Archivio del Tag ‘oro’
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L’immenso tesoro del Papa e il custode venuto da Sydney
Lingotti e monete d’oro, banconote di ogni valuta, proprietà immobiliari sterminate: ricchezza accumulata nei secoli da preti, vescovi e cardinali, fino ad assumere proporzioni bibliche. Spulciando una relazione segreta della Cosea, la dissolta Commissione referente sull’organizzazione della struttura economica del Vaticano, “L’Espresso” scopre ad esempio che «le varie istituzioni vaticane gestiscono i propri asset e quelli di terzi a un valore dichiarato di 9-10 miliardi di euro, di cui 8-9 miliardi in titoli e uno di immobiliare». Leggendo il bilancio (mai pubblicato) dell’Apsa, l’ente che amministra il patrimonio della sede apostolica, insieme ad alcune note confidenziali firmate dal neo-presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, «si capisce che parte importante del tesoro è nascosto proprio all’Apsa, che a differenza dello Ior non ha mai reso noti i suoi conti». Dopo che uno dei suoi contabili, monsignor Nunzio Scarano, è stato arrestato per riciclaggio, corruzione e truffa, Papa Bergoglio ha deciso di mettere il naso anche lì.“L’Espresso” ha trovato anche spese e ricavi di decine di enti pubblicati nel 2013: dalla Segreteria di Stato alle nunziature estere, passando per Radio Vaticana e il Governatorato. E’ evidente, scrive Emiliano Fittipaldi in un reportage ripreso da “Micromega”, che «le spese della curia (case, segretari, viaggi, sicurezza, rappresentanza) sono ancora senza controllo». A Place Vendôme, nel centro di Parigi, una società francese controllata dall’Apsa possiede alcuni tra i più prestigiosi immobili della zona. «La Sopridex Sa ha avuto inquilini famosi (come François Mitterrand) e oggi ha attività iscritte a bilancio che arrivano a 46,8 milioni di euro». Tra i dipendenti, anche «la bellezza di 16 portieri». Ma l’Apsa, continua “L’Espresso”, controlla anche 10 società svizzere, «tra cui la misteriosa Diversa Sa, l’Immobiliere Sur Collonge e l’Immobiliere Florimont». Società che, insieme alla Profima Sa, «gestiscono proprietà e terreni nella confederazione elvetica e in mezza Europa». Tutte insieme «valgono 18 milioni».«Va ricordato che storicamente il bilancio dell’Apsa sottostima, per questioni fiscali, i valori dei palazzi di sua proprietà», spiega a Fittipaldi una qualificata fonte dell’istituto che ha sede nel Palazzo Apostolico. «Inoltre quelle svizzere sono società non consolidate: in pancia potrebbero avere molto più di quanto dichiarato». La Profima è stata aperta a Losanna nel 1926 e fu utilizzata da Pio XI per nascondere all’estero parte dei “risarcimenti” che la Chiesa ottenne grazie ai Patti Lateranensi stipulati con il regime fascista, mentre la holding Diversa «è praticamente sconosciuta». Fondata a Lugano nell’agosto del 1942, mentre si combatteva da Stalingrado ad El Alamein, risulta oggi presieduta da Gilles Crettol, «un avvocato svizzero che gestisce gli interessi del Papa oltralpe: il suo nome spunta in quasi tutte le altre società elvetiche». Fino a qualche tempo fa, il referente italiano era invece Paolo Mennini, ma gli uomini di Papa Francesco hanno deciso di farlo fuori: da qualche settimana, al suo posto, nei Cda delle società svizzere è comparso Franco Dalla Sega, presidente della bazoliana Mittel e «manager di fiducia del nuovo boss delle finanze vaticane, il cardinale George Pell».Il Vaticano, ricorda “L’Espresso”, possiede società immobiliari anche in Inghilterra: la British Grolux Investments Ltd, fondata nel 1933, «gestisce oggi a Londra attività per la bellezza di 38,8 milioni di euro inclusi negozi di lusso in New Bond Street». Quanto all’Italia, «oltre allo sterminato forziere di Propaganda Fide, ribattezzata Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (ha un patrimonio stimato, al netto della crisi immobiliare, di circa 7 miliardi), l’Apsa controlla pure le società Sirea e Leonina, che a bilancio valgono oltre 16 milioni». Tra affitti a privati e locazioni commerciali, tutte le sigle che fanno capo all’Apsa hanno ricavato nel 2011 circa 23,5 milioni di euro. «Il bilancio finale dell’Apsa è impressionante», rileva Fittipaldi. «Case e appartamenti sparsi in Europa nel 2013 hanno toccato il valore complessivo di 342 milioni», mentre quello del portafoglio investimenti in euro ha superato quota 475 milioni, «cui bisogna aggiungere titoli per 137 milioni di dollari, 33 milioni di sterline e 17 milioni di franchi svizzeri».Un “tesoro” che vale complessivamente più di un miliardo, e che oggi gestiscono in tre: il super-consulente Dalla Sega e i due monsignori a capo dell’Apsa, il presidente Domenico Calcagno e il segretario Luigi Mistò. «Se gli immobili dell’Apsa valgono più di quanto riportato in bilancio, anche sull’oro ci sono molte cose che non tornano», aggiunge la fonde de “LEspresso”. Leggendo i dati riservati del 2013, scrive Fittipaldi, si scopre che l’Apsa detiene metalli preziosi per 30,8 milioni di euro, e «alcune stime interne della segreteria di Stato, da prendere con le molle, parlano di un controvalore di 140 miliardi di euro, il doppio di quanto conservato dalla Banca d’Italia». Qualcuno, però, sospetta che parte importante delle riserve auree del Vaticano sia conservata nei forzieri svizzeri e inglesi. «La stima mi sembra eccessiva – chiosa il dirigente Apsa – anche perché parte cospicua del nostro metallo giallo è stato venduto tra gli anni ‘90 e l’inzio del nuovo secolo dal cardinale venezuelano Rosalio Castillo Lara, ex presidente dell’amministrazione».Oltre all’oro dell’Apsa, il Vaticano controlla anche il patrimonio dello Ior, valutato 6 miliardi di euro. «Non stupisce che sul gruzzolo, dopo l’arrivo del nuovo pontefice, si sia scatenata una battaglia (l’ennesima) per la gestione. Francesco ha innanzitutto spazzato via gli uomini di Tarcisio Bertone che dal 2007 guidavano lo Ior e, attraverso Calcagno, la cassaforte dell’Apsa. Troppi gli scandali della decadente “lobby italiana”: a parte le scorribande di Scarano e le vicende di Bertone (i casi Carige e Lux Vide promettono sviluppi), le inchieste per riciclaggio hanno fatto saltare il direttore dello Ior Paolo Cipriani, il suo vice Massimo Tulli e il tesoriere della banca, mentre presto la prefettura degli Affari economici guidata da Giuseppe Versaldi, amico intimo di Bertone, potrebbe essere soppressa». Per ricostruire un sistema più trasparente, continua “L’Espresso”, Bergoglio ha poi chiamato dall’Australia il cardinale George Pell e lo ha nominato capo di un nuovo dicastero, la Segreteria dell’Economia. Una sorta di super-ministero che controllerà, di fatto, tutti gli enti finanziari dentro le Mura Leonine.Noto al Papa per le sue doti di economo, dopo aver gestito con buoni risultati una grande diocesi come quella di Sidney, il cardinale Pelle è soprattutto un uomo di comando. Ha subito silurato il presidente dello Ior, Ernst von Freyberg, rottamando le vecchie strutture di governance e accentrando nei suoi uffici i poteri esecutivi: la segreteria di Stato è stata ridimensionata (il successore di Bertone, Pietro Parolin, si occuperà prevalentemente di diplomazia), mentre lo Ior e l’Apsa sono stati commissariati. In Vaticano c’è chi teme ambizioni dell’australiano: «Se Parolin ha sotterrato l’ascia di guerra solo perché Francesco lo ha ammesso nel C9, il gruppo ristretto di cardinali che devono aiutarlo nella guida della Chiesa, il presidente del Governatorato Giuseppe Bertello sta tentando in tutti i modi di bloccarne l’ascesa». Tra i nuovi potenti, però, a «limitare il raggio d’azione di Pell» ci hanno priovato, «per ora senza successo», solo Oscar Rodriguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa e coordinatore del C9, e il cardinale Santos Abril y Castelló, presidente della commissione cardinalizia dello Ior.In Australia, i cattolici progressisti rimproverano al prelato di Sydney le posizioni ultra-conservatrici e le sparate pubbliche sull’Islam («religione guerresca», piena di «invocazioni alla violenza»). Inoltre, Pell fu scagionato nel 2002 dall’accusa di aver abusato di un ragazzino di 12 anni, mentre nel 2008 un’altra presunta vittima di abusi lo aveva incolpato di aver “coperto” un sacerdote pedofilo. «Lo scorso marzo, infine, il cardinale è stato chiamato a testimoniare di fronte alla Commissione nazionale d’inchiesta sugli abusi contro i minori istituita dal governo di Canberra, in merito a una causa che un altro ex chierichetto, John Ellis, aveva fatto alla Chiesa e allo stesso Pell in seguito a violenze sessuali avvenute tra il 1974 e il 1979». Pell ha chiesto scusa, continua “L’Espresso”, ma in molti sono restati sconcertati per la sua promozione decisa da Bergoglio. «Nella giungla vaticana – aggiunge Fittipaldi – il ranger venuto da Sydney non si muove da solo. Il capo segue i consigli di tre fidati consiglieri: il neo presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, il tycoon maltese Joseph Zahra (entrambi membri del Consiglio dell’Economia, l’altro neonato ufficio economico guidato da Reinhard Marx), e l’amico Danny Casay, manager che ha gestito con lui la diocesi di Sydney».Gli sconfitti, i vecchi cardinali di curia, li chiamano “la banda dei maltesi”, adombrando il pericolo di conflitti d’interessi: l’unico membro italiano chiamato a far parte del Consiglio dell’Economia, Francesco Vermiglio, ha fondato con l’amico Zahra (patron del colosso finanziario Misco Malta) la Misco Advisory Ltd, «una joint venture per invogliare i nostri connazionali a investire nell’isola, fino a pochi anni fa vero paradiso fiscale». A marzo 2014, inoltre, il figlio di de Franssu, Luis Victor, è stato assunto dalla Promontory, società Usa che da un anno sta spulciando i conti dello Ior. «Ma il numero uno dello Ior pare abbia buoni rapporti anche con alcuni giovani consulenti della McKinsey che hanno lavorato sui bilanci dell’Apsa. Tra loro c’era pure Filippo Sciorilli Borrelli. Classe 1981, è un figlio d’arte: suo padre Ivo è infatti tra gli azionisti di maggioranza di Banca Arner, l’istituto svizzero che ha tra i suoi (pochi) correntisti Silvio Berlusconi». Non c’è nessuna lobby maltese, ha ribattuto Pell, indignato. Tuttavia, ribatte “L’Espresso”, proprio i finanzieri de Franssu e Zahra – titolari di società di investimento – avevano ideato i nuovi assetti del business vaticano, secondo un modello «che rispecchia in gran parte quello annunciato da Pell», ovvero: potere assoluto della Segreteria dell’Economia, Apsa trasformata in Banca centrale e nascita di un nuovo Vatican Asset Management (Vam) per gestire titoli e obbligazioni.Nelle mire di Pell, aggiunge Fittipaldi, c’è anche un altro patrimonio della Santa Sede: i musei vaticani, tra i più visitati e redditizi al mondo: nel 2011 l’utile netto è stato di 58,7 milioni, e gli incassi (tra biglietti e merchandising) superiori a 91 milioni. Per contro, le spese 2013 della Curia romana ammontano a 77,9 milioni, e l’Apsa ha chiuso il suo bilancio in perdita di 48,4 milioni. «Se l’Obolo di San Pietro grazie alla beneficenza dei fedeli nel 2013 ha portato nelle casse 78 milioni, la mitica Radio Vaticana ha perso, secondo un report interno pubblicato nel 2013 e riferito al 2011, ben 26,6 milioni», scrive Fittipaldi. «Anche la tipografia che stampa “L’Osservatore romano” ha chiuso i conti a meno 5,5 milioni». Un salasso, a cui aggiungere il deficit delle 170 nunziature all’estero (meno 25,1 milioni) e i 5,8 milioni che servono a pagare le 110 guardie svizzere. «Chissà, infine, se la spending review minacciata da Pell peserà anche sulle messe di papa Francesco: nel 2011 l’Ufficio celebrazioni liturgiche ha speso per Ratzinger 1,1 milioni. Viste le dimensioni del tesoro di Dio, si tratta poco più di una mancia».Lingotti e monete d’oro, banconote di ogni valuta, proprietà immobiliari sterminate: ricchezza accumulata nei secoli da preti, vescovi e cardinali, fino ad assumere proporzioni bibliche. Spulciando una relazione segreta della Cosea, la dissolta Commissione referente sull’organizzazione della struttura economica del Vaticano, “L’Espresso” scopre ad esempio che «le varie istituzioni vaticane gestiscono i propri asset e quelli di terzi a un valore dichiarato di 9-10 miliardi di euro, di cui 8-9 miliardi in titoli e uno di immobiliare». Leggendo il bilancio (mai pubblicato) dell’Apsa, l’ente che amministra il patrimonio della sede apostolica, insieme ad alcune note confidenziali firmate dal neo-presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, «si capisce che parte importante del tesoro è nascosto proprio all’Apsa, che a differenza dello Ior non ha mai reso noti i suoi conti». Dopo che uno dei suoi contabili, monsignor Nunzio Scarano, è stato arrestato per riciclaggio, corruzione e truffa, Papa Bergoglio ha deciso di mettere il naso anche lì.
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Grillo: stop al racket dell’oscuro parassita chiamato Europa
Dobbiamo togliere di mezzo ogni ostacolo che impedisca ai cittadini di sapere cosa accade, chi prende le decisioni, chi ne fa le spese e chi governa senza essere mai stato eletto dal popolo, ma cambia la vita di chi resta senza lavoro, di chi non ha i soldi per comprarsi da mangiare, di chi è costretto a licenziare i suoi dipendenti o a dichiarare fallimento. Dobbiamo dire alla gente chi sono i nominati, da chi sono stati messi sulle loro poltrone e perché sanno solo ripetere che “serve più Europa”, “servono più soldi alle banche”, “serve più rigore”. L’austerity! Cioè tagli alla spesa pubblica, ma soprattutto ai salari, agli stipendi e alle pensioni. E quando qualcosa si taglia, qualcos’altro deve per forza aumentare: le tasse. Le tasse in Italia sono diventate così alte che ormai bisogna lavorare fino a ottobre non per guadagnare, ma solo per riuscire a pagarle. Ci hanno detto che la soluzione era l’austerity. Era una soluzione, certo, ma era quella sbagliata! In Irlanda e in Portogallo ha funzionato talmente bene che c’è stato un esodo quasi senza precedenti verso altri paesi.In Italia ha funzionato anche meglio: solo nel 2013, più di trecento aziende al giorno sono state costrette a chiudere. Il motivo è semplice: i grandi sacerdoti dell’austerity hanno basato la loro religione su dati parziali. Non serviva essere economisti per accorgersi che una compressione della spesa in un momento di crisi avrebbe portato a una stagnazione, la quale avrebbe peggiorato la crisi. Perfino al Fondo Monetario Internazionale, alla fine, se ne sono accorti: Blanchard ha ammesso l’errore, ma nessuno ha cambiato direzione. Ne ammazza di più la medicina della malattia, ma nessuno che pensi di interrompere il salasso: si continua a succhiare sangue alle aziende, alle imprese, ai lavoratori, ai pensionati, ai cittadini, ai quali si sottrae ogni giorno una fetta di sovranità, per conferirla nelle mani di un oscuro centro di potere governato da non eletti. Così, questa Europa si è trasformata in un gigantesco parassita, un parassita che vive sulle nostre spalle, un parassita che ci afferra per la gola e ci toglie ossigeno.Ci rassicurano che le cose vanno meglio, che la crisi sta passando, che si intravede la luce alla fine del tunnel, ma sono i fari del treno che ci sta per venire addosso! Il treno si chiama Fiscal Compact, il nuovo irrigidimento del Patto di Stabilità e di Crescita che negli anni è stato sforato dalla stragrande maggioranza degli Stati europei. Così, a un paziente già ammalato, hanno somministrato il colpo di grazia: il pareggio di bilancio. Che in Italia abbiamo inserito addirittura nella Costituzione. Significa che se non abbiamo soldi non possiamo neppure trovarne, privi come siamo di sovranità monetaria, senza indebitarci. Una genialata! In più, ci hanno chiesto di ridurre il rapporto debito pubblico-Pil al 60% in 20 anni. Significa prendere un tessuto economico già disastrato, un tessuto imprenditoriale disperato, un tessuto assistenziale ai limiti dell’inesistente, e applicarvi tagli a pioggia pari anche a 50 miliardi all’anno per vent’anni! E lo chiamano “grande sogno europeo”! Ci accorgeremo presto delle conseguenze del Fiscal Compact sui paesi già piegati dal rigore a tutti i costi. «E poi», come in un celebre romanzo di Agatha Christie, «non ne rimase nessuno».Non contenti, per salvare gli amici degli amici, cioè il mondo della tecno-finanza la cui sconsiderata ingordigia ha ridotto in povertà decine di milioni di persone, hanno istituito il Mes, il Meccanismo Europeo di Stabilità, e l’hanno ratificato quatti quatti, zitti zitti, come piace a loro. Il Mes indebita interi popoli all’infinito, impegnandosi per centinaia di miliardi che possono essere rinnovati a piacere da un gruppo di oscuri oligarchi che si ritrovano in Lussemburgo, come una setta, senza che nessuno possa leggere le carte che si passano, senza che nessuno possa citarli in giudizio, senza che nessun governo nazionale, neppure futuro, possa rifiutarsi di pagare. E a fronte di questo salasso, che per l’Italia vale da subito 125 miliardi e poi chi lo sa, se un giorno dovessimo avere bisogno di essere salvati, il Mes ci presta i soldi. Ce li presta! E’ come se tu pagassi una kasko per l’assicurazione della tua auto e poi, quando qualcuno ti viene addosso, ti prestano i soldi per il carrozziere. Ce li prestano in cambio di “condizionalità”. Le chiamano “condizionalità”. Ma significano “cessioni di sovranità”. Si infilano nei Parlamenti nazionali e sottraggono ai cittadini ogni giorno un pezzetto dei loro diritti, per conferirli dentro a qualcosa che non c’è ancora. E’ a questo che è servita la crisi. Perché le guerre oggi non si fanno più con i carri armati. Si fanno con lo spread. Da un carrarmato ti puoi difendere: lo spread non lo vedi e non lo senti. E’ un assassino perfetto. Silenzioso ed ineffabile.Grazie allo spread puoi creare strumenti micidiali come l’Erf. Hanno sempre questi nomi biblici, quasi rassicuranti: il Fondo Europeo di Riscatto. Ti fanno credere che devi essere riscattato, perché sei un Piigs. Sei un Piigs anche se versi più soldi all’Europa di quanti alla fine l’Europa non te ne renda. E allora come ti riscattano? Se non ce la fai a rispettare il Fiscal Compact, vengono a suonare con l’esattore alla frontiera, e ti costringono a consegnare gli asset patrimoniali nazionali, le riserve valutarie, le riserve auree e parte del gettito fiscale fino ad ottenere garanzie per tutta la parte eccedente il rapporto del 60% del debito sul Pil. Un curatore fallimentare poi vende tutto. Una immensa Equitalia al cubo! E se consideriamo il gettito fiscale come lo stipendio di uno Stato, l’Europa si trasforma in un creditore che ti impone la cessione del quinto senza che tu possa avere più il controllo del tuo conto in banca.Cosa sarebbe tutto questo? Cosa stiamo diventando? E’ un’immensa Matrix, siamo governati da scienziati pazzi che fanno esperimenti di ingegneria tecnologico-finanziaria su interi popoli e se poi gli esperimenti falliscono e decine di milioni di persone muoiono, allora fa niente: siamo tutti sacrificabili. L’importante è che la casta mondiale, quel 10% degli abitanti della Terra che detiene il 90% delle ricchezze, sopravviva e continui a godere di ottima salute. In Grecia negli ultimi due anni si sono suicidate oltre 7.000 persone: gente che l’ha fatta finita non perché avesse perso il lavoro, ma perché non aveva più neppure da mangiare. Ci sono genitori che hanno deciso di abbandonare i propri figli negli orfanotrofi per garantirgli almeno un pasto al giorno e un letto caldo per l’inverno. In Italia, rispetto ai livelli pre-crisi, ci sono tre milioni di poveri in più (+93,9%), 3 milioni e 700.000 persone disoccupate in più (+122,3%), il Pil è crollato del 9%, la produzione industriale è precipitata del 23,6%, le costruzioni del 43,15%, i consumi delle famiglie si sono ridotti dell’8%, gli investimenti del 27,5%, c’è il -7,8% di occupazione e abbiamo perso quasi due milioni di posti di lavoro.E’ questo il grande successo dell’Europa? Una élite di mentitori di professione che cambia i metodi di calcolo alla bisogna, facendo così sparire in un attimo i dati che non devono essere mostrati? A noi in Italia raccontano spesso che servono più sacrifici, perché “ce lo chiede l’Europa”. Ma l’Europa che vogliamo noi non è quella che continua a drenare linfa dalla propria gente, che rovina i suoi imprenditori, i suoi lavoratori, che toglie lo Stato sociale ai deboli e tutela i ricchi e i forti. L’Europa che vogliamo noi non è quella che costringe le democrazie in crisi a versare centinaia di miliardi che finiscono su un conto in Lussemburgo a finanziare le democrazie che stanno bene, quelle della Tripla A, come la Germania. L’Europa che vogliamo noi non è quella oscura, un buco nero nel quale tutto entra e dal quale nulla esce, ma è l’Europa della democrazia diretta, dei referendum popolari, delle informazioni che circolano e della conoscenza condivisa. E’ l’Europa consapevole delle scelte ambientali che possono ancora cambiare le sorti del nostro pianeta. E’ l’Europa della libertà individuale, dei diritti, della sostenibilità. E’ l’Europa dei cittadini, non quella di Van Rompuy.(Beppe Grillo, estratti dal discorso “L’Europa che vogliamo”, pronunciato a Strasburgo il 1° luglio 2014).Dobbiamo togliere di mezzo ogni ostacolo che impedisca ai cittadini di sapere cosa accade, chi prende le decisioni, chi ne fa le spese e chi governa senza essere mai stato eletto dal popolo, ma cambia la vita di chi resta senza lavoro, di chi non ha i soldi per comprarsi da mangiare, di chi è costretto a licenziare i suoi dipendenti o a dichiarare fallimento. Dobbiamo dire alla gente chi sono i nominati, da chi sono stati messi sulle loro poltrone e perché sanno solo ripetere che “serve più Europa”, “servono più soldi alle banche”, “serve più rigore”. L’austerity! Cioè tagli alla spesa pubblica, ma soprattutto ai salari, agli stipendi e alle pensioni. E quando qualcosa si taglia, qualcos’altro deve per forza aumentare: le tasse. Le tasse in Italia sono diventate così alte che ormai bisogna lavorare fino a ottobre non per guadagnare, ma solo per riuscire a pagarle. Ci hanno detto che la soluzione era l’austerity. Era una soluzione, certo, ma era quella sbagliata! In Irlanda e in Portogallo ha funzionato talmente bene che c’è stato un esodo quasi senza precedenti verso altri paesi.
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Il business avverte Obama: basta sanzioni contro Putin
«Nessuno al mondo ha una vera ragione per amare gli Stati Uniti, meno che mai gli stessi americani dissanguati per le pretese di dominio di Washington sul mondo». Mentre 3 russi su 4 vorrebbero che Putin restasse al Cremlino anche dopo il 2018, il tasso di popolarità di Obama scivola al 41%. E l’economia americana traballa: la strombazzata crescita del primo trimestre 2014, di almeno il 2,6% secondo gli economisti mainstream, viene sbriciolata dalla dura realtà, che rivela uno scivolone pari al -2,9%. Non se ne stupisce Paul Craig Roberts, già viceministro del Tesoro di Reagan: «Qualsiasi economista libero e non a libro paga di Wall Street, del governo e dei poteri forti sapeva che il 2,6% era una buffonata». La verità è che «l’economia americana non può crescere perché le multinazionali spinte da Wall Street hanno portato l’economia reale fuori dai confini Usa: tutta la produzione americana è stata trasferita all’estero». E ora – questa la notizia – i poteri forti chiedono a Obama di cessare l’offensiva contro la Russia di Putin, prima che l’America ci rimetta l’osso del collo.«Le povere previsioni per l’economia americana – segnala Craig Roberts in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – hanno indotto due tra le più grandi lobby d’affari, la Camera di Commercio degli Stati Uniti e l’associazione nazionale dei produttori (o quello che rimane di essa) a prendere posizione contro l’amministrazione Obama per la paura di ulteriori sanzioni contro la Russia». E’ stata “Bloomberg News” ad annunciare la campagna promossa dai gruppi d’affari con pagine su “New York Times”, “Wall Street Journal” e “Washington Post” contro ulteriori sanzioni nei confronti del Cremlino. «Queste organizzazioni dicono che le sanzioni diminuiranno i loro profitti avendo come risultato la perdita di posti di lavoro americani». Si tratta delle due maggiori corporazioni commerciali Usa, «fonti importantissime di finanziamento delle campagne elettorali dei vari partiti politici», e ora «hanno finalmente aggiunto la loro voce a quella del mondo degli affari tedesco, francese e italiano».«Tutti, tranne l’opinione pubblica americana – dice Craig Roberts – sanno che la crisi in Ucraina è totalmente un “business” creato da Washington. Gli imprenditori europei e americani si stanno chiedendo “perché i nostri profitti e i nostri lavoratori debbano soffrire a causa della propaganda di Washington contro la Russia”». Secondo l’ex viceministro di Reagan, «Obama non sa cosa dire». Magari qualche risposta verrà dalla «feccia neocon» imbarcata alla Casa Bianca: Victoria Nuland, Samantha Powers, Susan Rice. «Obama può affidarsi al “New York Times”, al “Washington Post”, al “Wall Street Journal” e al “Weekly Standard” per spiegare perché milioni di americani ed europei debbano soffrire affinché il “ratto” dell’Ucraina vada a buon fine». In realtà, «le bugie di Washington si stanno ritorcendo contro Obama». Se la cancelliera Merkel «è completamente assoggettata ai voleri Usa», in compenso «l’industria tedesca sta dicendo all’amica americana che il valore dei propri affari in Russia è maggiore del valore sofferto a causa delle pretese imperialistiche del governo Usa».Idem il mondo imprenditoriale francese: «Sta chiedendo a Hollande cosa voglia fare con la mancanza di posti di lavoro e se lui stesso porta avanti gli interessi americani». Le sanzioni contro la Russia, inoltre, «costituiscono un colpo mortale al settore italiano più famoso e universalmente riconosciuto al mondo, quello del lusso e della moda». Così, in Europa «si sta spandendo a macchia d’olio il dissenso nei confronti di Washington». Secondo recenti sondaggi, 3 tedeschi su 4 «sono contrari alla permanenza delle basi Nato in Polonia e negli Stati baltici». L’ex Cecoslovacchia, attualmente divisa in Slovacchia e Repubblica Ceca, benché membro Nato si è opposta alla presenza americana sul suo territorio. «Recentemente, un ministrro tedesco ha detto che fare un piacere a Washington è come fare sesso orale senza ricevere nulla in cambio». Di fatto, «la pressione che i pazzi a Washington stanno mettendo sulla Nato potrebbe mandare in frantumi l’organizzazione: preghiamo perché sia così», dichiara Craig Roberts. «La scusa all’esistenza della Nato è scomparsa 23 anni anni fa con il collasso dell’Unione Sovietica. Washington ha fatto espandere la Nato molto oltre i limiti segnati dal Trattato del Nord-Atlantico».La Nato ora interviene su un territorio che va dal Baltico all’Asia Centrale: «Quindi, per giustificare la continua espansione delle operazioni, Washington ha dovuto fare della Russia un nemico». Il problema? «La Russia non vuole assolutamente essere un nemico della Nato o di Washington». A premere per lo scontro è il complesso apparato militare di sicurezza statunitense, che assorbe più di un trilione di dollari dalle tasche degli americani: la lobby della guerra «ha bisogno di una scusa per continuare a far lievitare i profitti». Avverte Craig Roberts: «Sfortunatamente, gli imbecilli di Washington hanno scelto un nemico pericoloso: la Russia è una potenza nucleare, un paese di vaste dimensioni che vanta un’alleanza strategica con la Cina. Solo un governo imbevuto di arroganza e hybris, o gestito da psicopatici e sociopatici, sceglierebbe un nemico del genere».Per fortuna, al Cremlino c’è Putin, forte del consenso del 76% dei russi «nonostante le forti opposizioni delle Ong russe finanziate da Washington». Putin ha più volte fatto notare all’Europa come le politiche americane in Medio Oriente e in Libia non siano state solo un completo fallimento, ma anche devastanti e pericolose per l’Europa e la Russia. «I pazzi a Washington hanno rimosso dei governi che tenevano a bada gli jihadisti, e ora questi violenti sono sguinzagliati e senza alcun tipo di controllo». In Medio Oriente, gli jihadisti «sono al lavoro per ridefinire i confini stabiliti dagli inglesi e dai francesi dopo la Prima Guerra Mondiale». Attenzione: «Europa, Russia e Cina hanno tutte una percentuale di popolazione musulmana e ora si preoccupano che la violenza che Washington ha scatenato in Medio Oriente possa destabilizzare anche loro stesse».Per di più, il dollaro americano è nei guai: il biglietto verde «è tenuto a galla attraverso la manipolazione del mercato finanziario e Washington sta mettendo sotto pressione i suoi Stati vassalli perché sostengano il valore del dollaro attraverso la stampa delle loro monete e il conseguente acquisto di dollari». Per tenere il dollaro in vita, aggiunge Craig Roberts, larga parte del mondo patirà le conseguenze dell’inflazione: «Quando la gente finalmente lo capirà e correrà a comprare oro, in quel momento ce lo avranno tutto i cinesi». A sentire Sergej Glazyeb, un consigliere del Cremlino, «solo un’alleanza contro il dollaro potrebbe fermare le ambizioni degli Stati Uniti». Anche per Craig Roberts «non ci può essere pace fino a che Washington continua a stampare moneta per finanziare nuove guerre: come ha detto il governo cinese, è tempo di “de-americanizzare il mondo”». Secondo Roberts, la leadership degli Stati Uniti ha completamente fallito, producendo null’altro che bugie, violenze e morte, devastando 7 paesi nel XXI secolo. «A meno che la leadership degli Stati Uniti non venga sostituita con una più a misura d’uomo, la vita sulla Terra non ha futuro».«Nessuno al mondo ha una vera ragione per amare gli Stati Uniti, meno che mai gli stessi americani dissanguati per le pretese di dominio di Washington sul mondo». Mentre 3 russi su 4 vorrebbero che Putin restasse al Cremlino anche dopo il 2018, il tasso di popolarità di Obama scivola al 41%. E l’economia americana traballa: la strombazzata crescita del primo trimestre 2014, di almeno il 2,6% secondo gli economisti mainstream, viene sbriciolata dalla dura realtà, che rivela uno scivolone pari al -2,9%. Non se ne stupisce Paul Craig Roberts, già viceministro del Tesoro di Reagan: «Qualsiasi economista libero e non a libro paga di Wall Street, del governo e dei poteri forti sapeva che il 2,6% era una buffonata». La verità è che «l’economia americana non può crescere perché le multinazionali spinte da Wall Street hanno portato l’economia reale fuori dai confini Usa: tutta la produzione americana è stata trasferita all’estero». E ora – questa la notizia – i poteri forti chiedono a Obama di cessare l’offensiva contro la Russia di Putin, prima che l’America ci rimetta l’osso del collo.
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Sangue e Pil: una guerra mondiale per salvare la crescita
ita – crescita di tutto, compresi i veleni, i disastri, gli sprechi criminali. Lungi anche solo dall’ipotizzare un’economia non più fondata sulla crescita illimitata (non solo “impossibile” ma anche letale per la Terra) il professor Cowen, docente ultra-liberista della George Mason University, sostiene che il mondo di oggi non sia più visitato, come in passato, dalla favolosa opportunità rappresentata dal genocidio bellico.«Alcuni dei recenti titoli di giornale sull’Iraq o il Sud Sudan fanno sembrare il nostro mondo un posto molto cruento – premette Cowen – ma le vittime di oggi impallidiscono alla luce delle decine di milioni di persone uccise nelle due guerre mondiali nella prima metà del XX secolo». La stessa Guerra del Vietnam, aggiunge, ha avuto molti più morti di qualsiasi guerra recente che coinvolga un paese ricco. Ecco il punto: «Il maggior pacificismo del mondo può rendere meno urgente, e quindi meno probabile, il raggiungimento di alti tassi di crescita economica». Nel suo intervento, ripreso da “Zero Hedge” e tradotto da “Come Don Chisciotte”, Cowen sostiene che la semplice possibilità del precipitare verso la guerra «focalizza l’attenzione dei governi su come prendere correttamente alcune decisioni fondamentali», per esempio su come «investire nella scienza o semplicemente liberalizzare l’economia». E questa “attenzione”, di fatto, «finisce per migliorare le prospettive a più lungo termine di una nazione».«Può sembrare ripugnante trovare un lato positivo alla guerra in questo senso», ammette ancora Cowen, deciso però a “rivalutare” fino in fondo la prospettiva del conflitto come volano economico, come fossimo ancora agli albori dell’era del carbone e del petrolio: «Uno sguardo alla storia americana suggerisce che non possiamo respingere l’idea così facilmente». E spiega: «Innovazioni fondamentali come l’energia nucleare, il computer e l’aviazione moderna sono state tutte spinte da un governo americano desideroso di sconfiggere le potenze dell’Asse o, più tardi, di vincere la Guerra Fredda». La stessa rete Internet è stata progettata a scopo militare-strategico, e la Silicon Valley «deve le sue origini alle forniture militari, non alle start-up imprenditoriali di oggi». Tutto merito del lancio del primo Sputnik, il satellite con cui l’Urss sfidò gli Usa mettendosi in pole position nella conquista dello spazio. Proprio lo Sputnik «ha stimolato l’interesse americano nel campo della scienza e della tecnologia, a beneficio della conseguente crescita economica». Piccolo particolare: questo succedeva mezzo secolo fa, quando eravamo 1 miliardo e mezzo anziché 7 e il “terzo mondo” era ancora una sconfinata cassaforte da saccheggiare.La guerra, insiste Cowen, «porta con sé un’urgenza a cui i governi altrimenti non riescono ad appellarsi». Lo conferma la storia del Progetto Manhattan per l’atomica, realizzata in soli sei anni «partendo praticamente dal niente» e coinvolgendo lo 0,4% della produzione economica americana: «In questi giorni è difficile immaginare un risultato così rapido e decisivo». Il dogmatico Cowen cerca alleati, nella sua visione economico-bellicista così consonante con gli Usa di Obama, che provocano la Russia accerchiando la Cina. Secondo Ian Morris, professore di letteratura e storia a Stanford e autore del saggio “Guerra! A che cosa serve?”, che esamina il rapporto tra conflitto e progresso “dai primati ai robot”, la guerra ha sempre aiutato la crescita: prima sotto l’Impero Romano, poi col Rinascimento e infine con la nascita degli Stati Uniti. «Ci sono prove che l’intenzione di prepararsi alla guerra abbia spinto l’invenzione tecnologica e portato anche un certo maggior grado di ordine sociale».Un altro libro, “Guerra e oro, una storia di 500 anni di imperi, avventure e debito”, scritto da un altro conservatore, il deputato britannico Kwasi Kwarteng, si sostiene che la necessità di finanziare le guerre abbia portato i governi a sviluppare le istituzioni monetarie e finanziarie, consentendo l’ascesa dell’Occidente. Una terza indagine sul tema, dossier firmato dagli economisti Chiu Yu Ko, Mark Koyama e Tuan-Hwee Sng, si afferma che l’Europa si è evoluta in modo più frammentario rispetto alla Cina, costretta al centralismo di Pechino per evitare invasioni da ovest. L’accentramento avrebbe fatto arretrare il paese, mentre gli europei avrebbero investito di più in tecnologia e modernizzazione «proprio perché avevano sempre paura di essere conquistati dai vicini loro rivali». Se non altro, concede Cowen, «vivere in un mondo pacifico con una crescita del Pil del 2% ha alcuni grandi vantaggi che non si ottengono con una crescita del 4% e molti più morti in guerra».Per contro, dice ancora l’economista di destra, i nostri antenati non hanno probabilmente mai conosciuto una stagnazione come l’attuale. Errore: fu spaventoso il crollo in cui sprofondò l’Europa, economia compresa, dopo la caduta dell’Impero Romano. Qualcosa del genere potrebbe accadere oggi, se dovesse collassare l’impero americano. Cowen però non è uno storico, ma un economista: e la sua ideologia neoliberale, smentita dai fatti ma più che mai al potere, vede solo un futuro lineare e progressivo, proprio come la leggenda della crescita infinita e l’atroce fiaba dell’austerity espansiva. In attesa di scoprire se l’ipotetico colossale business chiamato Terza Guerra Mondiale sia davvero alle porte – magari innescato a Kiev contro Mosca, o da Israele contro Teheran – Cowen si limita a domandarsi «se la recente diffusione della pace è una semplice bolla temporanea che aspetta solo di essere fatta scoppiare», naturalmente a beneficio di un Pil finanziario ormai controllato da pochissimi super-padroni, forse pronti a lasciare sul terreno i 2 miliardi di morti che un attacco nucleare contro la Russia provocherebbe.L’economia occidentale è in stagnazione da troppo tempo? Niente di meglio che una bella guerra, magari mondiale, per “far ripartire la crescita”. Lo afferma, senza troppi giri di parole, l’economista statunitense Tyler Cowen, allievo della “scuola austriaca” di Friedrick Von Hayek cui si ispirano i famigerati professori europei del rigore, a cominciare dal non rimpianto Mario Monti. Sul “New York Times”, Cowen spiega che solo la guerra è il potente motore dell’economia, anche se purtroppo «il conflitto porta morte e distruzione». Il problema, però, è che la pace non aiuta il Pil, cioè il grossolano indicatore convenzionale di crescita – crescita di tutto, compresi i veleni, i disastri, gli sprechi criminali. Lungi anche solo dall’ipotizzare un’economia non più fondata sulla crescita illimitata (non solo “impossibile” ma anche letale per la Terra) il professor Cowen, docente ultra-liberista della George Mason University, sostiene che il mondo di oggi non sia più visitato, come in passato, dalla favolosa opportunità rappresentata dal genocidio bellico.
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Da Hitler a Bush, dietro la guerra c’è sempre una banca
I banchieri? Sempre stati in costante comunicazione con la Casa Bianca. Non solo riguardo a temi finanziari e di politica economica, ma anche per argomenti molto meno tecnici: prima la Grande Guerra, poi la Seconda Guerra Mondiale, quindi la Guerra Fredda. Scenari esaminati «in termini di piani di espansione politica dell’America come superpotenza mondiale, alimentata dalla sua crescita finanziaria attraverso lo sviluppo della sua comunità bancaria». Parola di Nomi Prins, analista internazionale alla Bear Stearns di Londra e già amministratore delegato della Goldman Sachs. In altre parole: dietro a ogni conflitto c’è sempre una banca, rileva il “Washington’s Blog”. O meglio: c’è la grande famiglia (mondiale, ormai) delle banche, la “comunità bancaria”. Che traffica con la politica, detta le regole, incassa miliardi. E, nel caso, si attrezza per quello che da sempre è il miglior affare in assoluto: la guerra. Anche se il “socio” si chiama Hitler, e il collega americano Bush.Tutto inizia alla vigilia del primo conflitto mondiale, quando la Banca Morgan spinge il neutralista Woodrow Wilson a spedire le truppe in Europa. La Morgan era la più potente banca del tempo, ricorda il blog statunitense, ripreso da “Come Don Chisciotte”, e aveva raccolto oltre il 75% dei finanziamenti per le forze alleate. Voglia di guerra, non importa su che fronte: la National City Bank, che pure lavorava a fianco della Morgan nel rifornire inglesi e francesi, «non si faceva problemi a lavorare anche per finanziare alcune cose sul fronte tedesco, come anche fece la Chase». Molti anni dopo, sotto Eisenhower, il business era quello del sostegno ai paesi considerati a rischio-comunismo. «Quello che fecero i banchieri fu l’insediamento di presidi in zone come Cuba e Beirut in Libano per stabilire roccaforti statunitensi nella Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica: e fu così che finanza e politica estera iniziarono a essere molto ben allineate». Poi, negli anni ’70, sempre i banchieri «scoprirono il petrolio, facendo uno sforzo immane per attivare nuove relazioni in Medio Oriente». In Arabia Saudita «ottennero l’accesso ai petrodollari per poi riciclarli in debiti dell’America Latina e altre forme di prestiti nel resto del mondo», in accordo col governo americano.«La Jp Morgan, inoltre, aveva acquisito il controllo dei 25 principali quotidiani americani». Obiettivo: «Propagandare l’opinione pubblica statunitense pilotandola in favore dell’entrata degli Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale», scrive il “Washington’s Blog”. «E possiamo dirlo: molte grandi banche hanno realmente finanziato i nazisti». Nel 1998, la Bbc riportò la seguente notizia: «La Barclays Bank ha accettato di pagare 3,6 milioni di dollari a favore degli ebrei i cui beni erano stati sequestrati dai rami francesi della banca britannica durante la seconda guerra mondiale». Anche la Chase Manhattan Bank «ha ammesso di aver sequestrato», sempre durante il secondo conflitto mondiale, circa 100 conti intestati ad ebrei nella sua filiale di Parigi. «A quanto pare – scrive “Newsweek” citando il “New York Daily News” – i rapporti tra la Chase e i nazisti erano piuttosto amichevoli, a tal punto che Carlos Niedermann, capo della filiale Chase di Parigi, scrisse al suo supervisore di Manhattan che la banca godeva “di molta stima presso i funzionari tedeschi” e vantava “una rapida crescita dei depositi”».La lettera di Niedermann – precisa il “Washington’s Blog” – fu scritta nel maggio del 1942, ovvero cinque mesi dopo che i giapponesi avevano bombardato Pearl Harbor e che gli Stati Uniti erano entrati in guerra contro la Germania. Una commissione governativa francese, rivela la Bbc, indagando sul sequestro dei conti bancari ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale ha riferito che erano coinvolte cinque banche americane: Chase Manhattan, Jp Morgan, Guaranty Trust Co. di New York, la Banca della città di New York e l’American Express». Secondo il “Guardian”, il senatore Prescott Bush (padre di George Bush e nonno di George W.), «era amministratore e socio in società che trassero largo profitto dal loro coinvolgimento nel finanziare la Germania nazista». La società di “nonno Bush”, aggiunge il “Guardian” sulla base di fonti d’archivio Usa, era «direttamente coinvolta con gli architetti finanziari del nazismo». E i suoi rapporti di affari continuarono fino a che il patrimonio della società fu sequestrato nel 1942 nell’ambito del “Trading with Enemy Act”, la legge americana che sequestrava i beni di chi aveva fatto affari col nemico in tempo di guerra.Alcune recenti ricostruzioni rivelano che attraverso la Bbh (Brown Brothers Harriman), Prescott Bush agì come supporto statunitense per l’industriale tedesco Fritz Thyssen, che contribuì a finanziare Hitler nel 1930 prima di cadere con lui alla fine del decennio. Il “Guardian” sostiene di poter provare che lo stesso Bush sia stato il direttore della Ubc, la Union Banking Corporation di New York, che rappresentava gli interessi di Thyssen negli Stati Uniti, e continuò a lavorare per la banca anche dopo che l’America entrò in guerra. L’Ubc era stata fondata da Harriman e dal suocero di Bush per mettere una banca statunitense al servizio dei Thyssen, la più potente famiglia di industriali della Germania.Alla fine del 1930, la Brown Brothers Harriman, che si considerava la più grande banca privata d’investimento del mondo, e la Ubc, avevano acquisito e trasferito milioni di dollari in oro, petrolio, acciaio, carbone e buoni del tesoro Usa alla Germania, alimentando e finanziando l’ascesa di Hitler fino alla guerra.«Tra il 1931 e il 1933 la Ubc acquisì più di 8 milioni di dollari in oro, di cui 3 milioni inviati all’estero». Anni dopo, la banca «fu colta in flagrante a gestire una società di comodo americana per la famiglia Thyssen otto mesi dopo che l’America era entrata in guerra, e si scoprì che era questa la banca che aveva finanziato in parte l’ascesa di Hitler al potere». Business is business, non importa da che parte si è schierati: «Il “San Francisco Chronicle” documentò che anche Rockefeller, Carnegie e Harriman finanziarono i programmi eugenetici nazisti». Dal “racket della guerra” ai tempi del nazismo, fino ai giorni nostri: «Le grandi banche hanno anche riciclato denaro sporco per i terroristi», aggiunge il “Washington’s Blog”, riferendo la “soffiata” di un bancario sulle operazioni di riciclaggio di denaro per terroristi e cartelli della droga: «La gente deve sapere che il denaro è tuttora convogliato attraverso la Hsbc direttamente verso chi compra le armi ed i proiettili che uccidono i nostri soldati».Banchieri e politica, golpe inclusi: secondo la Bbc, Prescott Bush e la Jp Morgan, con altri investitori importanti, avrebbero anche finanziato un colpo di Stato contro il presidente Roosevelt, nel tentativo di «attuare un regime fascista negli Stati Uniti». Gli americani, scrive Kevin Zeese, «stanno imparando a riconoscere il legame tra il comparto militare-industriale e gli oligarchi di Wall Street, una connessione che risale agli inizi dell’impero americano moderno». Le banche? «Hanno sempre tratto profitto dalla guerra, perché il debito creato dalle banche si traduce in un grasso bottino di guerra per la grande finanza. E perché sono state utilizzate per aprire i paesi esteri agli interessi corporativi e bancari degli Stati Uniti». Ammise William Jennings Bryan, segretario di Stato durante il primo conflitto mondiale: «C’erano grandi interessi bancari legati alla guerra mondiale poiché grandi erano le opportunità di profitto». Il problema: tutelare gli interessi commerciali degli statunitensi, che avevano fortemente investito negli alleati europei. Almeno 2 miliardi e mezzo di dollari dell’epoca, prestati a francesi e inglesi a partire dal 1915. «I banchieri ritennero che, se la Germania avesse vinto la guerra, i loro prestiti agli alleati europei non sarebbero stati rimborsati».Il più grande banchiere statunitense dell’epoca, John Piermont Morgan, fece di tutto per trascinare gli Stati Uniti in guerra a fianco dell’Inghilterra e della Francia, finendo per convincere il presidente Wilson: obiettivo, «proteggere gli investimenti delle banche americane in Europa». Il marine più decorato nella storia, Smedley Butler, dice al “Washington’s Blog” di aver combattuto essenzialmente «per le banche americane». Racconta: «Ho alle spalle 33 anni e 4 mesi di servizio militare attivo e ho trascorso la gran parte di questo tempo a fare il super-soldato per quelli del Big Business, per Wall Street e per tutti i grandi banchieri. In poche parole, sono stato un camorrista, un gangster del capitalismo. Nel 1914 ho aiutato a mettere in sicurezza il Messico e soprattutto Tampico per gli interessi petroliferi degli Stati Uniti. Ho contribuito a rendere Haiti e Cuba dei luoghi decenti per i “ragazzi” della National City Bank; per aiutarli ad arricchirsi ho contribuito allo stupro di una mezza dozzina di repubbliche dell’America Centrale, a beneficio di Wall Street».E ancora: «Dal 1902 al 1912 – continua il soldato Butler – ho aiutato a “purificare” il Nicaragua per la International Banking House dei Brown Brothers. Nel 1916 ho portato alla luce la Repubblica Dominicana per gli interessi americani dello zucchero. Ho aiutato a rendere l’Honduras un posto adeguato per le compagnie frutticole americane nel 1903. In Cina, nel 1927, ho fatto in modo che la Standard Oil passasse indisturbata». Commenta il veterano: «Guardando indietro, avrei potuto dare dei buoni suggerimenti ad Al Capone. Il massimo che è riuscito a fare è stato imporre il suo racket in tre distretti: io l’ho fatto su tre continenti». Nelle sue “Confessioni di un sicario economico”, John Perkins descrive in che modo i prestiti della Banca Mondiale e del Fmi sono utilizzati per generare profitti per le imprese statunitensi e debiti enormi per i paesi in difficoltà, consentendo così agli Stati Uniti di poterli facilmente controllare.«Non è una sorpresa che ex ufficiali come Robert McNamara e Paul Wolfowitz abbiano continuato a dirigere la Banca Mondiale», rileva il “Washington’s Blog”. «Il debito di questi paesi verso le banche internazionali assicura agli Stati Uniti il loro controllo, forzandoli in un certo senso ad entrare nella “coalizione dei volenterosi”, quella che ha contribuito attivamente all’invasione dell’Iraq, o ad acconsentire all’insediamento nel loro territorio di basi militari statunitensi». Piccolo dettaglio: «Se quei paesi si rifiutassero di “onorare” i loro debiti, la Cia o il Dipartimento della Difesa farebbero in modo da fargli rispettare la volontà politica degli Usa, provocando colpi di Stato o compiendo azioni militari». Unica consolazione, per dirla col blog: «Sono sempre più numerose, ormai, le persone coscienti della stretta connessione tra il mondo bancario e il mondo bellico». Oggi, l’orizzonte delle armi americane si spinge ad Oriente, dalla Russia alla Cina, dove si sta dislocando la forza di proiezione navale statunitense. Qualcuno, a Wall Street, avrà già fatto i suoi piani. Ai dettagli, poi, penseranno Obama, Biden, Kerry e le altre comparse della politica.I banchieri? Sempre stati in costante comunicazione con la Casa Bianca. Non solo riguardo a temi finanziari e di politica economica, ma anche per argomenti molto meno tecnici: prima la Grande Guerra, poi la Seconda Guerra Mondiale, quindi la Guerra Fredda. Scenari esaminati «in termini di piani di espansione politica dell’America come superpotenza mondiale, alimentata dalla sua crescita finanziaria attraverso lo sviluppo della sua comunità bancaria». Parola di Nomi Prins, analista internazionale alla Bear Stearns di Londra e già amministratore delegato della Goldman Sachs. In altre parole: dietro a ogni conflitto c’è sempre una banca, rileva il “Washington’s Blog”. O meglio: c’è la grande famiglia (mondiale, ormai) delle banche, la “comunità bancaria”. Che traffica con la politica, detta le regole, incassa miliardi. E, nel caso, si attrezza per quello che da sempre è il miglior affare in assoluto: la guerra. Anche se il “socio” si chiama Hitler, e il collega americano Bush.
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L’oro alla patria: costretti a cedere i gioielli di famiglia
Grazie ad una miracolosa operazione di trasparenza sul giro d’affari dei “Compro Oro”, è stato svelato al Senato che gli italiani, nel biennio 2011-2012, hanno svenduto ai tanti negozietti appositi circa 300 tonnellate di oro e preziosi, per un totale di 14 miliardi di euro. Cifra enorme, equivalente alla finanziaria del 2013: «Le famiglie italiane si sono fatte una finanziaria da sole», commenta Debora Billi. «Io lo trovo assolutamente vergognoso. Trovo indegno di un paese civile (nota frase abusata dai politici in campagna elettorale) che i cittadini siano ridotti a vendersi l’oro in quantitativi industriali per riuscire a tirare avanti. E’ una cosa da vomito. In un certo senso, hanno dato l’oro alla patria. Hanno tirato la fine del mese da soli, mentre il loro paese era occupato a dirottare i soldi delle tasse verso gli interessi sul debito anziché provvedere a chi si trovava in difficoltà come sarebbe compito di una comunità. Chissà, forse “ce lo chiede l’Europa”».
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Col Dottor Stranamore, l’austerity estesa fino al Don
Se la Germania impone anche all’Ucraina la super-austerità della Troika, la guerra con la Russia sarebbe alle porte: il malessere sociale infatti farebbe letteralmente esplodere le regioni russofone dell’est, come quella di Donetsk, le più avanzate e industrializzate, popolate da milioni di russi. Lo afferma l’economista Joseph Halevi, allarmato per le dichiarazioni di un super-falco come il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, secondo cui il programma di rigore che ha ucciso la Grecia dev’essere esteso all’Ucraina. Una pazzia da Dottor Stranamore, dice Halevi: la politica di Schäuble, che vuole «estendere l’austerità fino al Don», di fatto «implica una guerra con la Russia», perché «l’ultra-catastrofe economica» provocherebbe sofferenze che «verrebbero imputate a Mosca, con estrema virulenza, dal governo di Kiev appoggiato da Usa, Nato e Ue». Tutto questo, mentre la Bank of England ha appena demolito la teoria del rigore, “ammettendo” che le banche creano moneta dal nulla, «cioè non la scavano da qualche miniera, né la pompano da qualche giacimento».Non esistono dunque vincoli monetari, sottolinea Halevi: «Scuole, ospedali, ferrovie, pensioni, università e ricerca possono essere finanziate senza vincoli di bilancio». La banca centrale può sempre convalidare qualsiasi richiesta da parte del Tesoro, emettendo moneta per sostenere debito e deficit pubblici. Gli unici vincoli? Quelli reali, che dipendono dalle capacità produttive esistenti e utilizzabili. Ma senza più totem come quello del 3%. E’ ovvio, continua Halevi, che se alla banca centrale – in questo caso la Bce – viene impedito di alimentare i necessari flussi monetari, il circuito economico va in crisi. Verità notissime e persino banali, eppure fino a ieri taciute, un po’ come accadeva «durante l’età di Galileo Galilei, quando per la navigazione oceanica verso le Americhe la Chiesa permetteva l’uso da parte della Spagna della concezione copernicana della Terra, mentre in Europa, in Italia in particolare, imponeva la visione tolemaica, bruciando chi la confutava pubblicamente». Le ammissioni ufficiali della Banca d’Inghilterra sono dunque «un’ulteriore ragione per non dare alcun credito all’Ue», quando impone di tagliare la spesa perché “non ci sono soldi”.Il dramma, osserva Halevi, è che l’Unione Europea è una struttura burocratica non responsabile, non elettiva, non democratica. Bisognerebbe «cambiarne le fondamenta», il che implicherebbe «demolire e rifare la costruzione che su queste poggia». Peccato si vada nella direzione opposta: già prima di Mitterrand, sostiene Halevi, la Francia «ha preceduto Bruxelles di parecchi anni», con un turbo-presidenzialismo che ora, con Hollande, ha sottratto all’Assemblea Nazionale il controllo parlamentare della finanza pubblica, demandato all’Alta Autorità sulla spesa pubblica e il debito, creata dall’Eliseo. Elezioni sempre più inutili anche in Italia, dove «la dimensione extra-parlamentare del sistema di governo cresce a vista d’occhio». Il paese europeo che meglio riesce a difendere il suo ordinamento democratico è proprio la Germania: la sua politica potrà non piacere, ma certo rispetta – al contrario dell’Ue – la volontà popolare.Il guaio è che a Berlino oggi siedono ministri come Schäuble, sostenuti da ultra-conservatori che sognano una “moneta fissa” (ancora più rigida dell’oro) e influenti economisti come Werner Sinn, secondo cui l’export tedesco è «un sacrificio», anziché una fonte colossale di profitto per il grande capitale tedesco. Il conservatorismo economico, conclude Halevi, produce un pericoloso cortocircuito – sia il rigore che Schäuble impone all’Europa attraverso la Troika, sia la concezione del surplus di Sinn. «Ne consegue – scrive Halevi – che è estremamente importante assorbire ciò che hanno scritto gli economisti della Bank of England», i quali «non partono da una visione normativa, bensì analizzano come effettivamente funzionano la moneta e il sistema bancario, arrivando ad affermare cose che in Italia si trovavano già in Augusto Graziani», il grande economista napoletano, maestro di Emiliano Brancaccio. Se non altro, ora «la verità è venuta a galla», come ha affermato il “Guardian”: «A galla per il pubblico», certo, «ed è ciò che conta». Il testo della Banca d’Inghilterra «costituisce un’importante base di partenza per pensare se e – eventualmente – come rifare le fondamenta» dell’Unione Europea. Prima che i “Dottor Stranamore” – di Berlino e della Nato – arrivino davvero sulle rive del Don.Se la Germania impone anche all’Ucraina la super-austerità della Troika, la guerra con la Russia sarebbe alle porte: il malessere sociale infatti farebbe letteralmente esplodere le regioni russofone dell’est, come quella di Donetsk, le più avanzate e industrializzate, popolate da milioni di russi. Lo afferma l’economista Joseph Halevi, allarmato per le dichiarazioni di un super-falco come il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, secondo cui il programma di rigore che ha ucciso la Grecia dev’essere esteso all’Ucraina. Una pazzia da Dottor Stranamore, dice Halevi: la politica di Schäuble, che vuole «estendere l’austerità fino al Don», di fatto «implica una guerra con la Russia», perché «l’ultra-catastrofe economica» provocherebbe sofferenze che «verrebbero imputate a Mosca, con estrema virulenza, dal governo di Kiev appoggiato da Usa, Nato e Ue». Tutto questo, mentre la Bank of England ha appena demolito la teoria del rigore, “ammettendo” che le banche creano moneta dal nulla, «cioè non la scavano da qualche miniera, né la pompano da qualche giacimento».
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Russia isolata? No, più vicina alla Cina. E addio dollaro
La crisi in Ucraina, sollecitata dagli Usa coinvolgendo l’Europa, finirà con l’accelerare in modo decisivo le relazioni strategiche tra Mosca e Pechino, cioè tra la superpotenza delle risorse naturali e quella del capitale e del lavoro. «Mentre l’Europa sta cercando disperatamente di trovare delle fonti energetiche alternative, nel caso la Gazprom dovesse bloccare le esportazioni di gas naturale verso la Germania e l’Europa», osserva il blog “Zero Hedge”, la Russia sta preparando l’annuncio-chiave del commercio energetico, cioè la nascita dell’asse preferenziale con la Cina. «Una mossa che causerebbe onde d’urto geopolitiche in tutto il mondo»: getterebbe le basi «per una nuova valuta di riserva, in grado di aggirare il dollaro». La Russia, come ventilato, potrebbe astenersi dal chiedere prestiti esteri, già nel corso di quest’anno. La grande corsa verso la Cina, a quanto pare, è cominciata.Tradotto in parole semplici, riassume “Zero Hedge” in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, significa che Mosca «potrebbe fare a meno degli acquisti occidentali di debito russo», a loro volta finanziati dagli acquisti cinesi di T-bonds statunitensi, e andare «direttamente alla fonte», ovvero la Cina. E’ questo che intende Mosca quando dice che le sanzioni per l’annessione della Crimea sarebbero «controproducenti». Chiaro il messaggio proveniente dalla Rosneft: se l’Europa e gli Stati Uniti dovessero isolare la Russia, Mosca cercherà nuovi affari, accordi energetici, contratti militari e alleanze politiche ad Oriente. Già per maggio si attende che Putin, in visita in Cina, firmi l’accordo per il super-gasdotto destinato a collegare la Russia con Pechino, sostituendo così l’Occidente come “grande cliente”. Già a partire dal 2018, la Gazprom spera di pompare 38 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno verso la Cina.«Quello che è dolorosamente evidente a tutti», aggiunge il blog, è che «più peggiorano le relazioni della Russia con l’Occidente, più la Russia vorrà averne di buone con la Cina». A questo si aggiungono gli scambi bilaterali denominati sia in rubli che in renminbi (o in oro) con paesi come Iran e India. Presto toccherà anche all’Arabia Saudita, il maggior fornitore di greggio per la Cina: il principe ereditario ha appena incontrato il presidente Xi Jinping per espandere ulteriormente i commerci. «Possiamo cominciare a dire addio ai petrodollari», ipotizza “Zero Hedge”. Per il leader di Pechino, l’asse con Mosca «sarebbe utile ad entrambi i paesi, come contrappeso agli Stati Uniti». Quest’anno, inoltre, la Cina ha superato la Germania come più grande acquirente di petrolio russo, grazie alla Rosneft, che ha aumentato le forniture di petrolio verso est, attraverso il gasdotto che unisce la Siberia Orientale all’Oceano Pacifico, e quello che attraversa il Kazakhstan.«Se Mosca fosse isolata da un nuovo round di sanzioni occidentali – continua “Zero Hedge” – Russia e Cina potrebbero rafforzare la cooperazione anche in altri settori, oltre all’energia. La crescita dei rapporti bilaterali include investimenti strategici nelle infrastrutture ma anche forniture militari, come quella per i caccia Sukhoi Su-35. Un declino del commercio con l’Occidente potrebbe costringere Mosca ad abbandonare alcune delle sue riserve sugli investimenti cinesi nei settori strategici. Il volume del commercio russo-cinese è cresciuto del 8,2% nel 2013, raggiungendo quota 8,1 miliardi di dollari, ma la Russia lo scorso anno era ancora solo il settimo più grande partner cinese per le esportazioni, e non era tra i primi 10 paesi per le merci importate. E’ l’Unione Europea il principale partner economico della Russia, e ancora oggi rappresenta quasi la metà di tutto il suo fatturato commerciale.«E se spingere la Russia verso un caldo abbraccio con la nazione più popolosa del mondo non fosse ancora abbastanza, c’è anche a disposizione il secondo paese più popoloso del mondo, l’India». Putin, in effetti, non ha perso tempo: non si è limitato a rigraziare la Cina per la “comprensione” dimostrata col voto non contrario, all’Onu, sull’annessione della Crimea, ma si è affrettato a riconoscere anche la “moderazione e obiettività” dell’India, intavolando relazioni col premier Manmohan Singh sulla possibilità di sviluppare accordi con un paese non-allineato come l’India. Per l’editore del quotidiano “The Hindu”, autorevole voce dell’establishment di New Delhi, sulla Crimea «la Russia ha degli interessi legittimi». Così, «mentre il più grande spostamento geopolitico dai tempi della Guerra Fredda sta accelerando, con l’inevitabile consolidamento dell’“asse asiatico”», per “Zero Hedge” l’Occidente «monetizza il suo debito e si crogiola nella ricchezza di carta creata da un mercato azionario fortemente manipolato», mentre la propria economia si indebolisce e il futuro svolta verso Oriente.La crisi in Ucraina, sollecitata dagli Usa coinvolgendo l’Europa, finirà con l’accelerare in modo decisivo le relazioni strategiche tra Mosca e Pechino, cioè tra la superpotenza delle risorse naturali e quella del capitale e del lavoro. «Mentre l’Europa sta cercando disperatamente di trovare delle fonti energetiche alternative, nel caso la Gazprom dovesse bloccare le esportazioni di gas naturale verso la Germania e l’Europa», osserva il blog “Zero Hedge”, la Russia sta preparando l’annuncio-chiave del commercio energetico, cioè la nascita dell’asse preferenziale con la Cina. «Una mossa che causerebbe onde d’urto geopolitiche in tutto il mondo»: getterebbe le basi «per una nuova valuta di riserva, in grado di aggirare il dollaro». La Russia, come ventilato, potrebbe astenersi dal chiedere prestiti esteri, già nel corso di quest’anno. La grande corsa verso la Cina, a quanto pare, è cominciata.
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Ucraina, non solo gas: le mani sull’ex granaio di Russia
Tutti parlano – giustamente – della “guerra del gas” che ieri opponeva il Cremlino a Kiev e che domani potrebbe armare il pericoloso braccio di ferro tra Putin e Obama sull’approvvigionamento energetico dell’Europa. Ma, senza dimenticare le immense riserve del sottosuolo ucraino, pari a 39 trilioni di metri cubi di gas non ancora estratto, e sul quale la Chevron firmò un contratto da 10 miliardi di dollari già all’epoca di George W. Bush, sono in pochi a parlare dell’altro immenso tesoro del paese orientale: il grano. L’Ucraina, ricorda Alfredo Jalife-Rahme, è il terzo produttore mondiale di frumento, insieme all’Australia, dopo Stati Uniti e Argentina. Quella che potrebbe andare in scena è dunque anche la prima “guerra del grano” del terzo millennio. «La trasformazione dei prodotti alimentari è un importante segmento nell’economia ucraina: un lavoratore su quattro è impiegato nel settore agricolo o forestale». Grazie alla sua prateria fertile e ricchissima di sostanza organica, perfetta per coltivare grano e orzo ma anche segale, avena, girasole e barbabietola è «il granaio di Russia ed Europa».Le “guerre del grano” esistono, eccome, ricorda Jalife-Rahme in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”: «Si potrebbe sostenere che altre guerre per il grano e i cereali sono in atto in forma occulta tanto in Sudan quanto in Argentina». Il Sudan, «leggendario fienile d’Africa», è stato «ridotto a un continuo disordine politico con l’emergenza del Sud Sudan, ricco di petrolio, cosa che ha attirato gli interessi di Stati Uniti e Israele». E l’Argentina, potenza ceralicola fin dall’inizio del ventesimo secolo, «sta soffrendo una brutale guerra multidimensionale, specificatamente nel suo molto vulnerabile sistema finanziario controllato dall’accoppiata Stati Uniti-Inghilterra, con mire sulla Patagonia, il più grande granaio sudamericano». Sul Mar Nero – quello in cui si protende la Crimea – si affacciano invece i porti attraverso cui l’Ucraina esporta i suoi cereali. Secondo il governo di Kiev, più del 50% dell’economia della Crimea dipende dalla produzione e dalla distribuzione alimentare.Il World Fact Book della Cia dichiara che l’Ucraina produceva il 25% delle esportazioni agricole dell’Urss, mentre oggi esporta sostanziali quantità di grano, il cui valore è esploso durante la delicata crisi di cambio di regime pro-Fmi a Kiev, che ha suscitato la reazione russa in Crimea. Le esportazioni agricole dell’Ucraina sono dirette al 20% in Russia e al 17% in Europa; seguono Cina, Turchia e Stati Uniti. Il “Financial Times” ricorda che sono state fatte guerre tra Russia, Polonia e l’Impero Ottomano per il controllo del prezioso “chernozem”, la prateria fertile dell’Ucraina. Nel 2011 l’Ucraina ha ottenuto un raccolto record di 57 milioni di tonnellate. Secondo la Berd, la Banca per la Ricostruzione e Sviluppo in Europa, le adeguate trasformazioni e applicazioni delle nuove tecnologie nell’agricoltura ucraina potrebbero duplicare la produzione di grano già nella prossima decade.Nell’ultimo decennio, scommettendo sull’enorme potenziale agricolo dell’Ucraina, molte delle sei multinazionali del cartello anglosassone che controlla il grano e i cereali (tra cui Cargill, Adm e Bunge, in pieno accordo con Nestlè e Kraft) hanno investito miliardi di dollari. Anche la temibile Monsanto, aggiunge Jalife-Rahme, si è messa in coda per il “chernozem” ucraino assieme alla DuPont Pioneer. «Oggi l’Ucraina ottiene 12 miliardi di dollari dalle sue esportazioni di grano e cereali e dalla sua particolare partnership commerciale con l’Europa», che ovviamente – insieme agli Usa – ha “acceso la miccia” della crisi a Kiev. «L’interesse ad incorporare l’Ucraina nel mercato europeo includeva l’obiettivo ad avere un “supermercato del pane e carne” in Europa mediante una maggiore disponibilità ad affittare o vendere i suoi terreni fertili».L’analista australiana Anna Vidot considera che la scalata all’Ucraina possa avere un impatto significativo nei mercati mondiali del grano. Washington stima che l’Ucraina fornisca il 16% del totale mondiale di mais e grano, la maggior parte del quale passa per il porto di Sebastopoli, in Crimea, sede della flotta russa nel Mar Nero, in una penisola che vanta abbondanti riserve marine di gas naturale. «La realtà è che la balcanizzazione di questo paese comporta come corollario la frattura catastale delle sue riserve di shale gas e del suo grano». I prezzi schizzano rapidamente alle stelle: «La corsa alla conquista della Crimea ha portato già ad un aumento del 40% del petrolio, dell’oro e del grano», conclude Jalife-Rahme. E avverte: «Gli incroci geopolitici per gli idrocarburi, il grano e i cereali sono soliti essere spesso tragici».Tutti parlano – giustamente – della “guerra del gas” che ieri opponeva il Cremlino a Kiev e che domani potrebbe armare il pericoloso braccio di ferro tra Putin e Obama sull’approvvigionamento energetico dell’Europa. Ma, senza dimenticare le immense riserve del sottosuolo ucraino, pari a 39 trilioni di metri cubi di gas non ancora estratto, e sul quale la Chevron firmò un contratto da 10 miliardi di dollari già all’epoca di George W. Bush, sono in pochi a parlare dell’altro immenso tesoro del paese orientale: il grano. L’Ucraina, ricorda l’analista economico messicano Alfredo Jalife-Rahme, è il terzo produttore mondiale di frumento, insieme all’Australia, dopo Stati Uniti e Argentina. Quella che potrebbe andare in scena è dunque anche la prima “guerra del grano” del terzo millennio. «La trasformazione dei prodotti alimentari è un importante segmento nell’economia ucraina: un lavoratore su quattro è impiegato nel settore agricolo o forestale». Grazie alla sua prateria fertile e ricchissima di sostanza organica, perfetta per coltivare grano e orzo ma anche segale, avena, girasole e barbabietola è «il granaio di Russia ed Europa».
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Piano Usa: guerra in Europa, prima che crolli il dollaro
«C’è l’intento del Pentagono di colpire la Russia prima del collasso planetario del dollaro». In questa chiave Carlo Tia inquadra i drammatici sviluppi che oppongono Mosca e Washington in Ucraina. «Gli scambi tra la Cina e la Russia sono ormai in yuan, fra la Cina e l’Iran in oro», scrive Tia su “Megachip”. «La stessa Cina si sta liberando di circa 50 miliardi di dollari al mese – trasformati in obbligazioni “ricomprate” forzosamente dal Belgio, non si sa esattamente da chi – per sostenere il dollaro (più esattamente, i petrodollari). Lo stesso George Soros sta pesantemente speculando al ribasso a Wall Street. Sono tutti segni di una prossima depressione mondiale, da cui forse gli Stati Uniti potrebbero uscire solo con una prolungata guerra in Europa». A conferma del “pilotaggio” della crisi esplosa a Kiev, lo scoop del “Giornale”: in una telefonata alla “ambasciatrice” dell’Ue, Catherine Ashton, il ministro degli esteri dell’Estonia, Urmas Paet, dice che i cecchini che hanno sparato sulla folla di piazza Maidan non erano uomini di Yanukovich ma probabilmente «della coalizione appoggiata dall’Occidente».Resta la domanda: perché gli europei non si sono resi conto della trappola mortale tesa a loro dagli Usa? E’ ormai chiaro, sostiene Tia, che secondo i piani dei registi delle Ong operanti in Ucraina (gente del calibro di George Soros e Zbigniew Brzezinski) è contemplata una guerra civile fra i russofoni dell’est e gli ucraini dell’ovest. «Pochissimi media occidentali – continua Tia – hanno trasmesso la registrazione trapelata del colloquio di Victoria Nuland, incaricata Usa della cura dei rapporti diplomatici con Europa ed Eurasia, con l’ambasciatore statunitense in Ucraina». La Nuland disponeva e comandava la composizione del nuovo governo di Kiev dopo aver cacciato Yanukovich, presidente pessimo ma regolarmente eletto. La “strategia della tensione” innescata a Kiev darebbe agli Usa e alla Nato «il pretesto di intervenire per “pacificare” l’Ucraina, stabilirsi minacciosamente nel Mar Nero e proiettarsi sempre di più nel Caucaso e verso il Mar Caspio, ricchissimo di risorse petrolifere e di gas».Grazie alle nuove tecnologie di “fracking”, aggiunge Tia, la stessa Ucraina è diventata nel giro di pochi anni un campo d’interesse primario per esplorazioni e sfruttamento di nuove aree. Lo sviluppo di simili giacimenti (specie da parte di compagnie nordamericane) insidia direttamente la posizione dominante russa di Gazprom. Molto evidente anche la volontà di colpire la Cina, che in questa crisi è schierata con Putin: «I cinesi – rivela l’analista di Megachip – hanno di recente acquistato diritti di sfruttamento agricolo su circa 6 milioni di ettari di terre ucraine coltivabili. Cosa che ha fatto venire il sangue alla testa alla Monsanto e affini. Dico “aveva”, perché il governo fantoccio messo su dagli americani ha revocato subito i diritti concessi l’anno scorso ai cinesi». Per Carlo Tia, il rischio concreto è drammatico: «I meccanismi della guerra sono innescati. Se dovesse fare fino in fondo la sua corsa il gioco automatico delle alleanze, fra non molti giorni ci troveremo in guerra».Nel piano bellico, secondo Tia, si collocano anche le dotazioni del Muos in Sicilia, l’installazione di scudi antimissile in Polonia, l’apertura di basi americane in Romania e Bulgaria, senza contare la Turchia, membro della Nato, che controlla gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli. Il governo di Ankara ha appena concesso a una grande nave da guerra Usa di entrare nel Mar Nero, in violazione della Convenzione di Montreaux, mentre ad Atene c’è una presenza navale ancora più pesante, la portaerei “George Bush”. Secondo la Russia, la convenzione che vieta l’ingresso nel Mar Nero di navi da guerra non appartenenti a paesi affacciati su quel mare, è già avvenuta in questi giorni con la comparsa della fregata statunitense “Taylor” e della “Mount Whitney”, nave-comando della Sesta Flotta».Da questa crisi, è evidente, l’Europa ha tutto da perdere. Perché allora asseconda l’offensiva statunitense alla frontiera russa? «La Germania – scrive Tia – ha abboccato all’amo di una espansione verso un mercato ucraino di 46 milioni e mezzo di abitanti, previa distruzione del modello di economia sociale di mercato dell’Ucraina, e della sua industria, soprattutto all’est del Paese». E la Francia di François Hollande «è stata pesantemente minacciata a partire dal dossier iraniano nel corso del recente viaggio del presidente francese a Washington». Bocciata, di fatto, la missione a Teheran condotta da 140 grandi industriali francesi, «che avevano creduto al clima (fasullo) di buoni nuovi rapporti con l’Iran». Motivo: «Obama ha detto senza peli sulla lingua che tutte le relazioni della Francia (e dell’Europa) devono rispettare non solo le sanzioni che non sono ancora state tolte, ma anche quelle, soprattutto commerciali e finanziarie, che gli Usa dettano unilateralmente».Un gioco pericoloso, che potrebbe chiamarsi Terza Guerra Mondiale, se gli Usa faranno precipitare la situazione con l’adesione dell’Ucraina all’Ue, spingendo i missili della Nato fino ai confini con la Russia. «La Cina, da parte sua, ben sapendo di essere il prossimo obiettivo, ha dichiarato di sostenere la Russia, ed è comunque sotto attacco, sia finanziariamente sia economicamente: il piano americano attuale consiste nel far deragliare l’economia cinese e poi destabilizzarla nelle regioni occidentali, che saranno, per la Cina, l’equivalente dell’Ucraina per la Russia». Di fatto, aggiunge Tia, il mondo si sta avviando ad una bipolarizzazione molto pericolosa: Cina e Russia da un lato, Stati Uniti e Europa al suo guinzaglio dall’altro lato. «È questa una tappa del disegno di dominio planetario degli Usa: ricreare un clima di tensione continua, di fronte alla quale gli europei non potranno che compattarsi attorno allo Zio Sam, per non buttarsi nelle braccia dell’altro blocco».«C’è l’intento del Pentagono di colpire la Russia prima del collasso planetario del dollaro». In questa chiave Carlo Tia inquadra i drammatici sviluppi che oppongono Mosca e Washington in Ucraina. «Gli scambi tra la Cina e la Russia sono ormai in yuan, fra la Cina e l’Iran in oro», scrive Tia su “Megachip”. «La stessa Cina si sta liberando di circa 50 miliardi di dollari al mese – trasformati in obbligazioni “ricomprate” forzosamente dal Belgio, non si sa esattamente da chi – per sostenere il dollaro (più esattamente, i petrodollari). Lo stesso George Soros sta pesantemente speculando al ribasso a Wall Street. Sono tutti segni di una prossima depressione mondiale, da cui forse gli Stati Uniti potrebbero uscire solo con una prolungata guerra in Europa». A conferma del “pilotaggio” della crisi esplosa a Kiev, lo scoop del “Giornale”: in una telefonata alla “ambasciatrice” dell’Ue, Catherine Ashton, il ministro degli esteri dell’Estonia, Urmas Paet, dice che i cecchini che hanno sparato sulla folla di piazza Maidan non erano uomini di Yanukovich ma probabilmente «della coalizione appoggiata dall’Occidente».
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Bankitalia? Ci vendono alla Germania, e la Cgil zitta
Tutti ricordiamo il tormentone Imu sì-Imu no, una bolla mediatica che ha accompagnato la vita politica istituzionale per metà 2013. È stato sostituto, sempre con Silvio protagonista (complimenti, anche vicino al sarcofago riesce a condizionare i nanerottoli politici di via del Nazareno) dall’altra bolla mediatica, quella della legge elettorale. Bene, immaginate che casino succederebbe se qualcuno grosso, qualcuno di importante, volesse imporre una bella patrimoniale, di quelle toste. Già, immaginate il coro dei Roberto Speranza, uno che la parte l’ha imparata presto (“irresponsabile”, “populista” etc), e i sottili distinguo dei sindacalisti gialli Camusso e Landini sulla patrimoniale. Il problema, non proprio leggerino, è che la proposta di una forte patrimoniale per l’Italia, sempre per il rigore dei conti pubblici, non l’ha avanzata qualche populista ma la Bundesbank. Eh sì. Era in prima pagina due giorni fa sulla “Handelsblatt” e su “Die Welt”, edizione online di entrambe le testate.Così, mentre le prime pagine dei giornali italiani sono rigonfie di cose inutili, la banca centrale del principale paese dell’Eurozona ha chiesto per noi una bella stangata (non esiste legge elettorale che risolva il problema della rappresentanza e dei processi decisionali. Ma da prima dello scioglimento del Pci i “riformisti” hanno provato questa droga del politico detta “legge elettorale”, e non hanno più smesso…). D’altronde, con un’economia paralizzata cosa credete che voglia il grande fondo estero, come garanzia, per comprare i nostri titoli? Ma i nostri patrimoni! Grandi e piccoli che siano, basta non averli alle Cayman (come lo sponsor di Renzi). Così vuole la Bundesbank. E che rapporto c’è tra queste necessità della Bundesbank e il decreto Imu-Bankitalia presentato furbescamente alla televisione e alle Camere?Se qualcuno crede che le comparsate della Boldrini servano per garantire il rispetto alle istituzioni, viva il suo Nirvana e non proceda oltre nella lettura. Sennò ascolti un dettaglio. Prima di tutto mettere l’Imu nel decreto è costruire un cavallo di Troia (absit injuria verbis) per far passare tre perle: 1) L’aumento dell’acconto Ires; 2) La “sanatoria” sul gioco d’azzardo, che è un regalone a tutte le agenzie che dovevano somme astronomiche allo Stato; 3) La sterilizzazione del potere di veto del ministero dei beni culturali e (sic) del ministero dell’ambiente sulle dismissioni (e vai con nuovi ecomostri). E qui arriva la perlona contenuta nel decreto Imu che prende anche il nome del gioiello, diventando decreto Imu-Bankitalia. Cosa prevede il gioiello?1) La legittimazione della proprietà privata dell’ente che solo nominalmente resterà pubblico (nomina del governatore, vero Re Pipino della situazione); 2) L’impossibilità del potere pubblico di poter dire alcunché sulla compravendita delle quote di Bankitalia (quindi se qualcuno o qualcosa che ha interessi che non coincidono con quello nazionale prende piede in Bankitalia, il pubblico non può porre veti. Solo per questo Napolitano meriterebbe l’impeachment, altro che…); 3) Si apre legalmente la strada ad un patto di sindacato, esplicito o occulto, dove una serie di soggetti finanziari che entrano nelle banche italiane fanno cosa gli pare di Bankitalia (guarda caso tre giorni fa qualcuno ha fatto la spesa con i titoli bancari italiani che sono andati anche a -16 in una seduta).4) Le privatizzazioni possono essere pilotate da questo patto di sindacato ormai legittimabile da questo decreto (vedi vicenda Cassa depositi e prestiti); 5) Il patto di sindacato (cioè l’insieme delle regole volte a determinare l’assetto della proprietà di una società), possibile e sostenibile da hedge fund che hanno un portafogli largo quanto il nostro Pil, può a questo punto controllare l’oro di Bankitalia a sostegno dell’euro. Proprio come desidera la Bundesbank. E ce la vedete questa nuova Bankitalia, in mano a tutti fuorché all’Italia, opporsi nel caso alla patrimoniale come desiderata dalla Bundesbank? «Ragàssi» – avrebbe detto il povero Bersani – «Sciamo in Europa…».A questo punto anche un elettore di centrosinistra, cioè uno che in politica fa uso di droghe nemmeno tanto leggere, capisce la verità. Che la “crescita” non esiste, non ci sarà. Ma solo un periodo di estrazione di risorse da questo paese. Fino a quando non ci sarà nulla da estrarre e i nostri giovani accetteranno salari da 250 euro il mese, competitivi con l’Ucraina che spinge per entrare in Europa a costo della guerra civile, facendosi prendere per fame. In un paese dai prezzi tedeschi causa tasse e balzelli. Tutto questo ha un nome nei manuali di concorrenza economica. Si chiama strategia del “Beggar thy neighbour”. Ovvero: porta il tuo vicino a mendicare. Ci guadagnerai un sacco. Specie se nel paese del tuo vicino ci sarà qualche servo che dà del populista e dell’irresponsabile a chi si opppone al saccheggio (link: “Bankitalia, una privatizzazione che incatena l’Italia all’euro”). La proposta della patrimoniale della Bundesbank è all’opposto della patrimoniale “de sinistra”. Si tratta semplicemente di tassare e spedire in Germania. “Prima” deportavano uomini e ricchezze e mettevano tutto nei vagoni piombati. Ora sono solo interessati alle ricchezze, ma senza disturbare il traffico ferroviario.(“La gravissima vicenda della privatizzazione di Bankitalia”, da “Senza Soste” del 30 gennaio 2014).Tutti ricordiamo il tormentone Imu sì-Imu no, una bolla mediatica che ha accompagnato la vita politica istituzionale per metà 2013. È stato sostituto, sempre con Silvio protagonista (complimenti, anche vicino al sarcofago riesce a condizionare i nanerottoli politici di via del Nazareno) dall’altra bolla mediatica, quella della legge elettorale. Bene, immaginate che casino succederebbe se qualcuno grosso, qualcuno di importante, volesse imporre una bella patrimoniale, di quelle toste. Già, immaginate il coro dei Roberto Speranza, uno che la parte l’ha imparata presto (“irresponsabile”, “populista” etc), e i sottili distinguo dei sindacalisti gialli Camusso e Landini sulla patrimoniale. Il problema, non proprio leggerino, è che la proposta di una forte patrimoniale per l’Italia, sempre per il rigore dei conti pubblici, non l’ha avanzata qualche populista ma la Bundesbank. Eh sì. Era in prima pagina due giorni fa sulla “Handelsblatt” e su “Die Welt”, edizione online di entrambe le testate.
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Brancaccio: disastro, la sinistra non osa uscire dall’euro
Uscire dall’euro: sì, ma “da sinistra”. Ipotesi probabilmente richiamata dallo stesso ex viceministro dell’economia, Stefano Fassina, quando ha parlato di un “Piano B” in caso di fallimento del semestre europeo a guida italiana. Minacciare di mollare la moneta della Bce se non si allenta la morsa del rigore? Se il Pd di Renzi non si esprime, il centrodestra si è ormai convertito all’euroscetticismo. Si dice che Berlusconi volesse uscire dall’euro già nel 2011, mentre la Lega sostiene l’abbandono della moneta unica in modo ancora più esplicito. Anche il M5S accarezza questi temi. Attenzione: «Se sommiamo i consensi al centrodestra e quelli al M5S scopriamo che in Italia esiste già una potenziale maggioranza anti-euro», avverte l’economista Emiliano Brancaccio. Secondo il quale l’addio all’Eurozona è ormai inevitabile, ma a precise condizioni: intervento pubblico sulle banche, tutela dei salari e limiti alla circolazione dei capitali per proteggere le aziende (che si svaluterebbero di colpo) dal rischio di essere comprate per quattro soldi.Il professor Brancaccio, docente all’università del Sannio (Benevento), ne riparla con Alessandro D’Amato su “Giornalettismo”, a sette anni di distanza dal primo profetico allarme lanciato nel 2007 sulla rivista “Studi economici”, prefigurando la spirale di crisi provocata dalla deflazione indotta dall’euro: l’esplosione dello spread e l’avvento della spending review di Mario Monti. La situazione, da allora, non ha fatto che peggiorare: «La Bce si dichiara disposta a difendere i paesi in difficoltà solo se in cambio questi proseguiranno con le politiche di austerity: l’idea è che tali politiche dovrebbero risanare i conti pubblici e ripristinare la fiducia dei mercati, fino a rendere superflua la stessa protezione della Bce. Il problema, ormai largamente riconosciuto, è che l’austerity non risana i conti. Anzi, può deprimere i redditi a tal punto da rendere più difficili i rimborsi dei debiti: un circolo vizioso che in prospettiva non riduce ma accresce l’instabilità dell’Eurozona». L’unica ricetta invocata è quella delle “riforme strutturali” del mercato del lavoro: la flessibilità è una costante dell’ultimo ventennio. Tesi smentita dallo stesso Olivier Blanchard, capo economista del Fmi: i paesi che non hanno precarizzato il lavoro se la stanno cavando meglio, perché i lavoratori occupati sostengono i consumi e pagano le tasse.Secondo la Bce, invece, tagliare i salari consente ai paesi periferici dell’Unione di ridurre il divario di competitività con la Germania senza ricorrere all’uscita dall’euro e alla svalutazione. «Il problema – obietta Brancaccio – è che per ridurre in modo consistente quel divario ci vorrebbe una caduta dei salari e dei prezzi di tale portata da provocare un crollo dei redditi rispetto ai debiti, con effetti negativi sulla solvibilità. Ancora una volta un circolo vizioso». Draghi? Ha solo «messo in “coma farmacologico” l’Eurozona malata», e ora sta «suggerendo cure che a lungo andare finiranno per ammazzarla». Le conseguenze sono già sotto i nostri occhi: dal 2008 l’Italia ha perso un milione di posti di lavoro. Spagna, Irlanda, Grecia e Portogallo ne hanno persi altri 5 milioni. In Italia le insolvenze delle imprese sono aumentate del 90%, in Spagna addirittura del 200%. Al contrario, la Germania ha visto aumentare l’occupazione e diminuire i fallimenti.«Queste divergenze sono il sintomo di una “mezzogiornificazione” in atto, cioè di una tendenza alla desertificazione produttiva di vaste aree periferiche dell’Eurozona, a vantaggio del paese più forte». A chi sostiene che un’uscita dall’euro riaprirebbe il vaso di Pandora dei conflitti europei, portando addirittura a nuove guerre, Brancaccio risponde che – al contrario – è proprio l’euro la causa della crisi. L’Eurozona, di fatto, è un particolare regime di cambio fisso: come il gold standard, che fece precipitare l’economia europea fino all’esplosione della Prima Guerra Mondiale. Un altro economista, Barry Eichengreen, ritiene che i tentativi di ripristare il gold standard (valore monetario vincolato a quello dell’oro) favorirono la Grande Depressione, che creò i presupposti per la Seconda Guerra Mondiale. «Sono dunque i pasdaran dell’euro a tutti i costi che dovrebbero fare più attenzione alle conflittualità che stanno alimentando in seno all’Europa».In Italia le posizioni pro-euro a oltranza sembrano già numericamente minoritarie, nonostante una preponderante campagna mediatica a loro favore. «Evidentemente la vuota retorica europeista non basta per governare la crisi», sottolinea Brancaccio. E se un’uscita dall’euro solleva innanzitutto un problema salariale, è importante «ripristinare alcuni meccanismi di tutela dei lavoratori e delle loro retribuzioni, a partire da una nuova scala mobile». Altro rischio: le svendite all’estero delle aziende italiane dopo una eventuale uscita dall’euro, che le svaluterebbe di colpo rendendole appetibili. Ma attenzione: sta già accadendo, con l’euro. «In Italia, negli ultimi cinque anni, i prezzi dei beni capitali e degli immobili sono diminuiti in media del 10%. Alcuni soggetti esteri hanno colto l’opportunità e hanno già iniziato a comprare capitali nazionali». Senza più l’euro, la svalutazione sarebbe ancora più forte e improvvisa: «E’ evidente che molti operatori stranieri aspetteranno proprio quel momento per iniziare lo shopping a buon mercato». Che fare? Proteggere l’economia italiana con moneta sovrana, e con «vincoli alle acquisizioni estere di capitali nazionali, in primo luogo in ambito bancario».Un’uscita disordinata dall’euro – cioè senza protezioni statali – sarebbe «in perfetta continuità con l’ideologia liberista e liberoscambista che ha dominato in questi anni, e che ci ha condotti al disastro». Sarebbe un’uscita “gattopardesca”, «affidata ancora una volta al libero gioco delle forze del mercato». Ovvero: «I salari non verrebbero protetti, le acquisizioni estere non sarebbero limitate, i tassi di cambio sarebbero lasciati alla libera fluttuazione sui mercati dei cambi e sarebbe mantenuta a tutti i costi la libera circolazione dei capitali e delle merci. Inoltre, si continuerebbe a sfruttare i sentimenti anti-politici della popolazione per svuotare lo Stato delle sue funzioni». Per Brancaccio, questa soluzione è tuttora probabile: «Perché il liberismo e il liberoscambismo sono ancora ideologicamente pervasivi, e perché in fondo è quella che tende a salvaguardare gli interessi dei più forti». Per esempio quelli degli speculatori, «che trarrebbero grande vantaggio dal ritorno a un libero mercato europeo delle valute». E poi la Germania. L’associazione degli esportatori tedeschi l’ha detto, più volte: «Noi possiamo fare tranquillamente a meno della moneta unica, ma non possiamo fare a meno della libertà degli scambi sancita dal mercato unico europeo».La seconda possibilità, quella su cui punta Brancaccio, consiste nella messa in discussione dei vecchi dogmi liberisti e liberoscambisti: «Progredire, superare la crisi, significa per esempio riaffermare che gli interessi del lavoro incarnano l’interesse generale. Significa attribuire nuova centralità all’intervento pubblico nell’economia, a partire dal settore bancario. E significa chiarire che se salta la moneta unica bisognerà mettere in discussione, almeno in parte, anche il mercato unico europeo, in primo luogo stabilendo limiti alle acquisizioni estere e alla indiscriminata circolazione dei capitali». La sinistra non ha mai preso in considerazione proposte come lo “standard retributivo europeo”, «rimaste lettera morta a causa dell’irriducibile ostilità tedesca: non solo dei cristiano-democratici, anche dei socialdemocratici». Risultato: «Oggi l’Eurozona è dominata da divergenze che a lungo andare la faranno implodere», grazie all’offensiva delle «nuove destre nazionaliste», che provocherebbe «un arretramento sul terreno dei diritti e delle libertà civili». La sinistra? Non pervenuta. Non ha ancora saputo cogliere «l’estrema gravità della situazione».Uscire dall’euro: sì, ma “da sinistra”. Ipotesi probabilmente evocata dallo stesso ex viceministro dell’economia, Stefano Fassina, quando ha parlato di un “Piano B” in caso di fallimento del semestre europeo a guida italiana. Minacciare di mollare la moneta della Bce se non si allenta la morsa del rigore? Se il Pd di Renzi non si esprime, il centrodestra si è ormai convertito all’euroscetticismo. Si dice che Berlusconi volesse uscire dall’euro già nel 2011, mentre la Lega sostiene l’abbandono della moneta unica in modo ancora più esplicito. Anche il M5S accarezza questi temi. Attenzione: «Se sommiamo i consensi al centrodestra e quelli al M5S scopriamo che in Italia esiste già una potenziale maggioranza anti-euro», avverte l’economista Emiliano Brancaccio. Secondo il quale l’addio all’Eurozona è ormai inevitabile, ma a precise condizioni: intervento pubblico sulle banche, tutela dei salari e limiti alla circolazione dei capitali per proteggere le aziende (che si svaluterebbero di colpo) dal rischio di essere comprate per quattro soldi.