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Poteri oscuri, anche Salvini obbedisce al Tav Torino-Lione
Non basterebbe neppure Dan Brown. Ci vorrebbe almeno Tolkien, per svelare – attraverso una fiaba – il mistero del Tav Torino-Lione, cioè il sortilegio nero che vuole che si spendano 20-30 miliardi per costruire quella linea ferroviaria “maledetta”. Si tratta dell’inutile e faraonico doppione della ferrovia che esiste già, e che da 150 anni collega Torino a Lione attraverso la valle di Susa e il Traforo del Fréjus, riammodernato qualche anno fa (costo, 400 milioni di euro) per consentire il transito dei treni con a bordo i Tir e anche i grandi container “navali”, della massima pezzatura. L’unico problema è che non ci sono più merci da trasportare: l’asse strategico del terzo millennio è quello che unisce Genova e Rotterdam, mentre la direttrice Torino-Lione è ormai un binario morto, dal destino segnato. Secondo la Svizzera, incaricata dall’Ue di monitorare il traffico alpino, l’attuale Torino-Modane, semideserta, potrebbe incrementare addirittura del 900% il suo volume di trasporti. E allora che bisogno c’è di scavare – da zero – un nuovo traforo, lungo 57 chilometri, di cui non esiste ancora neppure un metro?L’unico mini-tunnel realizzato, quello di Chiomonte, è solo una galleria esplorativa accessoria, geognostica: non potrebbe mai passarci nessun treno, anche se Matteo Salvini arriva a sostenere – davanti alle telecamere, proprio a Chiomonte – che costerebbe meno “finire il lavoro” piuttosto che “tappare il buco”. Dichiarazione ingannevole: Salvini sa benissimo che il “lavoro” per il tunnel destinato al treno non è mai neppure cominciato. Pur di premere sui 5 Stelle, il leader leghista – come già Renzi – arriva a ipotizzare un progetto “low cost”, parlando di appena 4 miliardi (cioè il costo della parte italiana dell’ipotetico futuro traforo, non quello della linea ferroviaria fino a Torino). Di più: il ministro dell’interno aggiunge che, “risparmiando” (ad esempio, rinunciando alla surreale “stazione internazionale” di Susa), si potrebbero costruire finalmente anche opere utili, come la metropolitana di Torino. Su questo ha ragione: il capoluogo piemontese, a lungo amministrato dalla dinastia Castellani-Chiamparino-Fassino, dispone solo di un’unica, patetica linea.Torino, la metropoli più inquinata della penisola, è anche la grande città italiana peggio servita dai mezzi pubblici veloci: è l’unica a non disporre di una vera rete metropolitana. In compenso, i suoi ex sindaci sono tra i più fanatici sostenitori dell’inutile Tav Torino-Lione. Chiamparino, in particolare, è il capo degli hooligan pro-Tav. Un caso esemplare di mistero italico: dopo aver fatto il sindaco è passato senza colpo ferire alla guida di una potentissima centrale finanziaria come la Compagnia di San Paolo, per poi tornare tranquillamente alla politica. L’uomo di fiducia dei grandi banchieri è oggi presidente della Regione Piemonte, poltronissima da cui martella il governo gialloverde per ottenere a tutti i costi la grande opera “maledetta”. Ci sta riuscendo? Stando a Salvini, parrebbe di sì. Sulla maxi-torta dell’appalto alpino, il capo della Lega è perfettamente allineato al fantasma del Pd.A questo punto, la ragione vacilla. Per chi ha seguito i vent’anni di protesta popolare in opposizione alla Torino-Lione, i conti non tornano. Il movimento NoTav – ormai appoggiato da vasti strati dell’opinione pubblica nazionale – è stato il primo vero esempio, in Italia e non solo, di denuncia politica “glocal”. Dal particulare all’universale, dicevano gli umanisti rinascimentali. Agire localmente e pensare globalmente, ripetevano negli anni ‘80 i primi Verdi ispirati da Alex Langer. I valsusini – popolo sulle barricate, che nel 2005 riuscì a fermare il progetto con una spettacolare protesta nonviolenta guidata dai sindaci in fascia tricolore – per molti aspetti hanno come anticipato gli americani di Occupy Wall Street, adottando un metodo di lotta, dal sit-in fino al blocco stradale, che oggi i Gilet Gialli si limitano a replicare. L’intuizione: se il potere “bara” a casa nostra, sulla base di dati falsificati, è lecito sospettare che “imbrogli” ovunque. E’ lecito supporre che si limiti a eseguire gli ordini di un’oligarchia del denaro mossa da interessi inconfessabili.Sta barando da vent’anni, il potere che insiste – come un disco rotto – nel voler imporre quella super-linea inutile in valle di Susa, facendola pagare carissima all’Italia? Vedete voi, ma sappiate che la Torino-Lione non serve: lo dicono tutti i maggiori esperti di trasporti, tra cui il professor Marco Ponti del Politecnico di Milano, ora collocato dal ministro Toninelli nella scomodissima posizione di presidente della commissione incaricata di formulare un giudizio decisivo sul rapporto costi-benefici della grande opera. La Torino-Lione non serve: lo ribadirono ben 360 professori e tecnici dell’università italiana, in accorati e inutili appelli rivolti al Quirinale e a Palazzo Chigi. Costi immensi, e nessun risultato: perché le merci devono comunque viaggiare a bassa velocità, per motivi di sicurezza. Quanto alla Francia, spesso usata in Italia come alibi “europeo” per costruire a tutti i costi l’infrastruttura, ha deciso ufficialmente che di Torino-Lione, a Parigi, si riparlerà eventualmente solo dopo il 2030.Il progetto Torino-Lione è un relitto ormai obsoleto degli anni ‘80: era nato come sogno di collegamento veloce per passeggeri, ed è stato archiviato dall’avvento dei voli low-cost. Al che, è stato trasformato in Tac, treno ad alta capacità per le merci, fingendo di non sapere che i convogli commerciali devono viaggiare lentamente, e che la chiave del trasporto merci non è la velocità, ma la puntualità della logistica: il sistema più efficiente al mondo è quello degli Usa, fatto da treni che viaggiano a 60 miglia utilizzando tunnel dell’800 che valicano le Montagne Rocciose. I costi territoriali della Torino-Lione sarebbero folli: le montagne della valle di Susa sono piene di amianto e tuttora traforate dalle gallerie scavate dall’Agip negli anni ‘70, ai tempi del nucleare italiano, perché il Massiccio dell’Ambin è un immenso giacimento di uranio. Senza contare la devastazione ambientale e urbanistica (vent’anni di cantieri), l’incognita maggiore è quella idrogeologica: quei monti fra Italia e Francia, dicono i geologi, ospitano un enorme bacino sommerso. Bucarlo potrebbe comportare conseguenze impensabili, con ripercussioni sui fiumi fino alla Valle d’Aosta.Il compianto Luca Rastello, giornalista di “Repubblica”, in un saggio sul tema spiega che poi, una volta alle porte di Torino, la nuova linea potrebbe congiungersi alla Torino-Milano solo sbancando interi quartieri o procedendo per via sotterranea, e quindi perforando la falda idropotabile che alimenta l’area metropolitana torinese. Non se ne rendono conto, gli abitanti di Torino, perché nessun politico – prima di Chiara Appendino – si è mai premurato di spiegarlo chiaramente. Né si interrogano, i torinesi, sul motivo di tanta ostinazione, da parte dei valsusini, nell’opporsi al progetto. Non sospettano, i torinesi, che la criminalizzazione a reti unificate del movimento NoTav è servita a nascondere due verità imbarazzanti. La prima: in vent’anni, la politica non ha mai voluto o saputo dimostrare l’utilità della grande opera, neppure a fronte di una protesta così rumorosa. La seconda: il progetto Torino-Lione è nato sotto una cattiva stella, la peggiore di tutte: la strategia della tensione.Negli anni ‘90, appena si cominciò a insistere sull’opera come “inevitabile” prospettiva strategica, la valle di Susa fu terrorizzata da 12 attentati dinamitardi. Alcuni furono rivendicati in modo delirante: volantini firmati “Valsusa Libera” e “Lupi Grigi” contenevano farneticazioni “guerriere” contro l’alta velocità. I giornali, all’unisono, puntarono il dito contro gli “ecoterroristi” e gli “anarco-insurrezionalisti”. Poco dopo vennero arrestati tre giovani anarchici, di cui due – Edoardo Massari e Maria Soladed Rosas, “Sole e Baleno” – trovati morti (impiccati) mentre erano in stato di detenzione. Contro di loro, l’accusa aveva vantato “prove granitiche”, che poi al processo evaporarono: non erano stati loro a mettere quelle bombe. Chi, allora? Non s’è mai saputo: caso chiuso. I valsusini però non dimenticano. Sanno che quello di Bardonecchia, santuario del turismo bianco, vicino a Sestriere, è stato il primo Consiglio Comunale italiano – a nord del Po – a essere disciolto per mafia. E sanno che, sempre negli anni ‘90, la procura di Torino intercettò un traffico di armi che collegava l’armeria di Susa a una cosca calabrese, con il placet di settori del Sismi e del Sisde. Erano gli anni della “trattativa”, in cui Falcone e Borsellino saltavano per aria, in Sicilia.Si può immaginare lo stato d’animo dei valsusini, quando – dopo tutto questo – si sono visti arrivare, nel cortile di casa, anche lo spettro della maxi-opera più controversa della storia, al pari del Ponte sullo Stretto. A parlare è il buon senso della geografia: Moncenisio, Fréjus e Monginevro. Ovvero: statali, autostrada, ferrovia, trafori. Nessun’altra valle alpina è altrettanto collegata al resto d’Europa, attraverso valichi internazionali. Perché aggiungere anche l’assurda Torino-Lione? Quale mistero indicibile trasforma la valle di Susa in un oscuro crocevia di mafie e affari, bombe e appalti? E soprattutto: com’è possibile che, in vent’anni, la politica non si sia mai degnata di dare una risposta chiara? E’ evidente che, se l’utilità della Torino-Lione venisse finalmente dimostrata, le bandiere della protesta finirebbero per venir ammainate. Basterebbe spiegare per quale motivo l’opera è ritenuta indispensabile. La valle di Susa lo chiede da vent’anni. E la risposta non è mai arrivata. Perché?Visto che la politica tace, tanto varrebbe chiedere lumi ai romanzieri come Dan Brown o all’autrice di Harry Potter, non essendo più possibile interpellare il Signore degli Anelli. Magia? Se una verità viene palesemente taciuta da decenni, il minimo che possa accadere è che si scatenino anche i complottismi più fantasiosi. Ha suscitato sconcerto, nel 2016, l’inaugurazione teatrale del traforo del Gottardo, con l’inquietante coreografia dedicata a un Dio Caprone. Fausto Carotenuto, già analista strategico dell’intelligence ora passato al network “Coscienze in Rete”, sostiene che la Torino-Lione sarebbe una sorta di “attentato energetico” per violare la Linea di Michele, notissima ley-line che unisce Israele all’Irlanda attraverso i santuari dedicati all’arcangelo Michele, con epicentro proprio la Sacra di San Michele in valle di Susa. Paolo Rumor, nipote del più volte premier Mariano Rumor, nel libro “L’altra Europa” racconta una storia sconvolgente, rivelata a suo padre dall’europeista francese Maurice Schuman: il medesimo potere, di natura dinastica (denominato “La Struttura”) governerebbe il pianeta da 12.000 anni, e la stessa Unione Europea sarebbe opera sua.Non potendo interpellare Tolkien o scomodare la Rowling, non resta che tralasciare le suggestioni e attenersi ai fatti: sarebbe capace, Matteo Salvini, di spiegare il motivo per cui l’Italia, insieme alla Francia, dovrebbe scavare – da zero – un tunnel di 57 chilometri per costruire il doppione della ferrovia Torino-Lione che esiste già? Se la risposta la conosce, perché non la svela? Perché anche lui si limita, come tutti gli altri, a dire stupidaggini, sapendo che i media mainstream le ripeteranno con successo, confidando nell’ignoranza del grande pubblico? C’è davvero un grande potere-ombra che – per motivi ignoti e imperscrutabili – ha lanciato un’Opa misteriosa sulla stramaledetta Torino-Lione? Un grande affare finanziario, d’accordo, ma per pochi intimi (pochissimi i lavoratori coinvolti). E, secondo il giallista Massimo Carlotto, anche una virtuale “lavanderia” di denaro: un magistrato come Ferdinando Imposimato ha dimostrato che vasti tratti della rete Tav italiana sono stati costruiti proprio da aziende mafiose.Poi ci sarebbe il triste indotto politico della filiera, affidato ai soliti yesman che in realtà lavorano da sempre per le consorterie affaristiche che hanno costruito le loro carriere istituzionali. Ma non può essere tutto qui, il problema. Cos’altro può muovere i fili di una follia pubblica così estrema, e così potente da piegare persino i bulletti del “governo del cambiamento”? Lo spettacolo non è edificante: Salvini con l’elmetto a Chiomonte, ormai arruolato alla causa, mentre Di Maio e Toninelli non osano neppure lontanamente minacciare le dimissioni, nel caso dovessero perdere il braccio di ferro (e quindi la faccia). Li si può capire: dal canto suo, il primo ministro Conte cazzeggia beatamente al bar con Angela Merkel, l’amicona di Macron e dell’Italia, ridacchiando alle spalle di quei fessi dei 5 Stelle (e degli italiani che li hanno votati). Nel frattempo, l’inesorabile ecomostro finanziario e ferroviario avanza, passo dopo passo. E l’umorista Salvini pensa di cavarsela con le battute sui mitici “risparmi”: come se davvero si trattasse di tre o quattro miliardi, e non invece di un grottesco attentato alla sovranità democratica del paese, evidentemente organizzato – con tenacia impressionante – da poteri che possono mettersi in tasca qualsiasi politico, anche se indossa la maschera di cartone del sovranismo.(Giorgio Cattaneo, “Quale oscuro potere ha piegato anche l’ex sovranista Salvini alla teologia dell’inutile Tav Torino-Lione?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 2 febbraio 2019).Non basterebbe neppure Dan Brown. Ci vorrebbe almeno Tolkien, per svelare – attraverso una fiaba – il mistero del Tav Torino-Lione, cioè il sortilegio nero che vuole che si spendano 20-30 miliardi per costruire quella linea ferroviaria “maledetta”. Si tratta dell’inutile e faraonico doppione della ferrovia che esiste già, e che da 150 anni collega Torino a Lione attraverso la valle di Susa e il Traforo del Fréjus, riammodernato qualche anno fa (costo, 400 milioni di euro) per consentire il transito dei treni con a bordo i Tir e anche i grandi container “navali”, della massima pezzatura. L’unico problema è che non ci sono più merci da trasportare: l’asse strategico del terzo millennio è quello che unisce Genova e Rotterdam, mentre la direttrice Torino-Lione è ormai un binario morto, dal destino segnato. Secondo la Svizzera, incaricata dall’Ue di monitorare il traffico alpino, l’attuale Torino-Modane, semideserta, potrebbe incrementare addirittura del 900% il suo volume di trasporti. E allora che bisogno c’è di scavare – da zero – un nuovo traforo, lungo 57 chilometri, di cui non esiste ancora neppure un metro?
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Scanu: l’informazione sporca è complice dei vaccini sporchi
Ci sono tanti modi per mentire: produrre dati falsi, interpretare in modo tendenzioso quelli disponibili. Ingigantire fatti irrilevanti o, al contrario, sminuire dati importanti. E magari omettere informazioni indispensabili. Nella stampa italiana, scrive Patrizia Scanu, segretaria del Movimento Roosevelt, non è raro imbattersi in questo tipo di disinformazione. Un caso esemplare? I vaccini imposti. Magari “sporchi” e inefficaci (come denunciato dall’ordine dei biologi) oppure pericolosi, tali da creare problemi al 40% dei bambini vaccinati (come riscontrato dalla Regione Puglia). Due notizie devastanti, capaci di demolire la certezza “teologica” sui vaccini sicuri. Qualcuno ne ha parlato, sui grandi media? Giornalisti non pervenuti: silenti, distratti, reticenti. Spesso ripiegano sull’autocensura, «come compromesso accettabile per tutelare la carriera, la vita familiare o la propria incolumità personale». Quanto siano micidiali, le “fake news” ufficiali che ci mettono tutti in pericolo, lo si era già visto con la Lorenzin: nessuna testata andò a controllare se fosse vera la notizia dei 270 bambini inglesi morti per morbillo nel 2013 (non lo era: non ne morì nessuno).L’aver lasciato circolare una menzogna così grave, e su una questione così delicata per la tutela dei cittadini più indifesi, «rimarrà nella storia nazionale come un atto vergognoso e imperdonabile, un vero e proprio tradimento», scrive Patrizia Scanu sul blog del Movimento Roosevelt. Il tema è sempre più scottante, dopo il patto per frenare la ricerca scientifica scritto da Roberto Burioni e firmato da Grillo, Renzi e Mentana. Un gruppo di medici, oggi, ricorre la magistratura per diffidare lo stesso Burioni dal diffondere notizie false, sui vaccini. Ma non è che i telegiornali strombazzino l’evento: silenziarono addirittura l’annuncio ufficiale della commissione difesa, che a inizio anno parlò di 7.000 militari italiani (di cui 1.000 già morti) colpiti da malattie gravissime, al 50% imputabili proprio alle vaccinazioni somministrate. «Il fatto stesso di aver tenuto all’oscuro i cittadini dei contenuti più scottanti di un fondamentale atto parlamentare – osserva Patrizia Scanu – appare una manipolazione della verità di dimensione inaudita», anche perché «l’omissione è una menzogna non meno grave della produzione di dati falsi», visto che i suoi effetti sono identici, ovvero: «Impedire la formazione di un’opinione fondata».Nelle ultime settimane, poi, «siamo giunti all’apoteosi della menzogna». Omertà assoluta sulla “farmacovigilanza attiva” promossa dalla Puglia: anziché limitarsi ad attendere eventuali ricoveri, la Regione ha attentamente controllato, giorno per giorno, i bambini vaccinati. Risultato increscioso: problemi per 4 piccoli su 10. Senza la sorveglianza attiva, infatti, solo una minima parte degli effetti indesiderati finisce nelle statistiche, che quindi sono inattendibili. Su “Quotidiano Sanità”, Silvio Tafuri scrive che in Italia – su 7 milioni di bambini vaccinati – si sono riscontrate 900 problematicità, ma soltanto 56 “eventi avversi gravi”. Ben diverso lo scenario illuminato dalla Puglia: su 1.672 soggetti inclusi nel progetto di vigilanza attiva, sono ben 656 le segnalazioni di eventi avversi, esattamente il 39,23% del totale. «Ma non ci avevano detto a reti unificate che erano uno su un milione? O addirittura, come aveva affermato Alberto Villani, presidente dell’Associazione italiana di pediatria, 3 o 4 negli ultimi vent’anni?». Pallottoliere alla mano, la Puglia costringe a cambiare le statistiche: estendendo la vigilanza attiva, i casi critici sarebbero 392.300 su ogni milione, cioè 4 bambini su 10. Allora – conclude Parizia Scanu – era fondata eccome, la preoccupazione dei genitori “somari e ignoranti”.Quanti casi verrebbero fuori, se la vaccinovigilanza attiva venisse condotta in tutte le Asl d’Italia? E quali sorprese avremmo se si analizzassero gli effetti indesiderati di tutti i vaccini? E se si prolungasse oltre i 12 mesi di questo studio? E se si studiassero gli effetti a lungo termine? Si scopre poi che gli effetti avversi sono correlati alla somministrazione contemporanea di due vaccini virali, quadrivalente Mprv (morbillo, parotite, rosolia e varicella) e l’Hav (epatite A). E la stragrande maggioranza dei casi riguarda bambini di età inferiore ai due anni. «E se avesse avuto ragione quel pazzo di Andrew Wakefield a suggerire di non vaccinare contro morbillo, parotite e rosolia prima dei due anni, per ridurre gli effetti avversi? E se non fossero poi così dementi i genitori a chiedere che non vengano iniettati troppi vaccini contemporaneamente, specie antivirali?». E poi: qualcuno, nel report della regione Puglia, commenta questi sconvolgenti risultati? «No, assolutamente. Va tutto bene, madama la marchesa». Domande obbligatorie, che i media non si pongono: quanti sono i danneggiati gravi che non guariscono, moltiplicati per tutte le dosi di tutti i vaccini di tutti i bambini italiani? Sono di più o di meno dei danneggiati dalle malattie per le quali si vaccina?Come si fa a dire che “questo vaccino è assolutamente sicuro”, a fronte di questi dati? E le autorità sanitarie? Hanno commentato? Nessuno lo ha fatto, scrive Patrizia Scanu: lo ha scoperto un gruppo di genitori del Moige, ascoltati dalla commissione sanità in Senato il 20 novembre scorso. «Poi, come sempre, è calato il silenzio». Stessa coltre di nebbia sulla notizia, ancora più sconvolgente, diffusa da un unico giornale (il quotidiano romano “Il Tempo”, diretto da Franco Bechis) riguardo alle contro-analisi commissionate ai biologi italiani dal Corvelva, associazione veneta di genitori contrari all’obbligo vaccinale. Immediati gli strepiti delle “vestali della scienza”, che gridano alla bufala e tacciano di ignoranza i laboratori coinvolti. “Repubblica” parla addirittura di 130 scienziati, pezzi grossi delle università italiane, edi ben 15 istituzioni straniere, senza però elencarne i nomi. «Il tono come sempre è sprezzante – annota Scanu – e mira a screditare i dati di Corvelva», A difendere le analisi indipendenti, oltre al presidente dei biologi Vincenzo D’Anna, provvede la dottoressa Loretta Bolgan, laureatasi ad Harvard, ma al mainstream non basta.Perché tanta sdegnosa riprovazione? «Perché dal laboratorio – risponde Patrizia Scanu – vengono fuori risultati agghiaccianti, benché del tutto provvisori, e soprattutto perché la notizia è trapelata, rompendo la spirale del silenzio». Alcuni campioni di “vaccini sicuri” sono risultati infarciti di antibiotici, diserbanti, erbicidi, acaricidi e metaboliti della morfina. Sono state rilevate sequenze di Dna umano (feti) e non umano (virus e retrovirus nocivi, batteri, vermi). L’Aifa si difende: i vaccini, dice, sono sottoposti ad analisi incrociate – delle aziende produttrici, e di laboratori accreditati. Benissimo, risponde D’Anna: allora esibitele, queste analisi: se sono davvero così rassicuranti, perché non mostrarle? Servirebbe a zittire, a ragion veduta, i genitori del Corvelva. Che – essendo ben informati – sono perfettamente al corrente dello scandalo emerso negli Stati Uniti, a proposito di mancanza totale di trasparenza, proprio sui vaccini. L’avvocato Robert Kennedy junior, rampollo della nota famiglia, ha scoperto che – nel suo grande paese – da ormai 32 anni nessuno esegue più controlli autonomi sulla sicurezza dei vaccini.Ovvero: «Nessuno controlla, in modo indipendente dalle aziende, la sicurezza dei preparati vaccinali, mentre per tutti gli altri farmaci i controlli sono molto stretti e vincolanti». Nel solo 2016, le segnalazioni di danni da vaccino negli Usa sono state 59.711 (con ben 432 morti). Visto che ma manca la vigilanza attiva (e quindi ufficialmente i problema tocca solo l’1% dei vaccinati), secondo Kennedy i bambini realmente danneggiati potrebbero essere quasi 6 milioni in un solo anno, con ben 43.200 bambini morti a causa del vaccino. Possibile? Teoricamente, la notizia è enorme: perché la stampa non si incarica di verificarla? Riguardo all’obbligo vaccinale, insiste Patrizia Scanu, «non siamo di fronte a una questione scientifica, ma a una questione politica, etico-giuridica e di libertà dell’informazione». Ovvero: «Non si può obbligare nessuno a un trattamento medico non necessario alla sopravvivenza, perché il corpo è inviolabile». Né si può «limitare l’esercizio di un diritto civile come il diritto all’istruzione, per costringere a compiere un’azione contraria alla propria volontà e di dubbia sicurezza per la propria incolumità».E’ insopportabile e pericoloso, aggiunge la segretaria del Movimento Roosevelt, che la stampa «continui a fare propaganda, anziché informazione, e a nascondere informazioni determinanti per la pubblica opinione». Le autorità sanitarie? Devono garantire con ogni trasparenza possibile la salute dei cittadini: non possono trattenere o manipolare informazioni così rilevanti quando è in gioco il benessere fisico dei più indifesi. «Senza trasparenza non c’è democrazia». Libertà di espressione, di critica, di informazione: qui manca tutto. «Se non altro, le analisi del Corvelva hanno il merito di aver rotto il muro di fallacie propagandistiche e di affermazioni dogmatiche (e dogmaticamente false) con le quali si è finora impedito un dibattito serio sulle vaccinazioni obbligatorie». Espellere dall’ordine i medici scomodi disonora la scienza e svilisce la democrazia. Occorre alzare lo sguardo, insiste Patrizia Scanu: «Il problema – gravissimo e gravemente minaccioso per tutti noi – è quello dell’informazione manipolata, non la falsa e artificiosa contrapposizione tra “pro-vax” e “no-vax”».Ci sono tanti modi per mentire: produrre dati falsi, interpretare in modo tendenzioso quelli disponibili. Ingigantire fatti irrilevanti o, al contrario, sminuire dati importanti. E magari omettere informazioni indispensabili. Nella stampa italiana, scrive Patrizia Scanu, segretaria del Movimento Roosevelt, non è raro imbattersi in questo tipo di disinformazione. Un caso esemplare? I vaccini imposti. Magari “sporchi” e inefficaci (come denunciato dall’ordine dei biologi) oppure pericolosi, tali da creare problemi al 40% dei bambini vaccinati (come riscontrato dalla Regione Puglia). Due notizie devastanti, capaci di demolire la certezza “teologica” sui vaccini sicuri. Qualcuno ne ha parlato, sui grandi media? Giornalisti non pervenuti: silenti, distratti, reticenti. Spesso ripiegano sull’autocensura, «come compromesso accettabile per tutelare la carriera, la vita familiare o la propria incolumità personale». Quanto siano micidiali, le “fake news” ufficiali che ci mettono tutti in pericolo, lo si era già visto con la Lorenzin: nessuna testata andò a controllare se fosse vera la notizia dei 270 bambini inglesi morti per morbillo nel 2013 (non lo era: non ne morì nessuno).
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A chi giovano le sconcertanti minacce rivolte a Mentana?
Tutto si può imputare, a Enrico Mentana, tranne che la mancanza di cordialità e di umana empatia. E’ un affabile surfer, il direttore del telegiornale de La7, nel mare tempestoso delle fake news ufficiali: magari dribbla le verità più scomode e sta ben attento a non uscire mai dalla cornice disegnata dagli spin doctor dell’establishment, ma almeno non partecipa alle crocifissioni rituali che il sistema infligge, con acrimonia, a questo e a quello, attraverso propagandisti con la bava alla bocca, travestiti da giornalisti. Di tutto si sentiva la mancanza, oggi in Italia, fuorché di un bel costume da martire, tagliato su misura per l’Enrico nazionale. Alla bisogna ha prontamente provveduto la mano (anonima, ovviamente) che gli ha indirizzato minacce mafiose, evocando l’oscura escatologia della forca che attenderebbe, un giorno, i malfattori della disinformazione. La minaccia è stata accolta così seriamente da mobilitare nientemeno che il primo ministro, dichiaratosi preoccupato per l’incolumità della libera informazione – che evidentemente nel nostro paese esiste ancora, secondo Giuseppe Conte.Par di sentire l’eco di antiche, orrende canzoni. Del tipo: negli anni di piombo, giornalisti come Indro Montanelli finirono all’ospedale “gambizzati” (mentre altri, come Walter Tobagi e Carlo Casalegno, non ebbero altrettanta fortuna). Nel saggio “Gli stregoni della notizia”, Marcello Foa – ora presidente della Rai – accusa frontalmente la categoria a cui appartiene: l’autocensura quotidiana, praticata in ossequio al potere, mina il giornalismo. Gli toglie prestigio e credibilità, e alla fine indebolisce il sistema democratico stesso, privandolo delle verità indispensabili alla buona salute dell’opinione pubblica. Oggi ci si mette a ridere, al solo ricordo della fialetta agitata da Colin Powell alle Nazioni Unite, per sembrare più convincente nel vendere la bufala delle armi di sterminio di Saddam. Ma il sorriso sparisce subito, se solo si prova a far presente – anche a Mentana – che architetti e ingegneri americani hanno dimostrato, in modo ormai incontrovertibile, che le Torri Gemelle non possono essere crollate in quel modo solo per l’impatto di aerei dirottati.Con Enrico Mentana ha ingaggiato una sorta di leale duello a distanza, a viso aperto, un personaggio come il regista e video-reporter Massimo Mazzucco, autore del primo documentario d’inchiesta sull’11 Settembre, “Inganno globale”, trasmesso proprio da Mentana nel 2006 in prima serata, su Canale 5. Bei tempi, dice Mazzucco, quando l’Enrico faceva ancora il giornalista, e quindi dava spazio anche all’altra campana, la versione non ufficiale dei fatti. Col tempo, non ha solo silenziato le indagini indipendenti sull’11 Settembre. Si è allineato all’establishment su tutto: dalla politica all’economia, sposando in modo acritico la teologia dell’austerity. Vale anche per il cosiddetto complottismo declassato a gossip. Invece di indagare giornalisticamente sulle scie che stranamente imbrattano i cieli da alcuni anni, suscitando interrogativi nella popolazione (e persino interrogazioni in Parlamento), si preferisce ridere di “quelli che credono alle scie chimiche”. Le famiglie italiane sono state terremotate dall’obbligo vaccinale per bambini e neonati? E certo, lo vuole “la scienza”. E la sanità della Regione Puglia, che ha scoperto che il 40% dei bimbi vaccinati ha subito reazioni avverse? E non è “scienza” l’ordine dei biologi, che ha scoperto vaccini “sporchi” e inefficaci, perché privi degli agenti immunizzanti?Mazzucco si occupa anche di vaccinazioni – come tanti, sul web – cercando di mettere insieme notizie e ragionamenti logici. Consultando i maggiori fotografi internazionali, nel documentario “American Moon” ha dimostrato che le immagini del mitico allunaggio del 1969 furono girate in studio. Si è occupato anche di cannabis, Mazzucco, scoprendo che c’era la lobby del petrolio dietro la storica decisione di criminalizzare di punto in bianco l’uso della canapa, oggi rivalutata in campo oncologico. E sempre a proposito di salute, lo stesso Mazzucco si è occupato anche di cancro, rivelando che – da cent’anni – i medici che avrebbero imparato a guarire i pazienti colpiti da tumori vengono semplicemente ignorati e silenziati, quando non messi all’indice. Milanese come Mentana, Mazzucco è nato come fotografo, assistente di Oliviero Toscani. Poi è passato al cinema, lavorando per anni – da regista e sceneggiatore – negli studios della De Laurentiis, a Hollywood. Fino a quel maledetto lunedì 11 settembre 2001, quando ha visto il seguente spettacolo: due aerei hanno potuto centrare le Torri Gemelle senza che nessun F-16 si fosse levato il volo, quantomeno nell’eternità di tempo trascorsa tra il primo e il secondo impatto.Quella mattina, a proteggere la superpotenza più armata del mondo c’erano solo due velivoli pronti a decollare, muniti di missili, più altri due di riserva. Tutti gli altri – centinaia – erano stati trasferiti per esercitazioni concomitanti, lontanissimo da New York. Una circostanza più che anomala: mai prima verificatasi, nella storia degli Usa (né mai più ripetutasi, infatti). Nel saggio “La guerra infinita”, uscito nel 2003, Giulietto Chiesa ricorda che l’ordine di attacco per l’Afghanistan era sulla scrivania di George W. Bush già il 9 settembre 2001, lo stesso giorno in cui i terroristi del “signore della guerra” Gulbuddin Hekmatyar uccisero l’unico legittimo leader agfhano, Ahman Shah Massoud. Troppo ingombrante, Massoud: campione della resistenza nazionale, prima contro l’Urss e poi contro i Talebani, sarebbe stato facilmente acclamato come nuovo presidente, una volta riconquistata Kabul. Gli assassini di Massoud – disse Benazir Bhutto – erano protetti dall’Isi, l’intelligence militare del Pakistan, succursale della Cia. «Mi candido alle elezioni», annuciò la Bhutto, «per ristabilire la verità». Saltò in aria in piena campagna elettorale, il 27 dicembre 2007, dilaniata da una bomba.Spesso, Enrico Mentana ha espresso nostalgia per il suo primo amore, la politica estera. Che fine ha fatto, dopo tanti anni, la voglia di scavare dietro la verità ufficiale della geopoltica? Mentana ha fatto la storia del giornalismo televisivo italiano: giovane esponente del Psi approdato in Rai grazie a Bettino Craxi, nel 1991 – a soli 37 anni – accettò la grande scommessa prospettatagli da Berlusconi: creando l’allora rivoluzionario Tg5, mandò in pensione il letargico e paludato Tg1, imponendo un nuovo tipo di informazione, brillante e fulminea, che già anticipava la velocità attuale del web, l’immediatezza istantanea dei social. Una volta approdato a La7, Mazzucco gli rinfaccia di essersi sprofondato nella nuova poltrona: poteva essere “il primo degli ultimi”, la maggiore delle voci indipendenti (in piena coerenza con la sua storia professionale) e invece si è rassegnato a essere “l’ultimo dei primi”, mestamente allineato al coro.Le residue illusioni sono cadute dando uno sguardo allo strombazzatissimo giornale online che Mentana ha aperto, in proprio, con il lodevole intento di dare spazio ai giovani giornalisti. Sulla nuova testata, “Open”, le notizie di apertura sono però di questo tenore: “Suoni e visioni: Google lancia l’Interpreter Mode, è l’inizio della fine degli interpreti umani?”. Ora, Mentre Mazzucco e gli altri ex estimatori augurano la buonanotte al fu Enrico Mentana, c’è però chi gli augura tutt’altro: “Presto vi puniremo, sappiamo tutto di voi, punirvi è un dovere”. Questo il messaggio che Mentana ha ricevuto, firmato “Boia chi molla”, con tanto di svastica. L’Italia ribolle di risentimenti, in parte fuori controllo: il governo gialloverde ha provato a metterci una pezza, ma con risultati deludenti. La stessa Europa sta franando, dai Gilet Gialli alle convulsioni post-Brexit. La tensione è in aumento ovunque, dopo gli opachi attentati domestici di marca Isis. Si avvicinano le europee, insieme alla temuta recessione. Cresce il caos? Manca solo il fantasma peggiore: quello del terrorismo. Qualcuno – non si sa chi – lo rianima prontamente, riuscendo a trasformare in quasi-eroe persino lo sbiadito, reticente Enrico Mentana.Mala tempora currunt: su pressione dell’oligarca tedesco Günther Oettinger, commissario Ue, il Parlamento di Strasburgo ha gettato le basi per un vero e proprio bavaglio del web, che impone il filtro dei contenuti sulle maggiori piattaforme (Google, Facebook, YouTube) e mette virtualmente fine alla libera circolazione dei link. E’ di questo che ha paura, il mainstream, dopo le ultime sconfitte subite: il referendum di Renzi e l’euro-diserzione del Regno Unito, la vittoria di Trump e quella dei gialloverdi. Comunque vada a finire, se mai dovesse sciaguratamente prendere corpo una reale minaccia di tipo terroristico contro la cosiddetta libera informazione, ci ritroveremmo di fronte a un copione già scritto: ancora più potere ai media mainstream, e un’ulteriore emarginazione dei media indipendenti, comodamente criminalizzabili in blocco. Come ha da poco ricordato lo stesso Mazzucco, l’imbecille di turno non manca mai. Il problema non è lui, ma chi poi lo manipolerà. Storia: le prime Br erano un fenomeno spontaneo. Quelle che uccisero Moro, non più.Di tutte le guerre striscianti in corso oggi, quella per l’informazione è la più cruciale: senza l’appoggio “militare” del mainstream, uno come Monti sarebbe stato preso a pesci in faccia, nel 2011. I vari Cottarelli e Moscovici possono sfilare tranquillamente in passerella davanti alle telecamere: nessun grande giornale e nessun telegiornale prenderà mai in seria considerazione le voci, anche molto autorevoli, che smontano ogni giorno le loro tesi. E’ una vera e propria emergenza democratica, quella dell’informazione manipolata. Lo dimostra, ogni giorno di più, il deficit di credibilità che oggi colpisce i giornalisti, una categoria di cui ormai la maggioranza della popolazione non si fida più. Attaccarli in modo sgangherato e proditorio non può che rafforzarli, puntellandone la pericolante attendibilità. Saranno ancora loro a scendere nell’arena delle prossime europee, ciascuno scrupolosamente “embedded”, precisamente istruito dai club come l’Aspen, il Bilderberg e la Trilaterale, sempre così premurosi nel fabbricare il consenso quotidiano attorno all’oligarchia neoliberista che ha silenziosamente svuotato le nostre democrazie, appaltate a politici di cartone trasformati in star da ex giornalisti che di tutto si occupano, tranne che delle vere ragioni della grande crisi.(Giorgio Cattaneo, “A chi giovano le sconcertanti minacce rivolte a Enrico Mentana?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 17 gennaio 2019).Tutto si può imputare, a Enrico Mentana, tranne che la mancanza di cordialità e di umana empatia. E’ un affabile surfer, il direttore del telegiornale de La7, nel mare tempestoso delle fake news ufficiali: magari dribbla le verità più scomode e sta ben attento a non uscire mai dalla cornice disegnata dagli spin doctor dell’establishment, ma almeno non partecipa alle crocifissioni rituali che il sistema infligge, con acrimonia, a questo e a quello, attraverso propagandisti con la bava alla bocca, travestiti da giornalisti. Di tutto si sentiva la mancanza, oggi in Italia, fuorché di un bel costume da martire, tagliato su misura per l’Enrico nazionale. Alla bisogna ha prontamente provveduto la mano (anonima, ovviamente) che gli ha indirizzato minacce mafiose, evocando l’oscura escatologia della forca che attenderebbe, un giorno, i malfattori della disinformazione. La minaccia è stata accolta così seriamente da mobilitare nientemeno che il primo ministro, dichiaratosi preoccupato per l’incolumità della libera informazione – che evidentemente nel nostro paese esiste ancora, secondo Giuseppe Conte.
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La verità sul debito italiano: siamo stati “rapinati” nel 1981
Spread e debito pubblico: fanno ormai parte delle nostre vite, ne sentiamo parlare continuamente, ossessivamente, tanto da preoccuparcene più della disoccupazione giovanile a livelli inverosimili e di una mancata crescita che ormai ci sta traghettando dalla crisi alla recessione. Eppure l’opinione pubblica ha talmente interiorizzato la narrazione mercato-centrica del mainstream che non sembra credere ad altro: siamo stati spendaccioni e irresponsabili (Piigs) e dobbiamo dunque espiare le nostre colpe con una giusta dose di rigore e disciplina. Dunque l’austerity è la giusta – nonché unica – strada da percorrere, così come vuole l’approccio dogmatico del modello economico neoliberista, il tatcheriano Tina, “there is no alternative”. Abbiamo un debito pubblico intorno al 130% del Pil, secondo in Ue solo a quello della Grecia, per cui meritiamo la condizione di sorvegliati speciali di Bruxelles e di essere dunque defraudati di una nostra politica fiscale autonoma (di quella monetaria siamo già stati privati). È la strada indicata dalla “virtuosa” Germania, esempio di disciplina e rispetto delle regole per noi italiani, così dissoluti e un anche un po’ scostumati. Ma quando si è creato il fardello del debito pubblico italiano? Tutto parte nel 1981, in cui accade un evento epocale, che fa da spartiacque nella storia della sovranità economica italiana: il famoso divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro.Con un atto quasi univoco, cioè una semplice missiva all’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, Andreatta mette fine alla possibilità del governo di finanziare monetariamente il proprio disavanzo. Rimuovendo l’obbligo allora vigente da parte di Palazzo Koch di acquistare i titoli di Stato emessi sul mercato primario, la Banca d’Italia dismette il ruolo di prestatrice di ultima istanza. D’ora in poi, per finanziare la propria spesa pubblica, l’Italia deve attingere ai mercati finanziari privati, con la conseguente esplosione dei tassi d’interesse rispetto a quelli garantiti in precedenza. Ma non solo: viene rivisto il meccanismo di collocamento dei titoli di Stato, introducendo il cosiddetto “prezzo marginale d’asta”, che consente agli operatori finanziari di aggiudicarsi i titoli al prezzo più basso tra quelli offerti e, quindi, al tasso di interesse più alto. Ad esempio, se durante un’emissione di 50 miliardi di Btp, 40 vengono aggiudicati a un rendimento del 3%, mentre il restante al 5%, alla fine tutti i 50 miliardi saranno aggiudicati al 5%! Gli effetti sono tanto disastrosi quanto immediati: l’ammontare di debito, che nel 1981 era intorno al 58,5%, dopo soli tre anni raddoppia e nel 1994 arriva al 121% del Pil.Come riportato dallo stesso Andreatta alcuni anni dopo, questo stravolgimento strutturale era necessario per salvaguardare i rapporti tra Unione Europea e Italia, e per consentire al nostro paese di aderire allo Sme, ossia l’accordo precursore del sistema euro. Quando l’Italia fa il suo ingresso nell’euro non risponde ai parametri del debito pubblico richiesti da Maastricht, ma l’interesse politico e l’artefatto entusiasmo generale per la sua partecipazione hanno la meglio. Sarà la crisi del 2008 a far emergere tutti i limiti e la fallimentarietà di un’area valutaria non ottimale e insostenibile come l’Eurozona: l’Italia, come altri paesi, senza la possibilità di ricorrere alla svalutazione del cambio, non riesce a recuperare terreno. Il debito pubblico, che finora era rientrato in una fase discendente, passa dal 102,4% al 131,8% del 2017. Una crescita notevole, ma di gran lunga ridimensionata se paragonata all’incremento del debito pubblico di altri paesi dell’area euro, come Spagna, Portogallo e la stessa Francia.Nello stesso arco temporale, infatti, Madrid ha visto il suo debito pubblico schizzare dal 38,5% al 98,3%, il che significa un tasso incrementale di circa il 150%! La crisi non ha risparmiato neanche il vicino Portogallo, che è arrivato lo scorso anno a un livello del debito molto vicino al nostro (125,7%), partendo da un “contenuto” 71,7% del 2008. Eppure i due paesi iberici hanno sforato ripetute volte il famigerato vincolo del 3% – parametro tanto assiomatico quanto infondato – permettendo così all’economia di tornare a crescere, a differenza di quella italiana che si è incamminata nel percorso distruttivo dell’austerity. Situazione analoga per la Francia, con un valore del debito pubblico allo scoppiare della crisi inferiore del 70% e che oggi si aggira intorno al 100%, ma senza che ciò le abbia impedito di aumentare la spesa pubblica e il deficit di bilancio, assicurando in questo modo la crescita del Pil.Dunque, sintetizzando, il nostro famigerato debito pubblico è sì più elevato, ma è partito da una situazione di evidente svantaggio, ed è cresciuto in termini percentuali del tutto in linea con l’andamento degli altri paesi dell’euro a seguito della crisi; anzi, anche meno di altri, come abbiamo visto, e aggravato dalle politiche di austerity, i cui effetti deprimenti sull’economia sono conclamati. Rimane il problema dei tassi d’interesse (da cui il famigerato spread), da noi più elevati che altrove, proprio a causa delle modalità dei meccanismi di collocamento dei titoli di Stato introdotte a seguito dell’epocale divorzio tra i due istituti finanziari italiani. È stato stimato che in trent’anni abbiamo pagato la colossale cifra di 3mila miliardi di interessi sul debito pubblico! In queste circostanze a nulla valgono gli sforzi fiscali dell’Italia, che registra da quasi trent’anni avanzo primario, ossia quella situazione, del tutto antisociale, per cui lo Stato incassa più di quanto spende, esclusi gli interessi sul debito pubblico. Per onorare il costo del debito, ossia quell’assurda creazione del denaro dal denaro, vengono sottratte risorse finanziarie per servizi pubblici e sostegno alla popolazione in difficoltà. Dunque, una redistribuzione al contrario, dai cittadini ai mercati finanziari. Il tempo delle riforme è ormai improcrastinabile.(Ilaria Bifarini, “Tutta la verità sul debito pubblico, contro le menzogne di Bruxelles”, da “Il Primato Nazionale” del 10 gennaio 2019).Spread e debito pubblico: fanno ormai parte delle nostre vite, ne sentiamo parlare continuamente, ossessivamente, tanto da preoccuparcene più della disoccupazione giovanile a livelli inverosimili e di una mancata crescita che ormai ci sta traghettando dalla crisi alla recessione. Eppure l’opinione pubblica ha talmente interiorizzato la narrazione mercato-centrica del mainstream che non sembra credere ad altro: siamo stati spendaccioni e irresponsabili (Piigs) e dobbiamo dunque espiare le nostre colpe con una giusta dose di rigore e disciplina. Dunque l’austerity è la giusta – nonché unica – strada da percorrere, così come vuole l’approccio dogmatico del modello economico neoliberista, il tatcheriano Tina, “there is no alternative”. Abbiamo un debito pubblico intorno al 130% del Pil, secondo in Ue solo a quello della Grecia, per cui meritiamo la condizione di sorvegliati speciali di Bruxelles e di essere dunque defraudati di una nostra politica fiscale autonoma (di quella monetaria siamo già stati privati). È la strada indicata dalla “virtuosa” Germania, esempio di disciplina e rispetto delle regole per noi italiani, così dissoluti e un anche un po’ scostumati. Ma quando si è creato il fardello del debito pubblico italiano? Tutto parte nel 1981, in cui accade un evento epocale, che fa da spartiacque nella storia della sovranità economica italiana: il famoso divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro.
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Barnard: Julian Assange verso la morte. E voi codardi, zitti
Ci ha rivelato verità indicibili, rendendoci più consapevoli e quindi più liberi. Ma ora Julian Assange può crepare, nella sua stanzetta-prigione, senza che nessuno muova un dito per salvarlo: giornali, attivisti, intellettuali, politici, governi. Si è immolato per tutti, con le esplosive rivelazioni affidate a WikiLekas. Sperava di suscitare un’ondata di protesta capace di scuotere il potere. E immaginava che l’indignazione lo avrebbe protetto dalla vendetta dell’establishment. Ma si sbagliava: Julian Assange sta morendo giorno per giorno: l’ambasciata ecuadoregna di Londra, che finora l’ha tenuto al riparo dall’estradizione, potrebbe non tutelarlo più. È così forte, la pressione degli Usa – sull’Ecuador, e sulle autorità britanniche – che le teste di cuoio inglesi potrebbero fare irruzione nella sede diplomatica e caricare Assange, il martire dell’informazione libera, sul primo volo per Washington. È sconvolgente il report che Paolo Barnard fornisce da Londra, dove ha trascorso le feste natalizie presidiando il “carcere” di Assange, agitando vistosi cartelli. Desolazione e solitudine. Peggio: i giornalisti del “Guardian”, i primi a presentare Assange come un eroe, ora confessano di essere intimiditi e ricattati. Per questo nessuno rimetterà in prima pagina il direttore di WikiLeaks. Julian Assange è praticamente già morto. Alla faccia dei diritti civili e dei diritti umani di cui l’Occidente si vanta.Dopo aver fatto da sentinella per 11 giorni sotto la finestra dove il giornalista australiano è sostanzialmente detenuto, Paolo Barnard getta la spugna. La denuncia che affida al suo blog è tale da coprire di vergogna l’intera opinione pubblica mondiale, a cominciare da attivisti per molti aspetti valorosi – come lo stesso John Pilger – che, dopo aver santificato Assange, oggi (nel momento del bisogno) lo hanno di fatto abbandonato al suo destino. Nessuna seria mobilitazione è in corso – in nessun paese – per premere sui governi in modo da scongiurare il peggio, ovvero: evitare che sia sottoposto a un processo “medievale”, negli Stati Uniti, l’uomo che sperava di migliorare il mondo (per la maggior libertà di tutti noi) rischiando in prima persona pur di rendere pubblico il lato oscuro del potere. Dal 2007, WikiLeaks ha pubblicato oltre un milione e 200.000 documenti riservati: dalla guerra in Afghanistan fino alle rivelazioni sulla corruzione in Kenya. Grazie a WikiLeaks il mondo ha scoperto come vengono torturati i prigionieri catturati dagli Usa e detenuti a Guantanamo.Nel 2010, il network di Assange ha svelato alla grande stampa (“New York Times”, “The Guardian”, “Der Spiegel”) il contenuto di alcuni documenti riservati, dai quali emergono aspetti nascosti della guerra in Afghanistan: l’uccisione di civili, l’occultamento dei cadaveri, l’esistenza di un’unità segreta americana dedita a «fermare o uccidere» i Talebani anche senza un regolare processo. Inevitabile che Julian Assange venisse perseguitato con il più ovvio dei pretesti, come l’accusa di “stupro” spiccata contro di lui nel 2010 dal tribunale di Stoccolma. Strano stupro: avrebbe avuto rapporti sessuali “non protetti”, ma con donne consenzienti. Il 7 dicembre 2010, Assange si presentò spontaneamente a Scotland Yard, dove venne arrestato (su mandato di cattura europeo). Dopo nove giorni di carcere venne rilasciato su cauzione. Il vero pericolo, fin da allora, è la possibile richiesta di estrazione negli Usa, una volta che Assange fosse trasferito in Svezia: l’accusa per spionaggio, negli Stati Uniti, può costare l’ergastolo e anche la pena di morte.Il fondatore di WikiLeaks è segregato dal giugno del 2012 nell’ambasciata londinese dell’Ecuador, paese a cui aveva chiesto asilo politico. Lo status di rifugiato gli è stato concesso il 16 agosto 2012 dal governo di Rafael Correa, temendo che la Gran Bretagna lo arrestasse per estradarlo a Stoccolma. Nel gennaio 2016, il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla Detenzione Arbitraria ha decretato che la permanenza forzata di Assange nell’ambasciata è configurabile come “detenzione arbitraria e illegale” da parte di Gran Bretagna e Svezia. Anche per questo, l’11 gennaio 2018 l’Ecuador ha confermato di aver concesso ad Assange la propria cittadinanza. Ricapitolando: l’uomo che rappreasenta la miglior fonte giornalistica del mondo è costretto a vivere in una stanzetta, da sei anni, per sottrarsi al pericolo di subire un processo sommario e magari di essere condannato a morte, una volta estradato negli Usa dopo il trasferimento in Svezia. E intanto sta franando anche il fragile diaframma che finora lo ha protetto. Il problema? Non c’è più Rafael Correa, alla guida dell’Ecuador.Il nuovo governo del paese centramericano è oggi totalmente pro-Usa, ricorda Paolo Barnard: e il neo-eletto presidente Lenìn Moreno ha definito il direttore di WikiLeaks «un sasso che mi sono ritrovato nella scarpa», e gli è totalmente ostile. Ormai la vita di Assange, nei pochi metri quadri in cui è ospitato, è diventata «un vero inferno di proibizioni e limiti». Assange è isolato dal mondo, senza cure, vessato dagli agenti interni. «Lo stanno demolendo nella psiche e nel corpo per costringerlo ad arrendersi e a uscire». L’autorevole “British Medical Journal” ha mandato uno specialista a visitarlo e ha denunciato come «drammatiche» le sue condizioni di salute, fisiche e mentali, dopo 6 anni di questo tipo di prigionia. E la situazione sta precipitando, avverte Barnard: «Da poche settimane si è venuto a sapere che ora esiste ufficialmente in America un’imputazione (cosiddetta segreta), cioè un capo d’accusa, contro Assange, cosa che prima mai era stata rivelata, ma che tutti temevano».Ciò significa che ora «la Gran Bretagna è sotto un’enorme pressione per estradarlo», appena uscisse dall’ambasciata. Peggio: potrebbe essere addirittura «prelevato di forza, col permesso dell’Ecuador». Il timore dell’esistenza di questa imputazione tenuta nascosta aggiunge Barnard, è stato precisamente il motivo per cui Julian Assange da 6 anni è costretto a vivere segregato nell’unica ambasciata che gli ha dato asilo, ma che ora gli è nemica. Ce ne sarebbe abbastanza per mobilitare almeno l’opinione pubblica, attraverso la stampa. E invece, scrive Barnard, arriva un’altra amara sopresa: i giornali non parlano più di Assange, perché sono stati minacciati. «Il prestigiosissimo inglese “The Guardian” – scrive Barbard – è il quotidiano che sotto la direzione di Alan Rusbridger lanciò gli scoop di WikiLeaks nel mondo, vendendo oceani di copie e sventolando Assange come un eroe del giornalismo». Ma ora, aggiunge, accade qualcosa d’incredibile. «Dal 2013, il quotidiano adotta un altro “whistleblower” di fama mondiale, Edward Snowden, e inizia a mollare Assange».In altre parole: si rischia di meno a parlare di Snowden, l’uomo che ha smascherato lo spionaggio di massa della Nsa, e che ora vive comunque al sicuro, a Mosca, protetto dalla Russia di Putin. È probabilissimo che, senza l’esempio di Assange, Snowden non avrebbe mai trovato il coraggio di uscire allo scoperto. Ma il “Guardian” sembra averlo dimenticato. E c’è di peggio: Barnard cita un editorialista del quotidiano inglese, Luke Harding, che si era lanciato in una crociata per tentare di dimostrare la presunta collusione di Putin con Trump nelle presidenziali 2016. Harding, che era già stato screditato per non aver prodotto praticamente una singola prova (ma solo illazioni), ora pubblica ora uno “scoop” proprio sul “Guardian”: Paul Manafort, il gran manager elettorale di Trump, secondo Harding avrebbe visitato Assange all’ambasciata diverse volte, e questo proverebbe che in realtà WikiLeaks ha davvero subdolamente pubblicato le nefandezze della Clinton per aiutare Donald, sotto ordini di Mosca. «La stampa mondiale riprende il cosiddetto scoop di Harding, e questo sembra essere il colpo di grazia per Julian. Ma in meno di 48 ore il tutto cade a pezzi», scrive Barnard. «In una settimana Harding viene demolito, al punto che il “Washington Post” scrive che il suo scoop sembra sempre più “una bufala”».Il 1° gennaio, lo stesso Barnard ha piantonato la sede del “Guardian” con un cartello appeso al collo. Il testo: “Sono un giornalusta. Assange era l’eroe del Guardian. Ora lo hanno degradato a falsario. Perché?”. Il sit-in di Barnard, a tre metri dall’ingresso della redazione del giornale, non passa inosservato: reporter, segretarie e tecnici rallentano, per leggere il suo cartello. Il secondo giorno, scrive, le cose si mettono male: «La security diviene ostile (“abbiamo ordini”), i colleghi che entrano ed escono evitano il contatto visivo, vengo fotografato da una guardia “sotto richiesta della direzione”». Nonostante ciò, alcuni giornalisti inglesi si fermano a parlare con il collega italiano, co-fondatore di “Report” con Milena Gabanelli. Le loro ammissioni sono penose: «Sì, dicono, c’è un ordine di squadra di mollare e screditare Assange; è una questione decisa dal gruppo editoriale, al top; si parla di pressioni insostenibili da parte del ministero degli esteri britannico e degli Usa; c’è addirittura shock, fra i giornalisti del “Guardian”, per questa decisione».Questo gli dicono, i cronisti inglesi. Uno di loro, Damien Gayle, addirittura rilancia su Twitter l’appello di Barnard per Assange, e giorni dopo gli confesserà: «Sono stato in ansia a twittarti, ma dovevo farlo perché la libertà di dissenso dovrebbe essere l’anima stessa del mio giornale. Spero non mi licenzino». È amaro, Barnard, dopo la sua generosa missione londinese: unico giornalista italiano (senza più giornali che lo pubblichino) a interessarsi della sorte del “prigioniero” più famoso del mondo. Osserva: «Sono convinto che tentare d’incriminare un direttore di testata, Julian Assange e WikiLeaks, per aver rivelato al mondo documenti riservati o dei servizi segreti su alcune nefandezze e crimini contro l’umanità di vari poteri attraverso l’uso delle “soffiate” (i “whistleblowers”), per poi punirlo con pene devastanti, può essere la fine del giornalismo». Infatti, aggiunge, «nessun “whistleblower” mai più avrà il coraggio di farsi avanti per svelare le porcherie segrete dei governi o delle corporations, e senza di loro il giornalista diviene al meglio un testimone di fatti, ma mai sarà in grado di rivelare la vere e profonde fonti degli eventi».La verità sul motivo per cui oggi praticamente tutti i governi del mondo appoggiano l’estradizione di Assange negli Usa – dopo le rivelazioni di WikiLeaks sulle porcherie elettorali della Clinton, sulle stragi americane in Iraq e Afghanistan o sulle reti di spionaggio della Cia su civili e aziende – non è assolutamente quella che ci raccontano, cioè che WikiLeaks avrebbe irresponsabilmente pubblicato segreti di Stato e di fatto aiutato Trump o l’Isis. Macché: il vero motivo, sottolinea Barnard, è questo: «Il potere rimane forte quando resta nell’oscurità. Una volta esposto alla luce del sole, comincia a evaporare». La frase non è di Barnard, ma dall’insigne politologo americano Samuel Huntington, co-autore del famigerato saggio “La crisi della democrazia” con cui il committente, la Commissione Trilaterale, a metà degli anni Settanta detterà le regole per lo svuotamento delle nostre democrazie. La frase sul potere, che diventa fragile se viene fatto uscire allo scoperto, Huntington l’ha scritta nel libro “American Politics. The promise of disharmony”, uscito nel 1983. «E’ questo il peccato mortale per cui oggi stanno distruggendo Julian Assange», sottolinea Barnard. «E’ solo per questo».Nonostante le imprecisioni di cui è responsabile, infatti, «WikiLeaks è l’unica pubblicazione al mondo che davvero ha devastato questo principio di dominio dei poteri, pubblicandone alla luce del sole le azioni più inconfessabili. E lo ha fatto grazie ai “whistleblowers”, e solo grazie a loro». Quindi, insiste Barnard, «se Assange sarà estradato negli Usa – il paese che nel nome della Sicurezza Nazionale (sotto cui sarebbe processato Assange) tortura, stermina innocenti coi “drones”, nega ogni diritto di legge ai detenuti e straccia ogni singola convenzione Onu sui diritti umani – questo direttore di testata sarà macellato come nessun giornalista prima, secondo l’infame principio del “ne ammazzi uno per avvisarne cento”. Impossibile che riceva un giusto processo in America, oggi».Inutilmente, Barnard ha fatto appello a tutti gli attivisti fino a ieri schierati con Assange, suggerendo loro di battere due strade di enorme peso, riguardo all’esilio coatto (e precario) del fondatore di Wikileaks. Primo atto d’accusa: la violazione, da parte della Gran Bretagna, dei princìpi della Magna Carta e dell’Habeas Corpus, cioè «i due pilastri della giurisprudenza mondiale, nati 800 anni fa proprio in Inghilterra». Seconda strada: la possibilità di accusare Londra in base alla Convenzione dell’Onu contro la Tortura, ratificata dagli inglesi nel 1987. Il trattato dice esplicitamente dice che tortura è “estrema sofferenza, sia fisica che mentale, inflitta di proposito a un individuo”. Il che è esattamente «ciò che i governi britannici stanno facendo ad Assange da 6 anni, confinato in semi-isolamento, privato di cure mediche, senza luce naturale e sorvegliato con ferocia a ogni mossa». Risposte? Nessuna. Salvo l’onesta e penosa ammissione di Damien Gayle, del “Guardian”: abbiamo paura di essere licenziati, se solo proviamo a riparlare di Assange.Era il 2011 quando un parlamentare socialista norvegese, Snorre Valen, osò candidare Julian Assange al Premio Nobel per la Pace: «Wilikeaks – disse – è il paladino della libertà di espressione e della trasparenza nel XXI secolo». Parole oggi improponibili, impensabili. Lo conferma la costernazione di Paolo Barnard, dopo 11 giorni spesi a Londra nella solitaria difesa del “prigioniero”. «Torno a casa – scrive – con la conferma di ciò che ho sempre pensato: ha vinto la Commissione Trilaterale, quando nel 1975 decise che il popolo andava reso “apatico” con l’esplosione dei mass media sia ortodossi che “alternativi” (oggi i social), dove infuriano epiche leggende mentre nessuno davvero fa un cazzo nelle strade perché è fatica e rischio, dove si creano i miti Vip per il palcoscenico, e dove i veri eroi rimangono soli come cani». Ha vinto Huntington, ha perso Assange? Peggio: abbiamo perso tutti, in partenza, se non siamo capaci di muovere un dito per tutelare un campione dell’informazione. Ad Assange, peraltro, lo stesso Barnard non ha mai fatto sconti: certi “leak” possono davvero aver messo in pericolo alcuni esponenti dell’intelligence, violandone la segretezza. In cambio, però, il mondo ha potuto aprire gli occhi su realtà sconvolgenti. Non è strano che l’establishment tenti di soffocare Assange, in modo che la sua punizione sia d’esempio per chiunque altro volesse imitarlo. Lo scandalo vero è il silenzio assordante dell’opinione pubblica, per la quale Assage ha messo in gioco la sua vita.Ci ha rivelato verità indicibili, rendendoci più consapevoli e quindi più liberi. Ma ora Julian Assange può crepare, nella sua stanzetta-prigione, senza che nessuno muova un dito per salvarlo: giornali, attivisti, intellettuali, politici, governi. Si è immolato per tutti, con le esplosive rivelazioni affidate a WikiLekas. Sperava di suscitare un’ondata di protesta capace di scuotere il potere. E immaginava che l’indignazione lo avrebbe protetto dalla vendetta dell’establishment. Ma si sbagliava: Julian Assange sta morendo giorno per giorno: l’ambasciata ecuadoregna di Londra, che finora l’ha tenuto al riparo dall’estradizione, potrebbe non tutelarlo più. È così forte, la pressione degli Usa – sull’Ecuador, e sulle autorità britanniche – che le teste di cuoio inglesi potrebbero fare irruzione nella sede diplomatica e caricare Assange, il martire dell’informazione libera, sul primo volo per Washington. È sconvolgente il report che Paolo Barnard fornisce da Londra, dove ha trascorso le feste natalizie presidiando il “carcere” di Assange, agitando vistosi cartelli. Desolazione e solitudine. Peggio: i giornalisti del “Guardian”, i primi a presentare Assange come un eroe, ora confessano di essere intimiditi e ricattati. Per questo nessuno rimetterà in prima pagina il direttore di WikiLeaks. Julian Assange è praticamente già morto. Alla faccia dei diritti civili e dei diritti umani di cui l’Occidente si vanta.
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Magaldi: la sinistra ignorante che vorrebbe spegnere Rinaldi
Uso criminoso della televisione: manca solo la formula del famigerato “editto bulgaro” di berlusconiana memoria, all’invettiva di Steven Forti su “Rolling Stone” contro Antonio Maria Rinaldi, per chiedere l’allontanamento dell’economista dalle reti televisive italiane, evidentemente inquinate da un economista non-mainstream, non-neoliberista, estraneo all’autismo del pensiero unico. Tu chiamalo, se vuoi, giornalismo. Nel libro “M, il figlio del secolo”, Antonio Scurati ricorda che Benito Mussolini, direttore socialista de “L’Avanti” prima di diventare Duce, almeno una cosa l’aveva detta giusta: e cioè che «la gran parte dei giornalisti italiani sono dei pennivendoli con la schiena poco dritta». Lo sottolinea Gioele Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, in una video-chat su YouTube con Marco Moiso. Tema: l’ordinaria macelleria giornalistica che trasforma in carne di porco chiunque non canti nel coro – il sovranista Rinaldi e lo stesso Magaldi, definito (comicamente) «scrittore complottista, fissato col pericolo massonico». E per giunta «vittimista», per via della congiura del silenzio che ha oscurato il suo bestseller “Massoni”, pubblicato da Chiarelettere nel 2014 e tuttora in vetta classifiche Ibs. Figurarsi: come farebbero, gli attuali talkshow, a citare un saggio che rivela l’appartenenza supermassonica di personaggi come Monti, Draghi, D’Alema e Napolitano?Nonostante lo sgangherato assalto al promotore del blog “Scenari Economici”, liquidato come «narcisista e caciarone», economista senza prestigio accademico e piccolo opportunista a caccia di poltrone, Magaldi invita lo stesso Steven Forti, e gli analoghi missionari neoliberali asserragliati tra i ranghi dell’ex sinistra, a farsi avanti in modo aperto: perché non intervistare lo stesso Magaldi, per parlare finalmente del suo libro e magari anche del Movimento Roosevelt e del “partito che serve all’Italia”, progetto al quale Antonio Maria Rinaldi si è accostato in modo interlocutorio, «come battitore libero e autonomo pensatore», per prendere nota di quanto si va discutendo? Scoprirebbero, Steven Forti e i suoi sodali, che i problemi del mondo hanno sempre almeno due spiegazioni, in democrazia. Sono le famose due campane, che un tempo i giornalisti si peritavano di ascoltare, non foss’altro che per un elementare rispetto dei loro lettori. Intanto prendano nota, alla redazione di “Rolling Stone”: sono tutti invitati alla London Metropolitan University, il 30 marzo, dove parleranno un bel po’ di economisti post-keynesiani, impegnati a spiegare come mai questa Europa è sempre in crisi, perde i pezzi (Gran Bretagna) ed è diventata una Disunione Europea dove tutti si fanno le scarpe a vicenda. Vuoi vedere che la politica di austerity introdotta dall’Eurozona è una catastrofe, e in ultima analisi si è trasformata in una fabbrica di sovranismi, nazionalisti, populismi e Gilet Gialli?Il mainstream che si trincera dietro il politically correct non perdona a Rinaldi di tifare per i gialloverdi: fa scialo del più convenzionale corredo squadristico a base di insulti (razzismo, xenofobia, fascismo) per infangare Salvini, il nuovo mostro da sbattere in prima pagina, ma si guarda bene dall’interrogarsi sulle ragioni del fenomeno. Pensiero magico: la demonizzazione dell’Uomo Nero a questo serve, a evitare di chiedersi il perché delle cose. Un consiglio? Tornare a essere laici, smettendo i panni del fanatismo religioso. E magari, cessare di considerare l’avversario un nemico da abbattere. In altre parole, converrebbe ragionare. A proposito, aggiunge Magaldi: hanno una proposta, i coristi “di sinistra” come Steven Forti, su come uscire dalla crisi? Sono bravissimi a censurare le idee altrui, e a demolirle in modo unilaterale, senza mai dialogo, quando non riescono più a soffocarle (come nel caso di Rinaldi, spesso ospitato in televisione). Ma ce l’hanno, in tasca, un Piano-B? E se ce l’hanno, perché non ne parlano mai? Non sarebbe ora di cominciare a farlo? «Informo Steven Forti che diversi esponenti di quella che immagino sia la sua area di riferimento, cioè il Pd e LeU, fanno parte del Movimento Roosevelt». Non solo, aggiunge Magaldi: «Alcuni di loro, come Rinaldi, guardano con interesse anche alla prospettiva del “partito che serve all’Italia”, dato che – dalle loro parti – vedono che si va verso il disfacimento».“Rolling Stone” definisce «un gruppetto», la pattuglia di intellettuali, da Nino Galloni a Ilaria Bifarini, aggregati per ora nelle prime riunioni convocate per valutare la possibilità del nuovo soggetto politico, «il cui sviluppo, a partire dal nome, sarà a cura dei costituenti, dato il rispetto che abbiamo per il metodo democratico». Gruppetto? Sui numeri sarà il tempo a dire la sua, perché siamo solo ai preliminari, assicura Magaldi. Che però aggiunge: anche se alla fine non fossimo in tantissimi, «informo Steven forti che un “gruppetto” di massoni riuniti intorno alla Loggia delle Nove Sorelle, alla fine del ‘700, determinò tanto i preparativi per la Rivoluzione Americana, quindi per la Guerra d’Indipendenza, che quelli per la Rivoluzione Francese: talvolta i gruppetti, se ben coesi e agguerriti, fanno le rivoluzioni». Se Steven Forti non afferra il concetto, prosegue Magaldi, forse è perché «non ha grande dimestichezza con lo studio della storia», benché il suo curruculum accademico lo accrediti come esperto in storia contemporanea. Iniste Magadi: «Steven Forti mi sembra carente di letture», se in qualche modo associa la massoneria al cospirazionismo. L’autore di “Massoni”, libro che smonta moltissime tesi complottistiche, cita il filosofo Gian Mario Cazzaniga, che nel saggio “La religione dei moderni” «spiega come la religione dei moderni sia la politica, e spiega anche che la politica, nel senso moderno e contemporaneo, l’hanno creata i proprio massoni».Altre letture consigliate alla redazione di “Rolling Stone”: le opere di un grande sociologo come Jürgen Habermas, «che ha spiegato come lo stesso concetto di opinione pubblica sia nato da ambienti massonici». E cioè: si prenda atto, meglio tardi che mai, che «la massoneria è un soggetto storico importante». Se poi il giovane Steven Forti leggesse pure il saggio di Magaldi, scoprirebbe che negli ultimi decenni un’élite massonica internazionale, reazionaria e neoaristocratica, ha progettatto e gestito la globalizzazione neoliberista che ha privatizzato il pianeta, rottamando i caposaldi del welfare tanto cari alla sinistra, a loro volta “fabbricati” sempre da massoni, ancorché progressisti, come il massimo economista del Novecento, l’inglese John Maynard Keynes, e il connazionale William Beveridge, l’inventore del “welfare system”. Per inciso: il progressista Keynes era iscritto al partito liberale. I laburisti, invece – come i socialisti francesi, i socialdemocratici tedeschi e l’ex Pci italiano – sono stati i più zelanti esecutori, negli ultimi decenni, delle direttive antidemocratiche dell’élite globalista: è stata proprio la sedicente sinistra a obbedire alla peggiore destra economica. In Italia l’ha fatto prima con Prodi e Draghi, poi con il governo Monti: Fiscal Compact votato senza fiatare, così come la legge Fornero sulle pensioni e il pareggio di bilancio inserito proditoriamente nella Costituzione, con lo Stato terremotato dal ricatto dallo spread.Non la si vuole vedere, la realtà? E allora all’intellighenzia dell’ex sinistra non resta che godersi Salvini, dandogli ogni giorno del fascista. Almeno, puntualizza Magaldi, si eviti di scadere nella disinformazione più scorretta, rinfacciando come una colpa – a un uomo come Antonio Maria Rinaldi – la libertà intellettuale di cui gode: avrà diritto o no, di dirsi scontento della manovra economica del governo gialloverde? Proprio non glielo si vuole riconoscere, il diritto di aspettarsi di più dall’esecutivo Conte? Scherno, disprezzo e criminalizzazione di chi non la pensa come te, riassume Magaldi, non fanno parte dell’abc dell’informazione, che può essere anche fortemente critica, ma mai scorretta. I media mainstream sembrano lo specchio della politica italiana, basata su scontri quotidiani dal sapore tribale. Puoi anche farlo cadere, un avversario, ma poi sapresti come agire, al suo posto? Qualcuno ricorda un’idea – una sola – che negli ultimi vent’anni la sedicente sinistra abbia partorito, per migliorare la situazione, mentre passava il tempo a tuonare contro l’orrido Berlusconi – per poi fare persino peggio, una volta a Palazzo Chigi? Il punto è che c’è bisogno di tutti, sembra dire Magaldi. Oggi più che mai, nessuno deve sentirsi escluso. Lo gridano, gli elettori, quando votano per i cosiddetti populisti. Ormai vedono benissimo quant’è infame, la post-democrazia Ue. E’ tanto comodo, ricamare indignati elzeviri sui tweet di Salvini: serve a continuare a non vedere cosa sta succedendo, lassù, dove un pugno di decisori tiene in ostaggio mezzo miliardo di persone, in Europa. Fino a quando?Uso criminoso della televisione: manca solo la formula del famigerato “editto bulgaro” di berlusconiana memoria, all’invettiva di Steven Forti su “Rolling Stone” contro Antonio Maria Rinaldi, per chiederne l’allontanamento dalle reti televisive italiane, evidentemente inquinate da un economista non-mainstream, non-neoliberista, estraneo all’autismo del pensiero unico. Tu chiamalo, se vuoi, giornalismo. Nel libro “M, il figlio del secolo”, Antonio Scurati ricorda che Benito Mussolini, direttore socialista de “L’Avanti” prima di diventare Duce, almeno una cosa l’aveva detta giusta: e cioè che «la gran parte dei giornalisti italiani sono dei pennivendoli con la schiena poco dritta». Lo sottolinea Gioele Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, in una video-chat su YouTube con Marco Moiso. Tema: l’ordinaria macelleria giornalistica che trasforma in carne di porco chiunque non canti nel coro – il sovranista Rinaldi e lo stesso Magaldi, definito (comicamente) «scrittore complottista, fissato col pericolo massonico». E per giunta «vittimista», per via della congiura del silenzio che ha oscurato il suo bestseller “Massoni”, pubblicato da Chiarelettere nel 2014 e tuttora in vetta classifiche Ibs. Figurarsi: come farebbero, gli attuali talkshow, a citare un saggio che rivela l’identità supermassonica di personaggi come Monti, Draghi, D’Alema e Napolitano?
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Chiesa, Mazzucco, Messora, Fusaro: quante verità oscurate
«È la stampa, bellezza. E tu non puoi farci niente». Lo dice uno straordinario Humphrey Bogart alla fine del film “Deadline” di Richard Brooks (in italiano, “L’ultima minaccia”). Era il 1952: una profezia. Ancora oggi, ufficialmente, le Torri Gemelle sono crollate per colpa dell’impatto con aerei dirottati. La “demolizione programmata” è stata ormai dimostrata da oltre duemila architetti e ingegneri, eppure per l’11 Settembre la “verità” resta quella palesemente falsa. Grazie a chi? Ai media mainstream, che spacciano “fake news” governative. Il primo a denunciarlo, riguardo al caso delle Twin Towers, in Italia fu Giulietto Chiesa, con il libro “La guerra infinita”, uscito nel 2003 per Feltrinelli (e vendutissimo, nonostante il silenzio di giornali e televisioni). Ebbe più fortuna mediatica qualche anno dopo Massimo Mazzucco, con il suo esplosivo documentario “Inganno globale”, trasmesso da Mentana in prima serata a “Matrix”, su Canale 5. Un’eccezione, mai più ripetuta. «Arrivato a La7 – dice Mazzucco – Mentana poteva essere “il primo degli ultimi”, dando voce agli esclusi, e invece ha scelto di restare “l’ultimo dei primi”, accodandosi all’ufficialità». In compenso, ormai l’opinione pubblica più disincantata è letteralmente esplosa: milioni di persone, anche in Italia, la verità ufficiale non se la bevono più.Fino a ieri, ad esempio, sarebbe stato impensabile organizzare un evento come quello in programma il 13 gennaio a Treviso: con Mazzucco e Chiesa, insieme a personaggi come Claudio Messora di “ByoBlu”, Diego Fusaro, Enrica Perucchietti. A promuovere l’operazione-verità è l’associazione SalusBellatrix, coordinata da Francesca Salvador: una delle voci della nuova cultura italiana, indipendente dai circuiti mainstream. Verità “altre”, in tutti i campi: dalla sconcertante Bibbia tradotta (alla lettera) da Mauro Biglino, al potere occulto delle 36 superlogge che dominano il mondo, svelato da Gioele Magaldi in “Massoni”, altro bestseller-fantasma (gettonatissimo dai lettori e oscurato da giornali e televisioni). Quanto conta, questa Italia? Abbastanza, se è vero che il Movimento 5 Stelle nato dal web ora è al governo, e che Marcello Foa (autore de “Gli stregoni della notizia”, che mette alla berlina i media e le loro menzogne) oggi è presidente della Rai. Conta parecchio, la nuova società in subbuglio, non solo nel nostro paese: se l’oligarca tedesco Günther Oettinger (Commissione Ue) ottiene una legge-bavaglio per frenare il web limitando i link e obbligando le piattaforme a filtrare i contenuti dei blog, un altro oligarca (Emmanuel Macron, prodotto massonico di casa Rothschild) è costretto a vedersela con i Gilet Gialli che paralizzano la Francia.Vuoi vedere che i pionieri come Francesca Salvador avevano visto giusto, anni fa, quando cominciarono ad aggregare platee attorno ai primi narratori eretici? Sono tante, in Italia, le entità culturali come la trevigiana SalusBellatrix: attraverso YouTube, sono riuscite a fare opinione diffondendo informazioni e idee. C’è un’Italia che il mainstream l’ha semplicemente aggirato, prendendolo alle spalle. Un dirigente del Cnr si lascia scappare, da Bruno Vespa, che è in un corso un esperimento di controllo climatico mondiale? A completare l’informazione provvede Mazzucco, nell’appendice YouTube della web-radio “Border Nights”: spiega che, già durante l’alluvione di Firenze, lo stesso Cnr emise un rapporto sui test, allora in corso, di “inseminazione” delle nubi per aumentare le precipitazioni. Forse così risulta meno oscura la possibile origine di fenomeni disastrosi, come i nubifragi che hanno raso al suolo le foreste delle Dolomiti. Il cielo è sempre meno blu, rigato fin dal mattino dalle scie stranamente persistenti rilasciate dagli aerei? Mentre il mainstream tenta di deridere chi “crede alle scie chimiche” (neanche fossero un dogma di fede, anziché un fenomeno visibile), sempre su “Border Nights” il generale Fabio Mini, già dirigente della Nato, avverte: i cittadini hanno il diritto di pretendere spiegazioni esaurienti, finora mai fornite, su questo fenomeno.«Remare contro la corrente della menzogna e dell’inganno – ammette Giulietto Chiesa – è faccenda che richiede pazienza quasi infinita, e anche rischio: può costare la vita». Costa sicuramente «la rinuncia a onori e prebende». E comporta «la disponibilità di non avere, in vita, alcun riconoscimento pubblico delle verità che sono state scoperte». Perché i “padroni universali” e i loro “gate keepers” hanno i mezzi per impedire che le vere notizie arrivino agli occhi e alle orecchie delle grandi masse popolari, spesso così condizionate – ormai da decenni – da non riuscire neppure ad accettarle, certe verità imbarazzanti. Lo sanno benissimo anche gli altri relatori della conferenza di Treviso: non poteva sperare, Mazzucco, che facesse il giro dei telegiornali la rivelazione dell’ultimo suo documentario “American Moon”, che dimostra – grazie al contributo dei più famosi fotografi del mondo – che le immagini del presunto “allunaggio” diffuse in mondovisione nel 1969 erano state realizzate in studio. Dalla trincea di “ByoBlu”, lo stesso Messora – cui Google ha rimosso di colpo la possibilità di finanziarsi con la pubblicità – sa benissimo quanto cosa lottare per informare i concittadini.Per dirla con Diego Fusaro, si tratta di dribblare «i padroni del discorso e la manipolazione di massa». Ne sa qualcosa Enrica Perucchietti, che ha spiegato – in brillanti saggi – come le “fake news” spacciate dai media servano anche a coprire il terrorismo “false flag”, quello che in Europa non colpisce mai nessun centro di potere, ma solo e sempre innocui passanti. “Fake news” sono anche quelle che proteggono, molto spesso, il business di Big Pharma, specie nel caso dei vaccini: ben poco spazio è stato concesso, mesi fa, alla notizia dei 7.000 militari italiani ammalatisi dopo frettolose somministrazioni. Quasi-silenzio anche sulla Puglia, dove la Regione – l’unica ad aver istituito un servizio di “farmacovigilanza atttiva” – ha scoperto che, tra i bambini appena vaccinati, 4 su 10 subiscono reazioni avverse. Là dove invece non si può tacere, perché la fonte è il presidente dell’ordine dei biologi, si cerca di far passare per pazzo il “disturbatore”, peraltro intervistato da un unico giornale, “Il Tempo”, diretto da Franco Bechis. Eppure, la notizia veicolata dal rappresentante dei biologi italiani, Vincenzo D’Anna, è clamorosa: sono stati scoperti vaccini contaminati (con antibiotici, feti abortiti e persino diserbanti agricoli) e vaccini inefficaci, perché privi nei necessari agenti immunizzanti.Di verità scientiche occultate è esperto Giorgio Iacuzzo, un altro degli esperti attesi a Treviso: ha lavorato nel cinema scientifico e tecnologico, scrive per periodici italiani e stranieri ed è pronto a rivelare alcuni dei “segreti di Stato in pillole” di cui è a conoscenza. Verità indicibili attorno al mondo scientifico, come quella sull’espianto degli organi: si intitola “Morte cerebrale, verità o finzione”, la relazione a cura del professor Rocco Maruotti, primario di chirurgia. Ulteriori informazioni, al pubblico di Treviso, saranno fornite da Sonia Saterini Burighel, della Lega Antipredazione Veneto. Tema: “La confusione in atto, in ordine alla donazione di organi, imposta nelle anagrafi quando il cittadino va a rinnovare la carta d’identità”. Primo passo: evitare gli equivoci. Che sono quotidiani (e spesso voluti, nel mondo dell’informazione) specie se c’è di mezzo una traduzione: lo conferma Paola Iacobini, laureata a Londra in mediazione linguistica. E’ un oceano, ormai, l’ambito di quella che un tempo si sarebbe chiamata controinformazione, all’epoca in cui il giornalismo aveva ancora una sua dignità: magari era reticente in qualche caso per compiacere l’editore, ma non aveva ancora abdicato alla sua funzione. Per il Premio Pulitzer americano Seymour Hersh, oggi non piangeremmo milioni di morti, se solo la stampa avesse smesso di fare il suo dovere: avremmo avuto meno stragi, meno guerre, meno terrorismo “sotto falsa bandiera”.Secondo Giulietto Chiesa, sempre assai pessimista sul destino che ci attende, c’è però uno spiraglio di luce, che si è aperto soltanto in quest’ultimo decennio: «La perdita del controllo da parte di coloro che erano certi di esserselo già definitivamente assicurato, per i secoli dei secoli». Sempre per Chiesa, la fibrillazione dei “gate keepers” sta assumendo vertici così acuti «da lasciarci supporre che temano di essere travolti dagli stessi strumenti di controllo e dominio che ritenevano le loro creazioni più perfette». Aggiunge: «Sono ora impegnati allo spasimo per costruire dighe atte a frenare il fiume e i canali per deviarne le correnti». Certo, siamo ancora molto lontani dall’ora della verità. «Ma a noi resta la sottile soddisfazione di osservare il terrore che pervade i dominatori e la loro affannosa ricerca di una via d’uscita». Fausto Carotenuto, già analista geopolitico dell’intelligence Nato (ora passato a una visione spiritualistica dell’esistenza), insiste su una tesi: almeno un terzo dell’umanità starebbe letteralmente uscendo dal letargo. «Se il mondo sta diventando così feroce – dice – è proprio perché i decisori lo sanno, e temono questo risveglio che ormai è in corso, e che sarà inarrestabile». Il sistema di dominio affina strumenti di manipolazione sempre più sofisticati? Vero, ma c’è anche il rovescio della medaglia: «Ci controllano perché ci temono. Facciamo paura, perché siamo tanti. Il nostro problema? Non ce ne rendiamo conto. Crediamo che i dominatori siano invincibili. Ma non lo sono, e lo sanno».(Sul sito dell’associazione SalusBellatrix sono rintracciabili tutte indicazioni per partecipare alla conferenza “E’ la stampa, bellezza”, domenica 13 gennaio 2019 a Treviso).«È la stampa, bellezza. E tu non puoi farci niente». Lo dice uno straordinario Humphrey Bogart alla fine del film “Deadline” di Richard Brooks (in italiano, “L’ultima minaccia”). Era il 1952: una profezia. Ancora oggi, ufficialmente, le Torri Gemelle sono crollate per colpa dell’impatto con aerei dirottati. La “demolizione programmata” è stata ormai dimostrata da oltre duemila architetti e ingegneri, eppure per l’11 Settembre la “verità” resta quella palesemente falsa. Grazie a chi? Ai media mainstream, che spacciano “fake news” governative. Il primo a denunciarlo, riguardo al caso delle Twin Towers, in Italia fu Giulietto Chiesa, con il libro “La guerra infinita”, uscito nel 2003 per Feltrinelli (e vendutissimo, nonostante il silenzio di giornali e televisioni). Ebbe più fortuna mediatica qualche anno dopo Massimo Mazzucco, con il suo esplosivo documentario “Inganno globale”, trasmesso da Mentana in prima serata a “Matrix”, su Canale 5. Un’eccezione, mai più ripetuta. «Arrivato a La7 – dice Mazzucco – Mentana poteva essere “il primo degli ultimi”, dando voce agli esclusi, e invece ha scelto di restare “l’ultimo dei primi”, accodandosi all’ufficialità». In compenso, ormai l’opinione pubblica più disincantata è letteralmente esplosa: milioni di persone, anche in Italia, la verità ufficiale non se la bevono più.
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Dai padroni oscuri nel 2019 avremo altre finte rivoluzioni
Nel 2015 dicevamo per il 2016: «Alcune crisi mondiali come quella Islam-Occidente o quella Occidente-Russia, create per condizionarci, assumeranno forme e sviluppi ancora più inquietanti: l’aumento dell’emergenza migratoria e del terrorismo islamista in Europa, l’estendersi della crisi ad altri paesi, l’estensione di un ruolo inquietante e destabilizzante della Turchia di Erdogan». Queste stesse tendenze si sono manifestate anche nel 2017 e nel 2018. E certamente continuerà in questo modo nel 2019, aggiungendo l’aggravarsi prevedibile del contrasto interislamico sciiti-sunniti, e quello inter-sunnita tra il fronte guidato dal Qatar ed il fronte guidato dall’Arabia Saudita. E sempre nel 2015-2016-2017 scrivevamo: «La guida occulta mondiale rimarrà saldamente nelle mani della piramide gesuita-massonica, anche se il superiore gioco del divide et impera comincerà a creare fratture competitive anche in questo fronte». Questo è con grande precisione quello che è poi avvenuto e che avrà ulteriori sviluppi nel 2019. La Brexit, la presidenza Trump, il ruolo dei sovranisti solo apparentemente anti-sistema, le manifeste debolezze del quadro intereuropeo, i fallimenti e le spaccature del Pd, il risorgere delle destre parafasciste, le forti voci di dissenso a Papa Francesco nelle gerarchie cattoliche…Questi e numerosi altri segnali mostrano con evidenza che il blocco granitico di potere gesuita-massonico ha ormai delle forti incrinature. Foriere di forti tempeste, di feroci scontri, ma anche di maggiori spazi per la libertà delle coscienze. Come già per lo scorso anno, la presidenza Trump appare come un elemento di forte rottura degli equilibri precedenti, e continuerà ad avere certamente un ruolo destabilizzante – come dimostrano le prese di posizione filo-sioniste su Gerusalemme, l’attiva campagna industrialista e antiecologista, le guerre commerciali al resto del mondo e l’aperto sostegno ai peggiori ambienti economici americani. Da una parte sarà il più forte ostacolo ai disegni di dominazione del gruppo gesuita-massonico, ma dall’altra anche un elemento amplificatore di forme-pensiero degradanti, aggressive, violente, antiumane. Una modalità molto diversa da quella “gesuitica” fredda e apparentemente “buona”, ma sempre per fini manipolatori. Che tuttavia già da qualche anno non stava dando i risultati sperati di “seduzione” ampia ed efficace dell’opinione pubblica.Di fronte alle varie risposte positive delle coscienze in risveglio, che non si sono fatte sedurre più di tanto dai disegni di centralizzazione e verticalizzazione, i gruppi di manipolazione mondialisti hanno ormai chiaramente deciso di puntare su un periodo di emergenze e di spaccature, che prepari il terreno in modo forzoso ad una nuova, successiva spinta alla centralizzazione, e ad una ulteriore perdita di libertà e sovranità locali. Visto che non ci convinciamo con le “buone”, loro stanno liberando nuovamente i “cattivi” evidenti, e hanno riaperto il ring degli scontri e della devastazione. Ma speriamo bene, soprattutto nelle risposte delle coscienze. Il ruolo di Putin va interpretato nella stessa direzione. Non si tratta di un “salvatore”, come molti in modo ingenuo interpretano il ruolo di questo sanguinario feudatario del potere, ma di una delle pedine fondamentali del “divide et impera” che si affaccia come nuova stagione della manipolazione, e che vedremo svilupparsi ancora nel 2019. Anche in Italia il patto d’acciaio gesuita-massonico, che ha prodotto papato e renzismo, e che ha falcidiato le fila dei vecchi avversari politici ed economici, sia ai livelli locali che nazionali, comincia a mostrare alcune crepe.Il gioco politico – con la evidente crisi dello sfrontato e ridicolo renzismo, e del decotto Pd – si è riaperto, come prevedevamo già dal 2017. L’influenza della presidenza Trump e degli ambienti conservatori internazionali si è già fatta sentire negli equilibri politici italiani, con l’improvviso risorgere della destra leghista. Una destra che, dietro la sentita esigenza di ordine e sicurezza, nasconde ed esercita una sollecitazione anti-coscienza all’odio e all’egoismo. Avevamo scritto che avremmo probabilmente visto un Cinquestelle chiaramente indirizzato a cercare di agguantare le poltrone di comando di Palazzo Chigi. E avevamo anticipato che, qualora questo fosse avvenuto, la dirigenza M5S avrebbe svelato il proprio vero volto di strumento del potere, di nuovi camuffamenti manipolatori delle solite vecchie congreghe. Una presidenza del Consiglio e altri incarichi di governo nelle mani di uomini chiaramente vicini ai gesuiti, e le stupefacenti virate in senso filo-americano, filo-Nato, filo-euro, filo-Unione Europea, filo-finanza internazionale, filo-vaccini, filo-spese militari, filo-Tap e altro, la dicono lunga su chi veramente si cela dietro gli impulsi sani di tanti bravi ragazzi. Bravi idealisti, illusi per anni dalle seduttive parole di una maschera Grillo ormai ridotta al silenzio. E che sono e saranno i primi a soffrire per i brutali “tradimenti”, che vedremo crescere e farsi evidenti – a beneficio delle coscienze – anche nel 2019.Ora queste due appendici italiane del divide et impera mondiale, la destra parafascista della Lega e il gesuitico Cinquestelle, convivono con difficoltà nel governo, pur di sostituire la classe dirigente precedente, ormai decotta e non più utile al potere vero, preparando la stagione di un nuovo teatro di finta alternanza democratica, nel quale la Lega si porrà come nuova destra egoica e conservatrice, e il M5S come nuova sinistra fintamente progressista. Un nuovo teatrino fatto per illuderci che un cambiamento della politica sia avvenuto, concedendo qualcosa alle masse e sacrificando con nostra soddisfazione vecchi gruppi politico-affaristici, pur di consentire ai soliti poteri occulti di continuare a gestire e manipolare la struttura istituzionale politica, economica, scientifica e culturale. Il progetto di Unione Europea è ormai entrato in una fase di crisi: il vento del divide et impera, sulla spinta della Brexit, delle proteste di piazza francesi, delle spinte leghiste, pentastellate, ungheresi, austriache, polacche, soffia forte sulle strutture europee, accompagnato dalle spaccature create dalla artificiosa e forzata emergenza immigratoria. Tutto ciò avrà un peso nelle elezioni per il Parlamento Europeo del 2019, e da queste potrebbe emergere un nuovo equilibrio delle strutture europee.Un cambiamento possibile perché nulla cambi, in fondo, nella tenuta dei grandi poteri dietro le quinte, sul modello di quanto sta gattopardescamente avvenendo in Italia. Come già detto lo scorso anno, le forze mondialiste cercheranno in ogni modo di sfruttare anche questa crisi per creare ulteriori emergenze e ricompattarci sotto ulteriori perdite di sovranità. Ma non è detto riescano. Dipenderà molto dal grado di risveglio dell’opinione pubblica. I governi delle grandi potenze occidentali continueranno a perseguire i disegni dei loro padroni oscuri, ammantandosi di perbenismo e dell’immagine ipocrita di finte democrazie. Mentre il volto anti-umano della emergente potenza cinese sarà ancora più evidente, e la grande civiltà indiana continuerà a sprofondare in un gretto e volgare materialismo. E l’Africa, apparentemente abbandonata e lasciata al proprio destino, sarà sempre più da una parte terreno del conflitto di religioni e culture, e dall’altro territorio di conquista delle armate economiche neocolonialiste straniere. E i paesi islamici continueranno a svolgere il ruolo di vittime e di volano della creazione di vortici di violenza, odio e paura con effetti anti-coscienza in tutto il mondo. Mentre un Israele sempre più fanatico, duro e nazionalista continuerà a svolgere un ruolo squilibrante in tutto il Medio Oriente.Le grandi forze industriali continueranno a inquinare e devastare l’ambiente, e i loro padroni oscuri useranno in modo crescente il disastro creato dai loro stessi strumenti per evidenziare l’emergenza climatica e spingere il mondo a creare nuove forme di governance mondiale e le nazioni a cedere sovranità. Anche in questo caso la presidenza Trump sembra ostacolare temporaneamente questi progetti (ma forse favorirli a più lunga scadenza, inducendo un ulteriore peggioramento dell’emergenza ambientale). L’attacco portato alla salute dei corpi attraverso la perversa strategia mondiale di obbligo vaccinale – partita proprio dall’Italia – continuerà certamente con forza, attraverso il malefico strumento di vaccini appositamente alterati per indurre problemi alle coscienze in risveglio. Prepariamoci a una lotta dura e intensa, nella quale avremo l’appoggio del Cielo. Fino ad ora questa operazione ha prodotto come risultato un forte risveglio di coscienze, in numero crescente. Questo effetto continuerà anche nel 2019, soprattutto a causa dell’aumento delle reazioni “avverse” ai vaccini, alle quali l’opinione pubblica sarà sempre più attenta.Anche nel 2019 ogni crisi verrà fomentata o usata per controllarci meglio, per spingerci infine verso formazioni centralizzate mondialiste o premondialiste, come l’Europa, per toglierci sovranità, democrazia e libertà esteriori. Faranno tutto questo, come nel 2018 e negli anni precedenti, solamente per bloccare il più grande fenomeno dei nostri tempi: il risveglio delle coscienze. Quel risveglio che per la prima volta nella storia umana sta producendo masse importanti – anche se non ancora maggioritarie – capaci di una epocale rivoluzione interiore: quella di mettere gli esseri della natura, gli animali e gli altri esseri umani, quanto meno sullo stesso piano di se stessi. Quella rivoluzione interiore che per la prima volta fa in modo che tanta gente – almeno un terzo dell’umanità – cominci a pensare che non siamo venuti qui per predare tutto quello che incontriamo, ma per vivere in armonia con la natura e volendo l’uno il bene dell’altro. Cominciando finalmente ad amare il nostro prossimo come noi stessi. Ecco, anche nel 2019 grandi e oscuri poteri di manipolazione cercheranno di bloccare o rallentare questa rivoluzione delle coscienze, il cui effetto sarà un giorno la liberazione dell’umanità proprio da quei poteri.(Fausto Carotenuto, estratto da “Come sarà il 2019?”, post pubblicato su “Coscienze in Rete” il 29 dicembre 2018. Già analista geopolitico dell’intelligence Nato, Carotenuto è approdato a una visione spiritualistica del mondo, condensata nel saggio “Il mistero della situazione internazionale”, pubblicato da UnoEditori. Carotenuto considera i gesuiti come il vertice della piramide vaticana, e giudica altrettanto negativamente la massoneria nel suo complesso, in quanto organismo di ispirazione mondialista, a suo parere interamente funzionale a un disegno di dominio).Nel 2015 dicevamo per il 2016: «Alcune crisi mondiali come quella Islam-Occidente o quella Occidente-Russia, create per condizionarci, assumeranno forme e sviluppi ancora più inquietanti: l’aumento dell’emergenza migratoria e del terrorismo islamista in Europa, l’estendersi della crisi ad altri paesi, l’estensione di un ruolo inquietante e destabilizzante della Turchia di Erdogan». Queste stesse tendenze si sono manifestate anche nel 2017 e nel 2018. E certamente continuerà in questo modo nel 2019, aggiungendo l’aggravarsi prevedibile del contrasto interislamico sciiti-sunniti, e quello inter-sunnita tra il fronte guidato dal Qatar ed il fronte guidato dall’Arabia Saudita. E sempre nel 2015-2016-2017 scrivevamo: «La guida occulta mondiale rimarrà saldamente nelle mani della piramide gesuita-massonica, anche se il superiore gioco del divide et impera comincerà a creare fratture competitive anche in questo fronte». Questo è con grande precisione quello che è poi avvenuto e che avrà ulteriori sviluppi nel 2019. La Brexit, la presidenza Trump, il ruolo dei sovranisti solo apparentemente anti-sistema, le manifeste debolezze del quadro intereuropeo, i fallimenti e le spaccature del Pd, il risorgere delle destre parafasciste, le forti voci di dissenso a Papa Francesco nelle gerarchie cattoliche…
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Tav, la strana guerra contro i palestinesi della val di Susa
Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza nonviolenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.Nemmeno l’umorismo iperbolico di Paolo Villaggio, forse, sarebbe riuscito a dipingere il carattere lunare, gaglioffo e cialtrone del fantasma ferroviario che insidia da più di vent’anni l’estremo nord-ovest italiano: un ipotetico super-treno pensato negli anni ’80 del secolo scorso per i passeggeri, surclassato in capo a un decennio dall’avvento dei voli low-cost e infine umiliato anche dal traffico merci, defunto pure quello. La globalizzazione “cinese” sbarca a Genova e punta verso Rotterdam, snobbando il Piemonte e le Alpi del Rodano. Dalla Fortezza Bastiani del Tav, a lungo presidiata dall’ineffabile Pd con la collaborazione del centrodestra (leghisti compresi), ormai si guarda con malinconia ai dati, impietosi, sciorinati ufficialmente anche a Palazzo Chigi: il flusso di merci è crollato, e la ferrovia internazionale che già collega Torino a Lione attraversando l’infelice valle di Susa (via Modane, traforo del Fréjus) potrebbe tranquillamente reggere un incremento di traffico del 900%, se solo ci fossero merci da trasportare. Bel guaio: cosa bisognerà inventare, ancora, per spillare soldi euro-italiani da spalmare su appalti e subappalti? Avverte il giallista Massimo Carlotto, vicino ai NoTav: le grandi opere sono perfette per riciclare denaro, nell’immensa “lavanderia a cielo aperto” chiamata Europa. Business is business: non è che si possa smontare così, su due piedi, un grande affare destinato a pompare milioni (miliardi) in una filiera che include industria e indotto cantieristico, studi e consulenze, progettisti, banche e partiti.Se sento ancora parlare di Tav Torino-Lione, scrisse Giorgio Bocca nel 2005, vado a ripescare il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo gettato alla fine della guerra partigiana. Si era documentato, l’ultimo grande vecchio del giornalismo italiano: aveva capito che i palestinesi inermi le avevano buscate in modo selvaggio, riempiti di botte – uomini e donne, ragazzi e anziani – dai robocop venuti da lontano, in piena notte, per sgomberare il prato di Venaus occupato dalle famiglie impegnate in una sorta di sit-in permanente. Ne seguì una sommossa popolare a carattere insurrezionale: qualcosa che in Italia s’era visto soltanto nei moti di Reggio Calabria del 1970. Un popolo sulle barricate, armato solo di indignazione. Scudi umani, i sindaci in fascia tricolore (e le loro auto, quelle dei vigili urbani, spedite a sbarrare le strade, coi lampeggianti accesi). Due giorni di follia collettiva, dopo il pestaggio notturno, fino alla paralisi della tangenziale di Torino e alla capitolazione del governo: progetto sospeso, ritirato, archiviato. Clamorosa vittoria dei palestinesi, che da quel momento cominciarono a credersi invincibili. O meglio: ritennero invincibile la forza della ragione, la sovranità democratica del cittadino, la legittimità della protesta di una comunità coesa e fasciata di tricolore.Durò anni, l’illusione. Una speranza radicata: il governo centrale si sarebbe deciso a cestinare il dossier – poi bocciato anche da 360 tecnici universitari – per concludere che sì, avevano ragione i palestinesi della valle di Susa: quella ferrovia andava dimenticata, gettata nella spazzatura della storia. Ma le trivelle tornarono, dopo un quinquennio di silenzio. Era il 2010. La tensione emotiva era scemata, molti sindaci erano spariti – non rieletti, o semplicemente rimasti a casa, non più disposti a fare da caschi blu. Fu allora che cominciò l’accerchiamento, lento e inesorabile. Senza più i sindaci in prima fila, i NoTav erano nudi. “Siete finiti”, li avvertì cordialmente il sindaco di Torino, Chiamparino. Risposero in quarantamila, con una marcia sotto la neve. I piani di Roma, intanto, erano cambiati: il cantiere per la prima galleria esplorativa, inizialmente programmato nel prato poi “espugnato” a Venaus nel 2005, sarebbe stato reimpiantato a Chiomonte, sopra le gole della Dora Riparia, in posizione militarmente difendibile. I NoTav risposero asserragliandosi proprio lì, tra le loro Termopili. Nacque la Libera Repubblica della Maddalena, il villaggio di Asterix attrezzato – con barricate – per tentare di resistere all’esercito imperiale. I reparti antisommossa, duemila uomini, si presentarono puntuali all’alba del 27 giugno 2011. Agirono con calma, minimizzando la loro forza d’urto. In cabina di regia il ministro Maroni e il capo della polizia Manganelli. Niente più cariche, solo lacrimogeni.Ci rimasero malissimo, i palestinesi: avevano sperato di ripetere il “miracolo” del 2005, quand’erano riusciti – sciamando in 80.000 attraverso i boschi – a sfrattare la polizia da Venaus. Una settimana dopo lo sgombero della “Libera Repubblica”, il 3 luglio 2011 tentarono di riprendersi Chiomonte. Erano in centomila: un corteo lungo chilometri. Pullman da tutta Italia, decine di migliaia di valsusini. E anche giovani dei centri sociali: quelli che poi, nel pomeriggio, avrebbero contribuito a trasformare la protesta in guerriglia. “Volevano il morto”, dichiarò Maroni. Bilancio ufficiale: 200 feriti per parte. E fine di una lunga, gloriosa anomalia: la lotta popolare esclusivamente nonviolenta, nata e cresciuta in mezzo ai monti, che tanto aveva spaventato la politica. Inammissibile che una comunità di sessantamila valligiani riuscisse a fermare le ruspe. Intollerabile, che lo facesse in modo pacifico. Inaccettabile, che imponesse al governo di lasciarsi ascoltare, e lo costringesse a prender nota del fatto che, secondo tutti gli esperti, la linea Tav Torino-Lione era (ed è) una pazzia completamente inutile, destinata a pesare per decine di miliardi sul debito pubblico dopo aver reso invivibile il territorio, cioè i 50 chilometri che separano Torino dalla Francia. Rocce piene di amianto, montagne dove l’Agip scavò decine di gallerie per estrarre l’uranio al tempo del nucleare italiano. Falde acquifere a rischio, salute in pericolo e addio agricoltura. Dissesto idrogeologico irrimediabile, apocalisse urbanistica, catastrofe idrica incombente sulla stessa area metropolitana torinese. Ma perché, di grazia? A beneficio di chi?“Diteci almeno a cosa servirebbe, tutto questo”. Domanda rimasta sempre inevasa. Lo vuole l’Europa, c’è un impegno con la Francia. Davvero? Sì e no. L’Europa ha cambiato idea: ha archiviato l’originaria, fantascientifica direttrice Kiev-Lisbona, di cui la Torino-Lione sarebbe stata il passante alpino. Quanto alla Francia, varie istituzioni parigine hanno via via intiepidito la loro posizione. Analoga retromarcia tattica dal governo Renzi: è vero, la nuova linea costa troppo; meglio limitarsi al solo traforo, facendo poi passare i treni sull’attuale linea (perfettamente idonea, dunque – percorsa, già oggi, dal Tgv francese). Nel frattempo, sui NoTav si è scatenata una campagna di demonizzazione parossistica, da parte della politica istituzionale e dei grandi media. E il movimento valsusino, senza più la tutela diretta dei sindaci, ha fatto miracoli per arginare il pericolo di infiltrazioni da parte delle frange virtualmente violente (un conto è gestire un corteo, un altro controllare manifestanti in ordine sparso, nei boschi). Anni durissimi, rischiosi, in bilico, ma durante i quali – nonostante tutto – la resistenza dei palestinesi ha conquistato piena cittadinanza in larghi strati del paese, anche grazie al generoso impegno di opinion leader di prima grandezza, scrittori e artisti, cantanti, giuristi, intellettuali. Senza con questo riuscire minimamente a scalfire il muro di omertoso silenzio che ancora protegge, misteriosamente, il progetto della grande opera: un dogma marmoreo, quasi mistico, che sembra imposto da una religione sconosciuta, alla quale gli stessi politici (ministri, premier) appaiono sottomessi.C’è altro, poi, che i valsusini sanno e gli altri italiani per lo più ignorano. E’ una storia complicata, tra loro e il governo. Una storia tormentata e opaca, per molti aspetti, che risale addirittura alla Liberazione, quando molti partigiani – in maggioranza comunisti – rifiutarono di consegnare le armi agli alleati, per poi tirarle fuori, occupando fabbriche, in risposta all’attentato a Togliatti. Ha radici antiche, il ribellismo della valle di Susa, industriale e operaia già alla fine dell’800. Dopo il Sessantotto, mentre i padri issavano bandiere rosse sui cotonifici, decine di figli cedettero alla tentazione della lotta armata. La valle di Susa è stata l’unica area non metropolitana, in tutta Italia, ad allevare una colonna di terroristi, arruolati tra le file di Prima Linea. Poi vennero gli anni ’80, con l’autostrada del Fréjus che la valle non voleva. Le solite mazzette e, a seguire, la relativa Tangentopoli, con arresti eccellenti, mentre la commissione parlamentare antimafia denunciava il radicamento della ‘ndrangheta nell’alta valle, il paradiso sciistico che a Sestriere avrebbe ospitato i Mondiali di sci e poi le Olimpiadi Invernali. Quello di Bardonecchia è stato il primo Consiglio comunale italiano, a nord del Po, a essere disciolto per mafia.L’onorata società tornò a occupare la cronaca della valle di Susa poco dopo gli attentati siciliani costati la vita a Falcone e Borsellino, quando la magistratura di Torino scoprì che erano finite a una cosca calabrese le pistole uscite illegalmente, a centinaia, da un’armeria di Susa. Chi avrebbe dovuto vigilare non l’aveva fatto: emerse l’ombra dei servizi segreti. Gli inquirenti avevano scoperto il traffico di armi grazie a un pentito della ‘ndrangheta, che smise di parlare (di colpo) dopo che gli fu ucciso il fratello, proprio in valle di Susa, da un ex agente del Sismi, reo confesso. Uno stillicidio di notizie inquietanti, che il valsusino medio – non ancora palestinese – apprendeva con sgomento, a metà degli anni ’90. A seguire, cominciarono a esplodere bombe: una dozzina di attentati dinamitardi, notturni e devastanti ma tutti incruenti, colpirono le prime trivelle del futuro Tav ma anche centraline Enel, tralicci telefonici, ripetitori televisivi. I giornali, in coro, parlarono di eco-terrorismo anarco-insurrezionalista. Comparve una sigla, “Lupi Grigi”, con rivendicazioni deliranti contro le grandi opere. Finirono in manette tre giovani anarchici, due dei quali (“Sole e Baleno”) poi trovati morti in stato di detenzione, impiccati. L’accusa: banda armata e associazione sovversiva. Lui, Edoardo Massari, un anarchico piemontese. Lei, Maria Soledad Rosas, argentina, giovanissima, venuta in Europa in vacanza premio, dopo il liceo, e poi rimasta in Italia perché innamoratasi del suo “Edo”. Il pm annunciò di avere “prove granitiche”, contro di loro. Salvo poi ammettere il tragico errore, fuori tempo massimo. Scagionati post mortem, alla fine del processo: non erano stati quei ragazzi, a far saltare in aria mezza valle di Susa. Chi, allora?Aveva in testa anche questi pensieri, il valsusino medio (mediamente colto e informato, mediamente scettico) quando cominciò a diventare un po’ palestinese, trascinando la famiglia nei prati di Venaus dove, nel 2005, si era accampata la polizia, spedita lassù da un governo che sosteneva fosse fondamentale far passare proprio di lì, spianando l’intera vallata, la famosa super-ferrovia miliardaria destinata a collegare il Portogallo all’Ucraina. Non può essere, si dicevano i valligiani: avranno capito male, a Roma. E così studiarono, si documentarono, mobilitarono i migliori specialisti. Non sta né in cielo né in terra, conclusero: è un’opera faraonica e devastante, tragicamente inutile. Ne parlavano anche coi poliziotti infreddoliti, inviati a Venaus a presidiare il prato prescelto per accogliere il primo cantiere. Dai NoTav, una protesta formato famiglia: bambini, polenta, bicchieri di tè caldo offerti agli stessi agenti – non quelli che li avrebbero sgomberati (per l’operazione, il reparto presidiario fu avvicendato). Gli incursori notturni colpirono alla cieca, travolgendo tende e sacchi a pelo. Una gradine di manganellate, al buio. Le ambulanze, le urla, i feriti. L’inizio della saga, già l’indomani: i valsusini, a migliaia, nelle strade. La circolazione paralizzata, i treni fermi. Il ministro dell’interno, Pisanu, scomparso dai radar. Imbarazzo, fra i palazzi romani. I palestinesi in rivolta ospitati per la prima volta in televisione, da Gad Lerner, per poi ricevere i primi rumorosi endorsement a reti unificate: Beppe Grillo, Dario Fo. E quei benedetti sindaci, avvolti nel tricolore, a ripetere che la legalità comincia dal rispetto del cittadino, democraticamente sovrano e tutelato da diritti costituzionali.Era solo il 2005, ma sembrano passati cent’anni. Le famiglie di allora avevano una luce particolare, negli occhi. La crisi era ancora lontana. C’era lavoro per tutti, i negozi non avevano ancora cominciato a chiudere, uffici e fabbriche funzionavano. All’ora dell’aperitivo i bar tracimavano di giovani – tutti palestinesi, naturalmente, tra svolazzi di bandiere NoTav. Un clima festoso, di fiducia. “Capiranno, a Roma. Si decideranno a ragionare”. I valsusini: riscopertisi comunità, proprio grazie allo scampato pericolo. Idee politiche forse rudimentali, antiche: la destra, la sinistra. A dire il vero, nella valle ribelle non s’era visto nessuno dei big: tutti spariti, i grandi partiti. La parte del cattivo era toccata a Berlusconi, ma poi Prodi (frenato dai ministri filo-valsusini Paolo Ferrero e Alfonso Pecoraro Scanio) non aveva comunque mai mostrato entusiasmo, per il fervore democratico dei palestinesi garibaldini, alle prese con quello strano risorgimento alpino, montanaro, periferico ma non provinciale. E’ come se si fosse laureato honoris causa, il valsusino medio, in questi anni grami: si è probabilmente conquistato il suo diploma di cittadino di prima classe, quanto a consapevolezza, mentre buona parte dell’Italia dormiva ancora sugli allori, prima di essere svegliata nel peggiore dei modi dal professor Monti, dalla professoressa Fornero.Si racconta che dal massiccio dell’Ambin, nel quale si è andato scavando il dannato tunnel esplorativo, sia disceso Annibale coi suoi elefanti. In direzione opposta avanzò Giulio Cesare alla conquista delle Gallie, facendo base a Susa, dove poi l’imperatore Costantino assediò Massenzio. Poco più a valle, Carlomagno sbaragliò i Longobardi manzoniani di Adelchi e Desiderio per poter fondare il Sacro Romano Impero, il cui erede Barbarossa mise a soqquadro Susa. Napoleone aprì la strada del Moncenisio, Cavour fece scavare il traforo del Fréjus. Quasi ogni sasso, in valle di Susa, ha molti secoli da raccontare, all’ombra dell’imponente Sacra di San Michele, monumento simbolo del Piemonte, eretto prima dell’anno Mille. Sul versante opposto, da una roccia emerge il Giove Dolicheno, scolpito dai soldati mediorientali arruolati da Roma nella Legione Siriana, di stanza nella valle conquistata dai Cesari. I valsusini amano le loro montagne, le frequentano con devozione. Le guardano diventare rosse, e poi viola, quando il tramonto illanguidisce nel crepuscolo lungo la cordigliera transalpina, dalla piramide del Rocciamelone alla mole nevosa del Niblè. Prima di altri, a loro spese, hanno imparato che il nuovo impero ha un’unica legge davvero sacra, quella dei soldi. A loro modo, da palestinesi, sono stati tra gli ultimi difensori di una repubblica di cui tutti gli italiani, oggi, hanno nostalgia.(Giorgio Cattaneo, “Tav, la strana guerra contro i palestinesi della valle di Susa”, dal blog “Petali di Loto” dell’11 dicembre 2018).Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza nonviolenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.
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Gilet Gialloverdi, ora gli italiani si aspettano risposte vere
In campagna elettorale sembravano impazziti: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano? Ovvio, ma lo facevano anche gli altri. Loro di più? Infatti hanno vinto. O meglio: hanno vinto i 5 Stelle, col doppio dei voti di Salvini. Già l’indomani, però, Di Maio disorientava il pubblico votante, dichiarandosi disposto ad allearsi con chicchessia, dalla Lega al Pd, pur di andare al governo. D’accordo, ma per fare cosa? Poi è arrivato il Contratto, con dentro quasi tutto: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano ancora? Possibile, ma forse a fin di bene: sapevano che sarebbe stata dura, con Bruxelles, ma ne erano consapevoli e si preparavano a dare battaglia. Davvero? Non si direbbe, vista la mala parata di fronte ai cani da guardia della Commissione Europea, gli stessi che invece ora si preparano a condonare all’anti-italiano Macron persino il massimo sacrilegio possibile, nell’euro-santuario: la violazione del sacro vincolo del 3% nel rapporto deficit-Pil. Prima ancora che il “governo del cambiamento” nascesse, del resto, i gialloverdi avevano dovuto ingoiare un super-rospo: il “niet” del Quirinale su Paolo Savona all’economia. Di Maio ventilò l’impeachment per Mattarella, Salvini se ne guardò bene. Oggi Di Maio è in caduta libera, mentre Salvini si muove da padrone della scena. Un caso?Salvini è abile, si dice. Ha osato rompere il tabù dell’accoglienza obbligatoria a costo di fare la faccia feroce coi più deboli, anche per smascherare l’ipocrisia egoistica dell’Ue e quella di chi – sui migranti – ha costruito carriere milionarie. Poi però è arrivato il decreto sicurezza, con limitazioni allarmanti alle libertà personali, specie quelle di chi ha motivo di esprimere la propria sofferenza sociale e quindi potrebbe protestare: pesantissime sanzioni per il blocco stradale e l’occupazione di terreni. Poi Salvini ha difeso a oltranza il topo morto che sta marcendo nella pancia del Piemonte, cioè un progetto-vergogna come il Tav Torino-Lione, notoriamente utile solo a chi costruisse tunnel e ferrovia. Infine, dopo aver chiesto mandato “a 60 milioni di italiani” per trattare con l’Ue, ha proposto alla Germania “un asse Roma-Berlino” (alla Germania, cioè al paese che più di ogni altro ha danneggiato l’Italia da quando esiste l’Eurozona). Poco dopo s’è involato verso Israele per la più classica delle genuflessioni diplomatiche, sperando di ottenere l’agognato sdoganamento come leader credibilmente moderato. Solo che si è fatto fotografare “alla Salvini”, tra soldati sorridenti e Stelle di David. Una foto lo ritrae mentre, addirittura, impugna una mitragliatrice. Non pago, il neoleghista post-padano s’è sbilanciato sul terreno della politica estera, definendo “terrorista” il network libanese Hezbollah, impegnato in Siria contro i terroristi veri, quelli dell’Isis.Baravano fin dall’inizio, i gialloverdi? Hanno preso in giro gli elettori italiani fin dal primo giorno di vita del “governo del cambiamento” o si sono semplicemente accorti di aver catastroficamente sottovalutato l’avversario? La flessione ingloriosa di fronte ai ragionieri finto-europeisti della Commissione Europea è un ultimo tentativo (tattico) per prendere tempo in attesa di una prossima controffensiva pro-Italia o è solo il classico inizio della fine, con la sepoltura delle illusioni e la rassegnazione alla consueta chemio-economia del rigore ammazza-Stati? Domande sospese ma ormai ridondanti, vista la rapida evoluzione dello scenario: i francesi nelle strade fanno tremare l’ex onnipotente Macron costringendolo alla resa, mentre il governo italiano (“populismo” in carica, regolarmente insediato) anziché rilanciare sull’onda dei Gilet Gialli si lascia prendere a sberle dal primo Moscovici di passaggio. Era sbagliato sbilanciarsi in campagna elettorale per un’espansione del deficit? Niente affatto. Però poi bisognava tenere il punto, a tutti i costi, pena la perdita della propria reputazione pubblica, italiana e internazionale. Era così assurdo, dare credito ai gialloverdi? No, perché l’espansione del deficit è esattamente la direzione appropriata – necessariamente eretica – per sconfessare il pretestuoso economicismo delle oligarchie finanziarie che utilizzano per i loro scopi la tecnocrazia di Bruxelles.Chi sono, in realtà, i due politici che avrebbero dovuto condurre una storica vertenza “sindacale” a favore dell’Italia? Di Maio è sbucato quasi dal nulla, attraverso il videogame elettorale interno messo in piedi da Grillo e Casaleggio, e prima delle elezioni vagava tra gli Usa e Londra in cerca di endorsement nei palazzi del massimo potere, quello che ha organizzato la globalizzazione unilaterale che ha messo in ginocchio anche l’Italia. Fino ad allora, sull’euro e l’Europa, i 5 Stelle erano riusciti a dire tutto e il contrario di tutto, senza mai delineare né un’analisi chiara né una linea politica definita, fino alla clamorosa pagliacciata del trasloco (tentato, ma non riuscito) tra gli ultra-euristi dell’Alde al Parlamento Europeo. La nuova Lega salviniana, per converso, è partita da posizioni radicalmente euroscettiche, arrivando a portare in Parlamento un economista keynesiano come Bagnai, salvo poi cominciare progressivamente a cedere ai soliti diktat di Bruxelles – spettacolo triste, solo in parte occultato dal quotidiano agitarsi di Salvini, nel tentativo di distrarre l’opinione pubblica dai fallimenti governativi. Al di là dei limiti strutturali di un’alleanza debole – i grillini “anticasta” e i leghisti “anti-migranti” – restano oscuri i piani della sovragestione da parte del vero potere, vista la confusione che regna sovrana dalle parti dell’esecutivo.Ancora non è dato sapere quanto durerà la coabitazione gialloverde, e se per caso i suoi sponsor dietro le quinte non abbiano già mollato Di Maio per puntare sul solo Salvini, a patto che scenda a più miti consigli – cosa che ha tutta l’aria di fare, a giudicare dalle recenti sterzate verso l’elettorato più tradizionalmente cauto. C’è un disegno di più lungo respiro, non ancora visibile? L’unica vera certezza riguarda la crisi dell’assetto europeo: la Francia in panne, la Germania in affanno, la Gran Bretagna ancora alle prese con l’irrisolta Brexit, l’Est Europa che scalpita per ritagliarsi spazi di autonomia. Salvini e Di Maio avevano illuso moltissimi spettatori, lasciando credere che l’Italia potesse diventare il motore di un cambiamento capace di smontare i dogmi dell’Ue, che hanno rapidamente impoverito il continente. Se non altro, i due esponenti gialloverdi hanno costretto gli italiani (e gli europei) a prendere atto, almeno, della necessità di una diversa narrazione: non è più possibile continuare ad accettare passivamente le politiche di rigore, che l’élite finanziaria neoliberista somministra alle nazioni attraverso i tecnocrati dell’Unione. Il funesto “ce lo chiede l’Europa” non è più proponibile, anche grazie a Salvini e Di Maio. Troppo poco, certo.Persino il tormentato governo Conte, comunque, potrebbe rivelare a posteriori una sua effettiva utilità, se domani – dopo le europee – prendesse corpo un vasto movimento politico, trasversale, disposto a rivendicare per l’Europa il diritto alla sovranità democratica, cominciando da una Costituzione Europea che insedi finalmente a Bruxelles un vero governo federale, regolarmente votato dal Parlamento Europeo eletto dai cittadini. Sogni, speranze e grandi incognite, a cominciare dalla paventata grande recessione in arrivo, che potrebbe far precipitare tutte le crisi politiche in atto. E gli italiani come reagirebbero, se dovessero arrendersi all’evidenza di una vera e propria resa? Che fine farebbe Di Maio, se non riuscisse a varare neppure l’ombra dello sbandieratissimo reddito di cittadinanza? E dove finirebbero i tatticismi del disinvolto Salvini, di fronte alla porta che l’Ue pare stia per sbattere il faccia all’Italia? Da più parti si osserva come manchi, tuttora, una classe dirigente all’altezza della situazione politica. Grazie al governo gialloverde sono caduti alcuni tabù e un bel po’ di leggende, per esempio sull’intoccabilità dei deficit. Ma resta, a monte, il macigno di un’Europa non democratica, non alleata, non amica. Anche grazie alla Lega e ai 5 Stelle, oggi gli italiani il problema lo vedono benissimo. A farsi attendere, ancora, è la soluzione.(Giorgio Cattaneo, “Bravi i gialloverdi a denunciare il rigore Ue, ma ora gli italiani si aspettano i fatti”, dal blog del Movimento Roosevelt del 14 dicembre 2018).In campagna elettorale sembravano impazziti: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano? Ovvio, ma lo facevano anche gli altri. Loro di più? Infatti hanno vinto. O meglio: hanno vinto i 5 Stelle, col doppio dei voti di Salvini. Già l’indomani, però, Di Maio disorientava il pubblico votante, dichiarandosi disposto ad allearsi con chicchessia, dalla Lega al Pd, pur di andare al governo. D’accordo, ma per fare cosa? Poi è arrivato il Contratto, con dentro quasi tutto: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano ancora? Possibile, ma forse a fin di bene: sapevano che sarebbe stata dura, con Bruxelles, ma ne erano consapevoli e si preparavano a dare battaglia. Davvero? Non si direbbe, vista la mala parata di fronte ai cani da guardia della Commissione Europea, gli stessi che invece ora si preparano a condonare all’anti-italiano Macron persino il massimo sacrilegio possibile, nell’euro-santuario: la violazione del sacro vincolo del 3% nel rapporto deficit-Pil. Prima ancora che il “governo del cambiamento” nascesse, del resto, i gialloverdi avevano dovuto ingoiare un super-rospo: il “niet” del Quirinale su Paolo Savona all’economia. Di Maio ventilò l’impeachment per Mattarella, Salvini se ne guardò bene. Oggi Di Maio è in caduta libera, mentre Salvini si muove da padrone della scena. Un caso?
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Francia terrorista: fa strage a Strasburgo e protegge Battisti
Francia terrorista: i servizi segreti di Parigi hanno organizzato la strage di Strasburgo per aiutare Macron, messo in difficoltà dai Gilet Gialli, mentre in Brasile hanno reso improvvisamente irreperibile Cesare Battisti, un attimo prima che venisse arrestato. Perché la Francia dovrebbe proteggere Battisti, evitandogli di essere estradato in Italia, dove lo attenderebbe l’ergastolo per omicidio? Semplice: «All’epoca degli anni di piombo, sospetto che Battisti sia stato infiltrato dai francesi nel sottobosco dell’eversione italiana». Sono di questo tenore le dichiarazioni rilasciate il 16 dicembre dall’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Adesso basta», si sfoga Carpeoro: «Se qualcuno a Roma ha le palle, convochi l’ambasciatore francese e gli chieda conto dell’operato dei servizi segreti di Parigi. L’Italia ne ha titolo, anche perché a Strasburgo è morto un ragazzo italiano di 28 anni», Antonio Megalizzi, colpito dai proiettili esplosi all’impazzata, l’11 dicembre, dal giovane Cherif Chekatt, noto pregiudicato, con 27 condanne già rimediate in tre diversi paesi. Classificato “islamico radicalizzato” dalla polizia francese, Chekatt ha ucciso sul colpo 3 persone (salite a 4, con Megalizzi) ferendone altre 16. Carpeoro accusa Parigi: il killer è stato appositamente reclutato attraverso le brigate Al-Nusra, eredi di Al-Qaeda in Siria, stanziate a Idlib e segretamente protette dalla Francia.Giornalista e scrittore, studioso di simbologia e già a capo della più tradizionale obbedienza massonica italiana del Rito Scozzese, non è la prima volta che Carpeoro fornisce clamorose rivelazioni. Di recente, tramite suoi rapporti con logge tedesche, ha svelato l’imbarazzante retroscena dietro alla prima bocciatura di Marcello Foa alla guida della Rai, ottenuta su pressione di Jacques Attali, “king maker” di Macron, che si sarebbe rivolto a Giorgio Napolitano e quindi ad Antonio Tajani per premere su Berlusconi affinché revocasse il consenso sulla nomina di Foa che in prima battuta il Cavaliere aveva già assicurato a Salvini. Non è escluso che la retromarcia di Berlusconi, grazie a cui oggi Foa ha raggiunto la presidenza Rai, sia dovuta anche alle scomode rivelazioni di Carpeoro. Fuoriuscito dalla massoneria, nel 2016 l’avvocato ha pubblicato il saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che denuncia la regia occidentale (non islamica) del “neoterrorismo” europeo targato Isis: opera di manovalanza islamista reclutata da servizi segreti Nato al soldo della “sovragestione” di potere, che interseca trasversalmente governi e apparti di polizia tramite superlogge internazionali come la “Hathor Pentalpha”. Schema classico: strategia della tensione, alimentata da attentati “false flag”, sotto falsa bandiera (attribuiti all’Isis). «Così come già Al-Qaeda, anche l’Isis è il prodotto della medesima sovragestione occidentale», sottolinea Carpeoro. «E l’ultimo attentato, quello di Strasburgo, ne è un esempio perfetto». Obiettivo? «Politico: aiutare Macron a resistere all’assedio dei Gilet Gialli, depistando l’opinione pubblica e indirizzandola verso un nemico esterno».Mai come nel caso di Strasburgo, dichiara Carpeoro in video-chat con Frabetti, è apparso chiaro il carattere artificioso della strage, progettata dai servizi segreti a poche ore dalla clamorosa “resa” televisiva di Macron, messo in croce dai Gilet Gialli. L’attentatore è stato presentato come “islamico radicalizzato”, ma testimoni raccontano di averlo visto ubriaco fradicio, qualche sera prima, in una birreria. «Il sindaco di Strasburgo ha dichiarato di non riuscire a spiegarsi come Cherif Chekatt, pregiudicato e schedato dalla polizia come sospetto terrorista islamico, possa essere riuscito a inoltrarsi – armato – nel perimetro super-vigilato del centro di Strasburgo, giungendo indisturbato fino al mercatino di Natale dove poi ha compiuto la strage». Ma peggio: «Poco prima – aggiunge Carpeoro – Chekatt era sfuggito all’arresto. Strano, che qualcuno compia una strage (anziché sparire) poco dopo esser sfuggito all’arresto. E ancora più strano è che la polizia non si attivi per braccarlo, non diffonda foto segnaletiche, non disponga posti di blocco». Attenzione: «Chi c’era, a proteggere il centro di Strasburgo? Le forze speciali antiterrorismo». In altre parole: qualcuno che, il killer, “doveva” lasciarlo passare – armato – evitando di perquisirlo?Il tentato arresto, aggiunge Carpeoro, è chiaramente un alibi per allontanare i sospetti dalle forze di sicurezza. E non è tutto: «Da una perquisizione domiciliare, il killer è risultato essere in possesso di un’altra pistola, diversa da quella usata per la strage, e addirittura di una granata». Domanda: «Se voleva fare una carneficina, perché non ha portato con sé anche le altre armi?». E soprattutto: «Perché ancora oggi non sappiamo che tipo di pistola fosse, quella usata per sparare sulla folla?». Stranezze su stranezze: subito, era corsa voce che Chekatt si fosse rifugiato in Germania. Invece, stranamente, non si era allontanato da Strasburgo. Nessuno si stupisce più che sia stato ucciso, alla fine, come tutti gli altri killer che negli ultimi anni hanno insanguinato l’Europa: nessun magistrato ha mai potuto interrogarli, sono tutti stati messi a tacere dai cecchini. Carpeoro insiste sull’arma della strage: «Dato che non è stata fatta circolare nessuna informazione, su quella pistola, è altamente probabile che sia di importanza decisiva per risalire alla verità». Un’arma fornita al killer direttamente dai servizi segreti francesi?Dopo la strage della redazione di Charlie Hebdo, l’Eliseo insabbiò le indagini – apponendo il segreto di Stato (segreto militare) – nel momento in cui un magistrato aveva scoperto che le armi del commando kamizake erano state acquistate, in Belgio, da agenti della Dgse, l’intelligence di Parigi. Uno degli 007 era in contatto con la fidanzata di uno dei giovani attentatori (anch’essi poi freddati dai cecchini, esattamente come Cherif Chekatt). Per Carpeoro, ormai il gioco è spudorato: non si era mai vista tanta tempestività nel fare ricorso al terrorismo per motivi di stringente necessità politica. «Temo che all’attentato di Strasburgo ne possano seguire altri», aggiunge Carpeoro, secondo cui – intanto – un risultato è stato ottenuto: è vero che il Gilet Gialli sono tornati in piazza, ma intanto si sono divisi politicamente. «L’attentato ha prodotto questo effetto: ha costretto i manifestanti a dividersi». Da una parte quelli intenzionati a protestare a oltranza, e dall’altra chi pensa sia meglio una pausa di riflessione, un gesto di solidarietà nazionale. Carpeoro è indignato: i cittadini francesi, dice, dovrebbero sapere che il loro governo protegge in Siria le milizie terroristiche di Al-Nusra, asserragliate a Idlib. «Al-Nusra è la filiazione diretta di Al-Qaeda, e il governo di Damasco vorrebbe cacciarla da Idlib. Ma non ci riesce, perché Al-Nusra è protetta dalla Francia».Non è un caso che il killer di Strasburgo abbia rivendicato la strage facendo riferimento ai “caduti siriani”. E, dato che tra le vittime c’è anche un italiano, si rivolge direttamente agli inquirenti italiani: proprio la pistola “fantasma” di Chekatt, sparita nel nulla, potrebbe essere la chiave per collegare l’esecutore ai mandanti. Servizi-colabrodo, alle prese con relazioni pericolose? Dipende: «E’ normale che i servizi segreti infiltrino loro uomini anche nelle strutture terroristiche, è il loro mestiere. L’importante è il fine: un conto è se collaborano per evitarli, gli attentati (come avvenuto in Italia in questi anni), e un altro è se invece collaborano per farli». Quanto all’Italia, appunto, forse è giunta l’ora di ribellarsi ai soprusi dell’intelligence “sovragestita” di Parigi: «Non è accettabile che la Francia protegga sottobanco un suo ex agente come Battisti, mentre da noi Alberto Torregiani ha trascorso la vita su una sedia a rotelle, reso paraplegico durante la rapina in cui Battisti uccise suo padre, Pierluigi, a Milano, il 16 febbraio 1979». Insiste, Carpeoro: «Mi assumo la piena responsabilità di quello che dico. E insisto: Roma dovrebbe richiamare l’ambasciatore francese e chiedergli spiegazioni sull’operato dei servizi segreti transalpini, anche a costo di incrinare le relazioni diplomatiche con la Francia».Francia terrorista: i servizi segreti di Parigi hanno organizzato la strage di Strasburgo per aiutare Macron, messo in difficoltà dai Gilet Gialli, mentre in Brasile hanno reso improvvisamente irreperibile Cesare Battisti, un attimo prima che venisse arrestato. Perché la Francia dovrebbe proteggere Battisti, evitandogli di essere estradato in Italia, dove lo attenderebbe l’ergastolo per omicidio? Semplice: «Sono convinto che, all’epoca degli anni di piombo, Battisti sia stato infiltrato dai francesi nel sottobosco dell’eversione italiana». Sono di questo tenore le dichiarazioni rilasciate il 16 dicembre dall’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Adesso basta», si sfoga Carpeoro: «Se qualcuno a Roma ha le palle, convochi l’ambasciatore francese e gli chieda conto dell’operato dei servizi segreti di Parigi. L’Italia ne ha titolo, anche perché a Strasburgo è morto un ragazzo italiano di 28 anni», Antonio Megalizzi, colpito dai proiettili esplosi all’impazzata, l’11 dicembre, dal giovane Cherif Chekatt, noto pregiudicato, con 27 condanne già rimediate in tre diversi paesi. Classificato “islamico radicalizzato” dalla polizia francese, Chekatt ha ucciso sul colpo 3 persone (salite a 4, con Megalizzi) ferendone altre 16. Carpeoro accusa Parigi: il killer è stato appositamente reclutato attraverso le brigate Al-Nusra, eredi di Al-Qaeda in Siria, stanziate a Idlib e segretamente protette dalla Francia.
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Tutta la verità, sempre. Grazie a Mazzucco, giornalista vero
«Ragazzi, ricordarvi di dare fastidio, sempre, a chi comanda». Furono le ultime parole che lo scrittore Nuto Revelli rivolse agli studenti delle scuole che spesso visitava. Autore di memorabili libri-denuncia come “La guerra del poveri” sulla ritirata di Russia e “Il mondo del vinti” sull’agonia delle valli alpini spopolate dall’era industriale, Revelli rappresentò una voce importante (e scomoda, quindi isolata) nella coscienza italiana del dopoguerra. Il suo lascito: cercare la verità, ad ogni costo. Quello che, in teoria, dovrebbe fare ogni giornalista degno di questo nome. Quanti ce ne sono, oggi, in circolazione? Pochissimi, secondo il Premio Pulitzer americano Seymour Hersh: «Se i reporter avessero fatto il loro dovere, in questi decenni, avremmo avuto meno guerre e meno stragi, perché il potere non avrebbe osato mentire così spudoratamente all’opinione pubblica». La madre di tutte le stragi, quella dell’11 settembre 2001, colse il milanese Massimo Mazzucco nella sua abitazione di Los Angeles, dove lavorava come sceneggiatore per la Dino De Laurentiis, dopo aver fatto la sua brava gavetta in Italia in qualità di fotografo, assistente di Oliviero Toscani. Quel giorno, Massimo vide – come tutto il resto del mondo – l’impatto del primo aereo. E vide che trascorse un intervallo interminabile prima che avvenisse l’urto del secondo velivolo, senza che nel frattempo si fosse levato in volo un solo caccia a presidiare i cieli.Quella mattina, infatti, l’intera difesa aerea degli Stati Uniti sulla costa orientale era affidata a due soli intercettori armati di missili e pronti a decollare, più altri due di riserva. Tutti gli altri – centinaia – erano impegnati in esercitazioni concomitanti in Canada, Alaska e California: fatto fino ad allora mai verificatosi, nella storia degli Usa, né più ripetutosi in seguito. Il cielo della superpotenza mondiale era più sguarnito di quello del Burkina Faso. Questo (e molto altro) ha messo insieme, Massimo Mazzucco, dopo anni di impegno ininiterrotto alla ricerca della verità. A partire dal primo documentario, “Inganno globale”, mandato in onda da Mentana a “Matrix” su Canale 5 in prima serata, nel 2006, di fronte a milioni di attoniti telespettatori, il video-reporter più scomodo d’Italia ha dedicato alla truffa dell’11 Settembre anche il maxi-documentario del 2013, “11 Settembre, la nuova Pearl Harbor”, raccogliendo prove e testimonianze che smentiscono la versione ufficiale sull’attentato alle Torri Gemelle. Tante le teorie: le Twin Towers abbattute da armi speciali ad energia, demolite con la nano-termite, incenerite con mini-atomiche? Mazzucco non sposa nessuna tesi: «Non spetta a me stabilire cosa sia stato usato per far crollare le Torri, a me basta dimostrare che non possono esser stati quegli aerei», ha ripetuto, anche in web-streaming su YouTube il sabato mattina con Fabio Frabetti di “Border Nights”.Anzi, aggiunge: «Il parteggiare per una tesi o per l’altra finisce per produrre contraddizioni tecniche utili solo a chi vuol farla dimenticare, quella storia, squalificando di fronte all’opinione pubblica chi ricerca la verità con serietà e impegno, come i tremila architetti e ingegneri americani che, mettendo a repentaglio il proprio posto di lavoro, sono riusciti a dimostrare in modo definitivo la “demolizione controllata” delle Torri Gemelle». Cercare la verità, appunto, senza trarre conclusioni affrettate: nel suo ultimo lavoro, “American Moon”, Mazzucco si avvale dei maggiori fotografi internazionali per dimostrare che le immagini del mitico allunaggio del ‘69 non sono state realizzate sulla Luna, ma in studio. «Il che non significa che non siamo mai stati sulla Luna: significa che le immagini mostrate al mondo erano false». Il potere statunitense è finito nel mirino di Mazzucco in svariate occasioni: nel 2007 ha firmato il documentario “L’altra Dallas – Chi ha ucciso Robert Kennedy?”. Un giallo tutt’altro che chiuso, quello che circonda la morte del fratello di Jfk, assassinato il 6 giugno 1968 nelle cucine dell’Hotel Ambassador di Los Angeles per fermare la sua corsa alla Casa Bianca: «Nonostante vi siano almeno venti persone che hanno visto Sirhan Sirhan sparare a Kennedy, sono emersi nel corso del tempo svariati elementi che tendono decisamente a scagionarlo».Lo chiamano Deep State, ed è qualcosa che affonda le sue radici nella nebulosa che tiene insieme esponenti della supermassoneria sovranazionale neo-oligarchica messa a nudo da Gioele Magaldi nel bestseller “Massoni”, con propaggini nella Cia e nell’Fbi, al Pentagono, alla Casa Bianca, in centri di comando assoluti come il Council on Foreign Relations. Da quegli ambienti scaturì il Pnac, Piano per il Nuovo Secolo Americano, attraverso cui i neocon – i Bush e Cheney, Wolfowitz, la Rice, Donald Rumsfeld – pianificarono apertamente la “guerra infinita” a cui il maxi-attentato dell’11 Settembre avrebbe spianato la strada. Massimo Maazzucco ne parla nel documentario “Il nuovo secolo americano”, uscito nel 2008 per illuminare «tutti i retroscena storici, politici, economici e filosofici che avrebbero portato agli attentati dell’11 Settembre per vie ben diverse da quelle che ci sono state raccontate». Non è possibile, infatti, comprendere gli attacchi alle Torri «se non si conosce la storia che c’è alle loro spalle». Ma lo sguardo di Mazzucco – giornalista vero – si estende anche oltre l’agenda geopolitica: nel video “I padroni del mondo”, uscito sempre nel 2008, esplora il territorio misteriosamente ibrido che comprende avvistamenti Ufo, ruolo dei militari e pericolo atomico.“I padroni del mondo”, spiega, non è un classico film sugli Ufo, ma «un film che cerca di comprendere il motivo per cui tutte le informazioni raccolte fino ad oggi sugli Ufo ci vengano tenute nascoste dai militari del Pentagono». E’ forse trovando questa risposta, ipotizza il video-reporter milanese, che si può scoprire qualcosa anche sull’esistenza di «esseri provenienti da altri pianeti, e sulle loro eventuali intenzioni». Tanto per essere espliciti: l’ufologo Roberto Pinotti, da decenni in contatto l’aeronautica militare italiana, ricorda che i gesuiti hanno speso milioni di dollari per allestire sul Mount Graham, in Arizona, un potente osservatorio astronomico dedicato allo studio dell’esobiologia, cioè la vita aliena. “L’extraterrestre è mio fratello”, titolò clamorosamente “L’Osservatore Romano” intervistando padre José Gabriel Funes, astronomo e gesuita, direttore della Specola Vaticana: un centro «che possiede anche un telescopio ad alta tecnologia e vanta un team di scienziati che fa invidia a quello della Nasa», ricorda Agnese Pellegrini su “Famiglia Cristiana”. Ma se padre Funes scruta il cielo in attesa dello sbarco dei “fratelli dello spazio”, Massimo Mazzucco – al solito – scava dietro le verità ufficiali, prendendo per le corna il toro del potere: perché i militari non ci raccontano tutto quello che sanno?Inutile sperare che sui giornali si riscontri altrettanto impegno, nella ricerca delle notizie che contano, anche – per dire – in un settore delicatissimo come quello della salute. E’ del 2009 la dirompente indagine sulle cure alternative per il tumore (“Cancro, le cure proibite”), nel quale Mazzucco mette a nudo il silenzio assordante che copre i clamorosi risultati già ottenuti da decine di medici, in tutto il mondo, per i quali il cancro non è più una malattia incurabile. Negli ultimi 100 anni, riassume il trailer del documentario, dozzine di scienziati, medici e ricercatori hanno trovato diverse cure valide per il cancro, spesso supportate anche da migliaia di testimonianze di pazienti guariti – ma noi non lo abbiamo mai saputo: perché? Statistiche: cent’anni fa si ammalava di cancro solo una persona su 20, oggi invece una su 3 (e negli Usa, un individuo su 4 muore di cancro). Chi sopravvive, viene semi-distrutto dalla chemio: dolori, gonfiore, febbre, nausea, vomito e svenimenti, senza contare l’abbattimento delle difese immunitarie e quindi il rischio elevatissimo di contrarre altri tumori, di cui l’organismo ormai indifeso diviene facile preda. Quando mai se ne parla, sui giornali, di cure di successo contro lo stramaledetto cancro?«Da cent’anni – dichiara Mazzucco – la medicina ufficiale nega che esista una cura risolutiva». Il video mostra sanitari come Max Gerson, che guarisce pazienti considerati “terminali”, così come il collega Harry Hoxsey. Medici per i quali il cancro non è più invincibile: da Tullio Simoncini a René Caisse. Racconta un anziano paziente: «Mi avevano detto che sarei morto in 24 ore, e invece eccomi qua». L’elenco di medici anti-cancro è lungo quasi quanto il Novecento: Chas Ozina e Josef Issels, Emanuel Revici, Royal Rife. E poi Gaston Naessens e Linus Pauling, senza contare Wilhelm Reich e Ryke Hamer. «Perché tutti coloro che hanno proposto una nuova cura, negli ultimi cento anni, sono stati sistematicamente ignorati, derisi, combattuti e spesso anche messi in prigione?». Nel video, rispondono operatori della sanità: «Il cancro è un grosso affare, uno dei più grandi che ci siano». Nel solo 2004, Big Pharma ha fatturato oltre mezzo “biliardo” (“550 billion”, cioè 550 miliardi di dollari). I medici intervistati da Mazzucco parlano di «inviti a pranzo, cene gratis, Champagne». Scandisce il norvegese Per Lonning, dell’Haukeland Hospital di Bergen: «Arriveremo a trovare la cura? La questione non è “se”, ma “quando”». Solo questione di volontà politica, in altre parole. E di soldi, tanto per cambiare.Dice Mark Abadi, psicologo: «La farmaceutica è l’industria di maggior successo nel mondo. Quello che non vogliono è che tu guarisca». Chiosa un’anziana, fissando la telecamera: «Se i medici sanno che c’è una cura, eppure mandano i pazienti a casa a morire, quella è un’atrocità peggiore dell’Olocausto». Tra i rimedi anti-cancro recentemente ammessi c’è anche la marijuana, le cui infiorescenze sono ricchissime di Tch, un principio attivo (già usato da Big Pharma in modo non dichiarato) che in molti casi distrugge le cellule tumorali, oltre ad alleviare le sofferenze dei pazienti. Mazzucco ne parla nel documentario “La vera storia della marijuana”, uscito nel 2010. Domanda: «Che cosa si nasconde dietro alla ossessiva, incessante e terrificante guerra alla droga?». La realtà che si cela sotto la proibizione di questa pianta è «qualcosa di assolutamente impressionante e sconvolgente, con una portata storica che condiziona in modo determinante la vita quotidiana di tutti noi, compreso chi non ha mai visto da vicino nemmeno uno spinello». Tanto per dire, in tutte le civiltà, la marijuana è stata la pianta più utile per l’intera umanità: se ne ricavano carta e tessuti per abiti, olio, corde, medicine. Dalla canapa è possibile produrre anche un’ottima plastica naturale. Ecco il punto: il boom della cannabis avrebbe tagliato le gambe all’industria (sanguinosa) del petrolio.La cannabis, aggiunge Mazzucco nel suo video, è stata usata fin dall’antichità per combattere malaria, reumatismi e dolori mestruali, epilessia, coliche e anche gastriti, anoressia e tifo. Non ci credete? Il medico personale della regina Vittoria, Sir John Russell Reynolds, nel 1890 la definì «una delle medicine più importanti a disposizione dell’uomo». Poi, da un giorno all’altro, questa pianta miracolosa è diventata il frutto proibito, la radice di ogni male: fonte di peccato, perversione e immoralità. Una pericolosa scorciatoia verso la devianza e la follia. Una demonizzazione devastante, improvvisa e sospetta, proprio in prossimità del boom del petrolio. Mazzucco ricorda che Harry Anslinger, del Federal Bureau of Narcotics, fece proibire la marijuana in tutto il mondo: chi lo finanziava? Lo spiega il suo filmato, ora proposto anche come strenna – in cofanetto – insieme a tutti gli altri: un’ottima occasione per fare scorta di informazioni serie, comprovate da documentazioni a prova di bomba.A Mazzucco, naturalmente, il mainstream dà del complottista: un modo facilotto per tentare di sbarazzarsene. Se c’è una dote nella quale l’autore eccelle è proprio la prudenza. Regola numero uno: verificare le notizie in modo da avere sempre almeno 3-4 conferme incrociate. Cosa che i giornalisti hanno smesso di fare da secoli, limitandosi per lo più a passare veline governative. A lettori e telespettatori rifilano quasi solo robaccia, semplice gossip politico, guardandosi bene dall’impensierire il potere. Mazzucco rimpiange il Mentana dei bei tempi, che a suo modo era coraggioso. «Poi, col tempo, si è integrato nel sistema. Arrivato a La7, poteva diventare “il primo degli ultimi”. Invece, si è accontentato di essere “l’ultimo dei primi”». A chi ha fame di notizie vere, naturalmente, resta il web: «Oggi sulla Rete troviamo informazioni impensabili, dieci anni fa, grazie al lavoro tenace e paziente di migliaia di attivisti». Lavoro che “dà fastidio”, come auspicava l’anziano Nuto Revelli, tant’è vero che la politica – italiana, europea – continua a tentare di imbavagliare i blog. E i giornalisti? Silenti, su tutta la linea. Si consolino: se vogliono scoprire come sono andate davvero le cose, in molti tornanti dell’attualità, possono sempre guardarsi i dvd di Massimo Mazzucco. Vere e proprie miniere di notizie.(Tutti i dvd ideati, prodotti e diretti da Massimo Mazzucco sono acquistabili singolarmente, on-line, attraverso il sito “Luogo Comune”. Per il Natale 2018, è anche possibile acquistarli in un’unica soluzione – versione cofanetto – al prezzo scontato di 49 euro).«Ragazzi, ricordatevi di dare fastidio, sempre, a chi comanda». Furono le ultime parole che lo scrittore Nuto Revelli rivolse agli studenti delle scuole che spesso visitava. Autore di memorabili libri-denuncia come “La guerra del poveri” sulla ritirata di Russia e “Il mondo del vinti” sull’agonia delle valli alpine spopolate dall’era industriale, Revelli rappresentò una voce importante (e scomoda, quindi isolata) nella coscienza italiana del dopoguerra. Il suo lascito: cercare la verità, ad ogni costo. Quello che, in teoria, dovrebbe fare ogni giornalista degno di questo nome. Quanti ce ne sono, oggi, in circolazione? Pochissimi, secondo il Premio Pulitzer americano Seymour Hersh: «Se i reporter avessero fatto il loro dovere, in questi decenni, avremmo avuto meno guerre e meno stragi, perché il potere non avrebbe osato mentire così spudoratamente all’opinione pubblica». La madre di tutte le stragi, quella dell’11 settembre 2001, colse il milanese Massimo Mazzucco nella sua abitazione di Los Angeles, dove lavorava come sceneggiatore per la Dino De Laurentiis, dopo aver fatto la sua brava gavetta in Italia in qualità di fotografo, assistente di Oliviero Toscani. Quel giorno, Massimo vide – come tutto il resto del mondo – l’impatto del primo aereo. E vide che trascorse un intervallo interminabile prima che avvenisse l’urto del secondo velivolo, senza che nel frattempo si fosse levato in volo un solo caccia a presidiare i cieli.