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La mafia? Creata dai massoni inglesi, per sabotare l’Italia
Spaghetti, pizza e mafia. Sicuri che l’onorata società sia interamente made in Italy? La Sicilia a Cosa Nostra, la Campania alla camorra, la Calabria alla ‘ndrangheta: «Sono accostamenti triti e ritriti, spesso impiegati per dipingere l’intera Italia come un paese mafioso, corroso dal crimine, e quindi da collocare ai margini del sistema internazionale, tra gli Stati semi-falliti». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, la verità è più complessa. E non solo italiana, anche se la mafia ha tratto alimento dal brigantaggio, nato nel Sud come ribellione armata alla ferocia dell’esercito piemontese all’epoca dell’Unità d’Italia. Da allora – 1861 – il paese affronta il problema mafioso: migliaia di inchieste, libri, analisi economiche e sociali. «Ma è possibile affrontare la questione in termini geopolitici?», si domanda Dezzani? La sua risposta è sì. Ed è decisamente spiazzante: «Mafia, camorra e ‘ndgrangheta sono società segrete paramassoniche, inoculate dagli inglesi all’inizio dell’Ottocento per destabilizzare il Regno delle Due Sicilie e trasmesse all’Italia post-unitaria per minare lo Stato e castrarne la politica mediterranea».Nella sua analisi sul biennio 1992-1993, che decretò il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, Dezzani smonta la tesi dominante sul quel cruciale periodo della storia italiana: «Alla base delle stragi in Sicilia e “sul continente”, non ci fu il braccio di ferro tra malavita e Stato sul 41 bis, ma un più ampio ampio ed ambizioso progetto con cui le “menti raffinatissime” vollero ridisegnare la mappa economica e politica dell’Italia, inserendola nella più vasta cornice del Nuovo Ordine Mondiale». L’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima? «Va collegato alla cruciale elezione del presidente della Repubblica di quell’anno». Le uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? «Sono analoghi ammonimenti lanciati al Parlamento, ma allo stesso tempo sono anche un avvertimento alla giustizia italiana affinché si fermi al livello “insulare” delle indagini, senza approfondire i legami tra Cosa Nostra ed i servizi segreti della Nato». E le bombe del 1993 «sono un “lubrificante” per consentire agli anglofili del Britannia di smantellare a prezzi di saldo l’Iri e l’industria pubblica».In questo contesto, scrive Dezzani nel suo blog, «la mafia è uno strumento dell’oligarchia atlantica per perseguire obiettivi addirittura in contrasto con gli interessi di Cosa Nostra: è infatti assodato che la stagione stragista debilitò gravemente Cosa Nostra, “spremuta” nella strategia della tensione del 1992-1993 fino quasi a svuotarla». E non è certo un’eccezione l’impiego del crimine organizzato da parte degli angloamericani, già nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Dezzani esplora altri momenti cruciali del Belpaese, scovandovi lo zampino della malavita. Per esempio sul caso Moro, a partire dal sequestro, il 16 marzo 1978: «E’ ormai appurato che la ‘ndrangheta abbia partecipato al “commando12” che rapì il presidente della Dc, reo di turbare gli assetti internazionali con la sua apertura al Pci». Non solo: il capo della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, ha dichiarato che «avrebbe potuto salvare Moro, se i servizi segreti non si fossero opposti». Prima ancora, la strage di piazza Fontana, 12 dicembre 1969: l’ecatombe che inaugura la strategia della tensione «è perpetrata dalla destra eversiva di Franco Freda, in stretto contatto con la ‘ndrangheta». E ancora: l’omicidio di Enrico Mattei, 1962. «E’ Cosa Nostra a sabotare, all’aeroporto di Catania Fontanarossa, il velivolo su cui trovò la morte il presidente dell’Eni, scomodo alle Sette Sorelle».Rileggendo la storia a ritroso, il binomio atlantico-mafia compare già al momento dello sbarco angloamericano in Sicilia del 1943: «E’ il mafioso Lucky Luciano a facilitare la conquista dell’isola, e papaveri di Cosa Nostra presenziano anche all’armistizio di Cassibile, che sancisce la fine delle ostilità tra l’Italia e gli Alleati». Quasi un secolo prima ci fu un altro famosissimo sbarco, quello di Garibaldi a Marsala, nel 1860, con i “picciotti” impegnari a dare «un contributo determinante alla spedizione di Mille, benedetta e protetta da Londra». Domande: cosa sono, davvero, la mafia, la camorra e la ‘ndragheta? Perché affiorano in tutti i passaggi della storia italiana a fianco di Londra e Washington? E perché sono sovente associate ad un’altra organizzazione segreta di matrice anglosassone, la massoneria speculativa? Generalmente non se parla, nei film e nei prodotti televisivi sulla mafia, e nemmeno tra le migliaia di pagine stampate. Sulla mafia, scrive Dezzani, «campano non soltanto i malavitosi, ma anche i “professionisti dell’antimafia” che pullulano nei tribunali, pennivendoli del calibro di Roberto Saviano ed il variegato mondo di preti, intellettuali e soloni che ruota attorno alla “lotta alla mafia”». Nessuno di loro, però, secondo Dezzani, ha «intuito la vera natura del crimine organizzato». Ci arrivò Falcone, quando osservò che la mafia «presenta forti analogie con le Triadi cinesi, la malavita turca e la Yakuza giapponese».Con un approccio storico e geopolitico che analizza gli interessi strategici, Dezzani arriva a concludere che mafia, camorra e ‘ndragheta sono «società segrete paramassoniche dedite al crimine, vere e proprie “sette” che rispondono alle logge inglesi ed americane, sin dalla loro origine agli inizi dell’Ottocento». Sarebbe una verità «perfettamente nota agli “addetti ai lavori”», cioè «vertici della mafia, politici, Grande Oriente d’Italia, Cia, Mi6». Una realtà «spesso intuita e talvolta accennata da onesti magistrati e seri studiosi», ancge se nessuno ha finora prodotto uno studio organico sul tema. Dezzani parte dal quesito chiave: perché le mafie si sviluppano in tre regioni meridionali quasi contemporaneamente, tra gli anni ‘10 e ‘30 dell’Ottocento? Le risposte più frequenti sono di natura socio-economica: l’arretratezza del Meridione, il retaggio della dominazione spagnola, la presenza del latifondo, le mentalità della popolazione, la diffusione di miseria e povertà. «Sono risposte fuorvianti», vosto che «il reddito pro-capite del Regno delle Due Sicilie era paragonabile a quello del resto d’Italia», e la povertà era «simile a quella di alcune zone del Piemonte e del Veneto, che non produssero crimine organizzato». Inoltre, «la dominazione spagnola aveva interessato pure la “civilissima” Lombardia» e, per contro, «altre regioni meridionali persino più povere (come il Molise e la Basilicata) non conobbero le mafie, che germogliarono invece in due ricche capitali come Palermo e Napoli».Per scoprire le autentiche origini del fenomeno mafioso, secondo Dezzani occorre «tuffarsi nella storia, accantonando analisi pseudo-economiche, per afferrare le forze vive e la geopolitica dell’epoca». E’ lo stesso procedimento che porta a dimostrare come l’Isis «non sia altro che uno strumento degli angloamericani per balcanizzare il Medio Oriente e dividerlo lungo faglie etniche e religiose, piuttosto che il frutto spontaneo del fondamentalismo islamico». Così, Dezzani si tuffa nella storia, partendo dagli anni a cavallo tra ‘700 e ‘800, quando il mondo è in fiamme per la guerra tra Francia rivoluzionaria e le altre monarchie europee: «La Rivoluzione Francese, in cui Londra ha giocato un ruolo determinante (si pensi agli “anglofili” come Honoré Mirabau, il marchese de La Fayette e Philippe Égalité), è sfruttata dagli inglesi per liquidare la Francia come grande potenza marittima, estendere i propri domini in India e rafforzare l’egemonia su un’area chiave del mondo: il Mar Mediterraneo, da unire in prospettiva al Mar Rosso ed all’Oceano Indiano con il canale di Suez».Il Regno di Napoli, di fronte all’avanzata delle truppe rivoluzionarie francesi, è costretto ad aprire i propri porti alla flotta inglese, «senza sapere che, così facendo, firma la sua condanna a morte: gli inglesi sbarcano infatti coll’obiettivo di rimanerci anche dopo la guerra, installandosi così nello strategico Sud Italia che presidia il Mar Mediterraneo». Per un certo periodo, continua Dezzani, gli inglesi diventano addirittura padroni del Regno: quando infatti il francese Gioacchino Murat si insedia a Napoli, il re Ferdinando IV si rifugia in Sicilia protetto dagli inglesi e Lord William Bentinck governa l’isola come un dittatore de facto. Sotto l’ombra del potere inglese, «arriviamo così alle origini di Cosa Nostra». Un grande esperto di mafia come Michele Pantaleone ricorda che nel Meridione il brigantaggio assunse una funzione “sociale” solo dopo il 1812, quando il potere feudale venne eliminato: Pantaleone scrive che lo «spirito di mafiosità» sorse in concomitanza con la formazione delle famigerate “compagnie d’armi”, create dalla baronia siciliana nel 1813 a difesa dei diritti feudali. Lo “spirito di mafiosità”, dunque, prende forma tra il 1812 e il 1850: «Il suo epicentro è nel palermitano e di qui si irradia verso la Sicilia orientale».Il 1812, anno citato in tutti i testi di storia sulla mafia, è quello in cui il “dittatore” Lord William Bentinck impone al re, esule a Palermo, l’adozione di una Costituzione sulla falsariga di quella inglese, di comune accordo con i baroni siciliani: «Gli stessi baroni che creano quelle “compagnie d’armi”», antesignane della futura mafia. «Strane davvero queste “compagnie”, “consorterie” o “sette” che iniziano a pullulare dopo il 1812: presentano singolari analogie con la massoneria speculativa che gli inglesi innestano ovunque arrivino: segretezza, statuti, rituali d’iniziazione, mutua assistenza, diversi gradi di affiliazione, livelli sconosciuti agli altri aderenti». E poi, continua Dezzani, le nuove “compagnie” accampano anche «la pretesa di non essere volgari criminali, ma “un’aristocrazia del delitto riconosciuta, accarezzata ed onorata”, proprio come i massoni si definiscono gli “aristocratici dello spirito” in contrapposizione all’antica nobiltà di sangue. “Mafia” nei rioni di Palermo significa “bello, baldanzoso ed orgoglioso”».La Restaurazione reinsedia Ferdinando IV, ora Ferdinando I delle Due Sicilie, sul trono di Napoli. Il sovrano, nel 1816, si affretta a revocare la Costituzione scritta dagli inglesi, «considerata come un’insidiosa minaccia alle sue prerogative». Ma è tardi: «I germi inoculati dagli inglesi, le misteriose sette criminali che dalla periferia di Napoli e Palermo si irradiano verso i palazzi di baroni e notabili, però crescono. Corrodono il Regno delle Due Sicilie dall’interno, emergendo come un vero Stato nello Stato: trascorreranno poco meno di cinquantanni prima che contribuiscano in maniera determinante allo sfaldamento del Regno borbonico». È tra il 1820 ed il 1830 che lo scrittore Marc Monnier (1829-1885) situa la comparsa a Napoli di una misteriosa setta paramassonica, la “bella società riformata”, dedita ad attività illecite: «E’ la futura camorra, che nel 1842 scrive il primo statuto definendo i vari gradi di affiliazione sulla falsa riga della libera muratoria, da “giovanotto onorato” a “camorrista”, passando per “picciotto di sgarro” e così via». Quasi contemporaneamente, al di là dello Stretto di Messina, la mafia è già ad uno stadio avanzato, perché nel 1828 il procuratore di Girgenti scrive dell’esistenza di un’organizzazione di oltre 100 membri di diverso rango, «riuniti in fermo giuramento di non rilevare mai menoma circostanza delle operazioni». Idem per la ‘ndrangheta in Calabria.Nel 1848, continua Dezzani, Londra incendia l’Europa usando come cinghia di trasmissione la solita massoneria speculativa: è la “Primavera dei popoli”, cui seguiranno tante altre primavere di complotti, da quella di Praga del 1968 a quella araba del 2011. Nel Mediterraneo gli inglesi si adoperano per staccare la Sicilia, avamposto strategico per ogni operazione militare e politica in quel quadrante, dal Regno Borbonico: i “baroni”, gli stessi che comandano le malfamate “compagnie d’armi”, insorgono contro Ferdinando II, proclamando decaduta la corona borbonica e affidandosi alla corona d’Inghilterra, disposta a difendere l’indipendenza dell’isola. Il contesto internazionale non è però favorevole alla secessione e Ferdinando II reprime manu militari l’insurrezione, guadagnandosi l’appellativo di “re bomba”, dipinto dalla stampa anglosassone come un despota sanguinario e illiberale. «Le carceri, che già allora sono il principale centro di propagazione delle mafie, si riempono di patrioti-liberali e “picciotti”, uniti dal comune retroterra massonico: si saldano così legami che saranno presto utili». Geopolitica, ancora: i rapporti tra Napoli e Londra sono ai minimi storici anche la contesa sullo zolfo siciliano, sicché Ferdinando II si avvicina alla Russia, allora acerrima rivale degli inglesi: sono gli anni del Grande Gioco, in cui Londra e San Pietroburgo si sfidano in Eurasia per l’egemonia mondiale.Quando nel 1853 scoppia la guerra di Crimea, prosegue Dezzani, il Regno delle Due Sicilie rimane rigorosamente neutrale: nega addirittura alle navi inglesi e francesi dirette verso Sebastopoli di attraccare nei propri porti per rifornirsi. Il primo ministro inglese, Lord Palmerston, non ha dubbi: il Regno Borbonico, nonostante la grande distanza geografica, è diventato un vassallo della Russia. Chi partecipa alla “Guerra d’Oriente” è invece il Regno di Sardegna, consentendo così al primo ministro, Camillo Benso, conte di Cavour, di acquisire un ruolo da protagonista nell’ormai imminente riassetto dell’Italia: «La storiografia certifica che Cavour, da buon reapolitiker qual è, non ha in mente “l’unità” della Penisola, bensì “l’unificazione” doganale, economica e militare di tre regni autonomi. Il Regno sabaudo allargato a tutto il Nord Italia, lo Stato pontificio ed il Regno borbonico: la soluzione, seppur caldeggiata da francesi e russi, è però osteggiata dagli inglesi, decisi a cancellare il potere temporale della Chiesa Cattolica e a sostituire gli infidi Borbone con i più sicuri Savoia, tradizionali alleati dell’Inghilterra sin dal Settecento».È infatti “l’inglese” Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi celebrato dalla stampa angloamericana nonché 33esimo grado della massoneria, a sbarcare nel maggio del 1860 a Marsala, feudo inglese per la produzione di vino, protetto dalle due cannoniere inglesi Argus e Intrepid. «La reazione della marina militare borbonica è nulla, perché la massoneria ha ormai assunto il controllo delle forze armate e dei vertici dello Stato. Le strade e le grandi città sono invece passate sotto il controllo del crimine organizzato: “i picciotti”, che agiscono sempre in sintonia con i “baroni”, danno un aiuto determinante all’avanzata dei Mille». E così «il Regno delle Due Sicilie, svuotato da uno Stato parallelo che è cresciuto dentro lo Stato di facciata, si squaglia rapidamente: Reggio Calabria non oppone alcuna resistenza, mentre Napoli precipita nel caos, lasciando che il vuoto di potere sia colmato dalla camorra, lieta di accogliere Garibaldi e le sue truppe». Nasce in questo modo il Regno d’Italia, «che ancora oggi paga il prezzo del suo peccato originale». Ovvero: «È uno Stato strutturalmente debole, nato senza possedere il monopolio della violenza, costretto a convivere con due gemelli siamesi, le mafie e la massoneria speculativa, che non solo altro che meri strumenti in mano a chi ha davvero orchestrato l’Italia unita: l’impero britannico».Londra, sottolinea Dezzani, non è certo animata da nobili sentimenti: ha defenestrato i russofili Borbone per sostituirli con i fedeli Savoia, ha creato a Sud delle Alpi una media potenza da opporre alla Francia (si veda la Triplice Alleanza), ha partorito uno Stato sufficientemente robusto da reggersi in piedi, ma abbastanza debole da non insidiare la sua egemonia sul Mar Mediterraneo. «Le stesse mafie che hanno corroso il Regno delle Due Sicilie sono lasciate infatti in eredità allo Stato unitario: è un’eredità avvelenata, finalizzata a compiere una perdurante opera di destabilizzazione nel Meridione, cosicché non possa mai sfruttare il suo enorme potenziale geopolitico di avamposto verso Suez, il Levante ed il Nord Africa». E attenzione: «Le mafie come strumento inglese di destabilizzazione non sono una peculiarità del Sud Italia». Dezzani cita le Triadi cinesi che smerciano nel Celeste Impero Celeste quell’oppio per cui Londra ha addirittura combattuto una guerra (1839-1842): le analogie con la mafia, come notava Falcone, sono incredibili. «Tatuaggi, mutua assistenza, omertà, segretezza, riti d’iniziazione, diversi gradi di affiliazione, struttura piramidale: anche le Triadi sono sette criminali paramassoniche e, non a caso, quando i comunisti prenderanno il potere nel 1949, ripareranno nella colonia britannica di Hong Kong».Non c’è alcun dubbio che l’Italia “liberale” fondata nel 1861 sia terreno fertile per il crimine organizzato: mafia, camorra e ‘ndrangheta «si sviluppano nelle rispettive regioni come Stati paralleli a quello unitario, prosperando più che ai tempi del Regno delle Due Sicilie». Per Dezzani, «massoneria e mafie, benedette da Londra, sono i motori dell’Italia liberale, un edificio che sembra spesso vicino al crollo, totalmente ripiegato su se stesso». La mafia contribuisce a mantenere l’Italia in un perenne stato di fibrillazione, guidando ad esempio la rivolta del “sette e mezzo” che paralizza la Sicilia nel 1866, quasi l’antefatto del drammatico 1992. Il fenomeno mafioso, aggiunge Dezzani, è contenuto finché la destra storica, quella di Cavour, resta al potere. Ma poi esplode con l’avvento nel 1876 della sinistra storica: «Sotto la presidenza del Consiglio di massoni come Agostino Depretis e Francesco Crispi, è inaugurato il “Vice-Regno della mafia” che dal 1880 circa si estende fino al 1920». Lo Stato liberale «abdica a favore del baronato». E l’intera Sicilia, formalmente governata da Roma, è in realtà un feudo anglo-mafioso: «Londra non ha bisogno di staccare l’isola del governo centrale come ai tempi di Ferdinando II, perché esercita il controllo de facto con la “setta” criminale paramassonica».Secondo Dezzani, è la stessa organizzazione che negli Stati Uniti assume nomi evocativi come “Mano Nera” o “Anonimi Assassini”: «Quando nel 1909 il commissario della polizia di New York, Joseph Petrosino, sbarca a Palermo per indagare sui legami tra mafia americana e siciliana, “i picciotti” non si fanno scrupoli a sparargli in testa». Nessuno deve disturbare i rapporti tra mafia e politica: il trasformismo parlamentare dell’epoca giolittiana è terreno fertile per la malavita, «determinante per l’elezione degli onorevoli espressi dalle popolose regioni meridionali». Un cambiamento, ammette Dezzani, si registra solo dopo la marcia su Roma del 1922, con l’irruzione sulla scena di Benito Mussolini, che certo «è una vecchia conoscenza di Londra sin dalla Prima Guerra Mondiale e dalla campagna interventista del “Popolo d’Italia”», ed vero che «conquista la presidenza del Consiglio con l’appoggio determinante degli inglesi e della massoneria di piazza del Gesù», ma il duce del fascismo «tende ad emanciparsi in fretta». Secondo Dezzani, «l’omicidio Matteotti del 1924 può infatti essere considerato il primo tentativo inglese di rovesciarlo e ha certamente un certo peso sulla decisione del 1925 di abolire la libera muratoria (sebbene numerosi massoni, primo fra tutti Dino Grandi, restino al governo)».Fedele alla massima “tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”, Mussolini non può ovviamente accettare la convivenza con istituzioni parallele al governo, come la mafia. Nell’ottobre 1925 Cesare Mori è nominato prefetto di Palermo e, in poco meno di quattro anni, infligge un duro colpo a Cosa Nostra, avvalendosi dei “poteri eccezionali” affidatigli da Mussolini: nel 1927 il tribunale di Termini Imerese condanna oltre 140 mafiosi a durissime pene. Chi, ovviamente, stigmatizza la condotta del governo italiano è l’Inghilterra. Dezzani cita l’ambasciatore Ronald Graham, che scrive al premier Chamberlain: «Il signor Mori ha certamente restaurato l’ordine. Ha eliminato numerosi mafiosi e ras ed anche numerosi innocenti con mezzi molto dubbi, comprese prove fabbricate dalla polizia e processi di massa». Al che, aggiunge Dezzani, «mafie e massoneria, sorelle inseparabili, piombano quindi “nel sonno”, in attesa di essere risvegliate al momento opportuno: proprio come ai tempi delle guerre napoleoniche, sbarcheranno in Sicilia con gli inglesi, accompagnati questa volta anche dalle forze armate statunitensi».È il 1943 e la mafia non solo facilita lo conquista dell’isola attraverso Lucky Luciano, ma addirittura «presenzia alla firma dell’armistizio di Cassibile nella persona di Vito Guarrasi, lontano parente di Enrico Cuccia (la cui famiglia è originaria del palermitano)». Finché il “continente” è occupato dai tedeschi, gli angloamericani coltivano la ricorrente idea di separare la Sicilia dal resto dell’Italia: è il momento d’oro del separatismo e del bandito Giuliano, destinato a scemare man mano che le truppe alleate risalgono la penisola. «Perché infatti accontentarsi della Sicilia se, come ai tempi d’oro dell’Italia liberale, è possibile costruire dietro lo Stato di facciata un secondo Stato, retto dalle mafie a dalla massoneria? Inizia così la lunga stagione dei “misteri italiani” dove mafia, camorra e ‘ndrangheta figureranno a fianco di servizi segreti “deviati” e logge massoniche in decine di omicidi ed attentati: dal disastro aereo di Enrico Mattei alle bombe del 1993, dal sequestro Moro al rapimento dell’assessore campano Ciro Cirillo». Inutile stupirsi, insiste Dezzani: «Il fenomeno rientra nella norma, perché sin dalle origini nella prima metà dell’Ottocento le mafie non erano altro che società segrete paramassoniche, dedite al crimine e obbedienti alle logge inglesi e americane».Un pentito, Giovanni Gullà, ha rivelato agli inquirenti i meccanismi di “Mamma Santissima”, la nuova ‘ndrangheta, che contribuirà in maniera decisiva alla strategia della tensione: «La “Santa” si spiega nella logica della “setta segreta”: si è inteso creare una struttura di potere sconosciuta agli altri per ottenere maggiori benefici». Secondo Gullà, «la “Santa”, come setta segreta, è l’esatto corrispondente della massoneria coperta rispetto a quella ufficiale». Certo, «l’appartenente alla ‘ndrangheta non può essere massone», ma questo vale solo «per la ‘ndrangheta “minore” e la massoneria pubblica». La “Santa” invece «rappresenta una struttura segreta dentro la stessa ‘ndrangheta». E quindi, «se il fine mutualistico può essere soddisfatto con l’ingresso di massoni nella struttura e viceversa, nessun ostacolo può essere frapposto». La “Santa”, conclude Dezzani, è dunque l’élite della ‘ndrangheta, «costituita negli anni ‘70 nel nome di tre personaggi storici, tutti risalenti al Risorgimento, tutti massoni, tutti ottime conoscenze di Londra: Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini e Giuseppe La Marmora». Dalla “pax britannica” dell’ordine liberale alla “pax americana” dal 1945 a oggi. L’eventuale fine della mafia? Di ordine geopolitico: «È un sistema internazionale entrato ormai in crisi irreversibile, schiacciato dalla crisi del capitalismo anglosassone e dall’emergere di nuove potenze». Per Dezzani sarebbe il caso di sfruttare il declino dell’egemonia angloamericana «per liquidare anche quelle società segrete paramassoniche che da due secoli corrodono il Meridione e l’Italia, impedendo di sfruttarne l’enorme potenziale come ponte naturale tra Europa e Asia».Spaghetti, pizza e mafia. Sicuri che l’onorata società sia interamente made in Italy? La Sicilia a Cosa Nostra, la Campania alla camorra, la Calabria alla ‘ndrangheta: «Sono accostamenti triti e ritriti, spesso impiegati per dipingere l’intera Italia come un paese mafioso, corroso dal crimine, e quindi da collocare ai margini del sistema internazionale, tra gli Stati semi-falliti». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, la verità è più complessa. E ha un’origine non solo italiana, anche se la mafia ha tratto alimento dal brigantaggio, nato nel Sud come ribellione armata alla ferocia dell’esercito piemontese all’epoca dell’Unità d’Italia. Da allora – 1861 – il paese affronta il problema mafioso: migliaia di inchieste, libri, analisi economiche e sociali. «Ma è possibile affrontare la questione in termini geopolitici?», si domanda Dezzani? La sua risposta è sì. Ed è decisamente spiazzante: «Mafia, camorra e ‘ndrangheta sono società segrete paramassoniche, inoculate dagli inglesi all’inizio dell’Ottocento per destabilizzare il Regno delle Due Sicilie e trasmesse all’Italia post-unitaria per minare lo Stato e castrarne la politica mediterranea».
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Rottamati la Merkel e Draghi, addio all’euro entro 18 mesi
L’Europa due velocità? E’ la carta della disperazione prima del crollo dell’euro, moneta alla quale Ted Malloch, portavoce Usa in Ue, non concede più di 18 mesi di vita. La Merkel e Draghi? Sono gli ultimi due baluardi del vecchio establishment. E soccomberanno, stritolati da una tenaglia: da una parte Trump, dall’altra gli euroscettici alle urne nei prossimi mesi. Lo sostiene Federico Dezzani, osservando il fatale deteriorarsi del quadro generale in Europa: «Senza la morfina iniettata dalla Bce, i mercati finanziari sarebbero in preda a convulsioni peggiori del 2012». L’amministrazione Trump si sarebbe saldata con le forze populiste europee, il “Gruppo di Coblenza”. E anche se da Washington piovono duri attacchi contro la Germania e i suoi saldi commerciali record, «persino i nazionalisti tedeschi, i falchi della Cdu-Csu, viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda della Casa Bianca». Ormai, «solo due superstiti del vecchio establishment liberal, Angela Merkel e Mario Draghi, oppongono ancora resistenza al processo di euro-dissoluzione», ma «difficilmente riusciranno però a salvarsi».La situazione è critica: capitali congelati, denaro in fuga verso “l’area marco”, banche del Sud Europa in crisi, finanze pubbliche in evidente stress, agenzie di rating che declassano senza sosta i titoli di Stato. «Molti investitori scommettono ormai sull’implosione della moneta unica». Di qui la contromossa di Angela Merkel, «proconsole europeo dell’oligarchia finanziaria»: l’Europa a due velocità. Per la cancelliera sarebbe il colpo d’ala per uscire dal pantano in cui sta sprofondando l’euro. Due velocità, ovvero: «Un nocciolo di paesi che procede con l’integrazione fiscale e politica. Tesoro unico, bilancio comune, dissoluzione dei Parlamenti nazionali in un’entità sovranazionale: dopotutto l’euro, un banale regime a cambi fissi calato su un’area monetaria non ottimale, non è stato studiato proprio per questo obiettivo? Strappare i massonici Stati Uniti d’Europa con una lancinante crisi economica e finanziaria?». Abbiamo bisogno di più Europa, ripete la Merkel al “Financial Times”. L’unione monetaria non basta, dice la cancelliera: per uscire dalle sabbie mobili servono l’unione fiscale e politica: bisogna cedere ancora più sovranità all’Europa.«È musica per le orecchie del milieu finanziario-politico che ha scommesso tutto sulla federazione del continente: alla cancelliera federale, gongolano soddisfatti, siede una preziosa alleata che segue con cura il copione». Sono gli stessi, aggiunge Dezzani, che nel 2012 si affrettarono a firmare il “Manifesto per gli Stati Uniti d’Europa” promosso dal “Sole 24 Ore”: Romano Prodi, Antonio Tajani, George Osborne, Jacques Delors, Joschka Fischer. Era l’epoca del “whatever it takes” pronunciato da Mario Draghi per puntellare l’euro. Da allora, «i Btp hanno subito una raffica di declassamenti, le sofferenze bancarie in Italia sono esplose, la Grecia è stata a un passo dall’abbandonare l’euro, la presidenza Hollande è nata ed è morta, l’Eurozona è sprofondata nella deflazione, la Bce ha varato l’allentamento quantitativo attirandosi le ire di Berlino». E i “populismi” sono cresciuti, fino a conquistare percentuali maggioritarie dell’elettorato. «Parlare nuovamente di “Europa a due velocità”, corrobora la tesi di Karl Marx che la storia si ripeta sempre due volte: la prima in tragedia e la seconda in farsa», commenta Dezzani, secondo cui «ridicola è anche la reazione di quegli stessi personaggi che cinque anni anni fa firmarono il manifesto del “Sole 24 Ore”», che erano «terrorizzati dall’idea di essere risucchiati dal cesso della storia insieme alla moneta unica e ai palazzi di Bruxelles».Intervistato dalla “Repubblica”, Romano Prodi, per il quale «Trump e Le Pen sono i due volti dello stesso pericolo: non capisco come mai non si siano ancora sposati», ha così commentato “l’Europa a due velocità” proposta dalla Merkel: «E’ la risposta che aspettavo, anche se avrei preferito che nascesse da un più ampio dibattito politico. Finalmente la Germania sembra cominciare ad assumersi quel ruolo di leadership che non aveva mai voluto esercitare. Va bene così». Ma davvero, obietta Dezzani, qualcuno crede ancora che un manipolo di paesi volenterosi decida, nel 2017, dopo quasi sette anni di eurocrisi, di fondersi in una federazione? «Probabilmente non ci crede neppure Prodi, considerato che altri illustri tecnocrati illuminati hanno già gettato la spugna nel corso del 2016», come lo stesso: Juncker: «Basta parlare di Stati Uniti d’Europa, la gente non li vuole», L’Eurozona è oggi dilaniata dalle forze centrifughe. E se sui mercati regna un relativa calma è solo grazie alla morfina iniettata da Draghi, al ritmo di 80 miliardi al mese: «E’ un oppiaceo, che lenisce il dolore ma non risolve le cause della malattia». Considerato poi che il “quantitative easing” è stato prorogato per tutto il 2017, «è ormai evidente che la moneta unica non cadrà sotto i colpi degli assalti speculativi, ma sotto quelli della politica». Meglio ancora: «Cadrà vittima di una precisa strategia politica: una manovra a tenaglia, progettata dall’amministrazione Trump e dalle forze nazionaliste europee per liquidare i superstiti dell’establishment liberal e, con loro, l’Unione Europea e la moneta unica».Dezzani lo deduce osservando la nascita di «una tacita, ma ben visibile, alleanza delle forze “populiste” americane ed europee contro l’élite finanziaria mondialista: non sbaglia Romano Prodi quando definisce Trump e Le Pen come “due volti dello stesso pericolo”, perché rappresentano effettivamente una declinazione della stessa corrente politica, quella dei movimenti nazionali che insorgono contro l’oligarchia liberal e le sue istituzioni: le Nazioni Unite (vedi i tagli ai finanziamenti operati da Trump), le agenzie sovranazionali che predicano il cambiamento climatico, la Chiesa di Jorge Mario Bergoglio, i paladini dell’immigrazione indiscriminata, la Nato, l’Unione Europea e la sua colonna portante, la moneta unica». Il neo-presidente americano «non può certo presentare una formale dichiarazione di guerra alle istituzioni di Bruxelles», è ovvio, «ma tutte le azioni sinora intraprese vanno il quel senso: il duro attacco sferrato dall’amministrazione Trump contro la Germania, accusata di macinare esportazioni record ai danni degli altri membri dell’Eurozona e degli Usa stessi, sfruttando l’euro debole, equivale a mettere nel mirino le due figure chiave dell’impalcatura europea», Angela Merkel e il governatore della Bce, «senza le quali l’euro si sarebbe già dissolto da almeno due anni».La Merkel è stata «la garante politica dell’integrità dell’Eurozona, respingendo a suo tempo l’ipotesi di una Grexit caldeggiata dai falchi tedeschi», mentre Draghi «ha “sedato” l’eurocrisi iniettando massicce dosi di liquidità e svalutando l’euro, attraverso quell’allentamento quantitativo osteggiato sempre dai falchi tedeschi». Aggiunge Dezzani: «Si noti come i “duri” tedeschi, capeggiati da Wolfgang Schaeuble, siano in perfetta sintonia con la retorica di Trump», perché «entrambi lavorano, neppure troppo velatamente, per lo smantellamento dell’Eurozona per come è configurata oggi». Secondo Dezzani, Schaeuble «viaggia sulla stessa lunghezza d’onda dell’amministrazione Trump anche su altro dossier che sta tornando alla ribalta in questi giorni, il salvataggio della Grecia: i falchi tedeschi, sempre in opposizione ad Angela Merkel, si oppongono a qualsiasi riduzione del debito pubblico greco, invitando la Grecia ad abbondare l’euro per alleviare il fardello del debito». Così facendo, «si pongono così sulle stesse posizioni dell’amministrazione Trump». E il probabile, futuro ambasciatore americano presso la Ue, “l’euroscettico” Malloch, si è già espresso a favore dell’uscita di Atene dalla moneta unica, definendo «un inutile e doloroso spreco di tempo» il tentativo di evitare la Grexit.A un’analisi più approfondita, continua Dezzani, la politica europea dell’amministrazione Trump non è quindi un “attacco alla Germania”, ma l’ennesima prova di un’alleanza tra la Casa Bianca e le forze nazionaliste (compresi i falchi della Cdu-Csu) contro gli ultimi esponenti superstiti dell’establishment “liberal”, caduti i quali «si spianerebbe la strada alla dissoluzione della moneta unica e dell’Unione Europea». Sempre secondo Dezzani, «il fulmineo e misterioso vertice svoltosi alla cancelliera di Berlino il 9 febbraio tra Angela Merkel e Mario Draghi», nel quale i due avrebbero discusso “sul futuro dell’Europa”, altro non sarebbe che «il disperato tentativo di coordinamento tra due sopravvissuti, che studiano come coprirsi le spalle a vicenda di fronte all’attacco concentrico: nazionalisti tedeschi, populismi europei e amministrazione Trump». La “Stampa” titola, infatti: «Vertice in cerca di alleanza tra Merkel e Draghi». Al termine dell’incontro, «la cancelliera ha dovuto addirittura rimangiarsi l’ipotesi dell’Europa a due velocità lanciata appena pochi giorni prima: già, perché procedere verso la creazione di nocciolo di paesi federati presuppone almeno due o più volontari. Ma chi potrebbe seguire la cancelliera Merkel nel febbraio del 2017 in quest’impresa?».Certamente, risponde Dezzani, non lo farebbe nessuno di quei paesi che si avvicinano alle elezioni, promettendo ottimi risultati al “Gruppo di Coblenza”: «Ci riferiamo a quei movimenti nazionalisti che il 21 gennaio, all’indomani dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, si sono ritrovati nella città tedesca per lanciare la loro sfida congiunta all’Unione Europea». Agli «amanti dei retroscena», l’analista ricorda che proprio Coblenza fu la base dei monarchici francesi dopo la Rivoluzione del 1789, massonica e illuministica, che invece Dezzani definisce «coordinata da quegli Illuminati che avevano la propria base a Francoforte». Tornando a oggi: al vertice di Coblenza hanno presenziato Matteo Salvini, la tedesca Frauke Petry di “Alternative für Deutschland”, l’olandese Geert Wilders e Marine Le Pen. «Con quale paese la cancelliera Angela Merkel potrebbe quindi procedere verso la creazione di una federazione europea? Con la “germanica” Olanda? Molto difficilmente, considerato che il populista Partito della Libertà è dato in testa ai sondaggi e ha promesso di indire un referendum sulla permanenza nell’Unione Europea. Oppure con l’altra metà del “motore franco-tedesco”, quella Francia dopo il Front National è il primo partito e la “populista” Marine Le Pen avrà gioco facile a sconfiggere al ballottaggio il candidato della banca Rothschild, Emmanuel Macron?».Per Dezzani «ci sono pochi dubbi sulla dinamica dell’Eurozona all’indomani della vittoria di Marine Le Pen, tanto che il suo consulente economico, Bernard Monot, ha già svelato il piano da attuare nelle ore successive al voto del 7 maggio». Un’agenda di guerra: immediata convocazione di un vertice europeo d’emergenza. Sostituzione dell’euro con un paniere di valute, paragonabile al vecchio Ecu. Libera fluttuazione del “nuovo franco” fino ad massimo del 20% rispetto al paniere. E poi: ridenominazione del debito pubblico in franchi, abolizione della legge del 1973 per riportare la Banca di Francia sotto il controllo del Parlamento, a supporto di una politica monetaria espansiva per stimolare l’economia. Ecco le premesse per la “profezia” di Malloch, intervistato dalla “Bbc: addio all’euro, entro 18 mesi. «Previsione più che realistica», secondo Dezzani, considerata la “manovra a tenaglia” studiata dall’amministrazione Trump e dal “Gruppo di Coblenza” per liquidare gli ultimi due pilastri dell’establishment “liberal” in Europa, cioè l’Ue e il suo corrispettivo militare, la Nato. «Gli stessi centri di potere, per inciso, che avrebbero preferito la vittoria di Hillary Clinton e la conseguente escalation militare con la Russia, pur di sopravvivere». Tra i vecchi oligarchi euroatlantici resistono Draghi e la Merkel: «Chiusa la tenaglia, non ne rimarrà in piedi nessuno».L’Europa a due velocità? E’ la carta della disperazione prima del crollo dell’euro, moneta alla quale Ted Malloch, portavoce Usa in Ue, non concede più di 18 mesi di vita. La Merkel e Draghi? Sono gli ultimi due baluardi del vecchio establishment. E soccomberanno, stritolati da una tenaglia: da una parte Trump, dall’altra gli euroscettici alle urne nei prossimi mesi. Lo sostiene Federico Dezzani, osservando il fatale deteriorarsi del quadro generale in Europa: «Senza la morfina iniettata dalla Bce, i mercati finanziari sarebbero in preda a convulsioni peggiori del 2012». L’amministrazione Trump si sarebbe saldata con le forze populiste europee, il “Gruppo di Coblenza”. E anche se da Washington piovono duri attacchi contro la Germania e i suoi saldi commerciali record, «persino i nazionalisti tedeschi, i falchi della Cdu-Csu, viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda della Casa Bianca». Ormai, «solo due superstiti del vecchio establishment liberal, Angela Merkel e Mario Draghi, oppongono ancora resistenza al processo di euro-dissoluzione», ma «difficilmente riusciranno però a salvarsi».
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Chi vuol tenere Lapo Elkann fuori dagli affari di famiglia?
Lapo Elkann nella bufera a causa dei suoi eccessi? Un rampollo di casa Agnelli non finisce sui giornali senza un preciso piano per distruggerlo. Lo sostiene Andrea Camaiora sull’“Huffington Post”, domandandosi: «Chi vuole tenere Lapo Elkann fuori degli affari di famiglia?». Una lettura precisa, sui retroscena di una vicenda che illuminerebbe aspetti del vero potere italiano, legato al capitalismo familiare dei signori della Fiat. «La storia recente della dinastia Agnelli dice che Lapo, genio e sregolatezza, è mal sopportato come componente del cda Ferrari ed è stato per un certo periodo in ballo anche come presidente della Juventus». Ma la galassia di famiglia non si ferma a questo, aggiunge Camaiora: c’è ovviamente il fondo Exor, la “cassa” degli Agnelli, che porta dritta dritta a Fca, la “creatura” di Sergio Marchionne il cui leader è il fratello di Lapo, John Elkann. «Di questo potrebbero scrivere più precisamente giornalisti esperti in economia e finanza. A noi interessa osservare qualcos’altro, ovvero che Lapo Elkann – l’unico nipote di Gianni Agnelli che ha creato qualcosa di proprio fuori del core business familiare, Italia independent e Garage Italia Customs – diventa periodicamente protagonista delle cronache nazionali con un’altalena infinita di belle e brutte figure».L’11 ottobre 2005, ricorda il giornalista, Lapo viene ricoverato in gravissime condizioni presso il reparto di rianimazione dell’ospedale Mauriziano di Torino, a causa di un’overdose per un mix di oppiacei dopo una notte in compagnia di più transessuali, tra cui la celebre trans Patrizia. Più recentemente il “sequestro” «dai profili poco credibili» che lo ha visto nuovamente in compagnia di un transgender, questa volta a New York, «per una cifra ridicola per la famiglia Agnelli: 10 mila euro». E qui, ricorda Camaiora, tutti si sono domandati: c’era proprio bisogno che la famiglia portasse questa vicenda al disonore della ribalta? «Un interrogativo che si rafforza visto che più che sequestrato, Lapo era stato in qualche modo trattenuto e che poi – superato lo strepitus mediatico – anche il profilo penale della vicenda si è subito smontato, con la procura che ha riconosciuto che Lapo non ha affatto organizzato un finto rapimento». Cadute le accuse, dunque, «ma screditamento pienamente realizzato». L’analista del “Post” dice di tenersi alla larga dal complottismo, ma sostiene che «a indurre una riflessione sulla regia mediatica degli scandali di cui è in qualche modo vittima Lapo c’è un’ultima curiosa coincidenza», ovvero: le dichiarazioni di Lapo, a bufera finita, sul futuro delle sue attività extra-Fiat.Prosciolto dalla giustizia americana in tempi record per il nostro sistema giudiziario, il giovane Elkann ha usato parole misurate ma in qualche modo anche combattive: «Ho attraversato un momento difficile che però mi ha dato il tempo e il silenzio necessari per riflettere e soprattutto per rinforzare ciò che voglio fare in futuro». E anche: «So che voglio proseguire il lavoro che ho fatto su di me in queste settimane, per raccogliere nuove energie e mettere una consapevolezza diversa nella mia vita e nel mio lavoro». Ha quindi precisato che intende «sostenere le aziende cui ho dato vita e portare avanti i tanti progetti di collaborazione avviati con il massimo impegno». Così si è espresso alla fine di gennaio. Ma non era ancora finita, la tempesta contro di lui: «Il 7 febbraio – scrive Camaiora – il “Corriere.it” ha rilanciato, con il titolo “Vi racconto quelle notti a Torino”, l’intervista al trans Patrizia che la trasmissione condotta da Luca Telese, “Bianco e Nero”, aveva nei giorni precedenti mandato in onda e che si riferiva al caso di undici anni prima». Conclude Camaiora: «Per Elkann speriamo di sbagliarci, ma non è solo e non tanto in tribunale che deve difendersi, se non vuole essere tenuto sempre a debita distanza dagli affari di famiglia. Sempre che, naturalmente, la cosa gli interessi».Lapo Elkann nella bufera a causa dei suoi eccessi? Un rampollo di casa Agnelli non finisce sui giornali senza un preciso piano per distruggerlo. Lo sostiene Andrea Camaiora sull’“Huffington Post”, domandandosi: «Chi vuole tenere Lapo Elkann fuori degli affari di famiglia?». Una lettura precisa, sui retroscena di una vicenda che illuminerebbe aspetti del vero potere italiano, legato al capitalismo familiare dei signori della Fiat. «La storia recente della dinastia Agnelli dice che Lapo, genio e sregolatezza, è mal sopportato come componente del cda Ferrari ed è stato per un certo periodo in ballo anche come presidente della Juventus». Ma la galassia di famiglia non si ferma a questo, aggiunge Camaiora: c’è ovviamente il fondo Exor, la “cassa” degli Agnelli, che porta dritta dritta a Fca, la “creatura” di Sergio Marchionne il cui leader è il fratello di Lapo, John Elkann. «Di questo potrebbero scrivere più precisamente giornalisti esperti in economia e finanza. A noi interessa osservare qualcos’altro, ovvero che Lapo Elkann – l’unico nipote di Gianni Agnelli che ha creato qualcosa di proprio fuori del core business familiare, Italia independent e Garage Italia Customs – diventa periodicamente protagonista delle cronache nazionali con un’altalena infinita di belle e brutte figure».
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Monbiot: malati di solitudine, questo sistema ci fa impazzire
Un’epidemia di malattie mentali sta distruggendo mente e corpo di milioni di persone. È arrivato il momento di chiederci dove stiamo andando e perché. Quale maggiore atto d’accusa potrebbe esserci, per un sistema, di una epidemia di malattie mentali? Eppure problemi come ansia, stress, depressione, fobia sociale, disturbi alimentari, autolesionismo e solitudine oggi si abbattono sulle persone in tutto il mondo. Le recenti, catastrofiche statistiche sulla salute mentale dei bambini in Inghilterra riflettono una crisi globale. Ci sono una moltitudine di ragioni secondarie per spiegare questo disagio, ma a me sembra che la causa di fondo sia ovunque la stessa: gli esseri umani, mammiferi estremamente sociali, i cui cervelli sono cablati per rispondere agli altri, sono stati scorticati. I cambiamenti economici e tecnologici in questo svolgono un ruolo importante, ma lo stesso vale per l’ideologia. Benché il nostro benessere sia indissolubilmente legato alla vita degli altri, ci viene spiegato da ogni parte che il segreto della prosperità è nell’egoismo competitivo e nell’individualismo estremo.In Gran Bretagna, uomini che hanno passato tutta la loro vita in circoli privilegiati – a scuola, all’università, al bar, in Parlamento – ci insegnano che dobbiamo sempre camminare con le nostre gambe. Il sistema dell’istruzione diventa ogni anno più brutalmente competitivo. Trovare lavoro è una lotta all’ultimo sangue con una massa di altri disperati che inseguono i sempre meno posti disponibili. I moderni sorveglianti dei poveri attribuiscono a colpe individuali la loro situazione economica. Gli incessanti concorsi televisivi alimentano aspirazioni impossibili come le opportunità reali. Il vuoto sociale è riempito dal consumismo. Ma, lungi dal curare la malattia dell’isolamento, questo intensifica il confronto sociale, al punto che, dopo aver consumato tutto quello che c’era da consumare, iniziamo ad avventarci su noi stessi. I social media ci uniscono ma anche ci dividono, consentendoci di quantificare con precisione la nostra posizione sociale, e di constatare che altre persone hanno più amici e seguaci di noi.Come Rhiannon Lucy Cosslett ha brillantemente documentato, le ragazze e le giovani donne modificano abitualmente le foto che pubblicano per sembrare più levigate e sottili. Alcuni telefoni lo fanno perfino automaticamente, basta attivare l’impostazione “bellezza”; così ci si può trasformare anche da soli in modelli di magrezza da inseguire. Benvenuti nella distopia post-hobbesiana: una guerra di tutti contro se stessi. C’è da stupirsi, in questa solitudine interiore, in cui il contatto è stato sostituito dal ritocco, se le giovani donne stanno annegando nel disturbo mentale? Una recente indagine condotta in Inghilterra suggerisce che tra i 16 e i 24 anni una donna su quattro si è autoinflitta una ferita, e uno su otto oggi soffre di disturbo da stress post-traumatico. Ansia, depressione, fobie o disturbo ossessivo-compulsivo colpiscono il 26% delle donne in questa fascia di età. Dati di questo tipo assomigliano da vicino a una crisi di salute pubblica. Se la frammentazione sociale non è presa in seria considerazione, come si prende sul serio una gamba rotta, è perché non possiamo vederla. Ma i neuroscienziati possono.Una serie di affascinanti articoli suggerisce che il dolore sociale e il dolore fisico sono elaborati dagli stessi circuiti di neuroni. Questo potrebbe spiegare perché in molte lingue è difficile descrivere l’impatto della rottura dei legami sociali senza ricorrere alle parole che usiamo per indicare dolore fisico e lesioni. Negli esseri umani come negli altri mammiferi sociali il contatto sociale riduce il dolore fisico. Questo è il motivo per cui abbracciamo i nostri figli quando si fanno male: l’affetto è un potente analgesico. Gli oppioidi alleviano sia l’agonia fisica sia l’angoscia della separazione. Forse questo spiega il legame tra isolamento sociale e tossicodipendenza. Alcuni esperimenti riassunti sulla rivista “Physiology & Behaviour” il mese scorso suggeriscono che, data la possibilità di scegliere tra dolore fisico o isolamento, i mammiferi sociali scelgono il primo. Alcune scimmie cappuccino prive di cibo e tenute in isolamento per 22 ore, prima di mangiare si sono riunite alle loro compagne. I bambini che sono trascurati dal punto di vista emotivo, secondo alcuni studi, subiscono peggiori conseguenze per la salute mentale rispetto ai bambini che soffrono sia trascuratezza emotiva sia violenza fisica: per quanto orribile, la violenza comporta essere notati e toccati.L’autolesionismo è spesso usato come tentativo di alleviare la sofferenza: un’altra indicazione che il dolore fisico è meno terribile del dolore emotivo. Come il sistema carcerario sa fin troppo bene, una delle forme più efficaci di tortura è proprio l’isolamento. Non è difficile capire quali potrebbero essere le ragioni evolutive per la presenza del dolore sociale. La sopravvivenza tra i mammiferi sociali è notevolmente più alta quando sono fortemente legati al resto del branco. Sono gli animali isolati ed emarginati che hanno più probabilità di essere attaccati dai predatori, o morire di fame. Così come il dolore fisico ci protegge dai danni fisici, il dolore emotivo ci protegge dai danni sociali. Ci spinge a ricostruire connessioni. Ma per molte persone è diventato quasi impossibile.Non è sorprendente che l’isolamento sociale sia fortemente associato alla depressione, al suicidio, all’ansia, all’insonnia, alla paura e alla sensazione di essere minacciati. È più sorprendente scoprire la gamma di malattie fisiche che provoca o aggrava. Demenza, ipertensione, malattie cardiache, ictus, abbassamento della resistenza ai virus, perfino gli incidenti sono più comuni tra le persone sole. La solitudine ha un impatto sulla salute fisica paragonabile al fumare 15 sigarette al giorno: sembra aumentare il rischio di morte prematura del 26%. Questo in parte è perché la solitudine aumenta la produzione dell’ormone dello stress, il cortisolo, che deprime il sistema immunitario. Studi condotti su animali e sull’uomo suggeriscono che mangiare sia motivo di conforto: l’isolamento riduce il controllo dell’impulso, portando all’obesità. Visto che le persone situate nella parte più bassa della scala socioeconomica sono anche quelle più a rischio di soffrire di solitudine, questa potrebbe essere una delle spiegazioni per il forte legame tra basso livello economico e obesità?Chiunque può rendersi conto che qualcosa di molto più importante della maggior parte dei problemi di cui ci si preoccupa è andato storto. Ma allora, perché siamo così impegnati in questa frenesia che distrugge il mondo e si autoannienta, devastando l’ambiente e riducendo in pezzi le società, se tutto ciò che produce è un dolore insopportabile? Questo problema non dovrebbe essere considerato il più scottante nella vita pubblica? Ci sono enti di beneficenza meravigliosi che fanno quello che possono per lottare contro questa marea, con alcuni dei quali ho intenzione di lavorare come parte del mio progetto contro la solitudine. Ma per ogni persona aiutata, molte altre vengono spazzate via. Non basta una risposta politica per tutto questo. Ci vuole qualcosa di molto più grande: ripensare un’intera visione del mondo. Di tutte le fantasie degli esseri umani, l’idea che ce la si possa fare da soli è la più assurda e forse la più pericolosa. O restiamo uniti o andiamo in pezzi.(George Monbiot, “Il nuovo ordine liberale crea solitudine, ecco cosa sta facendo a pezzi la nostra società”, dal “Guardian” del 12 ottobre 2016, articolo tradotto da “Voci dall’Estero”).Un’epidemia di malattie mentali sta distruggendo mente e corpo di milioni di persone. È arrivato il momento di chiederci dove stiamo andando e perché. Quale maggiore atto d’accusa potrebbe esserci, per un sistema, di una epidemia di malattie mentali? Eppure problemi come ansia, stress, depressione, fobia sociale, disturbi alimentari, autolesionismo e solitudine oggi si abbattono sulle persone in tutto il mondo. Le recenti, catastrofiche statistiche sulla salute mentale dei bambini in Inghilterra riflettono una crisi globale. Ci sono una moltitudine di ragioni secondarie per spiegare questo disagio, ma a me sembra che la causa di fondo sia ovunque la stessa: gli esseri umani, mammiferi estremamente sociali, i cui cervelli sono cablati per rispondere agli altri, sono stati scorticati. I cambiamenti economici e tecnologici in questo svolgono un ruolo importante, ma lo stesso vale per l’ideologia. Benché il nostro benessere sia indissolubilmente legato alla vita degli altri, ci viene spiegato da ogni parte che il segreto della prosperità è nell’egoismo competitivo e nell’individualismo estremo.
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Trump ha una pistola alla tempia, soccomberà anche lui?
«Qualunque cosa farà Trump sarà sempre un decimo dei danni che avrebbe potuto fare la Clinton», ma il problema ormai è un altro: riuscirà a resistere alle micidiali pressioni cui è già sottoposto dal super-potere che aveva puntato su Hillary? Il neoeletto deve vedersela con il complesso militare-industriale, i neocon, la Cia, il Pentagono: gente che ha liquidato i Kennedy, che ha messo al guinzaglio Obama, che riportò all’ordine persino Bush, lui pure – all’inizio – isolazionalista quanto Trump. Lo scrisse un neocon di razza come Michael Ledeen: «Quando Bush fu eletto, nel 2000, pensava all’America; poi venne l’11 Settembre e da quel momento capì che doveva continuare a occuparsi del mondo intero». Ledeen lo dice chiaramente, facendo capire che furono loro a fargli cambiare idea. «Oggi non serve neppure più eliminare fisicamente un presidente», spiega Massimo Mazzucco: «In genere bastano gli avvertimenti». Come quello, inequivocabile, che un altro neocon come John Bolton, già ambasciatore Usa all’Onu, ha appena rivolto a Trump: il neopresidente, secondo Bolton, dovrà stare in guardia «contro il terrorismo internazionale e anche il terrorismo interno». Nuovo 11 Settembre in arrivo? O basta la semplice minaccia?«Vedremo quanto Trump saprà resistere a questi “avvertimenti” nemmeno troppo velati», dichiara il regista Massimo Mazzucco, autore di importanti documentari sul maxi-attentato del 2001 che ha cambiato la storia del pianeta, proiettando le guerre americane in ogni continente. Intervenendo a “Border Nights”, trasmissione web-radio condotta da Fabio Frabetti, Mazzucco sostiene che l’elevata vocazione “criminale” di Hillary Clinton rivela la vera natura dei poteri che l’hanno sostenuta, gli stessi che oggi già assediano Trump. La vera colpa della Clinton, agli occhi degli elettori che alla fine si sono rassegnati a votare Trump? «Non solo ha usato il server di casa anziché quello del ministero degli esteri, ma ha anche cancellato 30.000 email per sottrarle all’Fbi, salvo poi andare in televisione a dire, mentendo, di aver messo tutte le email a disposizione delle indagini». Da quelle email, hackerate da Wikileaks, emergono retroscena imbarazzanti: milioni di dollari incamerati dalla Fondazione Clinton in cambio di favori a paesi arabi filo-Isis, concessi da Hillary quando era Segretario di Stato, e in più lo scandalo di Bengasi, con l’uccisione dell’ambasciatore americano, cioè dell’uomo che avrebbe potuto provare il traffico di armi che dalla Libia venivano fatte affluire in Siria, sotto copertura Usa, per rovesciare Assad.Bene per noi europei, se ha vinto Trump: in teoria, avremo meno tensioni e meno guerre. A favore del neoeletto depongono alcuni aspetti rilevanti: «E’ l’unico presidente americano, almeno negli ultimi 50 anni, ad aver vinto una campagna elettorale solamente con i suoi soldi», sottolinea Mazzucco. «Ha speso un centesimo, credo, di quello che ha speso la Clinton, e quindi ha vinto meritatamente, per quello che ha detto». Da qui in poi, però, è possibile che accada di tutto: «Temo che Trump sia talmente inesperto da circordarsi di gente dell’establishment». Sta già accadendo: come capo di gabinetto, posizione fondamentale nel governo americano, Trump ha scelto Reince Priebus, cioè il segretario nazionale del partito repubblicano, «lo stesso partito repubblicano che ha cercato in tutti i modi di far fuori Trump e che adesso cerca di controllarlo attraverso la scelta del suo capo di gabinetto». Altra scelta fondamentale, «passata inosservata ma che si dimosterà molto significativa nel corso del tempo», è il vicepresidente che «gli hanno messo di fianco», Mike Pence: «Non è affatto un governatorino di campagna come sembra, tranquillo e tradizionalista». Al contrario: «E’ un forsennato, feroce, fetente neocon della prima ora».Mike Pence, continua Mazzucco, è l’uomo che nel 2001, subito dopo l’11 Settembre, si occupò di inondare i media con la propaganda del caso-antrace, appena due mesi dopo l’attentato alle Torri. Con “lettere all’antrace” venivano minacciati diversi senatori, «stranamente tutti democratici, e stranamente tutti quelli che chiedevano di fare una commissione senatoriale sull’11 Settembre, che poi infatti non si fece». Fu proprio Pence ad alimentare la teoria che quell’antrace venisse da Saddam Hussein, «perché lui era mandato avanti da neocon come Cheney e Rumsfeld, che avevano bisogno di una scusa per portare la guerra in Iraq». E quando l’Fbi, «in uno strano gesto di onestà», dichiarò che l’antrace non veniva dall’Iraq ma era “scappato” da un laboratorio Usa, lo stesso Pence scrisse una lettera aprerta al ministro giustizia di allora, John Ashcroft, dicendo: “Lo sappiamo tutti che l’antrace è di Saddam”. «Questo – dice Mazzucco – dimostra che Mike Pence non è affatto un tranquillo governatore di campagna, è un mastino da guerra dei neocon. E sono convinto che l’abbiamo messo accanto a Trump proprio per cercare di condizionare la sua politica estera».Donald Trump è davvero isolazionista, «ha capito benissimo che il mondo sta in piedi fin che c’è un equilibrio e ognuno si fa gli affari suoi: Russia, Cina e Stati Uniti. Non si può continuare a andare a invadere dappertutto». Ma se Trump si rivelasse “troppo” isolazionista, cioè non-guerrafondaio, «Mike Pence cercherà sicuramente di condizionare la sua politica estera verso una strategia più aggressiva». Mazzucco è convinto che per Trump sarà durissima: «Se si dimostra sordo nel continuare le strategie imperialistiche in Medio Oriente, o gli sucede qualcosa (e diventa presidente Mike Pence), o comunque in qualche modo riusciranno a convincerlo. Un po’ come convinsero Bush nel 2000, che in campagna elettorale – prima dell’11 Settembre – diceva le stesse cose diTrump: smettere di fare “nation building”, cioè conquistare paesi». Oggi, a preoccupare il Deep State sono i rapporti con Putin: la distensione in programma con Mosca è nelle corde di Trump, a partire dalla Siria: la priorità «non è più abbattere Assad, come voleva Obama, ma abbattere l’Isis, in collaborazione con Putin». Glielo lasceranno fare?Quasi a rassicurare una parte di quei poteri-ombra, Trump lascia capire che – in cambio – abbandonerà i palestinesi al loro destino: ha dichiarato che Gerusalemme sarà proprietà esclusiva di Israele e che gli insediamenti nei Territori Occupati non sono un ostacolo per la pace in Medio Oriente. Un’evidente concessione tattica alla lobby israeliana, che è uno dei poteri schierati con Hillary. Trump sta provando a destreggiarsi, ben sapendo che «difficilmente i veri poteri Usa si rassegneranno a perdere l’egemonia completa sul mondo». Se così fosse, c’è già Bolton a ricordargli che dovrà guardarsi anche dal “terrorismo interno”. La questione è della massima serietà e pericolosità, insiste Mazzucco: «Anche Obama, appena eletto, pensava davvero di potersi ritirare dall’Afghanistan». Forse non sapeva ancora che «le decisioni non le prende il presidente». Ogni mattina, alla Casa Bianca, riceve il briefing del capo dell’Fbi, che lo informa di quello che succede all’interno del paese, e quello del capo della Cia, che gli racconta quello che succede nel resto del mondo. «Quindi è chi controlla quei briefing che, in realtà, fa fare le scelte al presidente».«Se vai da Obama e gli dici: guarda che qui, a meno di mettere 30.000 soldati in più, ci portano via tutto, gli oleodotti, le basi che li controllano e anche le coltivazioni di oppio da cui dipende il traffico mondiale di eroina, che avviene sotto il controllo statunitense, è chiaro che ti trovi un Obama che, dopo aver vinto il Premio Nobel, manda 30.000 soldati in più in Afghanistan a combattere». Ma, appunto, «dipende da quello che gli raccontano i veri poteri», cioè il complesso militare-industriale, il Pentagono, la Cia: «Sono loro che cercheranno di condizionare anche Trump». Aggiunge Mazzucco: «Io al posto di Obama avrei preteso le prove di quanto mi veniva detto, ma è anche vero che le prove si fabbricano in fretta: è facile condizionare un presidente». Non ci riuscirono solo in un caso: quello di Kennedy. Fu «l’ultimo, vero presidente della storia americana». E cercò di smantellare la Cia, «proprio perché aveva capito che era diventato un centro di potere molto più forte della presidenza». Kennedy aveva già avviato lo smantellamento dell’intelligence: «Ha iniziato licenziando il capo della Cia, Allen Dulles, per la storia della Baia dei Porci», lo sgangherato piano per rovesciare Fidel Castro con il disastroso tentativo di invasione di Cuba, affidato a mercenari.Come sappiamo, però, Kennedy «non ha fatto in tempo a finire il lavoro: è stato fatto fuori da un’alleanza tra la Cia e la mafia», ovvero: «La Cia l’ha deciso e la mafia ha fatto l’esecuzione». Curiosamente, aggiunge Mazzucco, nel ruolo più importante della Commissione Warren, incaricata delle indagini ufficiali, il nuovo presidente Lyndon Johnson «ha messo proprio Allen Dulles, cioè l’ex direttore della Cia licenziato da Kennedy». A giudicare chi è fosse stato a uccidere Kennedy misero proprio la principale vittima politica di Kennedy, il “pezzo da novanta” che Jfk era riuscito a far fuori durante la sua presidenza. «I due Kennedy sapevano che sarebbero morti, ma decisero di andare fino in fondo». Due casi più unici che rari: «Non credo ci siano state altre persone così testarde, di fronte agli “avvisi” ricevuti». Bush abbandonò il suo isolazionismo, Obama il suo pacifismo. Di che stoffa è fatto Donald Trump lo vedremo solo adesso. «Visti i precedenti, c’è da temere davvero un attentato “false flag”, un grande “avvertimento” al neopresidente che vorrebbe archiviare la guerra». Ottimismo? In una battuta: forse si può davvero “tifare” per Trump, «se non altro perché non gli hanno ancora dato il Nobel per la Pace».«Qualunque cosa farà Trump sarà sempre un decimo dei danni che avrebbe potuto fare la Clinton», ma il problema ormai è un altro: riuscirà a resistere alle micidiali pressioni cui è già sottoposto dal super-potere che aveva puntato su Hillary? Il neoeletto deve vedersela con il complesso militare-industriale, i neocon, la Cia, il Pentagono: gente che ha liquidato i Kennedy, che ha messo al guinzaglio Obama, che riportò all’ordine persino Bush, lui pure – all’inizio – isolazionalista quanto Trump. Lo scrisse un neocon di razza come Michael Ledeen: «Quando Bush fu eletto, nel 2000, pensava all’America; poi venne l’11 Settembre e da quel momento capì che doveva continuare a occuparsi del mondo intero». Ledeen lo dice chiaramente, facendo capire che furono loro a fargli cambiare idea. «Oggi non serve neppure più eliminare fisicamente un presidente», spiega Massimo Mazzucco: «In genere bastano gli avvertimenti». Come quello, inequivocabile, che un altro neocon come John Bolton, già ambasciatore Usa all’Onu, ha appena rivolto a Trump: il neopresidente, secondo Bolton, dovrà stare in guardia «contro il terrorismo internazionale e anche il terrorismo interno». Nuovo 11 Settembre in arrivo? O basta la semplice minaccia?
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Un oceano di dollari e droga, l’Afghanistan 15 anni dopo
Sono passati 15 anni dall’invasione militare dell’Afghanistan da parte degli americani, supportati dalla cosiddetta “coalizione internazionale”, di cui anche noi facciamo parte. Le truppe americane hanno invaso l’Afghanistan il 7 ottobre del 2001, meno di un mese dopo gli attacchi terroristici dell’11 Settembre a New York e Washington. Quella che era sembrata una rapida vittoria sul regime dei Talebani si è trasformata in una sanguinosa guerriglia che continua ancora oggi. L’amministrazione del presidente Bush aveva accusato l’organizzazione Al-Qaeda di Osama Bin Laden di aver dirottato gli aerei civili che hanno colpito e World Trade Center e il Pentagono. La Casa Bianca era convinta che Bin Laden si trovasse in Afghanistan, e pretese e i Talebani glielo consegnassero. I Talebani, guidati dal Mullah Omar, chiesero agli americani di mostrare le prove della sua colpevolezza. In cambio, ebbero la guerra. Con l’aiuto dei jet e delle truppe americane, i signori della guerra della Alleanza del Nord scacciarono i Talebani dalle città più importanti e presero il controllo della capitale, Kabul, a metà di novembre.Venne insediato un nuovo governo guidato dal presidente Hamid Karzai, sostenuto dagli americani, ricorda “Russia Today”, in una ricostruzione ripresa da “Luogo Comune”, il blog di Massimo Mazzucco. Gli alleati della Nato legittimarono in qualche modo l’azione americana, mandando truppe per aiutare “la ricostruzione” dell’Afghanistan. «Per quanto sia stato il presidente Bush a iniziare la guerra in Afghanistan, è stato il suo successore, Barack Obama, a dare luogo alla “surge”, l’incremento militare che avrebbe dovuto mettere fine alla guerra», ricorda “Rt”. Così, 15 anni dopo l’invasione, oggi sono poco meno di 9.000 i militari americani in Afghanistan, da un picco di 100.000 che era stato raggiunto nel 2011. Questi soldati fanno parte dell’operazione “Sentinella della Libertà”, e il Pentagono insiste nel dire che il loro unico ruolo sia di “consigliare e assistere” i militari afghani, e non di combattere i Talebani o lo Stato Islamico. Ma, di recente, il sergente Adam Thomas è stato ucciso nella provincia di Nangarhar, apparentemente a causa di una bomba artigianale. È il terzo soldato americano ucciso in Afghanistan nel 2016.Secondo la “Reuters”, a partire dal 2002 gli Stati Uniti hanno speso più di 60 miliardi di dollari per addestrare ed equipaggiare le forze di sicurezza afghane. Poi c’è la droga, continua “Russia Today”: la coltivazione di oppio, che era stata proibita sotto la stretta interpretazione islamica dei Talebani, ha avuto un ritorno “glorioso” durante la guerra. Secondo un rapporto della Unodc, l’ufficio delle Nazioni Unite su droga e crimine, si stima oggi l’estensione delle coltivazioni di oppio in Afghanistan ad oltre 200.000 ettari. Le cifre finali rischiano di superare il record del 2014, che era di 224.000 ettari. «L’eradicazione delle coltivazioni è stata praticamente zero», ha detto il direttore della Unodc, Yury Fedotov. Come siamo arrivati a questa situazione? Per quanto l’invasione del 2001 sia riuscita a rovesciare il governo dei Talebani, afferma “Rt”, gli Stati Uniti non sono riusciti a catturare o uccidere Bin Laden – il presunto organizzatore dell’11 Settembre – che 10 anni dopo, nel presunto (e tuttora oscuro) blitz di Abbottabad, in Pakistan, da cui però non è mai giunta nessuna foto del cadavere del capo di Al-Qaeda, che poi sarebbe stato “sepolto in mare”, gettato dal ponte di una portaerei.«Per un mese – ricorda “Russia Today” – le truppe americane hanno inutilmente setacciato le grotte di Tora Bora, al confine col Pakistan, dove si credeva che Bin Laden fosse nascosto. «Nonostante Bush avesse promesso, in campagna elettorale, di mettere fine all’ingerenza americana nelle altre nazioni, i soldati americani e della Nato si sono presto ritrovati a combattere una tipica guerra di contro-insorgenza, lanciando continue offensive contro gli sfuggevoli Talebani e i ribelli di Al-Qaeda». I comandi americani in Afghanistan continuavano a chiedere sempre più truppe, ma la maggior parte delle forze americane era impegnata in Iraq, dopo che l’invasione del 2003 aveva seguito un percorso analogo: da una rapida vittoria a un incubo senza fine. «Grazie ad una combinazione fra un incremento di truppe e accordi sottobanco con i leader locali, gli Stati Uniti sono riusciti a neutralizzare la maggior parte della ribellione in Iraq». E ora, dopo la sua rielezione, «Obama ha implementato un programma simile anche in Afghanistan».E dire che, nel maggio 2011, una squadra di Navy Seals aveva attaccato il presunto rifugio di Abbottabad, dove – secondo Washington – sarebbe stato ucciso Bin Laden. «Questo significava il raggiungimento dello scopo principale della guerra, per quanto sia arrivato dopo quasi un decennio». Con la presunta scomparsa di Bin Laden, Obama ha annunciato il ritiro graduale dall’Afghanistan entro la fine del 2016, mentre le operazioni di combattimento – ufficialmente – sarebbero terminate nel dicembre del 2014. «Qualcuno però si è dimenticato di dirlo al Talebani», se è vero che, nel maggio 2015, un drone americano ha ucciso in Pakistan il loro leader, Mohammad Mansour. «E’ ora che gli afghani smettano di combattere e inizino a costruire un futuro tutti insieme», disse allora il ministro degli esteri statunitense John Kerry, invitando i Talebani a prendere accordi con il governo afghano del nuovo presidente, Ashraf Ghani. I Talebani invece hanno scelto il mullah Haibatullah Akhundzada come nuovo leader, lanciando una nuova offensiva. Nel settembre 2015 hanno preso Kunduz, importante città del nord del paese, vicino al confine con il Tajikistan. Ne sono stati scacciati dopo due settimane di pesanti combattimenti, nel corso dei quali gli aerei americani hanno distrutto l’ospedale di “Medici Senza Frontiere”. Un anno dopo, però, i Talebani rientravano nuovamente a Kunduz, piantando la loro bandiera al centro della piazza principale della città.Alla “conferenza dei donatori”, in Austria, Stati Uniti ed Europa hanno appena promesso 15 miliardi di dollari per sostenere il governo afghano nei prossimi quattro anni. «Il costo della guerra in Afghanistan è stato stimato in 685 miliardi di dollari dal Servizio di Ricerca del Parlamento americano», aggiunge “Rt”. Secondo una stima della Harvard Kennedy School of Government, però, il costo a lungo termine potrebbe arrivare a 6 trilioni (migliaia di miliardi) di dollari, se si calcolano «i costi di assistenza medica a lungo termine e di disabilità per i veterani, il rinnovamento dell’arsenale militare ed i costi economici e sociali». Tutti soldi «scomparsi nel nulla». Miliardi di dollari destinati alla “ricostruzione” dell’Afghanistan sono stati spesi «in aerei da guerra che sono poi stati svenduti a prezzo di rottame», ma anche «in stazioni di rifornimento da 30 milioni di dollari ciascuna», e anche «in aerei per combattere il traffico di droga che non sono mai decollati, com’è stato documentato dall’ispettore generale degli Stati Uniti per la ricostruzione in Afghanistan».La sola lotta al narcotraffico, conclude “Russia Today”, ha ingoiato 8,4 miliardi di dollari, senza dare il minimo risultato visibile: «L’Afghanistan oggi produce il 90% dell’eroina nel mondo, in quantità ancora maggiori di quanto lo facesse prima del 2001». Forse la più grossa ironia della guerra in Afghanistan sta nel fatto che «gli americani hanno finito per combattere la stessa gente che avevano supportato durante la Guerra Fredda». Sul finire degli anni ‘70, Washington aveva finanziato di nascosto i ribelli islamici per attirare l’Unione Sovietica in un “incubo simile al Vietnam”. Missione compiuta, peraltro: grazie anche a Osama Bin Laden, appositamente reclutato e armato da emissari della Casa Bianca, del calibro del super-massone Zbigniew Brzezinski. «Dopo il ritiro dei sovietici, nel 1989, gli stessi ribelli – i mujaheddin – iniziarono a lottare fra di loro, permettendo così ai Talebani di emergere come fazione dominante». I soggetti ideali per la “guerra infinita”, l’alibi perfetto per il conflitto permanente e la militarizzazione del pianeta.Sono passati 15 anni dall’invasione militare dell’Afghanistan da parte degli americani, supportati dalla cosiddetta “coalizione internazionale”, di cui anche noi facciamo parte. Le truppe americane hanno invaso l’Afghanistan il 7 ottobre del 2001, meno di un mese dopo gli attacchi terroristici dell’11 Settembre a New York e Washington. Quella che era sembrata una rapida vittoria sul regime dei Talebani si è trasformata in una sanguinosa guerriglia che continua ancora oggi. L’amministrazione del presidente Bush aveva accusato l’organizzazione Al-Qaeda di Osama Bin Laden di aver dirottato gli aerei civili che hanno colpito e World Trade Center e il Pentagono. La Casa Bianca era convinta che Bin Laden si trovasse in Afghanistan, e pretese e i Talebani glielo consegnassero. I Talebani, guidati dal Mullah Omar, chiesero agli americani di mostrare le prove della sua colpevolezza. In cambio, ebbero la guerra. Con l’aiuto dei jet e delle truppe americane, i signori della guerra della Alleanza del Nord scacciarono i Talebani dalle città più importanti e presero il controllo della capitale, Kabul, a metà di novembre.
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Dal ‘45, Usa e Occidente hanno ucciso 55 milioni di persone
Gli Stati Uniti sono l’impero più sanguinario, il maggior “terrorista” del mondo: dal dopoguerra hanno ucciso 55 milioni di persone. Lo afferma Gianluca Ferrara, saggista e blogger del “Fatto Quotidiano”. Su “ByoBlu”, il video-blog di Claudio Messora, offre una spietata cronologia della strage. A cominciare dal 6 agosto 1945: Hiroshima, 200.000 civili sterminati. «Oggi gli Usa possiedono 7.000 ordigni atomici, 2.000 già dispiegati: ognuno di questi ha un potenziale esplosivo fino a tremila volte superiore a quello di Hiroshima». Come l’Impero Romano e quello napoleonico, gli Usa sono trainati da un’economia di guerra: «Per sopravvivere, hanno bisogno di trovare costantemente un nuovo nemico da combattere». Solo nel 2015 hanno investiti 1.800 miliardi di dollari in armamenti, al servizio di una politica estera «stabilita da un élite» che ci narcotizza, utilizzando i media mainstream. Di fatto, gli Usa «sono l’impero terrorista più brutale della storia: dal 1945 ad oggi, la politica estera dell’Occidente ha determinato l’uccisione di 55 milioni di esseri umani. E nel 1990 l’obiettivo degli Stati Uniti è diventato la conquista del Medio Oriente».La prima Guerra del Golfo ebbe inizio grazie ad un inganno: Saddam venne portato a credere che l’occupazione del Kuwait, che era stato un protettorato inglese ma che era rivendicato dall’Iraq fin dal 1961 come appartenente al suo territorio, sarebbe avvenuta senza l’interessamento degli Usa. «Fu una trappola tesa da April Gaspie, ambasciatrice Usa a Baghdad dell’epoca, che fece intendere che gli Usa non avrebbero interferito». Poi, l’11 settembre 2001, «l’abbattimento delle Torri Gemelle fornì il pretesto per terminare il lavoro». Dei 19 presunti attentatori nessuno era iracheno e nessuno era afghano: ben 15 di loro erano sauditi. Ma ad essere colpita non fu l’Arabia Saudita, bensì l’Afghanistan. «La sfortuna degli afghani – dice Ferrara – fu che in quel territorio doveva transitare un oleodotto, che i Talebani non volevano». Una condotta lunga 1.680 chilometri per portare il gas turkmeno di Dauletabad fino in Pakistan attraverso l’Afghanistan occidentale, cioè le province di Herat e Kandahar.Il progetto venne avviato nel 1996 dalla compagnia petrolifera statunitense Unocal, per la quale lavoravano sia Hamid Karzai che Zalmay Khalizad, in cooperazione con il regime talebano. Nel 1996, la Unocal apre una sede a Kandahar. E l’anno dopo, esponenti del governo talebano vengono ricevuti negli Usa. Ma il piano viene poi accantonato per le difficoltà politiche imputabili ai Talebani. «La seconda sfortuna era che gli anni ’70 avevano visto il boom della produzione di oppio e di eroina in Afghanistan. Era il cosiddetto triangolo d’oro», formato da Laos, Birmania e Cambogia. Triangolo «controllato dalla Cia, che in questo modo finanziava le operazioni anticomuniste nel sud-est dell’Asia». I Talebani negli anni ’90 «continuarono il business della droga con la Cia, ma nel 2000 il Mullah Omar lo mise al bando, allo scopo di guadagnarsi un consenso internazionale». L’anno dopo, la produzione di oppio crollò a valori prossimi allo zero. «Grazie alla conquista dell’Afghanistan, la produzione di eroina afghana (che gli Usa si rifiutarono di combattere, sostenendo che non era compito loro) tornò presto a soddisfare il 93% del fabbisogno mondiale».Gli Stati Uniti non combattono mai una guerra inseguendo un solo obiettivo, continua Ferrara: secondo l’Unicef, i 10 anni di embargo all’Iraq hanno causato la morte di un milione e mezzo di persone, tra cui cinquecentomila bambini. Il segretario di Stato Usa Madeleine Albright, quando le fu chiesto di commentare la morte di questi 500 mila bambini, rispose che la scelta era stata difficile, ma che ne era valsa la pena. «La balla sesquipedale delle armi di distruzione di massa, che sarebbero state in mano a Saddam, fu la scusa per impadronirsi definitivamente dell’Iraq, nel quadro della strategia economico-commerciale “Pivot to Asia”, che mirava a cinturare la Cina per impedirle un’espansione a ovest». Ma le uniche armi di distruzione di massa in mano a Saddam «erano quelle che proprio gli Stati Uniti gli avevano venduto, perché fossero usate per lo sterminio dei curdi».Un genocidio, quello del Kurdistan iracheno, al quale abbiamo contribuito anche noi italiani, con la vendita a Saddam di ben 9 milioni di mine antiuomo: «Del resto ancora adesso Matteo Renzi ritiene doveroso fare affari con chi finanzia l’Isis». Ma anche supponendo che l’Iraq avesse posseduto quelle armi, aggiunge Ferrara, i 7.000 ordigni nucleari di cui gli Stati Uniti d’America sono dotati non sono forse “armi di distruzione di massa”? Bisognerebbe chiederlo all’allora vice di Bush, Dick Cheney, che «per pura coincidenza era anche a capo della grande azienda petrolifera Halliburton, che si avvantaggiò successivamente dell’occupazione dei pozzi petroliferi iracheni». Ma, chiusa la partita con l’Iraq, il processo di colonizzazione prevedeva l’invasione della Siria. «Senza dimostrare molta fantasia, gli Stati Uniti cercarono di convincere il mondo che Assad usava armi chimiche contro i suoi cittadini». Solo la ferma opposizione di Putin riuscì a bloccare Obama, che nel 2013 era a un passo dall’attacco.Serviva allora un’altra strategia: così si inventarono la guerra per procura. «Bisognava finanziare i gruppi che si opponevano ad Assad: Al Nusra e l’Isis. Così, arrivarono piogge di dollari statunitensi sugli jihadisti, come rivelarono in tanti, tra cui ex dipendenti della Cia, ex ufficiali». Michael Flynn: «Sostenere Isis fu una nostra decisione deliberata». Tra le ammissioni persino quelle di un senatore, Rand Paul, e di una deputata, Tulsi Gabbard. Per non parlare del vicepresidente Joe Biden, che nell’ottobre del 2014 rivelò che sugli jihadisti impegnati in Siria erano arrivate piogge di dollari statunitensi. «La vera ragione per cui Assad è stato attaccato – afferma Ferrara – è che nel 2009 si era rifiutato di far transitare sul proprio territorio un gasdotto, proposto dal Qatar e dall’Arabia Saudita, che doveva passare per la Turchia e avere come destinazione l’Europa, per togliere alla Russia di Putin il monopolio». Non solo: «Assad si era accordato con l’Iraq per accogliere un gasdotto alternativo, ed era dalla parte dei palestinesi contro le aggressioni dello Stato di Israele».Poco prima, il “trattamento” era toccato alla Libia, che possiede le riserve di petrolio africane più importanti: 48.000 miliardi di barili, più 1.500 miliardi di metri cubi di gas. «Ma in realtà Gheddafi fu fatto fuori anche per un’altra ragione: proprio come Saddam, aveva deciso di non vendere più il petrolio in dollari, bensì attraverso un’altra moneta sovrana che stava creando: il dinaro libico». Dalla Libia alla Siria, fino all’attuale terrorismo internazionale: i recenti attentati in Francia, Belgio e Germania «hanno delle analogie con quello che accadde in Italia negli anni ’90, dopo la rottura del patto Stato-mafia, quando Roma e Milano furono duramente colpite dalle ritorsioni di Cosa Nostra». Dietro ai kamikaze ci sono «veri professionisti del terrore, che da sempre hanno usato mercenari, criminali, fondamentalisti e perfino squilibrati per seminare la paura e instaurare, sotto la copertura di una finta democrazia, una dittatura economico-militare». I jihadisti, poi, svolgono anche un altro ruolo importante: «Sono un eccellente concime per far germogliare il seme della paura in Occidente: più abbiamo paura, più cerchiamo protezione». Con buona pace del grande Tiziano Terzani, secondo cui «il problema del terrorismo non si risolve uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali».Gli Stati Uniti sono l’impero più sanguinario, il maggior “terrorista” del mondo: dal dopoguerra hanno ucciso 55 milioni di persone. Lo afferma Gianluca Ferrara, saggista e blogger del “Fatto Quotidiano”. Su “ByoBlu”, il video-blog di Claudio Messora, offre una spietata cronologia della strage. A cominciare dal 6 agosto 1945: Hiroshima, 200.000 civili sterminati. «Oggi gli Usa possiedono 7.000 ordigni atomici, 2.000 già dispiegati: ognuno di questi ha un potenziale esplosivo fino a tremila volte superiore a quello di Hiroshima». Come l’Impero Romano e quello napoleonico, gli Usa sono trainati da un’economia di guerra: «Per sopravvivere, hanno bisogno di trovare costantemente un nuovo nemico da combattere». Solo nel 2015 hanno investiti 1.800 miliardi di dollari in armamenti, al servizio di una politica estera «stabilita da un élite» che ci narcotizza, utilizzando i media mainstream. Di fatto, gli Usa «sono l’impero terrorista più brutale della storia: dal 1945 ad oggi, la politica estera dell’Occidente ha determinato l’uccisione di 55 milioni di esseri umani. E nel 1990 l’obiettivo degli Stati Uniti è diventato la conquista del Medio Oriente».
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Giallo Neruda, il poeta “ucciso dalla Cia con iniezione letale”
Pablo Neruda ucciso con un’inizione letale, per impedirgli di diventare, all’estero, il leader dell’opposizione cilena al regime di Pinochet, dopo il golpe organizzato dalla Cia con la regia del super-massone Henry Kissinger, fondatore della Commissione Trilaterale. «Si riapre l’inchiesta sulla morte di Pablo Neruda, il poeta cileno Premio Nobel per la Letteratura morto il 23 settembre del 1973, dodici giorni dopo il golpe militare che mise fine al governo di Salvador Allende», scrive il “Fatto Quotidiano”. Si tratta della seconda inchiesta sulla vicenda, ma questa volta il governo cileno sarà parte in causa, attraverso il programma per i diritti umani del ministero degli interni. La riapertura del caso è stata chiesta dal Partito Comunista cileno, al quale era iscritto Neruda, e dai nipoti del poeta, per far sottoporre i suoi resti a nuovi esami e stabilire se effettivamente è morto di cancro, come indicato sul suo certificato di morte, o se è stato ucciso mentre si trovava nella clinica Santa Maria di Santiago.Nel suo blog “Su la testa”, il giornalista investigativo Gianni Lannes si spinge oltre, spiegando che il governo cileno ha inoltrato una rogatoria agli Stati Uniti «per farsi consegnare l’assassino di Pablo Neruda, tale Michael Townley». Il giudice Manuel Carroza aveva ordinato infruttuosamente, nel 2013, di rintracciare e identificare il presunto killer del grande poeta, che vivrebbe sotto falso nome negli Usa, «addirittura sotto il programma di protezione testimoni dell’Fbi in una località segreta». Neruda non era in fin di vita, continua Lannes, nonostante fosse gravemente malato. Il dittatore Pinochet «avrebbe ordinato ad un sicario, appunto un agente segreto della Cia, di accelerarne la morte con una non ben definita “iniezione allo stomaco”, secondo le parole di Neruda stesso all’autista», Manuel Araya, che raccontò che «un medico era entrato e gli aveva praticato l’iniezione». Il giorno dopo le sue condizioni peggiorarono improvvisamente e Neruda morì, prima della partenza per il nuovo esilio, in Messico, da dove avrebbe potuto usare il suo enorme prestigio internazionale per denunciare il golpe.Il governo cileno, continua Lannes, ha istituito presso il dipartimento per i diritti umani, due commissioni scientifiche che nel novembre 2015 hanno redatto un documento in cui si legge che è probabile che Neruda non sia morto «a causa del cancro alla prostata di cui soffriva», e che «risulta chiaramente possibile e altamente probabile l’intervento di terzi». In altri termini, a Neruda «fu applicata un’iniezione o gli fu somministrato qualcosa per via orale che ha fatto precipitare la sua prognosi in appena sei ore». Si tratta della prima volta che lo Stato cileno smentisce la causa di morte dichiarata dal governo di Pinochet nel 1973, osserva Lannes. Gli esami tossicologici effettuati nel 2013 hanno dato risultati negativi, scrive il “Fatto”, ma questa volta non ci cercheranno tossine, bensì altri “agenti esterni” che potrebbero essere stati iniettati, come insulina o Tramadol (un oppiode antidolorifico), provocando un attacco cardiaco al poeta. Sì, potrebbe esser stato ucciso, spiega Francisco Ugas, responsabile dell’area dei diritti umani nel ministero degli interni cileno, e il caso «potrebbe costituire un crimine di lesa umanità».Secondo la versione dell’autista di Neruda, il poeta non si sarebbe recato in quella clinica per motivi di salute, ma per aspettare un volo del governo messicano per fuggire in esilio. Ma, una volta nella clinica, gli avrebbero fatto un’inizione letale, di Dipirone (un analgesico) e Amidone (farmaco simile alla morfina) secondo le testimonianze di medici e infermieri. Anche la moglie, scrive Lannes, testimoniò dell’allarme di Neruda per la misteriosa iniezione: mentre Matilde Urrutia era in viaggio con Araya verso Isla Negra per recuperare le ultime cose prima di partire per il Messico, verso le ore 16 ricevettero una telefonata di Neruda dall’ospedale. Il poeta chiese di tornare indietro perché era molto preoccupato, poiché «mentre dormiva nella sua camera della clinica alcune persone erano entrate e gli avevano iniettato qualcosa nell’addome». Disse che «si sentiva male», secondo le parole riportate da Araya. Quando l’autista e la moglie arrivarono a Santiago, trovarono Neruda in preda alla febbre e con segni di arrossamento dove gli era stata praticata l’iniezione.Anche l’infermiera di Neruda, citando voci di corridoio della clinica, sostiene la tesi dell’omicidio. Lannes ricostruisce le ultime ore del poeta: Araya esce dalla clinica alle ore 19, per andare a comprare un medicinale in una farmacia periferica, ma l’auto viene intercettata dai militari, che lo fermano e lo trattengono. Poche ore dopo, alle 22 circa, Neruda viene dichiarato morto dai medici della clinica. La moglie di Neruda rimane nel centro sanitario, mentre Araya viene arrestato e torturato per dieci giorni nel campo di concentramento dell’Estadio Nacional de Chile; ritenendo di non essere creduto, decide di parlare solo nel 2005, dopo la clamorosa scoperta dell’omicidio dell’ex presidente cileno Eduardo Frei Montalva, ucciso nel 1982, dopo le “cure” ricevute. Frei morì per un’infezione post-operatoria, ma un ex 007 cileno – Michael Townley, sempre lui – rivelò che Frei era stato avvelenato con una tossina prodotta in laboratori militari (probabilmente una tossina botulinica, tallio e iprite, che distrugge il sistema immunitario).Lo stesso Townley, aggiunge Lannes, Townley affermò che sostanze come il gas sarin furono usate «in alcuni omicidi politici fatti passare per suicidi o morti naturali», insieme ad alcune tossine come quella botulinic. Nel corpo dell’ex presidente Frei «furono trovati residui di tallio e gas mostarda, usato come arma chimica». Difficili da rilevare sono anche il polonio-210, iniezioni di aria che causano embolia, overdose di morfina. «Nel maggio 2015 – scrive ancora Lannes – un team spagnolo ha annunciato il ritrovamento di proteine anomale nelle ossa di Neruda, non riferibili a farmaci, alcune legate al cancro e altre a un’infezione improvvisa e assai rapida da “staphylococcus aureus”. Anche se infezioni di questo genere sono possibili in pazienti gravemente malati, «un’esplosione batterica così veloce dopo il ricovero e la suddetta iniezione, tale da portare Neruda alla morte in poche ore, potrebbe far sospettare un intervento esterno per favorire l’infezione, come la detta iprite le cui tracce scompaiono dopo pochi anni».Pablo Neruda ucciso con un’inizione letale, per impedirgli di diventare, all’estero, il leader dell’opposizione cilena al regime di Pinochet, dopo il golpe organizzato dalla Cia con la regia del super-massone Henry Kissinger, fondatore della Commissione Trilaterale. «Si riapre l’inchiesta sulla morte di Pablo Neruda, il poeta cileno Premio Nobel per la Letteratura morto il 23 settembre del 1973, dodici giorni dopo il golpe militare che mise fine al governo di Salvador Allende», scrive il “Fatto Quotidiano”. Si tratta della seconda inchiesta sulla vicenda, ma questa volta il governo cileno sarà parte in causa, attraverso il programma per i diritti umani del ministero degli interni. La riapertura del caso è stata chiesta dal Partito Comunista cileno, al quale era iscritto Neruda, e dai nipoti del poeta, per far sottoporre i suoi resti a nuovi esami e stabilire se effettivamente è morto di cancro, come indicato sul suo certificato di morte, o se è stato ucciso mentre si trovava nella clinica Santa Maria di Santiago.
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Al-Baghdadi alias Simon Elliot, sul web tra Jihad e Mossad
La tragedia di Parigi rappresenta un fatto di eccezionale gravità, perché ha coinvolto persone totalmente estranee ad ogni ideologizzazione e sorprese in un momento di vita quotidiana. Le vittime sacrificali di questo eccidio sommuovono la coscienza, la mettono in subbuglio, perché si tratta di qualcosa che la nostra ragione ci fa comprendere è accaduto in casa nostra. Non segue a questo pensiero una considerazione “buonista”, che aggravi la coscienza con il senso di colpa del non saper avvertire lo stesso dolore per quel che ogni giorno accade in Siria. Sarà eticamente importante, ma non è questo il punto che trasforma un sentimento in un pensiero politico. La soglia di trasformazione è data dal pensiero: cui prodest? a chi serve? chi ne trae vantaggio? E’ possibile trascurare il fatto che gli autori dell’attentato, di quest’ultimo del 13 novembre come di quello alla redazione di Charlie Hebdo del 7 gennaio sono stati realizzati da musulmani di seconda generazione, residenti in Francia e in Belgio. E’ del tutto inopportuno trarre facili conseguenze o proporre semplificazioni inadeguate.Tuttavia, chi scrive non può dimenticare di aver girato buona parte del Medio-Oriente e, per quanto l’età d’oro di un mondo musulmano che voleva in tutto e per tutto emulare il modello di vita occidentale si sia appannato dopo l’ingiusta operazione contro Saddam Hussein (accusato di avere armi chimiche, secondo un castello di accuse costruito ad arte da Dick Cheney e Valerie Plame per giustificare l’intervento militare a sostegno dei petrolieri voluto da Bush), tuttavia è indiscutibile che la stragrande maggioranza, per non dire pressochè la totalità di coloro che vivono nei paesi del Medio Oriente, null’altro vogliono che vivere tranquilli e in pace. Cos’ha fatto dunque l’Occidente nel momento in cui la Tunisia, l’Egitto, persino lo Yemen, con i movimenti della cosiddetta Primavera Araba, hanno chiesto democrazia e libertà? Nulla, proprio nulla. Niente. Anzi, no. L’Occidente ha colto l’opportunità di operare lo sfruttamento delle risorse del Medio Oriente in modo ancora più cinico.E’ evidente che l’Occidente non vuole la democrazia e l’emancipazione dei popoli che intende piuttosto dominare e sfruttare. I disordini all’interno di questi paesi permettono di attuare la più classica delle politiche di sfruttamento: divide et impera. I militari presidiano i giacimenti petroliferi, l’estrazione del greggio avviene pressoché gratuitamente. Le popolazioni sono messe le une contro le altre, e si guadagna anche dalla vendita delle armi. Si saccheggiano le fortezze. Si trafugano opere d’arte. Gli eserciti regolari fanno la loro parte. Al resto ci pensano le truppe mercenarie. Eccoci al punto. Le truppe mercenarie. Sotto il presidio di garanzia degli eserciti regolari, sono loro che fanno il lavoro sporco. Sono loro che scambiano armi per droga. Su questo genere di indagini, per esempio, sono morti Ilaria Alpi e Mauro Rostagno. Qualcuno ricorderà, spero. E non c’è bisogno di ricorrere a fonti “esotiche” o di estrema sinistra per sapere che, da quando le truppe occidentali sono stanziate in Afghanistan, la produzione di oppio è decuplicata: è “Time” a dichiararlo.L’establishment non fa più mistero delle sue nefandezze, le espone, con la certezza che la notizia, iperinflazionata, sarà notata solo da alcuni, senza giungere alla coscienza dell’opinione pubblica, della coscienza collettiva. Sapendo questo, risulta così sorprendente l’affermazione che Al-Qaida è stata una struttura sotto controllo Cia, i cui leader sono stati formati e addestrati proprio in questo contesto? E può sorprendere che la Cia sia sotto controllo da parte di forze occulte come la Pentalfa? E’ così impensabile che Bin Laden e Al-Baghdadi siano stati formati da questi ambienti? E, da ultimo, come attualmente circola la notizia sul web, che il sedicente califfo Al-Baghdadi non sia che un agente del Mossad, il cui vero nome è Simon Elliot? E’ tutto questo così incredibile? Oppure, come sempre, la realtà supera la fantasia?Prima di chiudere questo articolo, due considerazioni vanno svolte. La prima, avvertendo che quanto qui scritto non si adagia su un facile “complottismo”. Soprattutto, nessuno pensi che qui sia espressa una posizione antisemita e anti-israeliana. Al contrario, la posizione è certamente filo-israeliana: ma a favore di quell’Israele sognato da quegli intellettuali ebrei che già all’alba del riconoscimento di Israele come Sato nazionale, opponevano a questo preteso “trionfo del sionismo” la scelta di un “sionismo spirituale”, che rifiutava di immaginare il nuovo Israele come Stato nazionale proprio a causa di quel tremendo olocausto che i nazionalismi aveva fatto subire al popolo ebraico che dunque, invece che Stato nazionale, avrebbe dovuto essere un protettorato internazionale, sede ospitante di quel che avrebbe dovuto essere “un popolo di sacerdoti”, “luce per le nazioni”. Naturalmente, questa idea venne respinta dalla maggioranza.La seconda, che rattrista ancor più, è data dal fatto che il ventre molle del capitalismo imperialista si nutre sempre di più di giovani ignari delle conseguenze di quel che fanno, ragazzi come quelli che hanno commesso questi attentati non sono nemmeno consapevoli del fatto che stanno servendo interessi completamente lontani e distanti dai loro e da quelli del loro popolo che, anzi, proprio per quel che hanno fatto, subiranno nuove vessazioni. Il sistema dei siti web per adescare i cosiddetti “jihadisti” è controllato dalla propaganda militare dei servizi segreti occidentali, e si nutrono di loro, a loro insaputa. A noi restano leggi liberticide e l’ipocrisia della politica, che distilla l’odio tra le religioni e la divisione tra i popoli. Ad onta delle anime nobili che continuano a sognare il dialogo tra i popoli, l’educazione e l’istruzione universale come accesso alla vita spirituale di tutti e di ciascuno. Svegliamoci, è tempo.(Davide Crimi, “Occidente, petrolio, dominio, propaganda e altri inganni”, dal blog del “Movimento Roosevelt” del 21 novembre 2015).La tragedia di Parigi rappresenta un fatto di eccezionale gravità, perché ha coinvolto persone totalmente estranee ad ogni ideologizzazione e sorprese in un momento di vita quotidiana. Le vittime sacrificali di questo eccidio sommuovono la coscienza, la mettono in subbuglio, perché si tratta di qualcosa che la nostra ragione ci fa comprendere è accaduto in casa nostra. Non segue a questo pensiero una considerazione “buonista”, che aggravi la coscienza con il senso di colpa del non saper avvertire lo stesso dolore per quel che ogni giorno accade in Siria. Sarà eticamente importante, ma non è questo il punto che trasforma un sentimento in un pensiero politico. La soglia di trasformazione è data dal pensiero: cui prodest? a chi serve? chi ne trae vantaggio? E’ possibile trascurare il fatto che gli autori dell’attentato, di quest’ultimo del 13 novembre come di quello alla redazione di Charlie Hebdo del 7 gennaio sono stati realizzati da musulmani di seconda generazione, residenti in Francia e in Belgio. E’ del tutto inopportuno trarre facili conseguenze o proporre semplificazioni inadeguate.
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Marijuana libera, e il Colorado incassa 175 milioni in tasse
Torna il dibattito sulla legalizzazione della marijuana: la crescita dell’anti-proibizionismo è una tendenza globale che ha già condotto a decisioni in questo senso in Uruguay e in alcuni Stati americani e città europee. «I risultati di un secolo di proibizionismo sono disastrosi», riconosce Paolo Bartolini: l’azione di contrasto dell’offerta «ha ottenuto il solo effetto di concentrarla in pochissime, potentissime, ferocissime mani». Zero risultati anche nel contrasto della domanda, che ha continuato a crescere ovunque. «In compenso, questo immenso buco nell’acqua ha costi giganteschi: finanziari, sociali, civili, criminali ed etici». Il motivo lo chiariscono gli economisti, tutti largamente anti-proibizionisti: «Rendere illegale una merce che è consumata da milioni di persone ha il solo effetto di aumentarne il prezzo e creare mafie potentissime in grado col tempo di comprarsi banche, grandi e piccole imprese, patrimoni immobiliari, media, fette crescenti di partiti, parlamenti e governi». Enormi masse di denaro “nero” «rappresentano una minaccia mortale per la democrazia e il sistema di mercato».La lotta alla droga, inoltre, assorbe ingenti risorse di polizia, giudiziarie, carcerarie. «Tanto per dare una idea, il problema del sovraffollamento da terzo mondo delle nostre carceri verrebbe praticamente di colpo risolto dalla legalizzazione», scrive Bartolini su “Micromega”. «Gli immensi ritardi della nostra giustizia penale si ridimensionerebbero». Per non parlare della finanza pubblica: le stime sui mancati introiti fiscali della tassazione di un commercio tanto imponente parlano di miliardi. Altrove, poi, il narcotraffico è un fattore permanente di destabilizzazione: «Nel 2006 il presidente messicano Calderòn decise di usare l’esercito dichiarando “guerra alla droga”. Da allora tale guerra ha prodotto la sbalorditiva cifra di 60.000 morti, che arrivano a 100.000 se si contano gli scomparsi. Ci sono paesi interi la cui economia è stata distrutta dalla transizione dell’agricoltura alla produzione di droghe, come l’Afghanistan, ormai avviato a divenire la prima monocoltura di papavero da oppio del pianeta».I sostenitori del proibizionismo non negano questo disastro, continua Bartolini, ma dicono che è il minore dei mali possibili. Motivazione etica: uno Stato non può legalizzare cose che fanno male. «Questo argomento – ribatte Bartolini – assume un sapore tragicomico in una società devastata da dipendenze di ogni genere, cominciando con quella dallo shopping e continuando con videogiochi, videopoker, slot, calcio, tv, sesso, pornografia, alcol, sigarette, tanto per menzionare qualcuna delle più comuni. E ovviamente una alluvione di droghe chimiche legali, elegantemente definite psico-farmaci». Infatti, «esistono una quantità di cose che sono legali, possono fare malissimo e sono persino pubblicizzate». E allora, perché pigliarsela solo con alcune droghe? «Il proibizionismo è in ritirata perché non esiste una risposta a questa domanda». O meglio, «non ne esiste una nobile», dal momento che «sono legali le droghe prodotte dalle case farmaceutiche e sono illegali quelle prodotte da contadini del terzo mondo o autoprodotte».Inoltre, l’anti-proibizionismo riduce le dipendenze: «Il calo costante e spettacolare del consumo di tabacco negli ultimi decenni in tutto l’Occidente dimostra che le campagne informative funzionano». Se una sostanza viene percepita come realmente pericolosa, il suo consumo diminuisce. Campagne come quelle anti-fumo «costano una frazione insignificante del costo di quell’immenso apparato messo su per la guerra alla droga». Secondo la polizia doganale americana, il 2014 ha registrato per la prima volta un calo delle importazioni di marijuana dal Messico (- 24%), che erano invece costantemente cresciute per 50 anni. Un primo successo del proibizionismo? Al contrario: «Sono le prime conseguenze di un anno abbondante di legalizzazione in due Stati americani, Colorado e Washington. Semplicemente, la vendita legale di marijuana ha rubato il mercato ai cartelli dei narcos». Inoltre, la marijuana legale è di migliore qualità, priva di tagli, senza gli additivi della marijuana illegale (ammoniaca, fibra di vetro e lana di roccia, che simulano i cristallini tipici della marijuana). Tutto questo lascia prevedere una diminuzione nel lungo periodo dei costi sanitari connessi all’uso di additivi dannosi per la salute.Quanto ai rischi paventati dai proibizionisti – aumento dei crimini, del consumo e degli incidenti stradali – non ve ne è alcuna traccia nelle statistiche, osserva ancora Bertani: in Messico molti vedono la legalizzazione negli Usa come l’unica salvezza dal definitivo disfacimento del paese, devastato dai cartelli. Infine, non proprio un dettaglio: il Colorado prevede un gettito fiscale di 175 milioni di dollari nei prossimi due anni che consentirà una sostanziosa riduzione della pressione fiscale. E le previsioni dello Stato di Washington sono intorno ai 600 milioni di dollari nei prossimi cinque anni. «Tutti soldi che verranno trasferiti dalle tasche dei narcos messicani a quelle dei due Stati americani», conclude Bartolini. Ecco perché «il proibizionismo è un lusso che non possiamo più permetterci». Marijuana libera significa due cose: più soldi pubblici e meno mafia. «Le mafie si occupano anche di altre cose oltre alla droga, ma questa rimane il loro core business. La legalizzazione delle droghe le indebolirebbe molto. La platea proibizionista è ampia e variegata. Ma la prima fila, quella dei sostenitori più accesi, è occupata dalle mafie».Torna il dibattito sulla legalizzazione della marijuana: la crescita dell’anti-proibizionismo è una tendenza globale che ha già condotto a decisioni in questo senso in Uruguay e in alcuni Stati americani e città europee. «I risultati di un secolo di proibizionismo sono disastrosi», riconosce Paolo Bartolini: l’azione di contrasto dell’offerta «ha ottenuto il solo effetto di concentrarla in pochissime, potentissime, ferocissime mani». Zero risultati anche nel contrasto della domanda, che ha continuato a crescere ovunque. «In compenso, questo immenso buco nell’acqua ha costi giganteschi: finanziari, sociali, civili, criminali ed etici». Il motivo lo chiariscono gli economisti, tutti largamente anti-proibizionisti: «Rendere illegale una merce che è consumata da milioni di persone ha il solo effetto di aumentarne il prezzo e creare mafie potentissime in grado col tempo di comprarsi banche, grandi e piccole imprese, patrimoni immobiliari, media, fette crescenti di partiti, parlamenti e governi». Enormi masse di denaro “nero” «rappresentano una minaccia mortale per la democrazia e il sistema di mercato».
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Franceschetti: perché il potere ha paura della spiritualità
Oppio dei popoli? Sì, quando la religione “perde l’anima” e si trasforma in struttura di potere basata su oscuri dogmi. Ma se si indaga su Buddha, Cristo e Maometto, sull’Ebraismo e sull’Induismo, si scopre che il messaggio fondamentale – la potenza assoluta della dimensione spirituale – è stato regolarmente neutralizzato e rimosso, specie in Occidente, perché mette in crisi il nostro sistema basato sul dominio: «Un individuo che vive la sua spiritualità è più libero dalle paure, quindi meno controllabile: ecco perché la spiritualità è stata così accanitamente combattuta, anche attraverso le stesse burocrazie religiose». Il giurista e saggista Paolo Franceschetti sostiene di averne avuto conferma studiando le grandi religioni. Dall’India al Medio Oriente, tutti i leader religiosi originari hanno trasmesso il medesimo credo, assolutamente positivo e destabilizzante: la divinità è già presente in noi, bisogna solo imparare ad “attivarla”. La rivelazione: è possibile trasformare radicalmente la propria vita, aprire gli occhi e superare ogni problema “trovando Dio” innanzitutto con la meditazione. Una verità che l’élite mondiale conosce da sempre e che ha cercato di tenere nascosta, sostiene Franceschetti. Ma ormai “i tempi stanno cambiando”, come cantava il giovane Dylan. E il “grande risveglio” è già cominciato.Avvocato e docente universitario, Franceschetti ha di recente abbandonato l’avvocatura per sfiducia nella giustizia: clamorosa la sua denuncia dei misfatti del potere occulto, contenuta nel suo seguitissimo blog e in libri come “Sistema massonico e Ordine della Rosa Rossa” (Uno Editori). La tesi: al vertice del potere si nasconde un clan oscuro, di formazione esoterica, dedito anche ad omicidi rituali come quelli del “Mostro di Firenze”, fino ai casi di cronaca più recenti, da Cogne a Yara Gambirasio, di cui i media omettono regolarmente i dettagli fondamentali che illuminerebbero il vero movente, quello dei sacrifici umani. Tutto cominciò quando Franceschetti venne chiamato, in carcere, da due giovani condannati all’ergastolo per il caso delle “Bestie di Satana”: «Avvocato, non pretendiamo di uscire di qui», gli dissero. «Vorremmo solo sapere perché siamo detenuti a vita, dal momento che non abbiamo mai ucciso nessuno». Dice Franceschetti: «Ho scoperto che le indagini erano state molto superficiali, e le condanne scaturite solo dall’ambigua confessione di uno dei presunti complici, in un contesto di fatti che non potevano reggere a una ricostruzione accurata».Frugando nelle cronache italiane, il legale ha intravisto un abisso: depistaggi, falsificazioni sistematiche, omissioni, capri espiatori, manovre coperte dal silenzio o dal chiasso mediatico. Domanda inevitabile: «Chi e perché agisce così? Cosa c’è nella mente di chi compie omicidi rituali, puntualmente spacciati per delitti ordinari, ancorché inspiegabili perché privi di un movente credibile?». I suoi molti lettori conoscono il coraggio e la generosità di Franceschetti, onnipresente sul web e in decine di conferenze lungo la penisola. Dopo la tragica perdita della compagna, si è impegnato persino sul difficile fronte della medicina democratica, con un blog – il primo in Italia – che presenta l’offerta esistente di cure alternative, tutte rivelatesi valide, per guarire dai tumori (il suo “testimonial” è stato un medico di Brescia, malato terminale, salvato in extremis dallo stesso Franceschetti che l’ha convinto a sottoporsi al Protocollo D’Abramo, basato sull’assunzione di vitamine e semplici biofarmaci naturali).Franceschetti pratica il buddhismo da molti anni, frequenta corsi di meditazione Yoga, è in intimità con religiosi cattolici. «La mia esperienza di avvocato poteva stroncarmi, sono stato minacciato, ho vissuto grandi pericoli. Ho rischiato la morte, e ho capito che – una volta rimossa quella paura – si diventa molto più forti». Proprio interrogandosi sul mistero dell’orrore quotidiano delle cronache, indagato con straordinaria tenacia per molti anni, Franceschetti è pervenuto a una conclusione spiazzante: «Chi uccide innocenti, in apparenza senza motivo, in realtà un suo movente ce l’ha: però è occulto e inconfessabile, di matrice esoterica. E il passo successivo è scoprire che quasi tutti i potenti della terra praticano la magia, la stessa magia che – in pubblico – sono sempre pronti a deridere. La loro è una spiritualità deviata, ma sono ben consci del potere della spiritualità vera: quella che ci nascondono con ogni mezzo, facendola sparire dai giornali, dalla televisione, persino dai telefilm: gli eroi della fiction lottano tra loro, scherzano, fanno sesso, ma nessuno mai che preghi, che esprima convinzioni religiose o almeno politiche. Non è un caso: gli egemoni vogliono che non ce ne occupiamo, dobbiamo restare completamente soli di fronte a Equitalia, al lavoro perduto, alle bollette che non sappiano come pagare. Il loro piano è semplice: ci vogliono sottomessi e prigionieri delle nostre paure, privi di soluzioni per raggiungere indipendenza, libertà, serenità e felicità».Una risposta illuminante, Franceschetti l’ha trovata nell’ispirazione originaria delle principali religioni del pianeta: ad esse è dedicato il suo ultimo libro, “Le Religioni”, che passa in rassegna le maggiori espressioni del pensiero religioso mondiale. Dal politeismo solo apparente dell’Induismo, dove la folla allegorica di divinità è in realtà sottoposta all’immanenza suprema del Brahman, fino alla più rarefatta manifestazione del perfetto monoteismo, l’Islam di Maometto, che – come anche l’Ebraismo – non ammette venerazioni intermedie come quelle dei santi cattolici, e dimostra un’insospettabile apertura universalistica: se Allah avesse voluto una sola religione, recita il Corano, solo quella ci sarebbe sulla Terra. Attraverso un approccio metodico, ricco di fonti e citazioni anche intensamente poetiche, come quelle dei grandi mistici di ogni provenienza, l’autore presenta in modo sistematico ciascun impianto religioso, le sue origini, il credo e le ritualità, ma si concentra sempre sul nocciolo essenziale di ogni espressione religiosa: cerca e trova il suo cuore mistico, spirituale. «E la sorpresa è questa: tutte le religioni, allo stato puro, esprimono la stessa verità».Inoltre, continua l’ex avvocato, ogni religione fornisce istruzioni precise per coltivare in modo concreto la pratica spirituale quotidiana, «capace di rafforzarci fino a risolvere ogni problema, grazie a un nuovo approccio non più succube della paura: proprio quel genere di strumento che la Chiesa cattolica, erede diretta dell’Impero Romano, ha accuratamente rimosso». Molto netta, nel libro, la denuncia della “manipolazione storica” operata dalla Chiesa di Roma, quella di Pietro e Paolo («non a caso: il primo rinnegò Cristo, il secondo non lo conobbe mai»), contro cui si batté per secoli il network segreto, “giovannita”, che in nome del “vero messaggio di Cristo” schierò i migliori intellettuali della cristianità – da Gioacchino da Fiore a Giordano Bruno, passando per Dante Alighieri e Leonardo da Vinci – in una sotterranea battaglia bimillenaria: San Bernardo e i Templari, San Francesco d’Assisi, San Benedetto da Norcia e gli amanuensi (accesso diretto alle fonti), i “Fidelis in Amore” e i Giordaniti, i Rosacroce, fino ai massoni. «L’amore che cita Dante, quello che “move il Sole e l’altre stelle”, è lo stesso a cui fa cenno Battiato, quando canta: “Tutto l’universo obbedisce all’amore”». Per Franceschetti, non è altro che «la legge universale dell’attrazione: siamo tutti parte di un unico organismo, il divino è in noi. Era il vero messaggio di Cristo, svelato nel Vangelo di Giovanni: siamo dèi dormienti, dobbiamo solo svegliarci». Già, ma come?Se ne occupa l’ultimo capitolo della vasta ricerca di Franceschetti, resa con agile taglio divulgativo: proprio la “spiritualità contemporanea” offre infiniti spunti e testimonianze su come migliorare il proprio stato vitale mettendo a frutto gli insegnamenti delle maggiori tradizioni religiose, rilette e reinterpretate da grandi maestri come il “messia riuttante” Jiddu Krishnamurti, e poi Mikhael Aivanhov, Georges Gurdjieff, Massimo Scaligero, Sri Aurobindo, oppure leader carismatici e scomodi, temutissimi e per questo assassinati mediante avvelenamento, come Osho e Rudolf Steiner, nonché il rosacrociano Paramahansa Yogananda (“Autobiografia di uno Yogi”). Franceschetti non disdegna neppure la vituperata “new age”, rivalutando bestseller come “The Secret”, di Rhonda Byrne, i libri di Joe Vitale e quelli di Esther e Jerry Hicks: «E’ vero, sono anche fenomeni commerciali, ma contribuiscono anch’essi a infondere coraggio e fiducia nel “risveglio”». Tutto è dunque nelle nostre mani? Non lo sostiene solo il “pensiero positivo” di Louise Hay, ma anche la “Profezia di Celestino” di James Redfield, senza contare le opere di ispirazione cristiana come le “Conversazioni con Dio” di Neal Donald Walsh e i volumi di Daniel Meurois-Givaudan, anch’essi ampiamente citati.Il libro di Franceschetti offre una panoramica trasversale e inedita dell’esperienza religiosa mondiale, da un punto di osservazione privilegiato: quello della spiritualità pura, al netto delle narrazioni culturali storiche e territoriali. Una lettura utile, per individuare sorprendenti punti di contatto tra mondi in apparenza lontanissimi o addirittura inconciliabili, come vorrebbe la vulgata attuale. In realtà, tutti raccontano la stessa storia: «Lo dimostra una volta di più l’assoluta coincidenza delle convinzioni su cui si incontrano, al vertice, l’ala mistica dell’Ebraismo, del Cristianesimo e dell’Islam, cioè i cabalisti Chassidim, i Rosacroce e i Sufi». Chi conosce Franceschetti e la sua onestà intellettuale non potrà che apprezzare il valore di questo libro: testimonia la passione dell’autore e l’evoluzione di una ricerca sincera, nata dal confronto con la più dura delle realtà – gli orrori della cronaca nera, il mestiere dell’avvocato – per trasformarsi in indagine non più solo sulle cause, ma sui principi che le innescano.Un lavoro editoriale dietro al quale si intravede il costante, proficuo scambio con personalità eclettiche e sorprendenti: da Gianfranco Carpeoro, studioso di simbologia e già “sovrano gran maestro” della massoneria di rito scozzese, a Fausto Carotenuto, già funzionario dei servizi segreti italiani, approdato alla via spirituale del network “Coscienze in Rete”. Il libro è un valido manuale per documentarsi su come i grandi maestri di ogni tempo hanno insegnato a pensare in modo libero, molto spesso a costo della propria vita. «Quello che ancora il potere ci nasconde – conclude Franceschetti – è l’immenso potenziale della nostra mente, se allenata e nutrita di spiritualità. E’ questo, in fondo, il grande segreto: dobbiamo smettere di avere paura. Ma non è certo un mistero: è una grande verità, declinata in infiniti modi, in ogni epoca. Oggi, grazie anche al web e alla propagazione universale della conoscenza, questa consapevolezza sta crescendo: siamo tutti dotati di un potere che, se esercitato, ci permette di liberarci dalla sofferenza, di guardare alla vita con più fiducia. E di sottrarci alla soggezione del potere, che si basa proprio sulla diffusione sistematica della paura». Dov’è l’inganno? «Ci fanno credere che con questa vita finisca tutto, mentre gli egemoni sono i primi a sapere che non è così».(Il libro: Paolo Franceschetti, “Le Religioni – Un percorso spirituale attraverso Induismo, Buddismo, Cristianesimo, Ebraismo, Islamismo e i maestri spirituali moderni”, 584 pagine, 33 euro. Il volume è acquistabile online su “Lulu”).Oppio dei popoli? Sì, quando la religione “perde l’anima” e si trasforma in struttura di potere basata su oscuri dogmi. Ma se si indaga su Buddha, Cristo e Maometto, sull’Ebraismo e sull’Induismo, si scopre che il messaggio fondamentale – la potenza assoluta della dimensione spirituale – è stato regolarmente neutralizzato e rimosso, specie in Occidente, perché mette in crisi il nostro sistema basato sul dominio: «Un individuo che vive la sua spiritualità è più libero dalle paure, quindi meno controllabile: ecco perché la spiritualità è stata così accanitamente combattuta, anche attraverso le stesse burocrazie religiose». Il giurista e saggista Paolo Franceschetti sostiene di averne avuto conferma studiando le grandi religioni. Dall’India al Medio Oriente, tutti i leader religiosi originari hanno trasmesso il medesimo credo, assolutamente positivo e destabilizzante: la divinità è già presente in noi, bisogna solo imparare ad “attivarla”. La rivelazione: è possibile trasformare radicalmente la propria vita, aprire gli occhi e superare ogni problema “trovando Dio” innanzitutto con la meditazione. Una verità che l’élite mondiale conosce da sempre e che ha cercato di tenere nascosta, sostiene Franceschetti. Ma ormai “i tempi stanno cambiando”, come cantava il giovane Dylan. E il “grande risveglio” è già cominciato.
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Chi riportò l’Afghanistan al medioevo, più di trent’anni fa
«Questa sera, per la prima volta dall’11 Settembre, la nostra missione di guerra in Afghanistan è conclusa». Queste le parole di apertura del discorso di Obama sullo Stato dell’Unione del 2015. In realtà, circa 10.000 soldati e 20.000 appaltatori militari (leggi mercenari) rimangono in Afghanistan con incarichi imprecisati. «La guerra più lunga nella storia americana sta arrivando ad una conclusione responsabile», ha detto Obama. La verità è che più civili sono stati uccisi in Afghanistan nel 2014 che in qualsiasi anno da quando l’Onu tiene il conto. La maggior parte delle uccisioni – sia civili che militari – sono avvenute durante la presidenza di Obama. La tragedia dell’Afghanistan fa a gara con il crimine epico perpetrato in Indocina. Nel suo elogiato e più volte citato libro “La grande scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici”, Zbigniew Brzezinski, il padrino delle politiche americane dall’Afghanistan ad oggi, scrive che se l’obiettivo dell’America è quello di controllare l’Eurasia e di dominare il mondo, non può reggere una democrazia popolare, perché «la ricerca del potere non è un obiettivo che richiede passione popolare, la democrazia è nemica dell’impegno imperiale». Ha ragione.Come hanno rivelato “Wikileaks” e Edward Snowden, uno Stato di polizia e di controllo sta infatti soppiantando la democrazia. Nel 1976, Brzezinski, allora consigliere della sicurezza nazionale della presidenza Carter, ha dimostrato il suo punto di vista comminando un colpo mortale alla prima e unica democrazia dell’Afghanistan. Ma chi la conosce questa storia fondamentale? Nel 1960, una rivoluzione popolare dilagò in Afghanistan, il paese più povero della terra, riuscendo alla lunga nell’intento di rovesciare le vestigia del regime aristocratico nel 1978. Il Pdpa, Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan, formò un governo e compilò un programma di riforme che prevedeva l’abolizione del feudalesimo, la libertà per tutte le religioni, la parità di diritti per le donne e giustizia sociale per le minoranze etniche. Più di 13.000 prigionieri politici furono liberati e gli archivi di polizia pubblicamente bruciati. Il nuovo governo introdusse cure mediche gratuite per i più poveri; la condizione di bracciante fu abolita, un programma di alfabetizzazione di massa fu varato. I progressi che ci furono per le donne erano fino ad allora impensabili.Verso la fine del 1980, la metà degli studenti universitari erano donne, e le donne rappresentavano quasi la metà dei medici in Afghanistan, un terzo dei dipendenti pubblici e la maggior parte degli insegnanti. «Ogni ragazza», ricorda Saira Noorani, chirurga, «poteva andare a scuola e all’università. Potevamo andare dove volevamo e indossare quello che ci piaceva. Di venerdì andavamo al bar o al cinema a vedere l’ultimo film indiano e ascoltavamo la musica più in voga. Tutto cominciò ad andare storto quando i mujahedin iniziarono ad imporsi. Uccidevano gli insegnanti e bruciavano le scuole. Eravamo terrorizzati. Era strano e triste pensare che queste persone erano spalleggiate dall’Occidente». Il Pdpa al governo era sostenuto dall’Unione Sovietica, anche se, come l’ex segretario di Stato Usa, Cyrus Vance, ammise poi, non vi era alcuna prova di complicità sovietica [nella rivoluzione]». Preoccupato dalla crescente fiducia dei movimenti di liberazione in tutto il mondo, Brzezinski decise che, se l’Afghanistan avesse trionfato con il Pdpa, la sua indipendenza e il suo progresso avrebbero posto «la minaccia di un esempio promettente».Il 3 luglio 1979, la Casa Bianca segretamente autorizzò lo stanziamento di 500 milioni di dollari in armi e logistica per sostenere gruppi tribali “fondamentalisti”, conosciuti come i mujahedin. L’obiettivo era quello di rovesciare il primo governo laico e riformista dell’Afghanistan. Nel mese di agosto del 1979 l’ambasciata americana a Kabul segnalò che «gli interessi degli Stati Uniti sarebbero stati asserviti meglio [dalla scomparsa del Pdpa] malgrado ciò che questo avrebbe significato per le future riforme sociali ed economiche dell’Afghanistan». I mujaheddin furono i precursori di Al-Qaeda e dello Stato Islamico. Tra questi c’era Gulbuddin Hekmatyar, che ricevette decine di milioni di dollari in contanti dalla Cia. Le specialità di Hekmatyar erano il traffico di oppio e gettare acido in faccia alle donne che si rifiutavano di indossare il velo. Fu invitato a Londra e decantato dal primo ministro, Margaret Thatcher, come «combattente per la libertà». Forse questi fanatici sarebbero rimasti nel loro mondo tribale se Brzezinski non avesse promosso un movimento internazionale per favorire il fondamentalismo islamico in Asia centrale, così minando una politica laica di liberazione e “destabilizzando” l’Unione Sovietica, per creare, come scrisse poi nella sua autobiografia, «un po’ di musulmani esagitati».Il suo grande piano coincise con le ambizioni del dittatore pakistano, il generale Zia ul-Haq, per il dominio della regione. Nel 1986, la Cia e l’Isi, l’agenzia di intelligence del Pakistan, iniziarono a reclutare persone da tutto il mondo per promuovere la jihad afghana. Il multi-miliardario saudita Osama Bin Laden era tra questi. Agenti che un domani si sarebbero uniti ai Talebani e ad Al-Qaeda furono reclutati in un college islamico di Brooklyn, New York, e a loro fu impartita una formazione paramilitare in una zona di proprietà della Cia in Virginia. Questa fu chiamata “Operazione Ciclone” e il suo successo culminò nel 1996, quando l’ultimo presidente del Pdpa afghano, Mohammed Najibullah – che si era recato al cospetto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per implorare aiuto – fu impiccato a un lampione dai Talebani. Il risultato dell’Operazione Ciclone e dei suoi “pochi musulmani esagitati” fu l’11 settembre 2001. L’“Operazione Ciclone” divenne la “guerra al terrore”, in cui innumerevoli uomini, donne e bambini avrebbero perso la vita in tutto il mondo musulmano, dall’Afghanistan all’Iraq, allo Yemen, alla Somalia e alla Siria. Il messaggio dei cosiddetti tutori dell’ordine era e rimane: “O sei con noi o contro di noi”.(John Pilger, estratto da “Perché l’avanzata del fascismo è nuovamente il problema”, post scritto il 26 febbraio sul proprio blog e ripreso il 3 marzo 2015 da “Come Don Chisciotte”).«Questa sera, per la prima volta dall’11 Settembre, la nostra missione di guerra in Afghanistan è conclusa». Queste le parole di apertura del discorso di Obama sullo Stato dell’Unione del 2015. In realtà, circa 10.000 soldati e 20.000 appaltatori militari (leggi mercenari) rimangono in Afghanistan con incarichi imprecisati. «La guerra più lunga nella storia americana sta arrivando ad una conclusione responsabile», ha detto Obama. La verità è che più civili sono stati uccisi in Afghanistan nel 2014 che in qualsiasi anno da quando l’Onu tiene il conto. La maggior parte delle uccisioni – sia civili che militari – sono avvenute durante la presidenza di Obama. La tragedia dell’Afghanistan fa a gara con il crimine epico perpetrato in Indocina. Nel suo elogiato e più volte citato libro “La grande scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici”, Zbigniew Brzezinski, il padrino delle politiche americane dall’Afghanistan ad oggi, scrive che se l’obiettivo dell’America è quello di controllare l’Eurasia e di dominare il mondo, non può reggere una democrazia popolare, perché «la ricerca del potere non è un obiettivo che richiede passione popolare, la democrazia è nemica dell’impegno imperiale». Ha ragione.