito Soleimani in questo momento e in questo modo? E’ una domanda a cui si può solo cercare di rispondere. A mio avviso ci sono diverse ipotesi. Per esempio la solita teoria del caos, che finalmente è prevalsa: e cioè creare confusione, vendere armi, far salire il corso del dollaro e il prezzo del petrolio, così i petrolieri guadagnano e sostengono Trump. Il quale ha bisogno di distrarre le masse americane che lo hanno eletto, sempre più intontite, anche perché ha davanti a sé due appuntamenti importanti: l’impeachment e la rielezione. Tra l’altro è già riuscito, in questo intento, perché la stampa americana non parla più di impeachment e parla invece di Iran.Però c’è un’altra cosa che mi preme dire: e cioè che, forse, gli eventi politici nella storia si giustificano anche quando una certa massa critica, in una determinata direzione, prende forma. Ora, l’America ha dimostrato negli ultimi anni di essere in declino, e di temere questo declino, sia pure relativo – rimane sempre una talassocrazia pericolosissima: ormai è uno Stato-canaglia, è il pericolo numero uno per la pace nel mondo. Tuttavia è un paese che si difende, e lo fa in maniera brutale: ad esempio stracciando quel poco di diritto internazionale di organizzazioni internazionali che eravamo riusciti a costruire. Ha messo in ginocchio il Wto, l’organizzazione mondiale del commercio. Le Nazioni Unite ormai non contano più: l’America ha deciso di non pagare più il suo contribuito annuale, mettendo in ginocchio anche questa organizzazione. Poi ha strappato l’accordo nucleare con l’Iran, che era stato negoziato dalle grandi potenze che fanno parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (più la Germania, grande potenza aspirante). Per quanto riguarda Israele, l’America ha già dimostrato la sua affezione nei confronti delle politiche irrazionali israeliane, riconoscendo Gerusalemme come capitale dello Stato e riconoscendo le alture del Golan (che appartengono alla Siria).Tutta la comunità internazionale è insorta molto poco, davanti a queste due aberrazioni, dal punto di vista del diritto internazionale, e non fa che sostenere Israele nella sua politica degli insediamenti, che ormai impediscono in via definitiva la soluzione dei due Stati. In Medio Oriente tutto è cominciato lì, con la Palestina, che ancora non trova pace: anche i palestinesi hanno diritto a una patria. Il punto è che gli Stati Uniti vogliono agire come battitori liberi: non riconoscono più nessuna autorità morale, politica e giuridica alla comunità internazionale. Da parte dell’Europa ci vorrebbe un sussulto di tutela dell’etica politica, nella politica internazionale. E questo è un momento storico straordinario, per questo sussulto. L’Italia dovrebbe intanto ritirare tutti i suoi soldati presenti nell’area. Cosa ci stanno a fare, lì? Stanno facendo o il lavoro sporco al servizio degli interessi americani e israeliani, come nel Sud del Libano, oppure cose misteriose, in Iraq e in altre aree del Medio Oriente. Non sappiamo bene cosa stiano facendo; ma, se ci sono, è perché ce lo hanno imposto gli americani. Questo è il primo passo che un governo serio dovrebbe compiere.E’ un governo di due partiti che, sulla carta, si dicono contrari alla guerra, favorevoli alla pace, alla solidarietà e all’amicizia tra i popoli. Questo lo dovrebbero fare anche le altre nazioni europee. Quantop all’Ue, Josep Borrell non è il “ministro degli esteri dell’Europa”: è semplicemente un portavoce. La politica estera, in Europa, è appannaggio dei singoli Stati. L’Europa agisce e si fa sentire “ad una voce” quando lo vogliono le ex grandi potenze europee, cioè Francia e Germania, e fino a ieri anche la Gran Bretagna. Gli altri paesi, semplicemente, obbediscono. L’Italia non conta nulla. Questo è quello che, a mio avviso, si dovrebbe fare. Quello che l’Italia farà, molto probabilmente, è invece una sceneggiata: una presa di distanze soltanto formale, per poi allinearsi ai dettami americani. Questo è inevitabile, da parte di un paese colonizzato: non dimentichiamo che gli americani in Italia hanno 90 bombe atomiche, a prescindere da quelle che potrebbero arrivare dalla Turchia nei prossimi mesi, dislocate nei siti di Ghedi (Brescia) e Aviano (Pordenone). Inoltre gli Usa hanno oltre 100 siti militari, alcuni misteriosi, sparsi per tutto il paese. E la Germania è in una situazione analoga, insieme a piccoli paesi come l’Olanda e il Belgio. Poi ci sono le bombe atomiche inglesi, sempre al servizio dello Zio Sam, e quelle francesi, in apparenza più nazionali.In sostanza, la Nato (che al 90% significa “esercito americano”) e gli americani direttamente occupano l’Europa, che quindi è un territorio colonizzato. Quanto a noi, nessun governo italiano sarebbe in grado di fare quello che auspichiamo, in una situazione del genere: questo sarebbe il momento di cominciare a sbrogliare la matassa, per riconquistare la nostra indipendenza nazionale. E quindi: prendere le distanze da questo groviglio inestricabile, e da questo rischio gravissimo di un conflitto regionale e anche mondiale, che Trump ha messo in moto. Occorrerebbe rititare le nostre truppe e cominciare a ridiscutere una politica di indipendenza nei confronti della Nato e degli americani. Non c’è più nessun Patto di Varsavia che minaccia i paesi dell’Europa occidentale: semplicemente, la Nato non ha più senso.(Alberto Bradanini, dichiarazioni rilasciate l’8 gennaio 2020 alla trasmissione web-streaming su YouTube “Speciale #TgTalk”, condotta su “ByoBlu” da Claudio Messora e Francesco Maria Toscano. Bradanini, esponente di primissimo piano della diplomazia italiana, è stato a lungo ambasciatore a Teheran e poi a Pechino).La forza militare dell’Iran non è neanche lontanamente paragonabile a quella americana, però l’Iran è in grado di fare danni, politici e militari, sia ai soldati americani nelle basi attorno all’Iran, sia agli amici degli americani. Quindi l’America deve valutare qual è il “trade off” tra vantaggi e inconvenienti, in una escalation. Soleimani era un personaggio importante, ma – come si dice a Roma – morto un Papa, se ne fa un altro. In realtà l’Iran perde una persona, ma non perde la sua capacità di colpire in tanti modi, e non perde gli amici che si è fatto nella regione negli ultimi anni. Perché l’America ha colpito Soleimani in questo momento e in questo modo? E’ una domanda a cui si può solo cercare di rispondere. A mio avviso ci sono diverse ipotesi. Per esempio la solita teoria del caos, che finalmente è prevalsa: e cioè creare confusione, vendere armi, far salire il corso del dollaro e il prezzo del petrolio, così i petrolieri guadagnano e sostengono Trump. Il quale ha bisogno di distrarre le masse americane che lo hanno eletto, sempre più intontite, anche perché ha davanti a sé due appuntamenti importanti: l’impeachment e la rielezione. Tra l’altro è già riuscito, in questo intento, perché la stampa americana non parla più di impeachment e parla invece di Iran.
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Vietato stupirsi se gli Usa, popolo eletto, calpestano i diritti
Gli Usa, giovani come sono, quasi mai sono stati in pace e hanno una lunga storia di soprusi, di omicidi e di violazioni dei diritti dell’uomo nonché del diritto internazionale, il quale ultimo si dimostra, ancor più del diritto nazionale, pieghevole nella sua interpretazione ed effettività a seconda dei rapporti di forze in lizza. Nei libri di storia per le scuole non lo si racconta, ma durante la IIª Guerra Mondiale, gli Usa hanno violato le convenzioni internazionali in modo non sporadico, ma metodico. Bombardavano frequentemente quartieri residenziali e persino scuole (Gorla) e giostre (Grosseto). Eseguivano anche mitragliamenti di civili a volo radente. Me lo hanno confermato testimoni oculari e vittime. Ricordiamo i 300.000 civili circa bruciati vivi con un bombardamento al fosforo su Dresda, bersaglio strategicamente inutile; i circa due milioni di prigionieri tedeschi, dopo la fine della guerra, nei campi di concentramento, prigionieri che gli Usa ridefinirono giuridicamente Disarmed Enemy Forces onde esimersi dalla Convenzione di Ginevra del 1929 a tutela dei prigionieri di guerra e darsi così il diritto di ridurre le loro razioni sotto le soglie di sopravvivenza, negando loro anche i ripari contro le intemperie.
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Perché l’Occidente terrorista non sa tollerare l’Iran sovrano
Notte del 3 gennaio, Baghdad. Nei pressi dell’aeroporto si trova un convoglio di veicoli che trasporta soldati delle guardie della rivoluzione iraniana e del comitato di mobilitazione popolare iracheno. Stanno discutendo della situazione pericolosa in cui si ritrova il paese, caduto in un vortice di instabilità pilotata che rischia di esplodere in una guerra civile. Il 2019 era iniziato con l’apparire di tensioni fra sunniti e sciiti, e fra gli stessi sciiti, divisi nell’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Iran, ritenuto, sì, il salvatore della patria, per il ruolo fondamentale nella sconfitta dello Stato Islamico del defunto califfo Abu Bakr al-Baghdadi, ma al tempo stesso considerato una potenziale fonte di pericolo per via delle sue mire egemoniche regionali. La plurisecolare tensione sunnita-sciita è stata sfruttata magistralmente dagli Stati Uniti per incrementare il livello di violenza delle proteste, che gradualmente hanno condotto ad un vero e proprio arresto civile che ha fatto ripiombare l’incubo della guerra civile sul paese. I piani dell’amministrazione Trump si incontrano e scontrano con quelli di Benjamin Netanyahu, che è intenzionato ad estendere la lotta all’Iran fino ai suoi confini.Arriva l’estate ed iniziano le operazioni chirurgiche in Iraq da parte dell’aviazione israeliana: è la prima volta che Tel Aviv estende il raggio d’azione al di fuori di Libano e Siria, una mossa altamente rischiosa. Gli aerei e i droni colpiscono basi militari, depositi di armi, neutralizzano figure chiave della resistenza irachena o del ramo locale di Hezbollah. L’intervento israeliano agisce in senso contrario a quello statunitense: la divisione interconfessionale cala di intensità, si compatta il fronte antiamericano, aumentano gli attacchi contro obiettivi statunitensi. Poi, il 31 dicembre, la svolta: un gruppo agguerrito di manifestanti circonda l’ambasciata statunitense di Baghdad, viene appiccato il fuoco. È una ritorsione per i raid statunitensi ed israeliani, sempre più frequenti e violenti, che nel periodo natalizio hanno lasciato a terra più di 30 uomini, per la maggior parte appartenenti all’Hezbollah locale e ai comitati di resistenza popolare. Il presidente Donald Trump accusa l’Iran di essere dietro l’assalto all’ambasciata e promette vendetta: il 2 gennaio firma il mandato d’uccisione di Qasem Soleimani, il più capace ed influente stratega militare al servizio di Teheran.La notte del 3 gennaio, in quel convoglio, si trova proprio Soleimani. Vengono lanciati dei missili, esplodono i veicoli, muoiono sette persone: il generale, il leader del comitato di mobilitazione popolare ed altri militari iraniani ed iracheni. Per anni si è vociferato che Soleimani fosse un “intoccabile”, protetto da un patto sottobanco siglato fra Russia e Iran. Indiscrezioni che sembrano trovare conferma in un fatto: le frequenti visite di Netanyahu e di esponenti della difesa israeliana a Mosca durante l’anno scorso. Sembra che il primo ministro israeliano volesse semaforo verde, perché ha fatto della guerra all’Iran il punto focale della sua intera agenda estera, ma che gli fosse stato negato. In questo contesto si inquadrebbero anche le schermaglie che da mesi dividono Israele e Russia: l’arresto di cittadini israeliani in Russia, condannati a pene detentive pesantissime rispetto ai reati commessi, i raid israeliani in Siria nonostante i moniti del Cremlino, la decisione russa di supportare l’economia iraniana attraverso l’Unione Economica Eurasiatica, la collaborazione nel nucleare civile e la recentissima esercitazione navale con la Cina.La linea rossa, però, alla fine è stata oltrepassata: protetto o meno da un “lodo Moro” in salsa asiatica, Soleimani è stato ucciso. La campagna di propaganda da parte della rete sovranista, a cui si è unito anche Matteo Salvini, è già iniziata: era un terrorista, una minaccia per la pace mondiale, un pericolo comparabile a Osama bin Laden e Al-Baghdadi, una ritorsione dovuta. Ciò che sfugge a giornalisti, politici ed analisti, veri o presunti tali, è che la neutralizzazione di Soleimani potrebbe essere benissimo, e giustamente, considerata come una dichiarazione di guerra. Non è stato ucciso un terrorista od un paramilitare, ma un soldato, un esponente di primo piano di forze armate regolari. È il diritto internazionale a parlare: se l’Iran volesse, potrebbe dichiarare guerra agli Stati Uniti perché vittima di un’aggressione ed esposto continuamente ad ingerenze nei propri affari interni. Ma il mondo è dominato dalla realpolitik: l’Iran non ha i mezzi per sostenere una guerra contro gli Stati Uniti, e neanche ha un’alleanza o dei partner su cui fare affidamento. Il casus belli c’è, ma l’Iran è consapevole che, alla luce della situazione economica interna e della presenza capillare di quinte colonne entro i propri confini, andrebbe incontro alla capitolazione o, comunque, ad uno scenario Afghanistan: guerra permanente, paese distrutto.Ciò che accadrà, con molta probabilità, è che la guerra a distanza fra l’asse Washington-Tel Aviv-Riyad e Teheran salga di livello: maggiore insurgenza a Gaza, maggiore ricorso ad Hezbollah in Libano, attentati contro obiettivi americani o israeliani all’estero – riportando lo scontro ai livelli degli anni ’90, quando Buenos Aires fu insanguinata da due attentati contro la comunità ebraica – maggiori pressioni su casa Sa’ud dallo Yemen e schermaglie nel Golfo Persico. Ciascuna di queste mosse, però, sarà al tempo stesso controbilanciata da reazioni sempre più sproporzionate, perché l’obiettivo degli Stati Uniti – non di Trump – è di spingere l’Iran al passo falso che potrebbe legittimare un intervento stile Iraq. Non ci sarà tregua finché il regime rivoluzionario khomeinista continuerà a guidare il paese, perché l’Iran è una di quelle nazioni che sono vittime della cosiddetta “maledizione della geografia” e perciò destinate ad un “contenimento infinito”.È strategicamente incardinato fra Medio Oriente, Asia centrale e meridionale, un punto di connessione fra le civiltà turcica, indiana, cinese ed islamica, è ricco di risorse naturali strategiche, come gas e petrolio, perciò non può essere consentito ad alcuna forza politica ideologicamente anti-imperialista ed anti-occidentale di monopolizzare il potere. Non è un caso che la storia contemporanea iraniana, dall’arrivo dei britannici ad oggi, sia intrisa di ingerenze straniere, rivoluzioni false e colpi di Stato. Ma l’approfondimento sarebbe incompleto senza una descrizione di Soleimani, che da ieri è dipinto come un terrorista e che perciò merita di essere difeso dalla campagna propagandistica in corso. Proveniente da una famiglia di umili origini, aveva scalato i gradi dell’esercito mostrando le proprie abilità sul campo, durante la guerra con l’Iraq, giungendo a ricoprire la prestigiosa carica di comandante della brigata Gerusalemme delle guardie della rivoluzione.Gli fu data l’importante responsabilità di guidare l’offensiva dell’Iran contro lo Stato Islamico in Iraq, all’apice della sua espansione, una missione che portò con successo a compimento, diventando un’icona popolare non solo in Iran, ma in tutto il mondo islamico. Soleimani, infatti, era apprezzatissimo anche fra gli oppositori anti-khomeinisti. Con la sua morte, l’Iran perde il suo stratega più abile e carismatico e l’asse della resistenza, con annesso il sogno di un corridoio sciita da Teheran a Beirut, si ritira bruscamente. La sua morte servirà a due scopi: spingere l’Iran a commettere un gesto eclatante, che possa giustificare un intervento militare, o a portarlo sul tavolo delle trattative per riscrivere l’accordo sul nucleare. Una cosa è certa: il Nuovo grande gioco per l’egemonia sull’Eurasia è entrato in una nuova fase e questa morte spettacolare, emblematicamente avvenuta ad inizio anno, simboleggia la direzione che prenderanno le relazioni internazionali nella nuova decade in cui siamo appena entrati.(Emanuel Pierobon, “Soleimani è morto, viva Soleimani”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 4 gennaio 2020).Notte del 3 gennaio, Baghdad. Nei pressi dell’aeroporto si trova un convoglio di veicoli che trasporta soldati delle guardie della rivoluzione iraniana e del comitato di mobilitazione popolare iracheno. Stanno discutendo della situazione pericolosa in cui si ritrova il paese, caduto in un vortice di instabilità pilotata che rischia di esplodere in una guerra civile. Il 2019 era iniziato con l’apparire di tensioni fra sunniti e sciiti, e fra gli stessi sciiti, divisi nell’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Iran, ritenuto, sì, il salvatore della patria, per il ruolo fondamentale nella sconfitta dello Stato Islamico del defunto califfo Abu Bakr al-Baghdadi, ma al tempo stesso considerato una potenziale fonte di pericolo per via delle sue mire egemoniche regionali. La plurisecolare tensione sunnita-sciita è stata sfruttata magistralmente dagli Stati Uniti per incrementare il livello di violenza delle proteste, che gradualmente hanno condotto ad un vero e proprio arresto civile che ha fatto ripiombare l’incubo della guerra civile sul paese. I piani dell’amministrazione Trump si incontrano e scontrano con quelli di Benjamin Netanyahu, che è intenzionato ad estendere la lotta all’Iran fino ai suoi confini.
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Soleimani come Massud: ucciso l’eroe, seppellirai la pace
Qassem Soleimani era certamente un militare, un duro, ma era anche uomo di Stato, un consigliere politico insostituibile per la “guida suprema” dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei: in quella veste «ha dimostrato di essere un uomo di stabilizzazione, un tessitore, al pari della sua risolutezza come guerriero». Attenzione: nel 2001, un paio di giorni prima dell’11 Settembre, il leggendario guerrigliero afghano Ahmad Shah Massud venne ucciso in un attentato. Chi lo fece (il signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar, agente dell’Isi – l’intelligence pakistana, braccio operativo della Cia) sapeva benissimo che da lì a poco l’Afghanistan sarebbe stato invaso. I killer di Massud non volevano tra i piedi un eroe nazionale che rappresentasse un punto di stabilità per quel paese. «Chi ha ucciso Soleimani sa bene cosa sta per succedere e ha inteso togliere di mezzo preventivamente un perno di stabilità per tutta la regione». E’ l’analisi che Simone Santini offre, dal blog “Megachip”, per leggere tra le righe del caos scatenato dall’infame agguato terroristico statunitense, in territorio iracheno, costato la vita al leader dei Pasdaran, eroe nazionale iraniano e liberatore della Siria grazie alla storica sconfitta impartita al’Isis, la sanguinosa formazione terrorista sunnita finanziata e protetta dall’Occidente.Da Santini, uno sguardo disincantato e prospettico sul nuovo pericoloso incendio mediorientale, scatenato – colpendo l’Iran – per minare il possibile rafforzamento dell’asse tra Teheran e Pechino (e magari Mosca) nel quadro della “nuova guerra fredda” in corso (o, se si preferisce, Terza Guerra Mondiale a puntate). Già tre anni fa, all’indomani della elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, Santini elencava i compiti che sarebbero stati affidatio all’amministrazione Trump. Primo: ripristinare e proteggere l’economia interna, ricostruendo le sue basi fondamentali. Ovvero: Stati Uniti rimessi in pista come motore produttivo, manifatturiero, verso la piena occupazione, mettendo fine alle delocalizzazioni selvagge. Poi: distensione con la Russia, ma senza cedere nulla di quanto conquistato nel frattempo. Tradotto: «Congelamento dello status quo, fine delle aggressioni, reciproco rispetto formale e collaborazione laddove gli interessi fossero convergenti». Cruciale il capitolo Cina, come si è visto: massima competizione commerciale ed economica con Pechino, «ma senza spingere al momento sull’acceleratore del confronto militare». Sul medio periodo, prevedeva Santini, «si dovrà alzare sempre più l’asticella della competizione globale e porre Pechino davanti ad una scelta strategica: accettare la supremazia americana in cambio di una parziale condivisione dei dividendi dell’Impero oppure il confronto militare, sempre più aggressivo».E intanto: «Concentrarsi nell’immediato sullo scacchiere mediorientale, lo scenario più urgente». Dunque: «Fine della sponsorizzazione del jihadismo sunnita, che ha esaurito in quell’area la sua funzione, e spinta verso la democratizzazione delle petromonarchie del Golfo, a partire dall’Arabia Saudita. Il nemico principale, tuttavia – sottolineava Santini tre anni fa – torna ad essere lo sciismo politico e i suoi alleati, il cosiddetto asse della resistenza, e il suo centro nevralgico, l’Iran». Le linee di faglia su cui si sarebbe mossa l’amministrazione americana erano dunque ben visibili da subito, conferma oggi l’analista di “Megachip”. «Questi tre anni di presidenza, turbolenti, ci hanno poi confermato quelle direttrici e consentito di approfondire taluni approcci». In particolare, per quanto riguarda il confronto con l’Iran, «Trump è apparso bilanciarsi tra le due fazioni principali dello Stato Profondo statunitense che, semplificando e banalizzando, si potrebbero così riassumere: la fazione realista, “il partito dell’assedio”, per cui il nemico va accerchiato, logorato, ma non colpito a fondo perché poi diventa molto difficile ricomporre i cocci di quel che si è rotto; la fazione idealista, messianica, “il partito della guerra”, per cui vale il motto “colpisci per primo, colpisci due volte, e sui cocci pisciaci sopra”».Tra queste due posizioni “imperiali”, ne esistono tante altre, variegate e composite, e Trump è a cavallo di una di queste. «Nel gruppo di potere che lo ha portato alla Casa Bianca, ad esempio – scrive oggi Santini – ci sono quelli che vorrebbero concentrarsi esclusivamente sugli affari interni lasciando sullo sfondo il resto del pianeta, e le lobbies ultrasioniste il cui unico interesse è togliere di mezzo la Repubblica islamica iraniana». L’assassinio di Qasem Soleimani, secondo Santini, dimostra che il “partito della guerra” ha preso definitivamente il controllo della strategia nei confronti dell’Iran. «Se Trump abbia preso tale decisione o sia stato messo davanti al fatto compiuto sarà materia di dibattito per gli storici, ma non cambia la situazione», aggiunge l’analista. «In ogni caso, c’è chi ritiene prevalente l’ipotesi di una decisione diretta del presidente, soprattutto per scopi elettorali: creare un nemico esterno imminente lo aiuterebbe a tirarsi fuori dai guai interni, richiesta di impeachment e collaterali (va aggiunto che anche Israele è, di nuovo, in campagna elettorale, e questa tornata è esistenziale per Netanyahu ancor più che per Trump)». La tesi opposta è quella di un Trump che non vorrebbe lo scontro diretto, ma vi è spinto dai falchi del complesso militare-industriale. «Tutto più o meno plausibile», annota Santini: «Personalmente propendo per una ipotesi intermedia, rifacendomi anche ad un precedente storico», quello di Bill Clinton.Durante tutto il 1998, l’allora presidente vide montare in maniera virulenta lo scandalo Lewinsky, un sexgate che portò alla sua incriminazione per spergiuro ed ostacolo alla giustizia. «Clinton non aveva a cuore la crisi internazionale che si stava profilando all’orizzonte, il Kosovo: sapeva a malapena dove si trovasse». Poi, improvvisamente – continua Santini – nell’autunno inoltrato di quell’anno, «quando lo scandalo interno era al culmine, decise di mettere la crisi balcanica al centro della sua azione politica». Miracolo: «Altrettanto improvvisamente la crisi interna si sgonfiò». E la crisi del Kosovo, «da affare regionale, divenne affare globale». Si domanda Santini: «Furono molto bravi gli strateghi di Clinton a sviare l’attenzione o, piuttosto, il sexgate rivelò la sua vera natura?». Si trattò quindi di «uno strumento di pressione montato ad arte da alcuni centri di potere, per fare sì che il presidente, e alcuni altri centri di potere che egli rappresentava, portassero gli Stati Uniti in guerra». In altre parole: «Sventolando il Kosovo davanti a Clinton fu facile trovare un accordo win-win: tu ci dai la guerra e il sexgate finisce nel dimenticatoio». Mutatis mutandis, può essere accaduto lo stesso in questa fase tra Trump, i gruppi di potere del Deep State, l’impeachment e l’Iran.A questo punto, prosegue Santini nella sua analisi, si fa un gran discutere su quali potrebbero essere le future mosse degli iraniani: la preoccupazione di una escalation è fortissima e tangibile, visto che si temono ripercussioni drammatiche. «Alcuni analisti sostengono che gli Usa stiano scherzando col fuoco, che hanno commesso un errore fatale, che la politica estera statunitense è allo sbando, chiaro segnale del loro inarrestabile declino». Santini non è affatto d’accordo: «Ritengo invece che questa escalation, questa accelerazione di fase, sia stata lucidamente pianificata e perseguita». Infatti, le due conseguenze immediate che ha già prodotto «sono esattamente quelle che gli americani si attendevano». Tanto per cominciare, «l’Iran si è ritirato dall’accordo nucleare». Il governo di Rouhani-Zarif ha resistito fino all’ultimo: «Ha resistito alla denuncia unilaterale del trattato da parte americana, che lo rendeva di fatto vuoto, ha resistito alla imposizione di ulteriori pesantissime sanzioni che stanno avendo profondi effetti sulla società iraniana». I politici di Teheran «hanno più volte chiesto sostegno diplomatico agli immobili e tremebondi paesi europei, inutilmente».Ora, aggiunge Santini, «l’atto terroristico americano, una sorta di dichiarazione di guerra, ha colpito sotto la cintola la componente moderata del potere iraniano», che di fatto «non può più resistere alle pressioni della componente radicale senza esserne travolta sul piano interno». E così, «gli Stati Uniti hanno di nuovo lo strumento retorico e mediatico principe da brandire contro l’Iran e contro i riottosi alleati europei per giustificare le prossime aggressioni: la paura della bomba atomica in mano agli ayatollah (e poco importa se tale minaccia sia sempre stata inesistente, conta solo che venga percepita come tale)». La seconda conseguenza, poi, secondo Santini è molto sottile da interpretare: «Che il Parlamento iracheno abbia decretato la cacciata delle truppe straniere di occupazione dal paese potrebbe sembrare una sconfitta per gli americani, ma così non è». Il governo iracheno infatti è fragilissimo, di fatto dimissionario dopo le imponenti manifestazioni popolari contro corruzione e condizioni economiche dei mesi scorsi, represse a costo di centinaia di morti e migliaia di feriti, e che si sono interrotte solo in seguito alla promessa del premier Abdul-Mahdi di dimettersi. «Un governo in queste condizioni non ha la minima forza per imporre la decisione assunta contro gli Stati Uniti».L’Iraq si trova, oggettivamente, in una condizione di pre-guerra civile. «Se fossi uno stratega americano, o israeliano, farei il possibile per favorire tale drammatico esito», scrive Santini. Tutti nemici: iracheni contro curdi e sunniti contro sciiti, ma le divisioni interne travagliano le stesse componenti sciite. «Il mondo sciita non è monolitico», spiega Santini: «In particolare, la dottrina khomeinista ha prodotto al suo interno una profonda frattura di ordine religioso ma con importanti riflessi politici», dato che «religione e politica nell’Islam si intrecciano intimamente». In Iraq «esistono fazioni sciite radicali ma nazionaliste (la principale è quella che fa capo a Moqtada al Sadr) e fazioni sciite altrettanto radicali ma filo-iraniane (che si richiamano alla ideologia e organizzazione degli Hezbollah libanesi)». Gli sciiti nazionalisti iracheni – aggiunge Santini – mal sopportano (è un eufemismo) l’ascesa egemonica degli sciiti filo-iraniani in Iraq. Sicchè, lo scontro armato è all’ordine del giorno, visto che «questi partiti, gruppi e fazioni sono tutti strutturati in organizzazioni paramilitari». Dare la parola alle armi? «Sarebbe possibile se il paese sprofondasse nel caos», in una sorta di “tutti contro tutti” dagli esiti imprevedibili.In quel caso, conclude Santini, «l’Iran sarebbe risucchiato in questa guerra civile irachena e ne uscirebbe ulteriormente dissanguato». Dopo due guerre che hanno raso al suolo l’Iraq, emerge una verità di fondo: «Gli americani in questi lunghi anni di occupazione hanno dimostrato di non avere la forza militare sufficiente per imporre la loro egemonia, ma ce l’hanno a sufficienza per “controllare” una guerra civile, aperta o sotterranea, indefinitamente, finché fosse nel loro interesse». Ed ecco che, alla luce di questa analisi, risulta meno “folle” e incomprensibile l’efferata uccisione del grande tessitore carismatico Soleimani, che Santini – in modo davvero suggestivo – accosta alla fine, altrettanto atroce, che la longa manus terroristica degli Usa riservò al “leone del Panshir”, l’eroe nazionale afghano che (come il guerriero Soleimani) avrebbe avuto il prestigio, l’autorevolezza e la popolarità per imporre la pace, mettendo fine alle ingerenze internazionali nel suo tormentato paese. Ieri il comandante Massud, oggi il generale Soleimani: e i registi della morte provengono dalla medesima capitale, Washington.Qassem Soleimani era certamente un militare, un duro, ma era anche uomo di Stato, un consigliere politico insostituibile per la “guida suprema” dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei: in quella veste «ha dimostrato di essere un uomo di stabilizzazione, un tessitore, al pari della sua risolutezza come guerriero». Attenzione: nel 2001, un paio di giorni prima dell’11 Settembre, il leggendario guerrigliero afghano Ahmad Shah Massud venne ucciso in un attentato. Chi lo fece (il signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar, agente dell’Isi – l’intelligence pakistana, braccio operativo della Cia) sapeva benissimo che da lì a poco l’Afghanistan sarebbe stato invaso. I killer di Massud non volevano tra i piedi un eroe nazionale che rappresentasse un punto di stabilità per quel paese. «Chi ha ucciso Soleimani sa bene cosa sta per succedere e ha inteso togliere di mezzo preventivamente un perno di stabilità per tutta la regione». E’ l’analisi che Simone Santini offre, dal blog “Megachip“, per leggere tra le righe del caos scatenato dall’infame agguato terroristico statunitense, in territorio iracheno, costato la vita al leader dei Pasdaran, eroe nazionale iraniano e liberatore della Siria grazie alla storica sconfitta impartita al’Isis, la sanguinosa formazione terrorista sunnita finanziata e protetta dall’Occidente.