Archivio del Tag ‘pace’
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Viganò: l’Anticristo odia Trump e ama Bergoglio e la Cina
Ormai libero dal mio incarico ufficiale, l’ispirazione confidatami da Papa Benedetto mi permette di rivolgermi al presidente Trump con la massima libertà, evidenziando quale sia il suo ruolo nel contesto nazionale e internazionale, e quanto la sua missione sia decisiva nello scontro epocale che va delineandosi in questi mesi. La Santa Sede appare oggi assalita da forze nemiche. Io parlo come vescovo, come successore degli apostoli. Il silenzio dei pastori è assordante e sconvolgente. Alcuni addirittura preferiscono appoggiare il Nuovo Ordine Mondiale allineandosi alle posizioni di Bergoglio e del cardinale Parolin che, frequentatore del Bilderberg Club, si è servilmente sottomesso ai suoi diktat, alla stregua di tanti esponenti politici e dei media mainstream. Sono persuaso che quanto ho denunciato nella mia lettera aperta al presidente Trump dello scorso giugno sia ancora valido e possa costituire una chiave di lettura per comprendere gli eventi che stiamo vivendo. La spaccatura in seno all’episcopato americano è il risultato di un’azione ideologica condotta sin dagli anni Sessanta specialmente dalle università cattoliche – e dai gesuiti in particolare – nella formazione di intere generazioni di giovani.
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Botte da orbi: la guerra di Pompeo contro il Papa “cinese”
Wojtyla sì, che era un campione: altro che Bergoglio. Scene mai viste: volano ceffoni tra Usa e Vaticano. Le ostilità erano state clamorosamente aperte dal segretario di Stato, Mike Pompeo, con la sua “strigliata” a mezzo stampa contro Papa Francesco: la Santa Sede «metterebbe a rischio la propria autorità morale» se dovesse rinnovare l’accordo che consente al governo di Pechino di designare i vescovi cattolici in Cina, aveva scritto Pompeo su “First Things”, influente mensile religioso conservatore. Gli sberloni sono continuati dopo lo sbarco di Pompeo a Roma. «Aveva chiesto di vedere il Papa», ha rivelato il Segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, ma Pompeo non sarà ricevuto da Francesco: «Non si ricevono personalità politiche durante la campagna elettorale. E d’altra parte – ha aggiunto – un segretario di Stato incontra il suo omologo, appunto il segretario di Stato». Durissima, a stretto giro, la replica di Pompeo: il vice di Trump ha “strapazzato” monsignor Paul Richard Gallagher, Segretario per i Rapporti con gli Stati e quindi “ministro degli esteri” della Santa Sede, costretto a intervenire solo per pochissimi minuti nel convegno sulla libertà religiosa tenutosi all’ambasciata americana, in cui Pompeo ha citato Giovanni Paolo II come modello di paladino della libertà, facendo sbiadire l’immagine di Bergoglio, che tratta (anche sottobanco) con un regime che opprime i cittadini e perseguita i cattolici.
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Trump è in pericolo: ha dichiarato guerra ai terroristi Covid
Ora cercheranno di far fuori fisicamente Donald Trump, come lasciano supporre i recenti attentati a cui sarebbe scampato. Motivo: il presidente americano è deciso a dichiarare guerra «al terrorismo del Covid», grande pretesto per instaurare una sorta di totalitarismo mondiale. Lo afferma Cesare Sacchetti, nel blog “La Cruna dell’Ago“. Trump, premette Sacchetti, sembra intenzionato a seguire la stessa strada intrapresa dal suo omologo russo, Vladimir Putin: la crisi da coronavirus sarà formalmente risolta attraverso lo sviluppo di un vaccino, ma non quello sotto l’egida dell’Oms, da cui gli Usa si sono ritirati. «E’ un altro duro colpo alla gestione sovranazionale dell’operazione coronavirus, che prima ancora di una diffusione del Covid aveva già tracciato il suo percorso nel club globalista di Davos lo scorso gennaio». Il vaccino come mezzo per giungere a un obbiettivo molto più grande: «Una società completamente ridisegnata a immagine e somiglianza della dittatura mondialista». Nemmeno il vaccino, secondo i loro piani, riporterà il mondo all’era pre-Covid: «Nell’idea dei poteri globali, nulla sarà più come prima. L’autoritarismo sanitario sarà il mezzo attraverso il quale arrivare ad un controllo ferreo e totale della popolazione mondiale».
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Il generale Mini: Covid, guerra civile nel New World Order
Le guerre del futuro saranno collocate in un Nuovo Ordine Mondiale, anche se le guerre sono sostanzialmente sempre le stesse dal 500 avanti Cristo, da quando Sun Tzu delineò “L’arte della guerra” e fino allo scoppio della bomba nucleare. L’approccio ai conflitti del futuro, però, sarà molto diverso e nebuloso per i decisori pubblici: saremo tutti soldati di queste nuove guerre, ma bisogna stabilire con quali mezzi. La guerra globale si combatterà sia per un Ordine Mondiale che per il profitto. Inoltre, si scontreranno attori statali e non. Questi due gruppi possono agire anche contemporaneamente, sovrapponendosi o confondendosi. Esistono false guerre scatenate al solo scopo di accedere alle risorse, che si concretizzano attraverso il terrorismo e la guerra civile (come in Libia, Siria e Iraq). In questi casi ci si rende conto che, senza interessi interni ed esterni, gli scontri non si sarebbero mai verificati. Ci sono anche delle false guerre giustificate da motivi umanitari: ma cosa c’è di umanitario in una guerra che provoca 300.000 morti? E’ sempre esistita una guerra per le risorse, in senso generale, ma oggi non la si fa solo per accaparrarsi quelle tradizionali.La guerra è volta anche ad appropriarsi dei beni comuni: i cosiddetti “global commons” come gli oceani, i fondali sottomarini, l’Artide, l’Antartide, l’atmosfera, lo spazio esterno, il cyberspazio. Tutto è circondato da una grande ipocrisia, che colloca qualsiasi episodio in una sorta di zona grigia, dove tutto si confonde. Ci sono guerre ambigue, in cui non si sa chi è il vincitore, e guerre ibride dove convergono anche una serie di fattori tradizionali. Il potere militare è aumentato a dismisura, con crescenti investimenti economici, che in questo periodo di pandemia sono bloccati. Il Deep State? E’ quella parte dell’establishment che cerca di conservare l’equilibrio precedente e la gerarchia, in un contesto in cui tutti gli Stati sono in profonda competizione tra loro. Una possibile guerra sarà quella combattuta dalla “generazione zero”, cioè quella dei giovani nati tra il 2002 e il 2022: toccherà a loro avviare o evitare il conflitto nucleare. Al momento non ci sono le condizioni, perché chi possiede l’ordigno può attivarlo, ma certamente non sarà in grado di resistere alle reazioni che si verificheranno.Le guerre, oggi, sono diffuse e vengono considerate piccole, da chi le vede dall’esterno, mentre sono immense per chi è costretto a viverle in prima persona. Ma, tra un decennio, il campo di battaglia cambierà. Tra il 2030 e il 2050 ci saranno guerre nel cyberspazio, con super-soldati e piattaforme a controllo autonomo, guidate dall’intelligenza artificiale. In quel contesto, saranno impiegati nei combattimenti meno uomini; ma questo, paradossalmente, comporterà anche meno riguardi verso la vita umana. Per questo nuovo tipo di guerra, non a caso, è in corso la realizzazione di progetti di sopravvivenza. Penso anche al Super-Robot ed effetto sciame, che si basa sulle tre leggi della robotica di Isaac Asimov, coniate intorno agli anni ’50: la prima è quella di non recare danno agli umani; la seconda è che il robot deve obbedire agli ordini impartiti dall’uomo; la terza è che il robot deve pensare alla propria sopravvivenza, purché non sia in contrasto con le altre due leggi precedenti. Nel suo “Discorso sulla servitù volontaria, Étienne de La Boétie dice: «Il padrone usa, per distruggerci, i mezzi che noi stessi gli forniamo».Nella guerra globale emergono due concetti importanti, che possono essere accumunati all’attuale periodo del Covid-19: il primo è che questo virus può essere considerato come un livellatore sociale, che incide sulla sovrappopolazione del pianeta; il secondo è che può paragonarsi a una guerra di distruzione di massa, in cui le cose sembrano apparentemente più chiare, ma allontanano dalla comprensione della realtà. I morti ci saranno, ma le conseguenza economiche e sociali saranno ancora peggiori. Pandemia e guerra? Quella del Covid-19 è un’epidemia davvero strana, che non si sa da dove arrivi e che è risultata imprevedibile, sebbene fosse stata ipotizzata anche dall’intelligence statunitense. Più propriamente, potrebbe trattarsi di una guerra civile: e lo si può notare dai comportamenti della società, dove le persone sono viste come potenziali untori e quindi da abbattere. In condizioni di emergenza, tra l’altro, all’interno degli ospedali sembra che si sia dovuto decidere chi salvare e chi no.Si dovrà considerare e paragonare quello che viene chiesto ai virologi e quello che si vuole sapere dall’intelligence. Ovvero, le informazioni che servono per legittimare le scelte politiche, aspetto importante per comprendere quanto sta accadendo. Di sicuro è che attualmente la cura al virus non è stata ancora trovata. Le guerre biologiche mettono a nudo le vulnerabilità dell’intero sistema sociale perché, quando si ammalano gli anziani, si registra l’inadeguatezza dell’organizzazione. Quando qualcuno parla di eutanasia praticata alle persone anziane, questa non è altro che la conseguenza della cattiva organizzazione dei sistemi sanitari, che sono strutturati in base a logiche privatistiche, in funzione degli utili e non dei bisogni della collettività. Alla Conferenza di Yalta – con Roosevelt, Churchill e Stalin – si disegnarono i destini del mondo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Oggi, il Nuovo Ordine Mondiale è nelle mani di Trump, Putin e Xi Jinping, con tarature differenti rispetto agli statisti del 1945, ma che certamente definiranno l’ordine che impatterà sul futuro dell’umanità, con esiti totalmente imprevedibili.(Fabio Mini, dichiarazioni rilasciate l’11 maggio 2020 in video-conferenza al “Master in Intelligence” dell’Università della Calabria, diretto da Mario Caligiuri; testo riassunto da “Kong News” e ripreso da “Mitt Dolcino”. Generale di corpo d’armata, Mini è stato capo di Stato maggiore del comando Nato per il Sud Europa, e dal gennaio 2001 ha guidato il comando interforze delle operazioni nei Balcani. Dall’ottobre 2002 all’ottobre 2003 è stato comandante delle operazioni di pace a guida Nato, nello scenario di guerra in Kosovo, nell’ambito della missione Kfor. Analista geopolitico, saggista ed esperto di strategia militare, scrive per “Limes”, “Repubblica”, “L’Espresso” e “Il Fatto Quotidiano”).Le guerre del futuro saranno collocate in un Nuovo Ordine Mondiale, anche se le guerre sono sostanzialmente sempre le stesse dal 500 avanti Cristo, da quando Sun Tzu delineò “L’arte della guerra” e fino allo scoppio della bomba nucleare. L’approccio ai conflitti del futuro, però, sarà molto diverso e nebuloso per i decisori pubblici: saremo tutti soldati di queste nuove guerre, ma bisogna stabilire con quali mezzi. La guerra globale si combatterà sia per un Ordine Mondiale che per il profitto. Inoltre, si scontreranno attori statali e non. Questi due gruppi possono agire anche contemporaneamente, sovrapponendosi o confondendosi. Esistono false guerre scatenate al solo scopo di accedere alle risorse, che si concretizzano attraverso il terrorismo e la guerra civile (come in Libia, Siria e Iraq). In questi casi ci si rende conto che, senza interessi interni ed esterni, gli scontri non si sarebbero mai verificati. Ci sono anche delle false guerre giustificate da motivi umanitari: ma cosa c’è di umanitario in una guerra che provoca 300.000 morti? E’ sempre esistita una guerra per le risorse, in senso generale, ma oggi non la si fa solo per accaparrarsi quelle tradizionali.
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Uomini e topi: il potere mondiale fondato sulla paura
Troppo bella, la pace nel mondo. Era il sogno di Gorbaciov: la fine universale delle ostilità, e l’avvento di una nuova era per il genere umano. Lo sistemarono velocemente, con un golpe. A seguire: lo sfacelo dell’Urss e la svendita della Russia, la guerra in Cecenia, il martirio della Jugoslavia. Archiviata la narrazione gorbacioviana, riecco il film dell’orrore: 11 Settembre, e dunque guerra. Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen, Siria. L’agenda del mondo ridotta a pura emergenza: il terrorismo, il clima, e ora il virus. Via Gorbaciov, in prima pagina sono finiti Bin Laden e Al-Baghdadi, Greta Thunberg, Bill Gates. Dall’universale al particulare italico: la paura dei migranti, la paura di Salvini, la paura del Covid. Tutti accessori dell’unico sostantivo permanente, la paura, ormai imposta come regola e dovere civile per gli ex cittadini, virtualmente trasformati in topi dal primo ministro venuto dal nulla e dalla sua oscura coorte di plenipotenziari tuttologi. Se il grande Mikhail Sergeevič vagheggiava per tutti noi un’alleanza internazionale di intelligenza cooperativa, spalancata su un futuro da abbracciare, nel giro di trent’anni siamo arrivati alla più grottesca zootecnia di massa che la letteratura distopica potesse immaginare, e proprio nei termini disegnati da scrittori come Huxley e Orwell: il topo è felicissimo di stare chiuso in gabbia, e squittisce indispettito verso chi cerca di evadere.Fatti non foste a viver come bruti, dice Ulisse, che oggi finirebbe per parlare a moltitudini spettrali, rintronate dal post-giornalismo fattosi propaganda armata, minacciosa associazione di stampo omertoso. Reticenza e menzogne, per anni, hanno deprivato l’opinione pubblica dei mezzi elementari per esercitare il raziocinio critico della conoscenza adulta, scientifica, fondata sul dubbio. Dilaga la superstizione, nell’orgia dei sentito dire che i grandi media diffondono a reti unificate, sapendo di mentire, in mezzo al cimitero di quello che una volta si sarebbe chiamato giornalismo. Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: è il Grande Bugiardo a incaricarsi del fact-checking, decretando vita e morte di ogni aspirante narratore di notizie. Sicché, nel piccolo mondo sottostante – quello delle elezioni – i sedicenti politici si regolano di conseguenza: si adattano, tutti, ai 140 caratteri di Twitter, agli slogan destinati a durare solo fino all’indomani, proprio come gli esilaranti programmi elettorali ricamati dagli storyteller all’unico scopo di rastrellare gonzi, di destra o di sinistra non importa, europeisti o sovranisti, filogovernativi ottusi o alternativi di belle speranze che si candidano a scarabocchiare la stessa lavagna che poi tornerà nera come prima, con un bel colpo di spugna.Liberatori e carcerieri: la mole di Gorbaciov si staglia ancora all’orizzonte, proiettando la sua ombra sul governo mondiale dei mascalzoni che si sono impadroniti del terzo millennio. Cialtroni generici e pericolosi apprendisti stregoni, subdoli allevatori di terroristi, spietati strozzini tecno-finanziari, famosi medici dalla siringa facile e buffoni di corte travestiti da scienziati. Stanno scavando una voragine planetaria brulicante, nella quale la zoologia umana sta lentamente sprofondando, di paura in paura, senz’altro paesaggio immaginario che quello di una smisurata catastrofe incombente, quella disegnata mezzo secolo fa dalle grandi famiglie demiurgiche e dai loro impenetrabili club ammantati di prestigio internazionale. Vaticinavano sciagure epocali già negli Settanta, dopo la fine dei Kennedy, prima ancora che i killer si dedicassero a Moro e Olof Palme, a Yitzhak Rabin, a Thomas Sankara. Poi finirono gli omicidi selettivi e si passò a sparare nel mucchio, dalle Torri Gemelle alle stragi firmate Isis. Unico, identico obiettivo: noi, il popolo oggi obbligato a indossare la mascherina. Uomini e topi: chissà che titolo avrebbe inventato, Steinbeck, per descrivere la condizione dell’umanità di oggi, terrorizzata senza tregua, benché viva nel pianeta più ricco e prospero che la storia ricordi.(Giorgio Cattaneo, “Uomini e topi”, dal blog del Movimento Roosevelt del 4 agosto 2020).Troppo bella, la pace nel mondo. Era il sogno di Gorbaciov: la fine universale delle ostilità, e l’avvento di una nuova era per il genere umano. Lo sistemarono velocemente, con un golpe. A seguire: lo sfacelo dell’Urss e la svendita della Russia, la guerra in Cecenia, il martirio della Jugoslavia. Archiviata la narrazione gorbacioviana, riecco il film dell’orrore: 11 Settembre, e dunque guerra. Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen, Siria. L’agenda del mondo ridotta a pura emergenza: il terrorismo, il clima, e ora il virus. Via Gorbaciov, in prima pagina sono finiti Bin Laden e Al-Baghdadi, Greta Thunberg, Bill Gates. Dall’universale al particulare italico: la paura dei migranti, la paura di Salvini, la paura del Covid. Tutti accessori dell’unico sostantivo permanente, la paura, ormai imposta come regola e dovere civile per gli ex cittadini, virtualmente trasformati in topi dal primo ministro venuto dal nulla e dalla sua oscura coorte di plenipotenziari tuttologi. Se il grande Mikhail Sergeevič vagheggiava per tutti noi un’alleanza internazionale di intelligenza cooperativa, spalancata su un futuro da abbracciare, nel giro di trent’anni siamo arrivati alla più grottesca zootecnia di massa che la letteratura distopica potesse immaginare, e proprio nei termini disegnati da scrittori come Huxley e Orwell: il topo è felicissimo di stare chiuso in gabbia, e squittisce indispettito verso chi cerca di evadere.
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Distanziamento: tutto il male che hanno deciso di farci
Con il passaggio alla cosiddetta fase 2 della crisi sanitaria, s’inaugura la società della distanza, e si identifica nella socialità e nella fisicità dei rapporti umani il nemico pubblico numero uno. Nonostante il declino delle infezioni e lo spopolamento dei reparti ospedalieri, il ritorno alla “normalità” appare come un miraggio sempre più lontano. È legittimo ipotizzare se il distanziamento sociale sia, più che il costo necessario da pagare per combattere il virus, l’obiettivo politico di una agenda tesa a riformare antropologicamente la nostra società. L’emergenza sanitaria ha generato una crisi senza precedenti, in cui per mesi la popolazione intera è stata messa praticamente agli arresti domiciliari, in molti casi privata dei propri affetti, dell’amicizia, del lavoro, della stabilità, di una visione del futuro; dopo che è stata distrutta un’economia intera, devastata la scuola, sospese le libertà costituzionali, e messo la cittadinanza sotto stretta sorveglianza con droni ed elicotteri. Ora lo Stato “consente” il ripristino parziale di alcune libertà, purché si rispetti il principio fondante del nuovo mondo tecno-scientifico: il distanziamento sociale. Ovvero, la cittadinanza è sottoposta a un livello di controllo bio-politico in cui lo Stato determina perfino lo spazio fisico entro cui le viene consentito muoversi.La giustificazione di misure apparentemente totalitarie risiede nella necessità di disciplinare gli individui, affinché i loro comportamenti non facilitano la diffusione del virus, in una rinnovata logica del “vincolo esterno”. Cosi facendo da un lato si colpevolizza la popolazione degradandola a ruolo di “infante” da “educare” tramite il controllo paterno dello Stato. Dall’altra si sposta la lente d’ingrandimento dalla dimensione macro della pandemia globale, che si sviluppa attraverso dinamiche complesse che sfuggono al controllo delle unità, alla dimensione micro dell’individuo. Quest’ultimo da mera unità biologica, è potenziale vettore del virus, e quindi è portatore di rischi non soltanto a sé stesso, ma soprattutto ad altri. Questo potenziale pericolo biologico ha giustificato (nella fase 1) la riduzione della vita sociale ad uno stato di segregazione domestica ed esclusivo consumo alimentare. Il problema pertanto non è più il virus in sé, ma gli individui, le unità, senza le quali il virus non potrebbe trasmettersi e non potrebbe esistere. Conseguentemente, la guerra al virus trova la sua prassi nel conflitto verso gli individui, o più precisamente nei confronti della socialità attraverso cui i comportamenti degli individui si manifestano.La guerra al virus, condotta a fine di salute pubblica e quindi con il fine di salvare la vita, diventa una guerra contro la vita stessa, intesa come la manifestazione sociale dei comportamenti umani. In altre parole combattendo il virus combattiamo noi stessi, e la nostra stessa idea di vita. Per questo motivo la narrazione dominante si concentra adesso sul ritorno alla socialità, che infrange le regole della tecno-distopia. Si colpevolizzano gli individui identificando il capro espiatorio del momento negli assembramenti della movida e degli aperitivi, che sostituiscono i runner e i proprietari di cani. Ad essere vietate sono tutte quelle manifestazioni sociali che potrebbero mettere in pericolo la sopravvivenza biologica, come una risata con gli amici, una pacca sulla spalla, una stretta di mano, un abbraccio (come pubblicizzato in una campagna di sensibilizzazione della regione Veneto). Insomma tutte quei comportamenti che distinguono l’uomo dalla macchina. Chi non si adegua viene giudicato come un pazzo o un irresponsabile da additare e marginalizzare. Di conseguenza lo Stato aumenta la repressione, punendo ad esempio coppie che si abbracciano in pubblico, o vietando passeggiate sul bagnasciuga, o autorizzando il trattamento sanitario obbligatorio per chi dissente, e cosi finisce per avvitarsi in un’assurda spirale di autoritarismo.È arduo spiegare come mai, nonostante l’appiattimento della curva e lo spopolamento dei reparti ospedalieri, le libertà e la socialità siano ancora consentite in edizione limitata. Il timore di chi scrive è che il distanziamento sociale non sia il mezzo ma il fine. D’altronde non possiamo essere certi dell’efficacia del distanziamento nel contrastare la pandemia, ed è lecito che nel dibattito pubblico si sollevino dubbi. Se non è certo che il distanziamento aiuti a contrastare il virus, è sicuro invece che abbia effetti collaterali di varia natura, tra i quali troviamo, banalmente, quelli sociali. Esso infatti colpisce in primo luogo le relazioni e contribuisce al quel processo di svalutazione, perpetrato dal capitalismo neoliberista, di quelli che Stefano Bartolini definì i beni relazionali. Si procede nel percorso di atomizzazione della comunità, nel separare il corpo nelle sue parti, in continuità con quella società liquida teorizzata da Bauman nell’era ante-virus, in cui il cittadino altro non era che un consumatore, depoliticizzato, alienato, impotente in un contesto globalizzato e condannato a una condizione di “solitudine”. In secondo luogo il distanziamento impedisce l’aggregazione e quindi la libertà politica stessa nel suo atto di germinazione, perché la politica è comunità, condivisione e partecipazione. Condannare gli assembramenti, seppur nella veste dell’happy hour o dell’aperitivo, equivale a condannare l’aggregazione politica e di conseguenza castrare ogni pulsione di dissenso nei confronti della narrativa dominante.Come osserva Agamben, l’assenza dei contatti fisici viene sostituita dai dispositivi tecnologici; ma non possiamo certo illuderci che potremmo avere per tutto soluzione di tipo smart, relegando noi stessi nel remoto, perché finiremo per ingabbiarci dietro la tastiera. Se si accetta convenzionalmente che una relazione non può essere vissuta su Facebook, discorso analogo dovrebbe valere per l’attività politica, cosi come per la scuola, e per tante attività commerciali che vivono di socialità. Per non menzionare i luoghi di lavoro, deprivati di qualunque essenza umana e sociale come la pausa caffè degli operai, in cui le nuove regole hanno istituzionalizzato l’alienazione. In un’intervista al “Financial Times”, una dipendente di un’azienda del nord ci da il senso della disgregazione del lavoro di squadra quando, quasi con malinconia, ricorda come si lavorasse prima: «A volte eravamo in quattro uno vicino all’altro, gomito a gomito, davanti a uno schermo, lavorando come se fossimo uno». Il distanziamento è anti-sociale per definizione, e solo una distopia di tipo orwelliana (in cui guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza) poteva affibbiargli tale etichetta. Esso appare in un inquietante veste di strumento di controllo bio-politico, che rilancia l’antico motto romano del divide et impera. Scusate il pessimismo, ma è difficile credere che andrà tutto bene.(Brian Cepparulo, “Distanziamento sociale: il mezzo o il fine?”, da “Osservatorio Globalizzazione” del 4 giugno 2020).Con il passaggio alla cosiddetta fase 2 della crisi sanitaria, s’inaugura la società della distanza, e si identifica nella socialità e nella fisicità dei rapporti umani il nemico pubblico numero uno. Nonostante il declino delle infezioni e lo spopolamento dei reparti ospedalieri, il ritorno alla “normalità” appare come un miraggio sempre più lontano. È legittimo ipotizzare se il distanziamento sociale sia, più che il costo necessario da pagare per combattere il virus, l’obiettivo politico di una agenda tesa a riformare antropologicamente la nostra società. L’emergenza sanitaria ha generato una crisi senza precedenti, in cui per mesi la popolazione intera è stata messa praticamente agli arresti domiciliari, in molti casi privata dei propri affetti, dell’amicizia, del lavoro, della stabilità, di una visione del futuro; dopo che è stata distrutta un’economia intera, devastata la scuola, sospese le libertà costituzionali, e messo la cittadinanza sotto stretta sorveglianza con droni ed elicotteri. Ora lo Stato “consente” il ripristino parziale di alcune libertà, purché si rispetti il principio fondante del nuovo mondo tecno-scientifico: il distanziamento sociale. Ovvero, la cittadinanza è sottoposta a un livello di controllo bio-politico in cui lo Stato determina perfino lo spazio fisico entro cui le viene consentito muoversi.
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Conquistare il mondo: l’Occidente spara, la Cina compra
Se dovessimo sintetizzare ciò che accomuna tutti gli imperi nella storia dell’umanità, potremmo indicare questi punti fermi: la volontà di conquistare il mondo intero e una scusa per poterlo conquistare. Inoltre, chi voleva provare a conquistarlo, ha sempre avuto due problematiche da risolvere: la necessità di tenere sotto controllo una grande massa di persone (le masse, infatti, necessitano di essere controllate, altrimenti il caos e il disordine sociale sarebbe ingestibile); da qui scaturisce un’ulteriore esigenza: la necessità di avere un nemico per tenere unito un popolo, Stato, nazione, o altri gruppi sociali, o di dare uno scopo. L’Impero Romano, è noto, voleva conquistare tutto il mondo conosciuto; i Romani realizzarono uno dei più grandi imperi della storia. Il popolo veniva tenuto buono tramite il cosiddetto “panem et circenses” (valido ancora oggi con strumenti come il calcio, il baseball in Usa, la Tv, ecc.). Il nemico era costituito dai barbari che, in quanto esseri inferiori, potevano essere assoggettati. Alessandro Magno voleva voleva conquistare il mondo, e la scusa era quella di imporre ai territori conquistati la cultura avanzata e superiore dell’Antica Grecia (in realtà pare che conoscesse molto poco la cultura greca, e che fosse uno studente mediocre, allievo del grande Aristotele).Gengis Khan divenne il capo di una serie di tribù mongole disunite; aveva bisogno di un nemico, per tenere coesa la gente sotto di lui, e si diede da fare per conquistare tutto il conquistabile, massacrando e distruggendo tutti i popoli che decise di sottomettere. Dopo aver sconfitto i cinesi giurò di unificare tutto il mondo sotto un unico impero. Fondò l’impero più vasto mai conosciuto sulla terra, ma anche il più breve. Uno dei suoi successori, Kublai Khan, conquistò anche la parte merdionale la Cina ma adottò un mezzo singolare, l’unico possibile date le caratteristiche del territorio e della popolazione cinese: si cinesizzò, adottò gli usi e costumi cinesi, e quindi molti non sanno che la dinastia Yuan, che resse la Cina attorno al 1200, era in realtà una dinastia mongola, non cinese. Tamerlano, condottiero turco-mongolo, è considerato uno dei più grandi conquistatori della storia, il cui impero comprendeva l’Asia occidentale e centrale. Si considerava erede di Gengis Khan e aspirava ad emularne le gesta anche lui volendo “conquistare il mondo”. La sua versione dell’Islam, bigotta, crudele e violenta, poco si conciliava con i precetti dell’Islam o la dottrina Sufi dell’amore: egli si considerava la frusta di Allah, mandato a punire gli emiri per le loro ingiustizie. La scusa per invadere l’India nel 1398 fu, ad esempio, che il sultano era troppo tollerante con gli indù.L’Unione Sovietica voleva fare la stessa cosa imponendo il comunismo alle nazioni dell’Europa orientale; il capitalismo aveva fatto il suo corso, ed era ora di instaurare un mondo nuovo. Per fare questo utilizzarono due metodi: l’invasione militare, quando potevano, e il tentativo di conquistare gli altri paesi condizionandone la politica (ovverosia finanziando i partiti comunisti dell’Europa). Né più né meno che quello che hanno fatto gli Usa fino ad oggi. L’Europa non può essere considerata un impero unitario, essendosi per secoli divisa in scaramucce tra Francia, Spagna e Inghilterra, ma ai fini del nostro discorso lo considereremo tale, insieme agli Usa (che, non dimentichiamolo, sono stati fondati dai primi coloni europei). Noi europei abbiamo sempre cercato di conquistare il mondo. Siamo andati in Sud America, abbiamo sterminato i nativi e ci siamo impiantati noi. La stessa cosa abbiamo fatto con il Nord America. Secondo Howard Zinn, sono 9 milioni i nativi americani massacrati perché potessimo insediarci noi europei in Nord America piazzandoci un po’ ovunque: gli spagnoli in Florida, inglesi e olandesi al Nord, i francesi in Canada, e via discorrendo. Gli Usa nascono, quindi, dallo sterminio sistematico dei nativi americani, e dallo sterminio di milioni di africani che venivano trasportati come schiavi per lavorare nei campi.Hitler, che voleva conquistare il mondo, altro non fece che tentare quello che, da secoli, tentavano inglesi, spagnoli, francesi e olandesi, con la differenza che lui tentò di farlo prima di tutto in Europa, e solo dopo si sarebbe allargato al resto del mondo. Ma di fatto, non tentò nulla di diverso da quello che tentarono tutti, e che continuano a tentare tutti. Una volta eliminata la schiavitù, e consolidato il proprio potere economico, gli Stati Uniti d’America hanno dovuto porsi altri obiettivi: di qui la necessità di esportare la democrazia (esattamente come la Russia che voleva esportare il comunismo, come la Chiesa cattolica voleva esportare il cattolicesimo, come alcuni Stati islamici volevano esportare l’Islam, ecc.) verso i nemici che di volta in volta venivano individuati: Vietnam, Corea, Iraq. Dove non sono arrivati con i cannoni, gli Usa sono arrivati con il controllo politico dei vari Stati, come il finanziamento dei partiti a loro graditi, il sostegno alle varie fazioni terroristiche di destra o sinistra, e così via. Quando non c’era alcun motivo o scusa per la conquista, come nel caso delle isole Hawaii, gli Usa si sono limitati a rovesciarne il governo senza motivo, solo per paura che arrivassero prima gli inglesi, o altri Stati europei. Usa ed Europa, quindi, ai nostri fini li considereremo un modello unitario, e lo definiremo “modello occidentale”.I Templari meritano un posto a parte, in questo elenco. Perché anche loro avevano come obiettivo la conquista del mondo allora conosciuto, ma con mezzi e finalità diverse. I Templari volevano abbattere i sovrani assoluti e la Chiesa cattolica, per instaurare un regno di pace, governato da iniziati (cioè da saggi illuminati). Non per niente erano monaci (potere spirituale: saggi, ispirati ad una vita spirituale, in contatto con Dio) e guerrieri (potere temporale). Per instaurare questo governo mondiale non potevano usare la guerra, né potevano dichiarare apertamente il loro intento. Dichiararono formalmente la loro fedeltà alla Chiesa cattolica e al Papa, ma si dettero come unico obiettivo quello di “difendere i pellegrini in Terra Santa”. Questo obiettivo farlocco, in realtà, era la scusa ufficiale per non intervenire mai nelle contese tra i vari sovrani e il Papa, e non prendere mai una vera posizione. Nel frattempo divennero potentissimi, creando commende dal Portogallo alla Terra Santa e un po’ in tutta Europa.A un certo punto diventarono più potenti di qualsiasi sovrano europeo e, di lì a poco, sarebbero stati i veri sovrani dell’Europa e della Palestina; ma furono fermati da Filippo il Bello e Clemente V. Il loro sogno di un mondo migliore, di pace, governato da istanze spirituali oltre che materiali, si infranse quando Jacques de Molay venne messo al rogo. Gli eredi delle istanze templari furono i Rosacroce e la massoneria. Anche loro sognavano un mondo unito e di pace, e si diedero da fare per creare quella che furono poi l’Unione Europea e l’Onu, le prime strutture del Nuovo Ordine Mondiale. Anche se la massoneria dichiara apertamente di non volere certo conquistare il mondo, di fatto è quello il suo obiettivo, ben evidente quando essa proclama orgogliosamente di aver organizzato le varie rivoluzioni (Americana, Francese, Russa, l’Unità d’Italia, ecc.) e che tutti gli uomini più influenti al mondo erano massoni. Il progetto è quello di portare la democrazia in tutto il mondo (anche a colpi di cannone, purtroppo) per creare un mondo sempre più libero e democratico.Anche per la Cina è necessario un discorso a parte, per capire un po’ più a fondo questo popolo dalla tradizione millenaria e dalla cultura straordinaria. Una delle caratteristiche della Cina è di non aver mai conosciuto, in nessuna epoca, il nostro concetto di “democrazia”. La Cina è sempre stata politicamente uno Stato assoluto, dapprima con i vari imperi e le varie dinastie, per poi passare alla dittatura della Repubblica Popolare. L’unico tentativo di dare una Costituzione e delle riforme che garantissero i diritti della popolazione fu quello dell’ultimo sovrano della dinastia Quing, Guanxu, redatte da Kang Youwei nel 1898, ma il tentativo fu affossato sul nascere: l’imperatore venne arrestato con un vero e proprio colpo di Stato da parte dell’imperatrice Cixi. La seconda caratteristica dell’Impero Cinese è quella di non aver mai cercato di sottomettere gli altri Stati con la violenza. La Cina ebbe guerre con gli Stati confinanti, come è ovvio, specialmente Corea e Giappone, ma complessivamente non ebbe mai la mira di conquistare il mondo con la violenza, a meno che non fosse necessario.Questo non perché rispettassero il resto del mondo, ma per una questione culturale; essi si sentivano al centro del mondo, e sentivano loro stessi superiori (come noi europei del resto), e quindi per loro era inevitabile che gli altri Stati si assoggettassero a loro riconoscendone la grandezza. Del resto, grandi lo erano davvero: basti pensare che inventarono la carta secoli prima che la utilizzassimo anche noi; la povere da sparo; il torchio da stampa; e la banconota cartacea ben prima che la utilizzassimo anche noi (durante la dinastia Yuan). Inoltre fin dal secondo secolo d.C. i cinesi inventarono il sistema del concorso pubblico per selezionare i funzionari pubblici più preparati (con 1600 anni di anticipo rispetto a noi). Nel 1271 Kublai Khan, discendente di Gengis Khan (quindi tecnicamente mongolo, non cinese), avendo conquistato la Cina, ne riconobbe l’immenso potenziale culturale e sociale e, anziché distruggerla (come in genere erano soliti fare i mongoli con gli altri nemici), decise di cinesizzarsi egli stesso: diede alla propria dinastia il nome preso dall’I-ching, il Classico dei Mutamenti (dinastia Yuan) e trasferì la capitale a Pechino, ospitando l’imperatore precedente presso di sé e assumendo gli usi e i costumi cinesi.Per capire l’atteggiamento della Cina verso gli altri popoli è significativo un aneddoto. Durante la dinastia Ming, gli Stati vicini facevano a gara per dimostrare la loro sottomissione alla Cina, grazie alla generosità dell’imperatore, assolutamente riconoscente verso tutti coloro che si proclamavano sottomessi. Avvenne che molti cinesi si facevano rasare il capo per passare da tibetani e alcuni si spacciavano per ambasciatori di paesi inventati, tanto era conveniente dichiararsi vassalli della Cina. Uno dei problemi che i Ming ebbero fu, paradossalmente, quello di limitare le troppe dimostrazioni di vassallaggio, anche perché alcuni doni provenienti da altri paesi gravavano poi sull’erario per il loro mantenimento (ad esempio avevano centinaia di tigri regalate dai paesi vicini, ed ogni tigre poi divorava due pecore al giorno, senza contare i costi del personale per sorvegliarle). Quando in Cina arrivarono gli europei, ovviamente si rifiutarono di sottomettersi all’Impero (erano loro ad essere superiori, mica i cinesi), e iniziarono i primi problemi, che portarono alla Guerra dell’Oppio tra Inghilterra e Cina, e a tutta una serie di problematiche che ora sarebbe impossibile affrontare.La violenza, in Cina, ci fu soprattutto all’interno. Nel corso dei vari secoli, tutti gli imperatori avevano avuto lo stesso problema: come poter tenere sottomesse le masse? La risposta, in genere, era il bagno di sangue. In tempi più moderni il problema della Cina rimase lo stesso. Dapprima la Rivolta dei Boxer, con cui vennero massacrati esponenti perlopiù dell’Occidente, cristiani, musulmani, inglesi; poi venne proclamata nel 1911 la Rivoluzione repubblicana; da quel momento ci furono continue guerre civili (si stima in circa 15 milioni di morti il totale dei cinesi che vennero massacrati in questo periodo), finché venne istituita nel 1949 la Repubblica Popolare Cinese; nel 1966 ci fu la cosiddetta Rivoluzione Culturale di Mao, e anche tutto questo periodo fu un massacro che costò la vita a circa 100 milioni di cinesi, in un bagno di sangue che l’umanità non aveva mai conosciuto neanche ai tempi di Tamerlano o della Seconda Guerra Mondiale. Anche la questione tibetana per loro era prevalentemente interna, perché quella del Tibet era sempre stata una regione assoggettata, o comunque vassalla, della Cina.Tralasciando quindi le sporadiche guerre con i confinanti, la Cina ha avuto la guerra prevalentemente al suo interno, ma non è mai andata in Antartide, nelle Hawaii, in Australia, in Africa, dicendo “salve, qui comandiamo noi, ora vi massacriamo tutti perché abbiamo il diritto di uccidervi in nome della superiorità della nostra religione e/o impero”. Se dovessimo fare un paragone, il loro modello di sviluppo nel mondo ricorda più quello dei Templari, che non degli altri imperi (non a caso la tradizione del monaco guerriero da noi fu un’eccezione; tutti i libri concordano su questa particolarità dei Templari, quella di essere insieme monaci e guerrieri; la tradizione del monaco guerriero, invece, in Cina è la norma. I monasteri Shaolin sono luoghi in cui il monaco è anche un guerriero; esattamente come i Templari, anche i monaci Shaolin entravano in azione con i loro mezzi solo per difendere la Cina o l’imperatore, o comunque per difendersi da un pericolo. Più in generale, tutto il Kung Fu è un arte marziale cinese che presuppone però anche una preparazione spirituale oltre che fisica). Ovviamente, ciò che manca all’espansione cinese in Occidente è il fine spirituale proprio dei Templari.La Cina, quindi, ha sempre fatto una cosa molto semplice, che è quella che sta facendo adesso: ha comprato gli altri Stati. E’ arrivata in silenzio, dolcemente, e ha comprato tutto quello che poteva, e senza proteste quando qualcuno li ostacolava. Facciamo un esempio. Quando la Guardia di Finanza fece un’importantissima operazione nel porto di Napoli, che era uno degli scali principali per portare la merce in Italia, la Cina – nonostante il duro colpo – non si scompose. In fondo, dal loro punto di vista, noi avevamo fatto ciò che è giusto, rispettando la legge. Spostarono quindi le loro merci in Grecia, comprando il porto del Pireo per 370 milioni di dollari, dando un grosso e concreto aiuto alla Grecia, in crisi grazie alle dissennate politiche imposte dall’Unione Europea. Alla prima occasione però hanno cercato di tornare in Italia con la questione dei porti di Genova e Trieste. Insomma, la voglia di conquistare il mondo è una costante di tutti gli imperi, ma anche di molte organizzazioni religiose, politiche, e fratellanze esoteriche. Questa voglia di conquista, da parte di un po’ tutti, nasce quindi da due esigenze. In primo luogo perché l’essere umano non è pronto a vivere in pace col proprio vicino (sia esso il vicino di casa, il paesino confinante, la squadra di calcio, o la nazione); per evitare quindi che le masse, fuori controllo, creino il caos a livello sociale, ogni governante deve, consciamente o inconsciamente, trovare un nemico esterno e coalizzare le masse contro questo nemico.Di volta in volta quindi il nemico può essere l’Islam, il comunismo, i cattivi Stati dittatoriali che meritano di essere puniti (chissà poi perché si decide di punire Gheddafi, ad esempio, ma non la Cina, che pure quanto a dittatura non è seconda a nessuno per privazione dei diritti individuali), l’eresia, la crisi economica, il petrolio, la guerra al terrorismo. Ogni scusa è buona pur di conquistare qualcuno e qualcosa. Insomma, per riassumere, oggi abbiamo due modelli a confronto sullo scenario del mondo: il modello occidentale e quello cinese, entrambi con l’obiettivo di conquistare il mondo. La differenza tra i due modelli è che quello vincente è quello cinese, molto più dolce e persuasivo. Non cannoni, ma soldi. La questione però non è così semplice. Sopra questi due modelli, ci sono i vari gruppi finanziari, che sono al di sopra degli Stati e, attualmente, più potenti di essi, e non hanno alcun modello se non quello economico. Del resto anche la distinzione che noi abbiamo fatto tra due modelli, cinese e occidentale, è semplicistica e non risponde alla realtà. La verità è un po’ più complessa, perché i cambiamenti nella storia della Cina, che partono dalla Rivolta dei Boxer in poi, sono – guarda caso – stati fomentati anche dall’Occidente, che è sempre intervenuto pesantemente nelle questioni politiche ed economiche cinesi.Basti pensare che il primo presidente della Repubblica Cinese, Sun Yat-sen, divenne tale proprio dopo un viaggio negli Usa (guarda un po’ che caso). E basti ricordare che la Cina era, fino al 2019, il primo detentore di titoli del debito pubblico americano (attualmente è il Giappone). E, ovviamente, i veri detentori sono i gruppi finanziari, non gli Stati in se stessi. In altre parole, tra Cina e Occidente non è individuabile un confine netto, perché il gioco delle grandi potenze, in realtà, è diretto dall’alto, dall’élite finanziaria globale, con la differenza operativa, tra Cina e Occidente, che una gran parte delle finanze cinesi sono sotto il diretto controllo del governo, mentre da noi i governi (comprese le istituzioni europee) non contano assolutamente nulla, essendo le banche, con la Bce in primis, totalmente indipendenti dal controllo politico e governativo. Se la gran parte dei soldi cinesi è sotto il controllo del governo, una larga parte è in mano ai finanzieri cinesi fuoriusciti dal sistema cinese e arricchitisi grazie alla corruzione dilagante in Cina (non meno che da noi, ovviamente).Per capire la commistione di interessi tra Cina e Occidente, basti ricordare che il coronavirus è partito proprio da Wuhan, sede di un laboratorio per la ricerca sui virus, in cui lavoravano sia cinesi che americani che francesi, in un progetto costato 44 milioni di dollari, finanziato da varie organizzazioni anche americane, tra cui la fondazione di Bill Gates. Un intreccio inestricabile di interessi per cui suona ridicolo accusare i cinesi, o Bill Gates, o l’Oms, da qualunque parte provenga l’accusa. Il punto è che le guerre, oggi, ben difficilmente possono essere condotte contro i vari Stati, perché una vera guerra distruggerebbe il mondo conosciuto grazie alla potenza dei vari arsenali militari. Occorre quindi trovare nuovi nemici; la Corea appare abbastanza ridicola come pericolo per minacciare il mondo; al pericolo del terrorismo islamico che attenta alla sicurezza dell’Occidente con coltelli, o autobus lanciati contro la folla, prima o poi non crederà più nessuno. Per controllare le masse occorre quindi utilizzare altri mezzi, e instillare l’idea di pericoli del tutto diversi, rispetto a quelli che venivano paventati fino a qualche decennio fa.La situazione attuale nasce quindi dall’esigenza dell’élite finanziaria al potere di controllare le masse. Il nemico è il coronavirus, perché è l’unico modello che può essere accettato da larghe fasce della popolazione, e che accomuna tutti, cristiani, atei, islamici, cinesi. Il mezzo di controllo è l’instaurazione di uno Stato di polizia globale, l’abbassamento del numero della popolazione, e soprattutto l’instupidimento delle persone tramite i mezzi come il 5G e i vaccini (Steiner, ai primi del ’900, aveva previsto che i vaccini sarebbero stati utilizzati come arma di controllo globale). L’individuazione di un nemico globale, il virus, richiede soluzioni globali, al fine di ridisegnare la mappa economica e sociale del mondo. Non è uno scenario nuovo, quindi, quello che si sta profilando, rispetto al passato. La novità è solo la gestione globale e internazionale del potere, e lo scenario su cui si gioca la partita, che è, appunto, globale. La vera soluzione, ancora una volta, non sarà globale, ma individuale. In ogni epoca ci sono state persone che hanno combattuto la società in genere pagando le loro scelte con la vita o con il carcere. Si pensi a Martin Luther King, Nelson Mandela, Lu Xiaobo (Premio Nobel per la Pace per il suo impegno a favore dei diritti civili in Cina), Thomas Sankara (il presidente del Burkina Faso), e tanti altri, spesso sconsciuti alla storia.Coloro che sono riusciti a diffondere valori spirituali ad un certo livello sociale, coinvolgendo grandi numeri di persone, sono stati inevitabilmente eliminati dalla scena, come Gandhi o i grandi maestri spirituali dell’umanità (tutti morti avvelenati o assassinati, da Socrate e Pitagora, a Buddha e Maometto, per passare a Steiner, Yogananda, Osho). I maestri spirituali di tutti i tempi, in ogni caso, hanno capito che la vera guerra non è quella contro qualcuno, ma quella contro noi stessi, perché il mondo è sempre stato lo stesso, i meccanismi sono sempre uguali (cambiano solo le forme apparenti della sua manifestazione), e il mondo si può cambiare solo partendo dal cambiamento di noi stessi. Concludo con una frase di Lao Tzu, che viene proprio dalla saggezza cinese, come risposta a chi si domanda come bisogna agire per migliorare la situazione che stiamo vivendo: «Nella vita si dovrebbe agire adottando la semplice Via del Tao: non imponendo i propri desideri al mondo ma seguendo la natura stessa. Eliminando i desideri e lasciando che il Tao pervada l’uomo, si supererà anche la differenza tra buono e cattivo. Ogni attività verrà dal Tao e l’uomo diventerà uno col mondo. Questa è la soluzione di Lao Tzu al problema della felicità».(Paolo Franceschetti, “Obiettivo, la conquista del mondo: Cina e Occidente a confronto”, dal blog “Petali di Loto” del 16 maggio 2020).Se dovessimo sintetizzare ciò che accomuna tutti gli imperi nella storia dell’umanità, potremmo indicare questi punti fermi: la volontà di conquistare il mondo intero e una scusa per poterlo conquistare. Inoltre, chi voleva provare a conquistarlo, ha sempre avuto due problematiche da risolvere: la necessità di tenere sotto controllo una grande massa di persone (le masse, infatti, necessitano di essere controllate, altrimenti il caos e il disordine sociale sarebbe ingestibile); da qui scaturisce un’ulteriore esigenza: la necessità di avere un nemico per tenere unito un popolo, Stato, nazione, o altri gruppi sociali, o di dare uno scopo. L’Impero Romano, è noto, voleva conquistare tutto il mondo conosciuto; i Romani realizzarono uno dei più grandi imperi della storia. Il popolo veniva tenuto buono tramite il cosiddetto “panem et circenses” (valido ancora oggi con strumenti come il calcio, il baseball in Usa, la Tv, ecc.). Il nemico era costituito dai barbari che, in quanto esseri inferiori, potevano essere assoggettati. Alessandro Magno voleva voleva conquistare il mondo, e la scusa era quella di imporre ai territori conquistati la cultura avanzata e superiore dell’Antica Grecia (in realtà pare che conoscesse molto poco la cultura greca, e che fosse uno studente mediocre, allievo del grande Aristotele).
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La rockstar Andrea Scanzi e l’Italia dei compagni di merende
Cos’è più avvilente, in questa primavera italiana? L’ex giornalista Andrea Scanzi o l’ex politico Pierluigi Bersani? Il primo intasa i social network per svelare agli italiani la loro immensa fortuna: essere governati da Giuseppi, cioè l’unico premier europeo che vanta almeno due record assoluti, il maggior numero di morti da Covid e il maggior numero di persone rimaste senza assistenza economica, sull’orlo della disperazione. Il secondo, lo Smacchiatore, dopo aver promosso a pieni voti il professor Monti e il suo micidiale pareggio di bilancio in Costituzione, ora torna a dare segni di vita spiegando, in televisione, che tedeschi e olandesi fanno benissimo a massacrare gli italiani, notoriamente un popolo di lazzaroni e incalliti evasori fiscali. Se a festeggiare il fantasma di Bersani è un tripudio di pernacchie, tutt’altra accoglienza incoraggia invece l’autoproclamata “rockstar del giornalismo italiano” (testuale, dal suo profilo Facebook), il cui ego-mongolfiera ora si gonfia a dismisura, nei giorni del lockdown infinito, beandosi dello strabiliante punteggio raggiunto dai suoi gargarismi quotidiani: un milione e mezzo di “like” e oltre centomila visualizzazioni per le imperdibili dirette video. «Ma ho anche dei difetti», ci informa, umilmente magnanimo, il nuovo amicone di Giuseppi.L’espressione “compagni di merende” deriva dal contesto oscuro e luttuoso del Mostro di Firenze, atroce caso nazionale tuttora irrisolto, benché rischiarato (solo nei suoi successivi romanzi, tuttavia) dall’allora commissario Michele Giuttari, a cui tagliarono le gomme dell’auto parcheggiata in questura, dopo essere giunto a un passo dalla verità insieme al pm perugino Giuseppe Mignini, colpito – insieme a Giuttari – dall’accusa di abuso d’ufficio. Poliziotto e magistrato avevano intuito che a macellare 16 persone sulle colline di Firenze non erano stati i patetici Pacciani, Vanni e Lotti, ma ben altri compagni di merende. I tre rozzi paesani (uno dei quali, Pacciani, prima incastrato con prove false e poi ucciso con farmaci letali per un cardiopatico come lui) sapevano probabilmente qualcosa dell’organizzazione chiamata Mostro di Firenze, ma sono stati utilizzati essenzialmente come diversivo per depistare le indagini, allontanandole dalla zona off limits, quella degli intoccabili. Un copione schematico, usato anche nella tragedia nazionale di Tangentopoli: come compagni di merende furono trattati i protagonisti dell’intera classe politica della Prima Repubblica, debolissima e declinante, diffusamente corrotta, ma non pericolosa quanto quella che le sarebbe succeduta, autrice della storica svendita del paese, oggi in ginocchio.La fu-sinistra, in blocco, credette davvero alla storiella dei compagni di merende. E così sostenne compatta tutti i tagli previsti dall’austerity, a partire dal primo decreto Treu sulla flessibilità del lavoro, premessa generale per il crollo dei diritti sociali che ha aperto la precaria stagione dei laureati nei call center e della fuga dei cervelli, poi comodamente imputata al cattivone di turno, l’orrido Berlusconi. Il primo a distaccarsi da quella sinistra, da cui pure proveniva, fu il grande Giulietto Chiesa, appena scomparso. Non hanno capito quello che è successo, ripeteva: non hanno la minima idea di chi siano i poteri a cui hanno consegnato l’Italia. Era avanti anni luce, Giulietto Chiesa: aveva compreso perfettamente che la dicotomia destra-sinistra apparteneva al Novecento, e che la nuova partita fra alto e basso era un derby spietato tra oligarchia e democrazia, tra finanza e politica. Guerra o pace, abuso o diritto, pochi o molti. Le bandiere di ieri? Scolorite, tutte: da custodire, ma come gloriosi cimeli storici, in nome del senso della realtà (quello che il 25 aprile 2020 s’è fatto fatica a rintracciare, sui balconi italiani pavesati in tricolore per lo spettacolo più surreale: prigionieri della post-democrazia, sottoposti al nuovo regime di polizia sanitaria, ma felici di cantare Bella Ciao come se fossero liberi).Se qualcuno pensa di essere in Corea del Nord, ascoltando il soave Scanzi decantare il Caro Leader, si sbaglia: siamo in Italia, più che mai. Siamo nel paese che un tempo era la quinta potenza industriale del pianeta, benché frenata dalle sue piaghe endemiche come l’evasione fiscale, la corruzione dilagante, lo strapotere delle mafie. Vent’anni di disinformazione martellante hanno fatto il miracolo: nessuno dei mali storici è scomparso, ma le condizioni generali sono precipitate grazie alle minacce letali che i Travaglio e gli Scanzi non hanno mai voluto vedere, denunciare, indagare. Sono le regole truccate dell’austerity europea, quelle che oggi costringono Giuseppi a dare di sé uno spettacolo indecoroso, al punto da chiedere scusa – fuori tempo massimo – per l’assoluta inettitudine del suo governo, di fronte a una catastrofe come quella del coronavirus. Ma nemmeno l’ammenda tardiva di Conte basta a smuovere la “rockstar del giornalismo italiano”, che esorta a venerare il Re Sole, l’Avvocato del Popolo venuto da Volturara Appula (e dal Vaticano). Giuseppe Conte? E’ il nulla assoluto, sentenzia Alessandro Di Battista, a lungo coccolato dal “Fatto Quotidiano” e ora ridotto a recitare il ruolo di immacolato outsider. Ma anche il Dibba, in fondo, dice – senza ridere – che un governo di unità nazionale sarebbe ancora peggio di quello in carica, visto che farebbe strame di quel che resta del paese.Sembra l’ultima edizione della storia dei compagni di merende: Di Battista evoca i lupi mannari che, guidati magari dal un super-tecnocrate come Draghi, darebbero la stura a ogni possibile speculazione, maxi-appalti fuori controllo e grandi opere inutili. Di nuovo: non è una barzelletta, l’ha detto veramente (lui, che fa ancora parte del Movimento 5 Stelle, cioè l’illusione ottica nazionale che – dopo aver insediato Giuseppi – ha rinnegato una dopo l’altra tutte le promesse elettorali, nessuna esclusa: Tap e Tav, trivelle in Adriatico, F-35, obbligo vaccinale). Di fronte a questo, il grande Andrea Scanzi non ha trovato di meglio che esprimere la sua arte sopraffina, tra una comparsata e l’altra del salotto televisivo di Lilli Bilderberg Gruber, nel vergare l’immortale capolavoro “Il cazzaro verde”, dedicato al demagogo che straparlò in un comizio di Pieni Poteri – prima che a prenderseli, i Pieni Poteri, e senza avvisare gli italiani, fosse il favoloso Giuseppi, il premier che gli italiani ingrati non si meriterebbero. Riavvolgendo il nastro: che faceva, Salvini, un anno fa? La buttava in caciara, per non dover ammettere il cocente fallimento del governo gialloverde di fronte al suo avversario, il rigore Ue. E che faceva, la stampa? Niente di meglio: la buttava in caciara, anche lei, prendendosela comodamente con il “cazzaro verde”. Facile, no?Sta per scadere, finalmente, il tempo di Giuseppi? Marta Cartabia (Corte Costituzionale, vicinissima a Mattarella) avverte che la Carta non la si può deformare, neppure di fronte a un’emergenza sanitaria. Entro un mese potrebbe subentrare Draghi, si sbilancia in televisione Stefano Zurlo, di “Libero”, il quotidiano di Vittorio Feltri (veterano della stampa italiana, che i Bilderberg Boys del giornalismo-rockstar ormai manganellano, trattandolo come un soggetto psichiatrico). E a proposito di giornalisti: oscuri dilettanti come Giorgio Bocca e Giampaolo Pansa sostenevano che con un politico fosse lecito, al massimo, prendere un caffè. Poco prima che l’Italia si trasformasse nel più grande carcere del mondo, Marco Travaglio si appartò con il primo ministro: cenetta intima in un ristorante sull’Appennino, celebre per i piatti a base di funghi. Anche Giulietto Chiesa frequentava politici, ma nel suo caso si chiamavano Mikhail Gorbaciov. E le cene si succedettero solo quando l’uomo che mise fine alla guerra fredda era ridiventato un privato cittadino, benché illustre. A Gorby diedero anche il Nobel per la Pace. E Giuseppi, a quale Nobel potrebbe ambire? Bel problema, ma niente paura: una formidabile menzione adorante potrebbe sempre scrivergliela l’immaginifico Scanzi, la rockstar di cui l’Italia prostrata dalla galera-Covid sentiva davvero il bisogno.(Giorgio Cattaneo, “La rockstar Andrea Scanzi e l’Italia dei compagni di merende”, dal blog del Movimento Roosevelt del 2 maggio 2020).Cos’è più avvilente, in questa primavera italiana? L’ex giornalista Andrea Scanzi o l’ex politico Pierluigi Bersani? Il primo intasa i social network per svelare agli italiani la loro immensa fortuna: essere governati da Giuseppi, cioè l’unico premier europeo che vanta almeno due record assoluti, il maggior numero di morti da Covid e il maggior numero di persone rimaste senza assistenza economica, sull’orlo della disperazione. Il secondo, lo Smacchiatore, dopo aver promosso a pieni voti il professor Monti e il suo micidiale pareggio di bilancio in Costituzione, ora torna a dare segni di vita spiegando, in televisione, che tedeschi e olandesi fanno benissimo a massacrare gli italiani, notoriamente un popolo di lazzaroni e incalliti evasori fiscali. Se a festeggiare il fantasma di Bersani è un tripudio di pernacchie, tutt’altra accoglienza incoraggia invece l’autoproclamata “rockstar del giornalismo italiano” (testuale, dal suo profilo Facebook), il cui ego-mongolfiera ora si gonfia a dismisura, nei giorni del lockdown infinito, beandosi dello strabiliante punteggio raggiunto dai suoi gargarismi quotidiani: un milione e mezzo di “like” e oltre centomila visualizzazioni per le imperdibili dirette video. «Ma ho anche dei difetti», ci informa, umilmente magnanimo, il nuovo amicone di Giuseppi.
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Il massone Bob Dylan, Kennedy e i golpisti del coronavirus
Vide il corpo di Kennedy sobbalzare in avanti, e capì che Chuck Nicoletti lo aveva colpito alla schiena, sparando dal palazzo accanto a quello in cui era appostato il futuro capro espiatorio Lee Oswald. Il presidente era ferito, ma in modo non mortale. Un’intuizione millimetrica, lo spazio di un secondo: poi la limousine si sarebbe allontanata dalla fatale collinetta dell’agguato. Fu in quel preciso istante che il secondo killer sparò a sua volta, con il suo Fireball, facendogli saltare il cervello e ribaltando all’indietro il corpo di Jfk. «Sono stato, io a esplodere il colpo mortale», dice James Files – detenuto negli Usa per altri reati – nel documentario (mai distribuito nel circuito televisivo) che svela la vera storia dell’omicidio, realizzato in mondovisione il 22 novembre 1963 a Dallas. Versione confermata in punto di morte da Howard Hunt, allora numero due della Cia. Per l’assassinio del secolo, gli 007 reclutarono la mafia di Chicago. Se ne accorse Zack Shelton, agente dell’Fbi, subito messo a tacere. Altra fonte, un “pentito”: il criminale Chaucey Holt. Conferma Tosh Plumlee, pilota della Cia: fu lui a trasportare a Dallas i gangster incaricati di eliminare Jfk.Alla vigilia, in un drammatico summit nella città texana, il piano venne convalidato dal Deep State: con lo stesso Howard Hunt, nella villa del petroliere Clint Murchinson c’era Edgar Hoover (Fbi) insieme al vice di Kennedy, Lyndon Johnson, e ad altri due futuri presidenti degli Stati Uniti, Richard Nixon e George Bush. Potere criminale: ma perché riparlarne oggi, come fa Bob Dylan, suggerendo un collegamento tra quell’atroce mattanza e il coronavirus? «State attenti e mettetevi al riparo», ha scritto Dylan sul suo sito, il 27 marzo, presentando l’esplosiva “Murder Most Foul”, regalata al pubblico “worldwide”, in modo sorprendente e spettacolare. Una strepitosa ballad lunga 1016 secondi (quasi 17 minuti) che ripercorre “l’omicidio più ignominioso”, facendo di Kennedy il simbolo di un’America che si stava svegliando, anche sulle ali della musica, per uscire dall’incubo della guerra fredda e della segregazione razziale, del terrore nucleare, del Vietnam.Perché farlo proprio adesso? Perché diventa così loquace, un solitario come Dylan, sempre ultra-reticente con la stampa? Probabilmente, la domanda contiene già la risposta: era indispensabile lanciare un avvertimento, sia pure filtrato dall’eleganza del linguaggio artistico. Un messaggio però anche esplicito, con indizi messi lì apposta per lasciarsi decodificare: l’invito a “suonare il numero 3, il numero 9″, cioè la perfezione dell’armonia. Roba da esoteristi: come il massonico 33, evocato a proposito dei “fratelli” che avrebbero organizzato “l’inferno”, a Dallas. «Nessun mistero: Bob Dylan è, da sempre, un massone radicalmente ultra-progressista», afferma – clamorosamente – Gioele Magaldi, evidentemente autorizzato a dare ufficialmente la notizia. «Dylan milita nei medesimi circuiti massonici progressisti ai quali appartengo anch’io», aggiunge Magaldi, che nel 2014 – nel saggio “Massoni”, edito da Chiarelettere – ha denunciato le trame anche golpiste e terroristiche della supermassoneria reazionaria.L’accusa: è stata la superloggia “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush, ad architettare l’11 Settembre e il crollo delle Torri Gemelle, per poi inventarsi anche l’Isis. Se qualche sprovveduto crede ancora alla storiella degli aerei che avrebbero abbattuto le Twin Towers (cadute per “demolizione controllata”, come ormai dimostrato da oltre tremila architetti e ingegneri americani), proprio l’omicidio Kennedy – giudiziariamente irrisolto, dopo oltre mezzo secolo – sta lì a ricordare a tutti che, a volte, “l’impossibile” diventa possibilissimo. Tant’è vero che qualcuno ci lascia la pelle: anche in modo inimmaginabile, persino se si tratta di un intoccabile come il presidente degli Stati Uniti. Magaldi mette in fila gli eventi: la stessa élite reazionaria, che nel 1975 usò la Trilaterale di Kissinger per dichiarare guerra alla democrazia sociale, oggi sovragestisce la crisi planetaria della pandemia secondo il modulo Wuhan, fondato sulla sospensione della libertà costituzionale.Attenti, avverte Magaldi: fu proprio il club di Kissinger a sdoganare la Cina, aprendola al mercato globale, per farne una specie di Frankenstein: formidabile efficienza economica, ma niente democrazia. Un modello perfetto da trapiantare in un futuro Occidente distopico, raggelante, oggi con il pretesto psico-sanitario del coronavirus, il coprifuoco imposto a tutti (provvisorio, ma con la prospettiva che le libertà di ieri non tornino mai più). Ed ecco, allora, Bob Dylan. «La sua uscita – sottolinea Magaldi – è perfettamente sincronizzata con l’altrettanto clamorosa lettera di Mario Draghi al “Financial Times”, in cui l’ex presidente della Bce (fino a ieri massone neoaristocratico, e oggi tornato ai lidi keynesiani delle origini) dichiara guerra alla “teologia” del rigore neoliberista, evocando addirittura il New Deal rooseveltiano: cioè la necessità di ricorrere a massicci aiuti di Stato per svincolare l’economia dal ricatto della finanza speculativa. Un regime che tuttora strangola l’Italia nella morsa dell’Ue, proprio adesso che il paese ha un bisogno drammatico di fondi che non si trasformino in debito».Draghi e Dylan, strano tandem: in modo diverso paiono dire la stessa cosa. Ovvero: siamo ormai giunti a un bivio esiziale, messi di fronte – con l’accelerazione planetaria della pandemia – a una scelta di campo ormai ineludibile: se la globalizzazione solo finanziaria porta dritti a Wuhan, l’alternativa sta nel riscrivere da zero le regole del mondo. E chi, meglio di John Kennedy, riuscì a esplicitare questo concetto? Era il sogno della New Frontier: un mondo unito, pacificato e libero. Di recente, s’è scoperto un carteggio segreto con Nikita Krushev: i due leader impegnavano Usa e Urss a mettere fine alla guerra fredda entro il 1970. Ma a costare la vita a Kennedy, probabilmente, fu altro: per esempio, la decisione di stampare direttamente banconote di Stato, svincolate dal sistema bancario. Ed ecco che Jfk, riletto oggi, sembra parlare direttamente a noi, alle prese con le maschere dell’euro-rigore “tedesco”. Ma chi era, veramente, Kennedy?«Tra le altre cose, il presidente assassinato a Dallas era un inziato eleusino», rivela lo storico fiorentino Nicola Bizzi, che nel sorprendente libro “Da Eleusi a Firenze” mette a fuoco l’ascendenza “eleusina” del Rinascimento italiano. Ovvero: la regia occulta, nel potere della signoria medicea, della tradizione misterica risalente al 1300 avanti Cristo, quando – secondo la narrazione – la dea Demetra avrebbe rivelato ai fedeli di Eleusi, alle porte di Atene, l’origine “atlantidea” della nostra specie, “creata” dagli dei Titani come Poseidone, signore dei mari. Kennedy eleusino? «Di più: era anche un templare, direttamente collegato a Dante Alighieri». Lo sostiene Luca Monti, autore del volume “Firenze, città santa dei templari”, pubblicato da Aurora Boreale, editrice di cui è titolare lo stesso Bizzi. Collegato alla rete odierna del templarismo, Monti spiega: l’autore della Divina Commedia ereditò la guida segreta dell’Ordine del Tempio dopo il rogo in cui fu arso vivo l’ultimo gran maestro ufficiale, Jacques de Molay. E il collegamento con il presidente assassinato a Dallas? «Il successore dell’Alighieri-templare fu Gherarduccio dei Gherardini, antenato di John Fitzgerald Kennedy», nientemeno.Stupefacente? Be’, sì. Ma questo aiuta a leggere un po’ meglio tra le righe, persino nei riferimenti simbolico-esoterici di cui è gremito l’amletico testo del massone Dylan, “Murder Most Foul”. Va preso sul serio, Luca Monti? Fate voi. Nel 2016, intervistato da Paolo Franceschetti, si sbilanciò con questa previsione: «Nel 2020 succederà qualcosa di inaudito, a livello mondiale». La fonte? Numeri, ancora: nella Commedia di Dante, ricorre il 515. Le profezie contenute nel poema sono intervallate dal medesimo numero di versi, “centodieci e quinque”. «Io penso che questo 515 arriverà verso il 2020», disse Monti, spiegando: «Questo numero rappresenta anche la riunificazione; noi siamo tutti in potenza parti di Dio, particelle divine, e il 515 rappresenta la riunione di noi stessi col divino». Suggestioni da brividi? Certo, si tratta di materiale con cui Bob Dylan ha sempre dimostrato un’estrema confidenza: nessuno come lui ha saputo maneggiare – e con uno slang “pop”, per giunta – la stessa Bibbia e i simboli pescati nei territori dell’alchimia, dell’astrologia, dei tarocchi, della mitologia. Se Kennedy era anche un neo-templare e un iniziato “eleusino”, oltre che un celebrato campione della democrazia, suona sempre meno strano l’omaggio che il grande cantautore gli tributa, in mezzo al panico da coronavirus, come se “Murder Most Foul” fosse anche una dichiarazione di guerra, oltre che un esercizio di pietà.Cade dall’alto, il guanto di sfida lanciato dall’ex ragazzo di Duluth, con alle spalle sessant’anni di carriera, oltre 50 dischi e anche l’Oscar cinematografico per la colonna sonora di “Things have changed”. Il prestigio culturale di Bob Dylan è già scritto nella storia: Premio Pulitzer, Nobel per la Letteratura, Legion d’Onore francese, Premio Principe delle Asturie. Risale al ‘97 il riconoscimento dei Kennedy Center Honors, e al 2012 la Medaglia Presidenziale della Libertà (massimo “award” civile, negli Stati Uniti). Neppure il Dylan politico è una sorpresa, dai tempi di “Blowin’ in the wind” e “Masters of war”. Suo il primo atto d’accusa, frontale, contro la globalizzazione: “Union Sundown”, nel 1983, anticipa profeticamente la tragedia delle delocalizzazioni, in un mondo che sarebbe stato devastato dallo strapotere delle multinazionali. Forte l’attitudine a scendere in campo direttamente, in modo anche spericolato: l’affarista William Zantzinger dichiarò di essere stato rovinato, da Dylan, per la canzone “The lonesome death of Hettie Carroll”, domestica nera uccisa a bastonate. Il pugile afroamericano Rubin Carter, vittima di un caso giudiziario condizionato dal razzismo, fu letteralmente scarcerato in seguito alla campagna per la sua liberazione lanciata da Dylan con il brano “Hurricane”.«Siamo un paese costruito sulla schiena degli schiavi», disse, in prossimità dell’uscita dell’album “Tempest”, pubblicato nel 2012, in cui riecheggia la guerra civile americana nell’interpretazione del poeta Herny Timrod. Sempre rarissime, le interviste, ma quasi tutte memorabili. «Come spiegare la mia longevità artistica? Be’, da giovane ho fatto un patto con il “comandante in capo”». Tradotto: consacro la mia arte alla maggiore delle cause. Obiettivo: far fermentare il talento, alchemicamente, al servizio dell’umanità. Un modo per “tendere al divino”, per citare il 515 dantesco? Più esplicitamente: «Pensate alla trasfigurazione di Cristo, nel Getzemani». Simboli, certo. Positivi e negativi: «Ha vinto Walt Disney», sentenziò anni fa: «Quindi abbiamo perso tutti». Prigioneri della Matrix, in un mondo di plastica? Ecco, forse il velo potrebbe squarciarsi, oggi, di fronte al dramma del coronavirus che sembra distruggere ogni certezza. A patto però – e qui è il “templare” kennedyano che riemerge, il “massone progressista” – che si abbia il coraggio di metterci la faccia. Per esempio regalando ai senzatetto milioni di dollari, ricavati dal disco natalizio “Christmas in the heart” pensato nel 2009 per sfamare gli homeless d’America (gesto di liberalità squisitamente massonico, se non addirittura rosacrociano).A proposito: tra i leggendari Rosa+Croce, elusiva confaternita iniziatica capitanata nel secondo ‘900 dal pittore Salvador Dalì, un simbologo italiano come Gianfranco Carpeoro include il grande Freddie Mercury. E il suo gruppo – i Queen – è l’unico citato da Dylan nella sequenza finale di “Murder Most Foul”, in cui si dispiega lo splendore della colonna sonora degli irripetibili anni Sessanta. Un indizio rivelatore: siamo di fronte a una stretta parentela, non solo artistica? In recenti conferenze, insieme allo stesso Magaldi, Carpeoro ha svelato la cifra massonica di artisti come David Bowie e, in particolare, l’identità anche rosacrociana del massone progressista Michael Jackson, cresciuto nella Prince Hall Freemasonry, l’obbedienza dei neri americani. A costargli la vita, a quanto pare, sarebbe stata la canzone “They don’t care about us”, contro gli abusi del grande potere globalista. Un verso recita: «Tutto questo non succederebbe, se Roosevelt fosse ancora qui». Alla moglie di Franklin Delano, Eleanor, madrina della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il giovanissimo Bob Dylan dedicò “Dear Mrs. Roosevelt”, scritta dal suo antico maestro Woody Guthrie.Sempre Dylan fu tra le star che risposero all’appello di Michael Jackson, autore con Lionel Richie del brano corale “We are the World”, destinato a raccogliere fondi (campagna “Usa for Africa”) per assistere la popolazione dell’Etiopia colpita dalla spaventosa carestia del 1985. Oggi, a quanto sembra, siamo all’ennesimo appuntamento con la storia: si tratta di disseppellire John Kennedy, per aiutare il mondo a ritrovare il suo stesso coraggio. Cambiare tutto, senza paura: né del coronavirus, né nei suoi ipotetici “sovragestori”, che probabilmente sognano un pianeta di neo-sudditi, schiavizzati dal terrore dei virus (oggi il “corona”, domani chissà), e sottoposti alla dittatura orwelliana di una polizia sanitaria capace di imporre vaccini e microchip, azzerando la privacy e la libertà. Messaggio: il momento è cruciale. La sfida è lanciata: “Murder Most Foul” è nell’aria, ne sta parlando il mondo intero. «State al riparo, e state attenti», si congeda il quasi ottantenne Dylan. «E che Dio sia con voi».(Giorgio Cattaneo, 5 aprile 2020).Vide il corpo di Kennedy sobbalzare in avanti, e capì che Chuck Nicoletti lo aveva colpito alla schiena, sparando dal palazzo accanto a quello in cui era appostato il futuro capro espiatorio Lee Oswald. Il presidente era ferito, ma in modo non mortale. Un’intuizione millimetrica, lo spazio di un secondo: poi la limousine si sarebbe allontanata dalla fatale collinetta dell’agguato. Fu in quel preciso istante che il secondo killer sparò a sua volta, con il suo Fireball, facendogli saltare il cervello e ribaltando all’indietro il corpo di Jfk. «Sono stato, io a esplodere il colpo mortale», dice James Files – detenuto negli Usa per altri reati – nel documentario (mai distribuito nel circuito televisivo) che svela la vera storia dell’omicidio, realizzato in mondovisione il 22 novembre 1963 a Dallas. Versione confermata in punto di morte da Howard Hunt, allora numero due della Cia. Per l’assassinio del secolo, gli 007 reclutarono la mafia di Chicago. Se ne accorse Zack Shelton, agente dell’Fbi, subito messo a tacere. Altra fonte, un “pentito”: il criminale Chaucey Holt. Un pilota della Cia, Tosh Plumlee, conferma di aver trasportato a Dallas i gangster incaricati di eliminare Jfk.
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Coprifuoco: siamo in guerra, anche se non si sentono spari
(Siamo in guerra, ma non si sentono spari. C’è solo un ronzio quotidiano, che lascia indovinare un colossale imbroglio. Nessuno sa più quello che sta succedendo, ma tutti credono ancora di saperlo e vivono come in tempo di pace, limitandosi a scavalcare macerie). Treni speciali. Spiegarono che le razioni sarebbero finite e bisognava ripensare la propria strategia familiare. Così dissero. Immaginavano che ciascuno fosse già pronto, da tempo, a contare sulle proprie risorse: indumenti, cibo, utensili. Un profugo si fece avanti con una valigia di euro. Dissero che poteva tenerseli: questione di giorni, e il loro valore sarebbe crollato al di sotto di un chilo di manzo, di un litro di benzina. Uno dei portavoce parlò chiaro: fortunato chi ha un campo, un orto, un pezzo di terra. Avevano compreso? Eccome. Tant’è vero che i montanari e quelli delle colline giravano già armati. E noi? Noi che facciamo, adesso? Quando prese la parola il delegato della circoscrizione metropolitana, la riunione si sciolse. Per voi ci saranno treni speciali per portavi al sicuro, disse in modo evasivo quello che sembrava il capo, sistemandosi il cinturone della tuta mimetica.
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Israele minaccia Sanders: nel nostro paese non lo vogliamo
Oggi abbiamo appreso che l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Danny Dannon, ha riferito all’Aipac che Bernie Sanders è un pazzo ignorante, un bugiardo o entrambe le cose. «Non vogliamo Sanders all’Aipac. Non lo vogliamo in Israele… Chiunque definisca il primo ministro israeliano un ‘razzista’ è un bugiardo, un idiota ignorante o entrambe le cose», ha annunciato l’ambasciatore Dannon. Le prove del razzismo israeliano e delle politiche razziste del governo Netanyahu sono, purtroppo, indiscutibili. Lo si può vedere in come il governo Netanyahu affronta il problema dei migranti di colore. O esaminare questo razzista disegno di legge nazionale israeliano. Ciò induce a chiedersi che cosa abbia motivato l’ambasciatore Dannon ad agire in modo così “antidiplomatico,” per indurlo ad attaccare in questo modo il leader del Partito Democratico, reo di aver espresso una critica motivata ad Israele e al suo primo ministro. Ma, ancor prima di porci questa domanda, dobbiamo considerare ciò che ci hanno fatto sapere gli stessi media israeliani.In una registrazione trapelata al pubblico, Natan Eshel, consulente anziano di Netanyahu, ha rivelato che «l’odio è ciò che unisce» la destra israeliana, e «funziona bene con gli elettori non ashkenaziti». Eshel, un ex dirigente dello staff di Netanyahu che aveva rassegnato le dimissioni a seguito di uno scandalo di natura sessuale, continua a lavorare con il primo ministro israeliano, e l’anno scorso aveva condotto i due negoziati per la formazione della coalizione di governo. Nella registrazione, Eshel spiega che il ministro del Likud (ed ex portavoce dell’Idf) Miri Regev è «molto brava» ad «agitare» i sostenitori del Likud. Eshel definisce la Regev «un animale», ma fa notare che le sue tattiche funzionano molto bene nell’«ottenere il sostegno della folla». È ragionevole pensare che la descrizione che l’ambasciatore Dannon fa del senatore Sanders servisse ad uno scopo simile: aizzare la folla dell’Aipac. E naturalmente i media ebraici britannici, insieme ai gruppi di pressione ebraici e alla lobby israeliana, hanno anch’essi usato questa tecnica fin dal 2017 per scatenare l’odio della folla verso il Partito Laburista e il suo leader, Jeremy Corbyn. Certa gente, a quanto pare, è unita dall’odio.Questa registrazione del consulente anziano di Netanyahu trapelata al pubblico fa luce sulla sempre crescente paura che gli ebrei hanno dell’antisemitismo. Quelli che sono così facilmente “uniti dall’odio” tendono a credere che anche il prossimo sia ugualmente carico di odio. La paura ebraica dell’antisemitismo può essere vista come una proiezione. Quelli che sono “uniti dall’odio” possono benissimo attribuire la propria astiosità ai loro vicini, non importa se palestinesi, elettori laburisti o addirittura leader democratici. Ciò che vediamo è una micidiale valanga di odio e di paura: più uno è gonfio di odio, più è tormentato dal pensiero che l’Altro sia afflitto dalla sua stessa animosità. Gesù Cristo aveva riscontrato questa caratteristica molto pericolosa tra i suoi stessi confratelli. La sua soluzione era stata scioccante, anche se semplice. Invece di accumulare armi, aveva detto ai suoi seguaci di porgere l’altra guancia: fare un passo avanti, amare il prossimo, staccarsi dal circolo vizioso, cercare la pace e l’armonia. Il destino di Gesù è noto a tutti. Come non è un segreto la sorte di quelli che cercano di predicare la pace agli israeliani e ai sionisti.(Gilad Atzmon, “L’odio, contro la pace e l’armonia”, dal blog di Atzmon del 2 marzo 2020; articolo tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”. Originario di Israele e ora trasferitosi a Londra, Atzmon è un jazzista di fama internazionale, critico con Tel Aviv e attivamente boicottato dalle associazioni che supportano la politica dello Stato ebraico. L’Aipac, American Israel Public Affairs Committee, è un gruppo di pressione americano noto per il forte sostegno allo Stato di Israele; la lobby sionista è considerata il più potente e influente gruppo d’interesse a Washington. L’acronimo Idf indica invece le forme armate israeliane, largamente impiegate per la selvaggia repressione dei civili palestinesi. Quanto alle tensioni tra Israele e gli Usa, è impossibile non ricordare l’episodio del 1963: il premier David Ben Gurion preferì dimettersi, pur di sottrarsi all’invito di Kennedy a Washington per chiarire alla Casa Bianca le circostanze della costruzione clandestina della centrale nucleare israeliana di Dimona. Pochi mesi dopo, Kennedy verrà assassinato a Dallas).Oggi abbiamo appreso che l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Danny Dannon, ha riferito all’Aipac che Bernie Sanders è un pazzo ignorante, un bugiardo o entrambe le cose. «Non vogliamo Sanders all’Aipac. Non lo vogliamo in Israele… Chiunque definisca il primo ministro israeliano un ‘razzista’ è un bugiardo, un idiota ignorante o entrambe le cose», ha annunciato l’ambasciatore Dannon. Le prove del razzismo israeliano e delle politiche razziste del governo Netanyahu sono, purtroppo, indiscutibili. Lo si può vedere in come il governo Netanyahu affronta il problema dei migranti di colore. O esaminare questo razzista disegno di legge nazionale israeliano. Ciò induce a chiedersi che cosa abbia motivato l’ambasciatore Dannon ad agire in modo così “antidiplomatico,” per indurlo ad attaccare in questo modo il leader del Partito Democratico, reo di aver espresso una critica motivata ad Israele e al suo primo ministro. Ma, ancor prima di porci questa domanda, dobbiamo considerare ciò che ci hanno fatto sapere gli stessi media israeliani.
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Scordatevi lo Stato palestinese: il Dio di Israele non lo vuole
Mentre esplode il panico mondiale per il coronavirus e la Turchia (Nato) protegge 30.000 terroristi e li usa come arma contro i curdi e la Siria, che sta tentando con l’aiuto della Russia di finire di riprendersi il suo territorio nazionale attorno alla città di Idlib, “Russia Today” annuncia che Netanyahu intende procedere con il progetto per costruire 3.500 abitazioni per i coloni israeliani nel West Bank, cioè in Cisgiordania. Quando ha presentato il suo piano di pace alla Casa Bianca, insieme a Trump, subito dopo Netanyahu ha detto: se i palestinesi accettano la nostra proposta, bene; se non la accettano, noi procediamo comunque. E dato che la proposta (inaccettabile) è stata respinta seccamente, lui procede. Ogni volta che si avvicina una possibile soluzione al conflitto israelo-palestinese, esplode puntualmente una crisi. I governi israeliani si sono sempre detti pronti a discutere: a Oslo l’accordo sembrava vicinissimo. Ogni volta che si arriva a un passo dalla soluzione, poi l’accordo viene fatto saltare. Dopodichè, un pezzo di Palestina viene portato via.Il territorio palestinese è diventato sempre più piccolo e frazionato: per passare da un appezzamento palestinese a un altro bisogna passare attraverso i posti di blocco dell’esercito israeliano. Se guardate la cartina, vi accorgere che l’idea stessa di uno Stato palestinese, oggi, fisicamente, ormai non è più praticabile. Di fatto, uno Stato palestinese non c’è più: la riva occidentale del Giordano se la sono già presa tutta, a pezzettini. E il sistema degli insediamenti dei coloni è fatto in modo scientifico, per continuare a tagliare fuori pezzi di territorio palestinese, in modo che i palestinesi (in gran parte agricoltori) non possano più muoversi per vendere i loro prodotti, né usare le sorgenti d’acqua. Persino per andare a scuola, i bambini palestinesi devono superare posti di blocco. Nel cosiddetto progetto di pace Trump-Netanyahu, come regalo americano, era addirittura previsto un ponte: dalla Striscia di Gaza avrebbe collegato alcuni territori palestinesi. Per non disturbare il possesso israeliano dei Territori Occupati, il ponte li avrebbe scavalcati.Fantastico, no? Noi vi prendiamo la terra, e in cambio vi facciamo il ponte. E dato che l’accordo poi non c’è stato (non poteva esserci), loro adesso si pigliano un altro pezzo di territorio e ci mettono altre 3.500 abitazioni, altre migliaia di persone. Così fanno: creano una nuova località abitata, e poi la militarizzano per evitare controffensive palestinesi di qualunque genere. Questo è il modo con cui Israele si prende tutta la Palestina, e con si troverà a dominare tutto il territorio – per una generazione: poi, quando i palestinesi crsceranno di numero, le cose cambieranno, visto che i campi profughi palestinesi stanno per esplodere, sul piano demografico. Gli israeliani, comunque, pensano ugualmente di estendersi. Ma attenzione: dietro al loro comportamento (prima trattiamo, ma poi rompiamo e prendiamo), c’è sempre l’idea del Grande Israele, cioè la terra che Dio ha dato ad Abramo. Quindi non c’è niente da fare: è quello, che vogliono.Loro vogliono il Libano, vogliono un pezzo di Iraq, un pezzo di Siria. Vogliono farsi il loro territorio “biblico”. Muovendoti su questo terreno, non potrai mai trovare un accordo: dietro a questo ragionamento, che sembra politico ma invece è religioso (di fanatismo religioso), non c’è la possibilità di nessun accordo. Cioè: se Dio ci ha dato questa terra, nessuno può entrare in discussione con Dio, perché è Dio che ce l’ha data, questa terra. Quindi, tutti quelli che ce lo impediscono, non sono contro di noi: sono contro Dio. E quindi non c’è modo di discutere. L’unica possibilità è quella di un’imposizione che la comunità occidentale dovrebbe prima o poi decidere di attuare. Ma ora è tardi, perché non c’è più la possibilità materiale di uno Stato palestinese. Io credo quindi che non ci si possa attendere altro che un peggioramento sistematico, continuo: sangue. Ci sarà ancora tanto sangue, purtroppo.(Giulietto Chiesa, dichiarazioni rilasciate nel colloquio con Massimo Mazzucco durante la trasmissione di “Contro Tv” del 28 febbraio 2020, ripresa su YouTube e sul sito “Luogo Comune”).Mentre esplode il panico mondiale per il coronavirus e la Turchia (Nato) protegge 30.000 terroristi e li usa come arma contro i curdi e la Siria, che sta tentando con l’aiuto della Russia di finire di riprendersi il suo territorio nazionale attorno alla città di Idlib, “Russia Today” annuncia che Netanyahu intende procedere con il progetto per costruire 3.500 abitazioni per i coloni israeliani nel West Bank, cioè in Cisgiordania. Quando ha presentato il suo piano di pace alla Casa Bianca, insieme a Trump, subito dopo Netanyahu ha detto: se i palestinesi accettano la nostra proposta, bene; se non la accettano, noi procediamo comunque. E dato che la proposta (inaccettabile) è stata respinta seccamente, lui procede. Ogni volta che si avvicina una possibile soluzione al conflitto israelo-palestinese, esplode puntualmente una crisi. I governi israeliani si sono sempre detti pronti a discutere: a Oslo l’accordo sembrava vicinissimo. Ogni volta che si arriva a un passo dalla soluzione, poi l’accordo viene fatto saltare. Dopodichè, un pezzo di Palestina viene portato via.