Archivio del Tag ‘operai’
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Legittima difesa: possiamo proteggerci dai disinformatori?
Difendersi dalla informazione che non informa non sembrerebbe a prima vista più drammatico del doversi porre al riparo dalla scuola che non forma, dalla sanità che non cura, dalla previdenza che non provvede più all’assegno di pensione. Si sa che l’Italia scivola inesorabilmente verso il fondo della classifica della libertà di stampa non solo dei “paesi occidentali”, ma anche di quelli ritenuti terzomondo solo sino a poco tempo fa: sappiamo che se si giocasse un campionato di calcio saremmo “in piena zona retrocessione” e il prossimo anno dovremmo disputare il difficile e affollato campionato di serie B. Ma, come tutti i tifosi che si rispettano, non per questo smettiamo di fare il tifo per la ex “grande” decaduta. Una vecchia gloria che si è giocata coi ripetuti coinvolgimenti nei “calcioscommesse” della malapolitica tutta la credibilità che si era guadagnata in oltre duemila anni di storia.Ma se ci riflettiamo appena un po’ dobbiamo ammettere che dei cittadini consapevoli sono in grado di difendersi meglio anche dalla mancata o cattiva erogazione dei servizi essenziali. E soprattutto che essere informati (ad esempio delle priorità di spesa che i vari livelli di governo istituzionale decidono) serve a stabilire se accettarne o rifiutare le logiche che ne sono alla base. Sapere che una casa automobilistica ha richiamato un modello particolarmente diffuso per possibili noie ai freni ci può indurre a una condotta di guida più conservativa in attesa di ricevere una lettera che non ci è ancora pervenuta per un disservizio postale (perché anche di questo siamo venuti a conoscenza grazie a un articolo di giornale o a un servizio televisivo). Ma allora la funzione dell’informazione – senza andare a quella eroica del celeberrimo film “Quarto potere” – non è marginale come a volte proviamo consolatoriamente a dire a noi stessi, per far fronte allo scoramento che ci assale. Anzi, la sua funzione è addirittura propedeutica (quantomeno può esserlo) non solo per il buon funzionamento dei servizi cui ho accennato, ma addirittura – in tempo di crisi – per il loro mantenimento in essere.Non sono un professionista del settore, non ho studiato gli “strumenti del comunicare” di Marshall McLuhan pubblicato non a caso nel 1967, un anno prima delle rivolte studentesche ed operaie che riuscirono se non altro a ritardare quella corsa verso la disuguaglianza che oggi sta portando alla rovina il mondo così come lo hanno conosciuto le nostre generazioni. Soprattutto non so immaginare come Internet e il suo straordinario e rapidissimo sviluppo potrà porre almeno in parte rimedio all’asservimento dei media mainstream ai poteri forti. Ma forse proprio la capillarità e la reciprocità della comunicazione e la possibilità di mettere in rete i saperi (anche quelli specialistici) di sempre più persone potrebbe rivelarsi una difesa straordinariamente efficace contro un pericolo straordinariamente grave.(Claudio Giorno, “Legittima difesa”, dal blog di Giorno del 18 novembre 2013).Difendersi dalla informazione che non informa non sembrerebbe a prima vista più drammatico del doversi porre al riparo dalla scuola che non forma, dalla sanità che non cura, dalla previdenza che non provvede più all’assegno di pensione. Si sa che l’Italia scivola inesorabilmente verso il fondo della classifica della libertà di stampa non solo dei “paesi occidentali”, ma anche di quelli ritenuti terzomondo solo sino a poco tempo fa: sappiamo che se si giocasse un campionato di calcio saremmo “in piena zona retrocessione” e il prossimo anno dovremmo disputare il difficile e affollato campionato di serie B. Ma, come tutti i tifosi che si rispettano, non per questo smettiamo di fare il tifo per la ex “grande” decaduta. Una vecchia gloria che si è giocata coi ripetuti coinvolgimenti nei “calcioscommesse” della malapolitica tutta la credibilità che si era guadagnata in oltre duemila anni di storia.
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Hedges: quest’impero di depravati sta per travolgerci
Gli ultimi giorni dell’impero danno gran lavoro e potere agli inetti, agli squilibrati ed agli imbecilli. Questi politici e propagandisti di corte, assunti per essere la faccia pubblica della nave che affonda, mascherano il vero lavoro dell’equipaggio, il quale saccheggia sistematicamente i passeggeri mentre la nave affonda. I mandarini del potere stanno nella timoniera, impartendo ordini ridicoli e osservando in quanto tempo riescono a distruggere i motori. Combattono come bambini al timone di una nave, mentre la barca va a tutta velocità contro un iceberg. Passeggiano in coperta facendo discorsi pomposi. Urlano che la nave Ss America è la migliore mai costruita. Insistono che ha la tecnologia più avanzata e che incarna le più alte virtù. E poi, con una furia improvvisa e inaspettata, andremo giù nelle acque gelide. Gli ultimi giorni dell’impero sono un carnevale di follia. Siamo nel mezzo di noi stessi, spinti dai nostri leader di corte che si intestardiscono sull’economia e l’auto-distruzione. Sumeri e Romani caddero in questo modo, come pure gli Ottomani e l’impero Austro-Ungarico.Uomini e donne dalla sbalorditiva mediocrità e depravazione guidavano le monarchie d’Europa e della Russia alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. E l’America, nel suo stesso declino, ha offerto una parte del suo essere rammollita, stolta e imbecille fino alla totale distruzione. Una nazione che era ancora radicata nella realtà non avrebbe mai glorificato ciarlatani come il senatore Ted Cruz, il portavoce della Casa Bianca John Boehner e l’ex-portavoce Newt Gingrich che hanno corrotto le onde radio. Se avessimo avuto la minima idea di cosa realmente ci sarebbe accaduto ci saremmo rivoltati con furia contro Barack Obama, la cui eredità sarà la capitolazione totale alle esigenze di Wall Street, all’industria del combustibile fossile, al complesso dell’industria militare e allo stato di sicurezza e sorveglianza. Avremmo dovuto manifestare con quei pochi, come Ralph Nader, che hanno denunciato il sistema monetario basato sul gioco d’azzardo, l’interminabile stampa di denaro e ha condannato la distruzione ostinata dell’ecosistema. Dovevamo ammutinarci. Dovevamo far tornare indietro la nave.Le popolazioni dell’impero in caduta sono passive perché spensierate. E’ in atto una narcotizzazione del sogno ad occhi aperti tra coloro che rotolano verso l’oblio. Si rifugiano nella sessualità, nelle cose scadenti e nell’insensatezza, rifugi che al momento sono piacevoli ma di sicura auto-distruzione. Credono ingenuamente che tutto funzionerà. Come specie umana, osserva Margaret Atwood nel suo romanzo distopico “Oryx and Crake”, siamo condannati alla speranza. E assurde promesse di speranza e gloria sono continuamente servite dall’industria dell’intrattenimento, dell’élite politica ed economica, dalla classe dei cortigiani che fingono di essere giornalisti, guru autodidatti come Oprah e sistemi di credo religiosi che assicurano ai seguaci che Dio li proteggerà sempre. E’ una auto-delusione collettiva, un ritirarsi nel pensiero magico.«Il cittadino americano finora è vissuto in un mondo dove la fantasia è più reale della realtà stessa, dove l’immagine ha più dignità dell’originale», scrisse Daniel J. Boorstin nel suo libro “L’immagine: guida agli pseudo-eventi in America”. «Difficilmente affrontiamo il nostro sconcerto, perché la nostra esperienza ambigua è piacevolmente iridescente, e il conforto nella fede della realtà artificiosa è completamente reale. Siamo diventati accessori desiderosi nella grande era delle bufale. Queste sono le bufale che giochiamo a noi stessi». Cultura e alfabetismo, nella fase finale del declino, sono sostituiti da rumori diversivi e stereotipi vuoti. Lo statista romano Cicerone inveiva contro il loro equivalente dell’epoca – l’arena. Cicerone, a causa della sua onestà, fu inseguito e ucciso; le mani e la testa tagliate. La testa mozzata e la mano destra, con la quale aveva scritto le Filippiche, furono inchiodate sul palco dove parlavano al Foro. Mentre l’élite romana gli sputava sulla testa, dicevano allegramente alla folla inferocita che non avrebbe più parlato o scritto di nuovo.Nell’era moderna questa tossica cacofonia insensata, la nostra versione di spettacolo e di combattimenti di gladiatori, di “panem et circenses”, viene pompata ciclicamente ventiquattrore su ventiquattro dalle onde radio. La vita politica si è fusa con il culto della celebrità. L’educazione è principalmente professionale. Gli intellettuali sono scacciati e disprezzati. Gli artisti non possono vivere del proprio lavoro. Poche persone leggono libri. Il pensiero è stato bandito soprattutto nelle università e nei college, dove pedanti, timidi e carrieristi sfornano banalità accademiche. «Anche se la tirannia, che non ha bisogno di consenso, può governare con successo sui popoli stranieri», scrisse Hannah Arendt nel suo libro “Le origini del totalitarismo”, «si può restare al potere solo se si distruggono prima di tutto le istituzioni nazionali del popolo». E le nostre sono state distrutte.Le nostre ossessioni prioritarie sono il piacere sensuale e l’eterna giovinezza. L’imperatore romano Tiberio si ritirò nell’isola di Capri e convertì il suo palazzo al mare in una casa di lussuria sfrenata e violenza. «Gruppi di ragazze e giovani uomini, che erano stati raccattati da ogni parte dell’impero come adepti a pratiche innaturali, conosciute come spintriae, avrebbero copulato prima di lui in gruppi di tre, per eccitare il suo desiderio scemante», scrisse Svetonio ne “I dodici Cesari”. Tiberio addestrava ragazzini, che lui chiamava i suoi pesciolini, a folleggiare con lui in acqua e a fare sesso orale. E dopo aver osservato una tortura prolungata, li avrebbe poi obbligati a buttarsi da una scogliera vicino al suo palazzo. A Tiberio sarebbero seguiti Caligola e Nerone. «A volte, quando viene voltata la pagina», scrisse Louis-Ferdinand Céline in “Da un castello all’altro”, «quando la storia raggruppa insieme tutti i pazzi, apre le sue epiche sale da ballo! Cappelli e capi nel turbine! Mutandine in mare!».Nel suo libro “Il collasso delle società complesse”, l’antropologo Joseph Tainter osserva il collasso delle civiltà, dai Romani ai Maya. Conclude dicendo che si disintegrarono perché alla fine non potevano sostenere le complessità burocratiche che avevano creato. Strati di burocrazia richiedono sempre maggiore sfruttamento, non solo dell’ambiente ma anche delle classi operaie. Diventano calcificati da sistemi che non sono in grado di rispondere ai cambiamenti che avvengono attorno a sé. Come succede nelle nostre università d’élite e nelle scuole aziendali, vengono prodotti in serie informatici gestionali, ai quali insegnano non a pensare, ma a far funzionare ciecamente il sistema. Questi informatici gestionali sanno solo come perpetuare se stessi e il sistema al quale sono al servizio, anche se significa sventrare la nazione e il pianeta. Le nostre élite e i burocrati logorano il pianeta per sostenere un sistema che in passato ha funzionato, senza riconoscere che ora non funziona più.Invece di prendere in considerazione delle riforme che metterebbero a rischio i loro privilegi e il loro potere, le élite si rifugiano nel crepuscolo dell’impero, nelle cinta murate, come nella città perduta o Versailles. Inventano la propria realtà. Continuano a ripetere questi comportamenti a Wall Street e nelle sale del consiglio: gli stessi che insistono che la dipendenza dai combustibili fossili e le speculazioni sosterranno l’impero. Le risorse dello Stato, come fa notare Tainter, alla fine sono sempre più sprecate in progetti insensati e stravaganti e in avventure imperiali. E poi tutto collasserà. Il nostro collasso porterà con sé tutto il pianeta. Ammetto che è più piacevole starsene ipnotizzati davanti alle nostre allucinazioni elettroniche. E’ più facile darci mentalmente un’occhiata. E’ più gratificante assorbire l’edonismo e la malattia del culto di se stessi e del denaro. E’ più confortante chiacchierare del gossip delle celebrità e ignorare o respingere la realtà.Thomas Mann ne “La montagna incantata” e Joseph Roth in “Hotel Savoy” raccontano brillantemente questo peculiare stato mentale. Nell’hotel di Roth i primi tre piani destinati alla lussuria ospitano i ricchi boriosi, i politici immorali, i banchieri e gli imprenditori. I piani superiori sono affollati da gente che lotta per pagare i propri debiti e che sta costantemente svendendo le sue proprietà; gente che in questo modo diventerà povera e verrà scacciata. Non c’è un’ ideologia politica tra la classe dominante deteriorata, nonostante dibattiti inscenati ed elaborati teatri politici. E’, e alla fine lo è sempre stato, una vasta cleptocrazia. Appena prima della Seconda Guerra Mondiale, un amico chiese a Roth, intellettuale ebreo che era fuggito a Parigi dalla Germania nazista: «Perché bevi così tanto?». Roth rispose: «Pensi che riuscirai a scappare? Anche tu sarai spazzato via».(Chris Hedges, “La follia dell’impero”, post pubblicato da “Truthdig” e ripreso da “Come Don Chisciotte” il 24 ottobre 2013. Già corrispondente del “New York Times” per quasi vent’anni, Hedges ha scritto saggi su guerra, imperialismo e nuovo fascismo. Il suo libro più recente: “L’impero dell’illusione: la fine della letteratura e il trionfo dello spettacolo”).Gli ultimi giorni dell’impero danno gran lavoro e potere agli inetti, agli squilibrati ed agli imbecilli. Questi politici e propagandisti di corte, assunti per essere la faccia pubblica della nave che affonda, mascherano il vero lavoro dell’equipaggio, il quale saccheggia sistematicamente i passeggeri mentre la nave affonda. I mandarini del potere stanno nella timoniera, impartendo ordini ridicoli e osservando in quanto tempo riescono a distruggere i motori. Combattono come bambini al timone di una nave, mentre la barca va a tutta velocità contro un iceberg. Passeggiano in coperta facendo discorsi pomposi. Urlano che la nave Ss America è la migliore mai costruita. Insistono che ha la tecnologia più avanzata e che incarna le più alte virtù. E poi, con una furia improvvisa e inaspettata, andremo giù nelle acque gelide. Gli ultimi giorni dell’impero sono un carnevale di follia. Siamo nel mezzo di noi stessi, spinti dai nostri leader di corte che si intestardiscono sull’economia e l’auto-distruzione. Sumeri e Romani caddero in questo modo, come pure gli Ottomani e l’impero Austro-Ungarico.
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Sapelli: ripulire i nostri risparmi, per mettere l’Italia ko
I dati che giungono dalla Commissione Europea con le sue previsioni economiche di autunno sono disarmanti: più debito e più deficit, meno crescita. È un circolo vizioso che si alimenta da sé. Se non vi è domanda aggregata, la crescita è possibile solo se vi è una via per le esportazioni. Ma la via dell’export è stretta e solo pochi alpinisti possono scalare quei sentieri. Il dato spagnolo è impressionantemente efficace. La cosiddetta ripresa di quel paese deriva da una crescita della produzione automobilistica – non solo, naturalmente, ma soprattutto – in particolare degli stabilimenti Ford. Ma se si vanno a vedere i numeri degli occupati – anche il “Financial Times” ha dovuto ammetterlo – la situazione è sconcertante: solo duemila i lavoratori in quegli impianti, grazie a condizioni salariali basse e precarie. I sindacati spagnoli (i socialisti dell’Ugt in testa, gli ex comunisti del Ccco un po’ più cauti) le hanno accettate perché considerano essenziale dare lavoro costi quel che costi!Quindi, la ripresa nell’Europa del Sud è una temperata sospensione della caduta, e non un recupero, del Pil, ossia dello stock di capitale fisso che è andato perduto negli ultimi venti anni. La causa di ciò è la deflazione imposta dalla Germania a tutta l’Europa. L’Italia è colpita in pieno. I dati statistici su cui si litiga anticipano la vera battaglia che inizierà con l’unione bancaria. Si coglierà – da parte di molteplici troike – l’occasione della verifica sui bilanci per reclamare, come sempre ha fatto Mario Draghi dal 1992 a oggi, la privatizzazione delle banche. Ed essa sarà fatta, come si ripete dopo Cipro, grazie al risparmio (per chi ancora lo ha) delle famiglie e delle piccole imprese. Lo si drenerà spietatamente con ogni mezzo.Saccomanni è stato chiaro alcune settimane or sono, poco intelligentemente disvelando il piano. Le banche sono esauste, che giungano quindi le shadow banks e le dark pools, cioè un sistema parabancario speculativo che i nostri governanti amano! E pure ancor si predica la ripresa! Bruxelles ha il pudore di spostarla al 2014-2015, ma il pericolo è che tra un anno non rimanga più nulla. Naturalmente un’alternativa a questa sorta di distruzione del credito per l’economia reale esiste. È il ritorno alla separazione tra banca commerciale e banca d’investimento, evitando l’eccesso di capitalizzazione che sarà richiesto alle banche non separate. La super-capitalizzazione non elimina il rischio e drena capitale produttivo trasformandolo in capitale come costo. Il risultato sarà il contrario di quello che si vuol produrre. Paradossalmente, pur tra mille ostacoli, il mondo anglosassone va dritto verso la separazione; solo l’Europa della Bce va dritta verso la rovina.(Giulio Sapelli, “C’è un piano per mettere in ginocchio l’Italia”, da “Il Sussidiario” del 6 novembre 2013).I dati che giungono dalla Commissione Europea con le sue previsioni economiche di autunno sono disarmanti: più debito e più deficit, meno crescita. È un circolo vizioso che si alimenta da sé. Se non vi è domanda aggregata, la crescita è possibile solo se vi è una via per le esportazioni. Ma la via dell’export è stretta e solo pochi alpinisti possono scalare quei sentieri. Il dato spagnolo è impressionantemente efficace. La cosiddetta ripresa di quel paese deriva da una crescita della produzione automobilistica – non solo, naturalmente, ma soprattutto – in particolare degli stabilimenti Ford. Ma se si vanno a vedere i numeri degli occupati – anche il “Financial Times” ha dovuto ammetterlo – la situazione è sconcertante: solo duemila i lavoratori in quegli impianti, grazie a condizioni salariali basse e precarie. I sindacati spagnoli (i socialisti dell’Ugt in testa, gli ex comunisti del Ccco un po’ più cauti) le hanno accettate perché considerano essenziale dare lavoro costi quel che costi!
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Finiremo come il cavallo quando arrivò il treno a vapore
S’intitola “Inequality for All” il film-documentario che in questi giorni porta nelle sale americane le lezioni universitarie in cui Robert Reich, docente di Berkeley ed ex ministro del lavoro di Bill Clinton, denuncia gli effetti sociali dirompenti dell’accentuazione delle diseguaglianze che si è verificata negli Usa: un fossato tra ricchi e resto della società di una profondità mai vista dagli anni ‘20 del Novecento. E mentre Obama promette posti di lavoro per un ceto medio che sta scomparendo, Sidney Blumenthal spiega che i democratici imposteranno la campagna presidenziale del 2016 proprio sulle diseguaglianze. Nelle librerie è appena arrivato “Average is Over”, un saggio di Tyler Cowen nel quale l’economista della George Mason University disegna scenari futuri allarmanti: i ceti intermedi scompariranno, e solo il 10-15% della popolazione resta al riparo dalla crisi, svolgendo professioni non intaccate dall’automazione o avendo imparato e dominare le macchine e a migliorarne il rendimento.Tutti gli altri, scrive Massimo Gaggi sul “Corriere della Sera”, troveranno impiego soltanto «negli interstizi della società robotizzata», oppure svolgeranno lavori che le macchine non potranno sostituire, come quelli nel settore sanitario. Una grande massa di cittadini dovrà imparare a vivere in modo più austero: «Un destino al quale, secondo Cowen, è inutile ribellarsi e col quale anche i meno fortunati impareranno a convivere, scoprendo che la frugalità ha anche aspetti positivi», annota Gaggi. Sarà una società diversa, “iper-meritocratica”, mentre «la memoria del mezzo secolo di rapida crescita, welfare generoso e prosperità, in Occidente dopo la Seconda guerra mondiale, si appannerà sempre più». L’epoca che abbiamo alle spalle «sarà catalogata come una sorta di incidente della storia, felice ma insostenibile e quindi irripetibile».Fino a ieri, l’opinione prevalente era che le difficoltà che affliggono i paesi industrializzati fossero legate allo strapotere della finanza e a una globalizzazione che ha creato di certo nuove opportunità, ma ha anche provocato un trasferimento di ricchezza senza precedenti dall’Occidente ai paesi emergenti, soprattutto quelli dell’Asia. La nuova economia digitale? E’ vero, taglia i vecchi posti di lavoro, ma aumenta l’efficienza del sistema producendo nuova ricchezza e, quindi, maggiori occasioni di lavoro. In fondo, ragionavano i “tecno-ottimisti”, nel 1790 il 93% degli americani viveva di agricoltura. Duecento anni dopo, nel 1990, la quota dei contadini era scesa al 2%, eppure gli Stati Uniti erano un paese prospero, che aveva raggiunto il pieno impiego. Siamo entrati in una nuova era di “distruzione creativa”, come quando il motore a vapore mandò in pensione il cavallo come mezzo di trasporto e l’economia che gli era cresciuta intorno? La ferrovia alimentò l’industria e un’economia ben più vasta di quella che malpagava i braccianti. Solo che, nell’era digitale, il lavoro è in via di estinzione.Secondo Robert Gordon, della Northwestern University, le tecnologie digitali non creano tanto lavoro quanto le rivoluzioni precedenti – vapore, elettricità, motore a scoppio. E Noah Smith, giovane economista della Michigan University, sostiene che il grande cambiamento riguarda la distribuzione del reddito: «Durante quasi tutta la storia moderna, i due terzi della ricchezza prodotta è servita per pagare i salari mentre il terzo rimanente è andato in dividendi, affitti e altri redditi da capitale». Ma dal 2000 – quindi ben prima della crisi prodotta dal crollo di Wall Street del 2008 – le cose sono cambiate: «La quota del lavoro ha cominciato a calare stabilmente fino ad arrivare al 60%, mentre i redditi da capitale sono cresciuti». La causa? E’ nella tecnologia: «In passato il progresso tecnico ha sempre aumentato le capacità dell’essere umano: un operaio con una motosega è più produttivo di uno che lavora con una sega a mano. Ma quell’era è passata. La nuova rivoluzione, quella dei computer e delle tecnologie digitali, riguarda le funzioni cognitive, non l’estensione delle capacità fisiche. E una volta che le capacità cognitive dell’uomo sono sostituite da una macchina, diventiamo obsoleti come i cavalli».Secondo David Autor, docente del Mit di Boston, sono al riparo dalle macchine solo i mestieri altamente creativi – manager, scienziati, medici, ingegneri e designer – oppure quei lavori manuali che richiedono interazioni, capacità di adattamento e osservazione: preparare un pasto, guidare un camion, pulire una stanza d’albergo. Uno studio della Oxford University svolto su 72 settori produttivi rivela che quasi la metà dei lavori ancora svolti dall’uomo (il 47%) verrà sostituito dalle macchine. Per Autor, alle macchine non c’è scampo: i lavori manuali saranno meno pagati, e questo aumenterà la polarizzazione dei salari e la divaricazione abissale tra ricchi e poveri. Gli economisti progressisti, scrive Gaggi, «non credono che un aumento delle disparità sia alla lunga sostenibile e temono per la tenuta delle democrazie». Mezzo secolo fa, conclude Gaggi, si immaginava un mondo nel quale avremmo lavorato poche ore alla settimana: scontato che le macchine avrebbero sostituito l’uomo, ma per far crescere la produttività a beneficio di tutti. Così non è stato, ed è indispensabile porvi rimedio prima che sia troppo tardi.S’intitola “Inequality for All” il film-documentario che in questi giorni porta nelle sale americane le lezioni universitarie in cui Robert Reich, docente di Berkeley ed ex ministro del lavoro di Bill Clinton, denuncia gli effetti sociali dirompenti dell’accentuazione delle diseguaglianze che si è verificata negli Usa: un fossato tra ricchi e resto della società di una profondità mai vista dagli anni ‘20 del Novecento. E mentre Obama promette posti di lavoro per un ceto medio che sta scomparendo, Sidney Blumenthal spiega che i democratici imposteranno la campagna presidenziale del 2016 proprio sulle diseguaglianze. Nelle librerie è appena arrivato “Average is Over”, un saggio di Tyler Cowen nel quale l’economista della George Mason University disegna scenari futuri allarmanti: i ceti intermedi scompariranno, e solo il 10-15% della popolazione resta al riparo dalla crisi, svolgendo professioni non intaccate dall’automazione o avendo imparato e dominare le macchine e a migliorarne il rendimento.
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Fukushima, la bonifica nucleare è in mano alla mafia
Grandi cantieri, grandi affari. Tutto il mondo è paese, incluso il Giappone. Nessuna sorpresa, dunque, se spunta anche a Tokyo il convitato di pietra di molte grandi opere: la mafia. Peccato che l’opera in questione sia la bonifica di Fukushima: in ballo non ci sono treni veloci, ma la sicurezza del pianeta. Contratti complessi e carenza di lavoratori disponibili: per questo s’è fatta avanti la Yakuza, conferma la “Reuters”. Prima il disastro atomico causato da terremoto e tsunami, poi le menzogne di governo e media per coprire gli errori della Tepco e la reale entità del dramma: le autorità giapponesi non hanno ancora fatto i conti seriamente con l’apocalisse, emergenza sanitaria e contaminazione dell’acqua, dei terreni agricoli e del cibo. «E’ una guerra nucleare senza una guerra», dice lo scrittore Haruki Murakami: stavolta «nessuno ha sganciato una bomba su di noi», i giapponesi hanno fatto tutto da soli: «Abbiamo impostato il palco, abbiamo commesso il fatto con le nostre mani, stiamo distruggendo le nostre terre e stiamo distruggendo la nostra vita». Con la collaborazione di una potente forza occulta: la mafia.«Il coordinamento della decontaminazione di Fukushima, operazione multimiliardaria, si basa sulla criminalità organizzata del Giappone», che è «attivamente coinvolta nel reclutamento del personale “specializzato” per compiti pericolosi», accusa il professor Michel Chossudovsky dell’istituto canadese “Global Research”, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. «Le pratiche di lavoro Yakuza a Fukushima – spiega Chossudovsky – si basano su un sistema corrotto di subappalto, che non favorisce l’assunzione di personale specializzato competente». Qualcosa che ricorda da vicino gli strani appalti a cascata nei quali si infiltrano le cosche, in Europa e in particolare in Italia, gonfiando i prezzi e spremendo come limoni le aziende che poi i lavori devono farli davvero. «Si crea un ambiente di frode e incompetenza, che nel caso di Fukushima potrebbe avere conseguenze devastanti», visto che ne va della sicurezza di tutti. In compenso, la manovalanza mafiosa è conveniente: «Il subappalto con la criminalità organizzata è un mezzo per grandi aziende coinvolte nella bonifica per ridurre in modo significativo il costo del lavoro».Alla criminalità organizzata giapponese, continua Chossudovsky, è affidata anche la delicatissima rimozione delle barre di combustibile dal reattore 4: il minimo errore potrebbe causare conseguenze apocalittiche, a livello mondiale, desertificando il Giappone e investendo di radioattività tutto l’oriente, dalla Cina all’Australia. In ballo, la rimozione con una gru di 1.300 barre di combustibile nucleare: in caso di incidente (anche solo il contatto fra due barre) si calcola che si produrrebbe un’onda radioattiva pari a 14.000 bombe di Hiroshima. Operazione che, a quanto pare, sarà effettuata da aziende non proprio pulite: la “Reuters” documenta il ruolo della Yakuza e il suo «rapporto insidioso» con la Tepco e i ministeri della salute, del lavoro e del welfare. Solo nella prefettura di Fukushima, conferma la polizia nipponica, operano almeno 50 clan, con oltre mille affiliati. Gli investigatori sono al lavoro per tentare di sradicare la criminalità organizzata dal progetto di bonifica nucleare. In una rara azione penale, il boss Yoshinori Arai è stato appena condannato per aver intascato 60.000 dollari facendo la cresta sui salari degli operai, ridotti di un terzo.Il mafioso, continua Chossudovsky, è stato condannato per la fornitura di lavoratori per un sito gestito da Obayashi, uno dei maggiori imprenditori del Giappone, a Date, una città a nord-ovest della centrale di Fukushima, investita dalle radiazioni dopo il disastro. Per un funzionario della polizia, il caso Arai è solo «la vetta dell’iceberg», perché l’intera bonifica di Fukushima puzza di mafia. «Un portavoce di Obayashi ha detto che la società “non ha notato” che uno dei suoi subappaltatori stava prendendo lavoratori da un criminale», ma l’azienda si impegna ora a collaborare con la polizia. Peccato che la testa dell’organizzazione sia a Tokyo: ad aprile, racconta “Global Research”, il governo ha selezionato ben tre società implicate nell’invio illegale di lavoratori a Fukushima: «Una di queste, una società basata a Nagasaki denominata Yamato Engineering, ha inviato 510 lavoratori per collocare un tubo alla centrale nucleare in violazione delle leggi sul lavoro». Tutto questo, per «migliorare le pratiche di business» a scapito della sicurezza. Già nel 2009, aggiunge Chossudovsky, alla Yamato Engineering erano stati «vietati i progetti di opere pubbliche», a causa di una sentenza che definiva l’azienda «effettivamente sotto il controllo della criminalità organizzata».Nelle città attorno a Fukushima sono al lavoro migliaia di operai. Tubi industriali, ruspe, dosimetri per misurare le radiazioni. Tutto questo per pulire case e strade, scavare terreno vegetale ed eliminare alberi contaminati, per consentire il ritorno degli sfollati. Centinaia le imprese coinvolte: di queste, secondo il ministero del lavoro, quasi il 70% avrebbe infranto le normative. «A marzo, l’ufficio del ministero a Fukushima aveva ricevuto 567 denunce, relative alle condizioni di lavoro per la decontaminazione: ha emesso 10 avvisi, ma nessuna impresa è stata penalizzata». Una delle aziende denunciate, la Denko Keibi, prima del disastro forniva le guardie di sicurezza privata per i cantieri. «Di fronte alla incessante disinformazione dei media relative ai pericoli di radiazione nucleare globale – conclude Chossudovsky – l’obiettivo di “Global Research” è quello di rompere il vuoto dei media e di sensibilizzare l’opinione pubblica, indicando le complicità dei governi, dei media e dell’industria nucleare».Grandi cantieri, grandi affari. Tutto il mondo è paese, incluso il Giappone. Nessuna sorpresa, dunque, se spunta anche a Tokyo il convitato di pietra di molte grandi opere: la mafia. Peccato che l’opera in questione sia la bonifica di Fukushima: in ballo non ci sono treni veloci, ma la sicurezza del pianeta. Contratti complessi e carenza di lavoratori disponibili: per questo s’è fatta avanti la Yakuza, conferma la “Reuters”. Prima il disastro atomico causato da terremoto e tsunami, poi le menzogne di governo e media per coprire gli errori della Tepco e la reale entità del dramma: le autorità giapponesi non hanno ancora fatto i conti seriamente con l’apocalisse, emergenza sanitaria e contaminazione dell’acqua, dei terreni agricoli e del cibo. «E’ una guerra nucleare senza una guerra», dice lo scrittore Haruki Murakami: stavolta «nessuno ha sganciato una bomba su di noi», i giapponesi hanno fatto tutto da soli: «Abbiamo impostato il palco, abbiamo commesso il fatto con le nostre mani, stiamo distruggendo le nostre terre e stiamo distruggendo la nostra vita». Con la collaborazione di una potente forza occulta: la mafia.
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Verità cercasi, prima che la montagna ci frani addosso
La montagna è una fatica di cui non si vede mai la vetta, è Giorgia Meloni che nella trasmissione di Santoro denuncia i 90 miliardi di euro che grazie al governo Letta il gioco d’azzardo legalizzato ha sottratto al fisco, sono i No-Tav che in quello stesso studio aggiungono sul conto anche i 24 miliardi iniziali (solo previsti, mai stanziati perché inesistenti) per la grande opera più ridicola, costosa e inutile d’Europa, di cui i politici in trasmissione ammettono di sapere poco o nulla, nonostante sia diventata un caso nazionale per via delle gravi accuse di eversione piovute sulla protesta. La montagna sono le due ore di trasmissione che scorrono prima di “scoprire” che il famoso cantiere di Chiomonte, epicentro dello scontro, non è certo quello del futuro tunnel ferroviario: si sta solo scavando una mini-galleria di servizio, archiviabile alla svelta se solo si volesse farla finita, una volta per tutte, con la leggenda del treno veloce – non più per i passeggeri ma per le merci, che notoriamente viaggiano a bassa velocità.Merci letteralmente scomparse dalla tratta, dove peraltro Italia e Francia sono già perfettamente collegate dalla ferrovia Torino-Modane che attraversa la valle di Susa, appena ammodernata con 400 milioni di euro per consentire ai treni di caricare anche i Tir e i grandi container navali. La montagna è la fatica che occorre, ogni volta, per spiegare che i container navali sbarcati a Genova ormai evitano il Piemonte e la Francia e corrono verso Rotterdam attraverso i valichi del nord. Mentre per i Tir – lungi dal caricarli sui treni – si sta scavando il secondo traforo autostradale del Fréjus, sempre in valle di Susa, cioè nel territorio a cui, per buon peso, si vorrebbe infliggere anche l’Armageddon di vent’anni di cantieri Tav, coi paesi devastati e la popolazione minacciata da pericoli per la salute (cancro, causa polveri con amianto e uranio) ammessi dagli stessi tecnici della grande opera, che riconoscono che i lavori potrebbero anche aprire serie incognite idrogeologiche.Un’impresa folle, sempre più improbabile e irreale per tutti – docenti universitari compresi – tranne che per i decisori politici, i parlamentari a corto di informazioni che però vanno in televisione e scrutano i No-Tav come animali strani, un po’ naif, forse affetti dalla sindrome Nimby, evidentemente non credibili, persino quando ricordano palesi verità ormai incresciosamente ufficiali come quelle provenienti dalla Francia: al netto delle rituali cortesie diplomatiche con l’Italia, Parigi ha infatti stabilito definitivamente che il capitolo Torino-Lione verrà riaperto, eventualmente, solo a partire dal remotissimo 2030. La montagna è impervia: ci sono voluti anni prima che Santoro, paladino di tante cause civili, si decidesse a spedire il fido Ruotolo nella valle in rivolta: accadde nel 2012, quando il contadino anarchico Luca Abbà precipitò (folgorato) dal traliccio su cui si era inerpicato per protesta, tallonato da un poliziotto. Rivisto un anno dopo, sempre grazie a Ruotolo, Luca Abbà non denuncia gli oscuri attentati incendiari che hanno colpito le imprese collegate al cantiere, ne prende nota e rivendica in linea di principio il diritto di ricorrere anche al sabotaggio come strumento legittimo di lotta.E’ esattamente questo atteggiamento, diffuso in larghi settori del movimento “ribelle”, che spinge il procuratore Caselli a chiarire che – dal punto di vista della legge – non sono ammissibili infrazioni alla legalità, specie se violente come l’intimidazione o il lancio di sassi e petardi contro operai e agenti. Per contro, lo stesso Ruotolo mette a fuoco le aziende colpite dagli incendi: alcune hanno alle spalle vicissitudini giudiziarie, qualcuna è stata addirittura sfiorata da indagini dei Ros sul rapporto opaco tra politica, affari e ‘ndrangheta. Anche questo fa parte della montagna grigia, in una serata in cui Beppe Grillo tuona da Trento contro il presidente Napolitano, che il giorno dopo il blitz al Senato per disinnescare l’antifurto della Costituzione, l’articolo 138, a tarda ora ha convocato al Quirinale i partiti delle larghe intese per “invitarli” a cestinare finalmente l’impresentabile legge elettorale, tanto vituperata quanto cara ai privatizzatori della democrazia.La montagna è questa deriva infinita, nella quale gli italiani – valsusini e non – hanno ormai la certezza di non contare più niente, e di non sapere neppure più bene come arrivare alla fine del mese. La soluzione, dice Giorgia Meloni, non può essere che la partecipazione democratica: rifiutare il vittimismo passivo e scendere in campo direttamente per cambiare le cose, nonostante l’insormontabile muraglia del patriziato economico, dell’oligarchia finanziaria, della lebbra partitocratica. E anche della catastrofe nazionale dell’informazione: su questo versante, almeno, Santoro e Travaglio hanno accorciato le distanze, recuperando terreno prezioso. Certo, c’è voluta la manifestazione di Roma. Tutti i civili appelli all’ascolto, rivolti dalla valle di Susa alle maggiori istituzioni, erano sempre caduti nel vuoto – lettera morta anche per giornali e televisioni. La montagna è ancora lì. Si chiama Troika, rigore, Fiscal Compact, pareggio di bilancio, tetto del deficit al 3% del Pil. Politici sintonizzati? Zero: non pervenuti. Aspettano che la montagna ci frani addosso?La montagna è una fatica di cui non si vede mai la vetta, è Giorgia Meloni che nella trasmissione di Santoro denuncia i 90 miliardi di euro che grazie al governo Letta il gioco d’azzardo legalizzato ha sottratto al fisco, sono i No-Tav che in quello stesso studio aggiungono sul conto anche i 24 miliardi iniziali (solo previsti, mai stanziati perché inesistenti) per la grande opera più ridicola, costosa e inutile d’Europa, di cui i politici in trasmissione ammettono di sapere poco o nulla, nonostante sia diventata un caso nazionale per via delle gravi accuse di eversione piovute sulla protesta. La montagna sono le due ore di trasmissione che scorrono prima di “scoprire” che il famoso cantiere di Chiomonte, epicentro dello scontro, non è certo quello del futuro tunnel ferroviario: si sta solo scavando una mini-galleria di servizio, archiviabile alla svelta se solo si volesse farla finita, una volta per tutte, con la leggenda del treno veloce – non più per i passeggeri ma per le merci, che notoriamente viaggiano a bassa velocità.
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Lavoro per tutti, e subito. Barnard: vi spiego come
Piena occupazione. E cioè assumere, subito, milioni di italiani: tutti quelli che non trovano lavoro, che l’hanno appena perso o lo stanno perdendo, nel limbo della cassa integrazione. Non è una fiaba, è la teoria della moneta moderna basata sulla sovranità finanziaria dello Stato. Parola chiave: spesa pubblica, da investire in occupazione. Un colossale piano di assunzioni temporanee. Quanto basta per dare uno stipendio a tutti, consentire agli italiani di rilanciare i consumi e quindi ridare ossigeno anche al settore privato, che quindi potrebbe ricominciare a investire e assumere. Soldi che poi lo Stato potrebbe recuperare, sotto forma di entrate fiscali. Tutto questo, sostiene Paolo Barnard, si può fare ad un’unica condizione imprescindibile: «Il governo italiano comunichi all’Unione Europea che, per la salvezza nazionale, ignorerà il limite europeo del 3% di deficit, cioè porterà la spesa a deficit a un livello superiore, tanto quanto gli serve per ottenere in Italia la piena occupazione». Raggiunto l’obiettivo-lavoro, «il deficit dell’Italia si fermerà».L’ex inviato di “Report”, oggi attivista della Modern Money Theory sviluppata dall’economista americano Warren Mosler, protesta per l’indifferenza che accoglie lo spettacolo «pietoso e straziante» degli operai in via di licenziamento, inutilmente esibito dalla televisione. Pochi istanti di visibilità, «poi spariscono dal mondo abbandonati nella loro disperazione». Sono soli: «Nessuno gli spiega l’economia». Spesso incolpano “in politici” e “i padroni”, ma restano «incapaci di vedere quanto assurdi, falsari e ignoranti sono i loro sindacati», ormai rassegnati solo a negoziare «il grado di abolizione dei diritti» e annichiliti nell’orizzonte del pensiero unico neoliberista, quello che ha distrutto lo Stato come potente operatore anche economico, in grado di tutelare la comunità nazionale. La Mmt, fondata sull’economia democratica di Marx e Keynes, ribalta lo scenario: se il mercato è in crisi e il settore privato è in agonia, come oggi in Italia, c’è qualcuno che, se vuole, ha la forza per cancellare, in un colpo solo, la tragedia della disoccupazione, che è la prima conseguenza (ma anche la causa) della crisi. Chi può fare il “miracolo”? Un solo soggetto: lo Stato.Oggi, riassume Barnard, il settore privato di imprese e banche è impossibile che trovi le risorse per l’occupazione e gli investimenti. «Inutile sbraitare con loro: il settore privato è pro-ciclico», cioè segue l’andamento del ciclo economico. «Se questo va bene, allora i datori di lavoro assumono e non licenziano, e le banche prestano alle aziende. Ma se il ciclo economico va male, allora licenziano, cassintegrano, e le banche non prestano alle aziende, o prestano a tassi impossibili». Oggi l’economia dell’Italia «non va male, va da vomitare», e quindi non è possibile aspettarsi nulla da imprese e banche, cioè dal settore privato, che è pro-ciclico. In questa situazione, l’unico settore che può intervenire è l’altro, quello pubblico. Il governo, «essendo colui che elargisce i soldi al paese, può decidere di andare contro il ciclo economico (anti-ciclo)». Quindi, quando l’economia «va da schifo», proprio il settore governativo «può invece investire alla grande». In altre parole: «Solo il governo può spendere mentre la nave affonda, il settore privato non lo farà mai». La soluzione? Investimenti strategici, sotto forma di spesa pubblica, per assumere milioni di italiani.Gli attivisti della Mosler Economics lo chiamano Plg, programma di lavoro garantito transitorio. Un piano speciale, targato Me-Mmt, concepito appositamente per «salvare i lavoratori dalla disperazione dei licenziamenti e della cassintegrazione». Missione: assumere, subito, tutti i licenziati e i cassintegrati d’Italia, con l’obiettivo finale di rilanciare il settore oggi più in crisi, quello privato. «Il Plg – spiega Barnard – assume in lavori programmati tutti i lavoratori disoccupati, pagandogli un “reddito di dignità” che sta di un pelo al di sotto del reddito medio del settore privato per le stesse mansioni. A quel punto, milioni di disoccupati italiani immediatamente percepiscono un reddito», a spese del governo «Cosa accade? Che lo spendono. E questo cosa fa? Aumenta le vendite delle aziende». Un effetto a cascata: l’incremento del fatturato delle aziende rilancia il settore privato, fino a far ripartire le assunzioni ordinarie.Va da sé che il piano statale di piena occupazione, studiato per salvare l’economia italiana, produrrebbe milioni di salariati in più, quindi un aumento della base imponibile del prelievo fiscale, ma «senza alzare le tasse di un centesimo». Lo Stato recupererebbe soldi semplicemente consentendo a milioni di italiani (e a migliaia di aziende) di avere di nuovo un reddito. L’unica condizione perché il “miracolo” si compia è che l’Italia affronti l’Unione Europea, rifiuti la politica di rigore e annunci che ricorrerà all’aumento temporaneo del deficit per ragioni di salvezza nazionale. «Italiani che lavorate o che non lavorate più, credetemi: questa è l’unica via, l’unica speranza, cioè un programma economico figlio di un secolo di storia dell’economia», conclude Barnard. «I sindacati oggi sono incapaci di qualsiasi proposta», assistendo alla perdita graduale dei diritti del lavoro duramente conquistati nel dopoguerra. Da Barnard, un appello diretto ai lavoratori: «Dovete essere voi a capire le basi dell’economia e a organizzarvi per pretendere che quanto sopra divenga politica di governo. Ora sapete cosa fare, fatelo».Piena occupazione. E cioè assumere, subito, milioni di italiani: tutti quelli che non trovano lavoro, che l’hanno appena perso o lo stanno perdendo, nel limbo della cassa integrazione. Non è una fiaba, è la teoria della moneta moderna basata sulla sovranità finanziaria dello Stato. Parola chiave: spesa pubblica, da investire in occupazione. Un colossale piano di assunzioni temporanee. Quanto basta per dare uno stipendio a tutti, consentire agli italiani di rilanciare i consumi e quindi ridare ossigeno anche al settore privato, che quindi potrebbe ricominciare a investire e assumere. Soldi che poi lo Stato potrebbe recuperare, sotto forma di entrate fiscali. Tutto questo, sostiene Paolo Barnard, si può fare ad un’unica condizione imprescindibile: «Il governo italiano comunichi all’Unione Europea che, per la salvezza nazionale, ignorerà il limite europeo del 3% di deficit, cioè porterà la spesa a deficit a un livello superiore, tanto quanto gli serve per ottenere in Italia la piena occupazione». Raggiunto l’obiettivo-lavoro, «il deficit dell’Italia si fermerà».
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Caselli ai No-Tav: imparate da Roma a isolare i violenti
«Dunque è possibile. Stando alle cronache del corteo di Roma del 19 settembre, cui hanno partecipato migliaia di “antagonisti”, è possibile manifestare con forza ma senza violenza, distinguendosi nettamente dalla minoranza dei facinorosi illegalmente aggressivi. È persino possibile cercare di ostacolarne o impedirne le gesta, così facilitando l’azione delle forze dell’ordine. Perché quel che è successo a Roma sembra invece lontano se non impossibile in val di Susa, con i No-Tav?». Così il capo della Procura di Torino, Gian Carlo Caselli, dalle colonne del “Fatto Quotidiano”. Il movimento valsusino, aggiunge il magistrato, è formato per la stragrande maggioranza di persone “per bene”. «Ma ce ne sono anche “per male”, con tutte le sfumature del male, fino a mettere in conto la commissione di reati. E le persone per bene – aggiunge Caselli – non osano distinguersi troppo dai violenti. Anzi, li tollerano. Spesso li accettano e ne condividono l’azione (“siamo tutti black bloc” è uno slogan abituale…). E ciò nonostante si sia registrata, negli ultimi due anni, una evidente impennata» nelle forme di protesta adottate.A partire dal giugno-luglio 2011, continua il procuratore, vi sono stati pesanti attacchi (di solito notturni) contro il cantiere di Chiomonte: «Un’infinità di oggetti atti a offendere (pietre, biglie di ferro, razzi, bombe carta e bottiglie incendiarie) è stata scagliata contro gli operai e poliziotti che sono costretti a vivere asserragliati in quel cantiere». A operare sono «squadre organizzate secondo schemi paramilitari», tanto da indurre il Tribunale della libertà di Torino (giudice “terzo”, indipendente) a parlare ripetutamente di “eversione” e “micidialità”. «E ancora recentemente – continua Caselli – è stata fermata un’auto (che viaggiava in convoglio con altre di copertura) zeppa di strumenti che una consulenza tecnica ha qualificato come assai pericolosi». Poi si sono registrati svariati sabotaggi, «con danni assai gravi», contro i mezzi di lavoro delle ditte che sono impegnate nel cantiere: uno stile intimidatorio di stampo ‘ndranghetista, secondo Stefano Rodotà. Senza contare le «reiterate iniziative illegali contro vari giornalisti “sgraditi” in valle», tra cui il redattore della “Stampa”, Massimo Numa, a cui è stato recapitato un ordigno esplosivo in grado di uccidere. Attentato anonimo: lo stesso Numa non pare credere alla “pista No-Tav” ma, in linea di principio, la Procura non esclude la possibilità di “schegge impazzite”.Tra gli aspetti più antagonistici, Caselli include anche la cosiddetta “Libera repubblica della Maddalena”, l’occupazione temporanea dell’area di Chiomonte con cui i No-Tav nel 2011 tentarono di ritardare l’avvio del cantiere. Per il magistrato, la vicenda «avrebbe meritato ben altra attenzione», dal momento che «si è trattato di una “enclave” creata nei pressi del cantiere, con tanto di posti di blocco valicabili soltanto da coloro (forze dell’ordine comprese) che ottenevano il permesso dei sedicenti “repubblicani”». Dunque, scrive il magistrato, «un pezzo del territorio dello Stato italiano sottratto per qualche mese alla sovranità dello Stato medesimo». Un fatto che «può serenamente definirsi “eversivo”, così come è “eversivo” bloccare mezzi di trasporto sull’autostrada, circondarli con un manipolo di persone molte delle quali travisate, pretendere l’esibizione di documenti personali e di trasporto per verificare che il carico non abbia a che fare col cantiere, com’è successo a un ignaro e terrorizzato camionista olandese, al cui mezzo è stata anche squarciata una ruota per meglio bloccarlo».Tutto ciò, conclude Caselli, comporta l’usurpazione di funzioni che ogni Costituzione democratica riserva esclusivamente al potere pubblico. «E se le parole hanno ancora un senso, per definire tale usurpazione ce n’è una soltanto: che è appunto eversione». Eppure, secondo il capo della Procura di Torino, «la voce delle persone per bene del Movimento o non si è fatta sentire per nulla o ha balbettato qualche confuso distinguo, quando non ha addirittura preteso di legittimare con pubblici proclami certe azioni violente come i sabotaggi». Risultato: «Le persone per bene del Movimento potrebbero anche avere tutte le ragioni del mondo (non lo so, non rientra nel perimetro delle mie competenze) circa l’utilità e i costi del Tav: ma per quanto siano eventualmente valide, queste ragioni non possono che risultare screditate dall’accettazione di fatto di forme anche gravi di violenza».In modo ormai irreversibile, lo scontro sulla Torino-Lione «sembra diventato un pretesto per professionisti della violenza assortiti (le persone “per male”), affluiti nella Valle da varie città italiane ed europee per sperimentare metodi di lotta incompatibili con il sistema democratico». Una sorta di “laboratorio”, «che si spera non abbia mai a rivelarsi come incubatrice di vicende ancor più gravi». Per Caselli, «sono fatti che non si possono non vedere. Invece, fra politici, amministratori, intellettuali e opinionisti si trovano ancora – purtroppo – personaggi che a prendere le distanze, condannandola senza riserve, dalla commissione di reati (anche violenti) gli viene l’orticaria. Per cui preferiscono tacere o addirittura manifestare indulgenza. Inglobando in questo “generoso” atteggiamento un catalogo di attacchi scomposti contro il doveroso accertamento delle responsabilità penali. In realtà per esprimere radicale insofferenza verso la prospettiva che i violenti possano essere soggetti – come qualunque altro cittadino – all’obbligo di rispondere delle illegalità commesse».«Dunque è possibile. Stando alle cronache del corteo di Roma del 19 settembre, cui hanno partecipato migliaia di “antagonisti”, è possibile manifestare con forza ma senza violenza, distinguendosi nettamente dalla minoranza dei facinorosi illegalmente aggressivi. È persino possibile cercare di ostacolarne o impedirne le gesta, così facilitando l’azione delle forze dell’ordine. Perché quel che è successo a Roma sembra invece lontano se non impossibile in val di Susa, con i No-Tav?». Così il capo della Procura di Torino, Gian Carlo Caselli, dalle colonne del “Fatto Quotidiano”. Il movimento valsusino, aggiunge il magistrato, è formato per la stragrande maggioranza di persone “per bene”. «Ma ce ne sono anche “per male”, con tutte le sfumature del male, fino a mettere in conto la commissione di reati. E le persone per bene – aggiunge Caselli – non osano distinguersi troppo dai violenti. Anzi, li tollerano. Spesso li accettano e ne condividono l’azione (“siamo tutti black bloc” è uno slogan abituale…). E ciò nonostante si sia registrata, negli ultimi due anni, una evidente impennata» nelle forme di protesta adottate.
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Le Pen: no-euro e sfide a viso aperto, Grillo prenda nota
Marine Le Pen come Beppe Grillo? Con una differenza colossale, anzi due. Sull’euro ha una posizione che più chiara non si può: l’uscita dalla moneta unica – pena l’abbandono dell’Unione Europea da parte della Francia – è il suo maggiore cavallo di battaglia, l’ascia di guerra impugnata per imporre all’élite finanziaria una soluzione democratica in alternativa all’agonia infinita della crisi. E a differenza del Beppe nazionale, la battagliera figliola di Jean-Marie Le Pen non si trincera dietro l’incerta esegesi oracolare del blog, sempre fatalmente “interpretabile”, ma si getta nella mischia, senza nessuna paura dell’interdizione operata dalle televisioni in mano all’establishment. Vero, intorno alla Le Pen c’è il nulla: nessun dirigente di rilievo – come del resto intorno a Grillo, che però è “vegliato” dall’ombra di Casaleggio. Identica l’intransigenza contro gli immigrati: ma per affermare la linea dura nel Front National, Marine Le Pen non ha bisogno di diktat. Per questo, a Bruxelles, fa più paura di Grillo.Il “problema”, per i tecno-gestori della cupola politico-finanziaria che ci governa con potere praticamente assoluto, sono i numeri: quelli dei sondaggi che assegnano alla Le Pen il 24% delle intenzioni di voto dei francesi. Più o meno la stessa quota riservata in Italia ai grillini, valutati sopra il 20% e già sottostimati nella precedente tornata elettorale. Milioni di elettori, tra Francia e Italia, che formano una diga potenziale contro lo strapotere della Troika: anche se molto più vago di Marine Le Pen, lo stesso Grillo non può certo essere considerato un docile esecutore della politica di rigore, quella del massacro sociale neoliberista che sta piegando l’Europa grazie alla Bce di Draghi e ai super-commissari di Bruxelles, non eletti da nessuno ma sempre agli ordini di Angela Merkel, e prima ancora delle lobby planetarie che usano la Commissione Europea per far scrivere una dopo l’altra, sotto dettatura, le leggi-capestro buone solo per le multinazionali e i grandi cannibali della finanza mondiale, i Padroni dell’Universo.Proprio grazie alla straordinaria grinta di Marine Le Pen, ora il fronte anti-austerity ha davvero cambiato marcia, rileva il blog “Cobraf” in una nota ripresa da “Come Don Chisciotte”: la grande stampa internazionale bolla ancora il Front National come “fascista” per la chiusura brutale sull’immigrazione, ma la Le Pen si smarca dal passato paterno, rifiuta di considerarsi “destra”. In economia si definisce addirittura “socialista”, e attacca: «L’austerità porta a più deficit e più debito, e la follia fiscale rallenta lo sviluppo. Il commercio anche in Francia è ridotto come nel Sud Europa. Austerità e follia fiscale: ma per cosa? E’ per loro bella faccia che, anche nel 2014, dovremmo continuare a remunerare profumatamente i rapaci mercati finanziari, di cui siamo stati messi alle dipendenze?».Date un’occhiata al sito di Marine Le Pen, consiglia “Cobraf”: anziché di post, è pieno di video-interviste rilasciate alle maggiori testate, dalle tv nazionali ai santuari gauchisti come “Libération”. E attenzione: la leader del Fn si muove ovunque, in tutto il paese, facendosi riprendere anche in mezzo alle porcilaie, pronta a pronunciarsi su chissà quale crisi regionale alimentare. «Una donna di 46 anni, senza trucco, vestita con solo un maglione». Poi non ci si stupisca se fa il pieno di voti tra contadini e operai. Nessuna paura delle telecamere, la leader del Front National non si nasconde mai: «Al contrario, appena la inviti a un dibattito azzanna gli interlocutori con foga su qualunque argomento. E ovviamente tutti i suoi discorsi sono improvvisati: niente teleprompter che la segue come Obama».Marine Le Pen come Beppe Grillo? Con una differenza colossale, anzi tre. Sull’euro ha una posizione che più chiara non si può: l’uscita dalla moneta unica – pena l’abbandono dell’Unione Europea da parte della Francia – è il suo maggiore cavallo di battaglia, l’ascia di guerra impugnata per imporre all’élite finanziaria una soluzione democratica in alternativa all’agonia infinita della crisi. E a differenza del Beppe nazionale, la battagliera figliola di Jean-Marie Le Pen non resta in panchina: si candida. Né si trincera dietro l’incerta esegesi oracolare del blog, sempre fatalmente “interpretabile”, ma si getta nella mischia, senza nessuna paura dell’interdizione operata dalle televisioni in mano all’establishment. Vero, intorno alla Le Pen c’è il nulla: nessun dirigente di rilievo – come del resto intorno a Grillo, che però è “vegliato” dall’ombra di Casaleggio. Identica l’intransigenza contro gli immigrati: ma per affermare la linea dura nel Front National, Marine Le Pen non ha bisogno di diktat. Per questo, a Bruxelles, fa più paura di Grillo.
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Berlusconi ha vinto: addio sinistra, c’è solo lo spread
«Il codardo oltraggio dopo il servo encomio, ci ricorda Manzoni, fa parte della storia della fine di ogni regime», e ora che il ventennio berlusconiano starebbe finendo, dice Giorgio Cremaschi, è bene ricordare che non tutto ciò che si è opposto a Berlusconi era davvero diverso da lui. Vent’anni, dice Letta? Ma in tutto questo tempo, il Cavaliere ha effettivamente governato per poco più di otto. Il centrosinistra lo ha fatto per sette, il resto son stati governi di larghe intese, tecnici e di unità nazionale. Era “berlusconismo” anche quando governavano Prodi e tutti gli altri leader del centrosinistra, «i cui governi non hanno mai cambiato le leggi della destra, neppure la Bossi Fini». Di che cosa ci si libera, oggi, grazie alla magistratura? «Del liberismo e delle spinte autoritarie, della flessibilità del lavoro e della disoccupazione di massa, dell’ideologia del mercato e della globalizzazione? No di certo».La fine politica di Berlusconi, scrive Cremaschi su “Micromega”, non è cominciata oggi, ma quando Marchionne ha mostrato che si poteva distruggere il sindacato in fabbrica senza ricorrere a Sacconi, e soprattutto quando la Bce ha scritto il programma che dovevano attuare i governi del nostro paese. «Berlusconi è stato destituito da quella che una volta avremmo chiamato la destra economica, italiana ed europea, che non sapeva più che farsene di un leader impresentabile». Chi è cambiato in profondità è il popolo della sinistra, rassegnatosi al pensiero liberale. Sicché, «onesti conservatori che in altri paesi sarebbero tranquillamente schierati con la destra», in Italia sono targati centrosinistra. E le politiche del rigore, contro cui scendono in piazza le folle di tutta Europa, sono diventate «la bandiera di chi non voleva cedere ai ricatti del populista di Arcore». E ora che il governo sopravvive a Berlusconi, «si potrà finalmente fare quella riforma della Costituzione che tutti i poteri forti chiedono e che il presidente Napolitano da tempo rivendica e promuove».Una controriforma, aggiunge Cremaschi, che ha già avuto una premessa fondamentale nell’approvazione dell’obbligo costituzionale del pareggio di bilancio. Il vero risultato del berlusconismo? «E’ quello di aver ottenuto, tramite un certo antiberlusconismo, la distruzione a livello di massa del pensare e dell’agire di una vera sinistra». L’ex leader della Fiom cita ancora Manzoni: “Il forte si mesce col vinto nemico, col novo signore rimane l’antico”. Al nostro «confuso mondo progressista» bisogna ricordare che «non c’è nulla da gioire di una vittoria che non è nostra e che proprio per questo verrà usata dai veri vincitori per continuare la politica economica e sociale di questi venti anni. Per liberarsi della eredità berlusconiana che tuttora governa – conclude Cremaschi – bisogna ricostruire una vera sinistra, che voglia cambiare la società e non amministrarla in nome dello spread».«Il codardo oltraggio dopo il servo encomio, ci ricorda Manzoni, fa parte della storia della fine di ogni regime», e ora che il ventennio berlusconiano starebbe finendo, dice Giorgio Cremaschi, è bene ricordare che non tutto ciò che si è opposto a Berlusconi era davvero diverso da lui. Vent’anni, dice Letta? Ma in tutto questo tempo, il Cavaliere ha effettivamente governato per poco più di otto. Il centrosinistra lo ha fatto per sette, il resto son stati governi di larghe intese, tecnici e di unità nazionale. Era “berlusconismo” anche quando governavano Prodi e tutti gli altri leader del centrosinistra, «i cui governi non hanno mai cambiato le leggi della destra, neppure la Bossi Fini». Di che cosa ci si libera, oggi, grazie alla magistratura? «Del liberismo e delle spinte autoritarie, della flessibilità del lavoro e della disoccupazione di massa, dell’ideologia del mercato e della globalizzazione? No di certo».
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Delors e l’euro, la moneta-mostro ideata da Goldman Sachs
Alle elementari avevo un maestro perverso. Questo bruto dalla chioma fiammeggiante si divertiva a colpire i suoi allievi con due canne di vimini scuro, che aveva battezzato Katie e Maggie, però quando Mr C. non stava frustandoci il palmo delle mani, ci teneva delle dotte lezioni per spiegarci tutti i motivi che non ci dovevano mai indurre ad usare la violenza. Ecco José Manuel Barroso, mi ricorda proprio Mr C. – anche se i due uomini non hanno nessuna somiglianza fisica tra di loro. Il capo della Commissione Europea sta tenendo le fila di un esperimento sadico che ha inflitto sofferenze a milioni di persone che non avevano avuto niente a che vedere con la crisi finanziaria, oggi però vuol farci credere di aver trovato una sua coscienza sociale. Questo mese Barroso e soci stanno presentandoci un cinico esperimento di austerità – addolcita. Un nuovo documento politico emesso dalla Commissione ricorda che ci dovrebbe essere un maggior controllo sulle politiche occupazionali nei paesi della zona euro.
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Mercato, sovrano globale: lo Stato è solo il suo gendarme
La tesi centrale di questo libro è che con la globalizzazione contemporanea sta prendendo forma un tipo d’imperialismo che è fondamentalmente diverso da quello affermatosi nell’Ottocento e nel Novecento. La novità più importante consiste nel fatto che le grandi imprese capitalistiche, diventando multinazionali, hanno rotto l’involucro spaziale entro cui si muovevano e di cui si servivano nell’epoca dei grandi imperi coloniali. Oggi il capitale si accumula su un mercato che è mondiale. Perciò ha un interesse predominante all’abbattimento di ogni barriera, di ogni remora, di ogni condizionamento politico che gli Stati possono porre ai suoi movimenti. Mentre in passato il capitale monopolistico di ogni nazione traeva vantaggio dalla spinta statale all’espansione imperialista, in quanto vi vedeva un modo per estendere il proprio mercato, oggi i confini degli imperi nazionali sono visti come degli ostacoli all’espansione commerciale e all’accumulazione.