Archivio del Tag ‘Onu’
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Schmidt: capisco Putin, l’Occidente scherza col fuoco
«Nelle due guerre mondiali la Russia era con l’Occidente e la Germania era dalla parte sbagliata, oggi lo dimentichiamo». L’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt avverte l’Europa: la politica di Obama è pericolosa, sulla Crimea è «comprensibile» la posizione di Putin. «Al Consiglio di sicurezza dell’Onu, mi asterrei come hanno fatto i cinesi», dice Schmidt, intervistato da Matthias Nass per “Die Zeit” e “Reoubblica”. La situazione potrebbe precipitare, se l’Occidente continuasse il suo “assedio” nei confronti della Russia. Specie nella contesa sull’Ucraina, che non è mai neppure esistita, veramente, come Stato nazionale. Dall’anziano statista tedesco un monito esplicito: «Si discute molto sulle cause della Prima Guerra Mondiale, che nessuno voleva, eppure scoppiò. La maggior parte delle guerre non sono pianificate. Lo furono solo alcune: l’attacco di Napoleone alla Russia, o la Seconda Guerra Mondiale, pianificata da Hitler. Una Terza Guerra Mondiale è molto inverosimile, ma non è totalmente impensabile».La situazione è pericolosam spiega Schmidt, perché «il nervosismo dell’Occidente crea nervosismo anche in Russia». Poco saggio, secondo l’ex cancelliere, utilizzare solo il metro del diritto internazionale, magari per giudicare “una violazione” l’annessione della Crimea, peraltro attuata a furor di popolo. «Il diritto internazionale è molto importante, ma è stato violato molte volte. Per esempio l’ingerenza nella guerra civile in Libia: l’Occidente ha ben ecceduto il mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu». Attenzione: «Lo sviluppo storico della Crimea è più importante del diritto internazionale». Tanto più che, fino ai primi anni ‘90, «l’Occidente non ha dubitato che Crimea e Ucraina fossero parti della Russia». Kiev è capitale di uno Stato indipendente ma non nazionale: «E’ molto discusso, tra gli storici, se esista una nazione ucraina». Quella di Putin, quindi, sarebbe una “violazione” molto anomala, perché commessa «contro uno Stato che, provvisoriamente, attraverso la rivoluzione di Majdan, non esisteva e non era capace di funzionare».A chi teme che Mosca ora potrebbe mettere un’ipoteca anche sull’Ucraina orientale popolata da russi e russofoni, Schmidt risponde che «sarebbe un errore, da parte dell’Occidente, comportarsi pensando che un simile sviluppo sia l’inevitabile prossimo passo russo». Uno scontro militare è possibile? «È pensabile. Non è né necessario, né inevitabile. Al momento il pericolo è piccolo, ma non è nullo». Le sanzioni antui-Cremlino? «Sono una stupidaggine. Specialmente il divieto di viaggio in Occidente per alte personalità della leadership russa. E sanzioni economiche colpirebbero l’Occidente come i russi». Idem per le forniture energetiche: l’Europa dovrebbe divenire indipendente dall’energia russa, come vorrebbero gli Usa? «È possibile», ma «non sarebbe saggio», perché «anche alla fine del XXI secolo la Russia resterà il vicino molto importante che fu dai tempi di Pietro il Grande». Quindi: cautela diplomatica, o si scherza col fuoco. E’ possibile che Putin si senta «erede di Pietro, dei Romanov e di Lenin», ma certo «non è un megalomane», dice Schmidt al giornalista di “Die Zeit”. «Si metta nei suoi panni: probabilmente sulla Crimea avrebbe reagito come lui».«Nelle due guerre mondiali la Russia era con l’Occidente e la Germania era dalla parte sbagliata, oggi lo dimentichiamo». L’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt avverte l’Europa: la politica di Obama è pericolosa, sulla Crimea è «comprensibile» la posizione di Putin. «Al Consiglio di sicurezza dell’Onu, mi asterrei come hanno fatto i cinesi», dice Schmidt, intervistato da Matthias Nass per “Die Zeit” e “Repubblica”. La situazione potrebbe precipitare, se l’Occidente continuasse il suo “assedio” nei confronti della Russia. Specie nella contesa sull’Ucraina, che non è mai neppure esistita, veramente, come Stato nazionale. Dall’anziano statista tedesco un monito esplicito: «Si discute molto sulle cause della Prima Guerra Mondiale, che nessuno voleva, eppure scoppiò. La maggior parte delle guerre non sono pianificate. Lo furono solo alcune: l’attacco di Napoleone alla Russia, o la Seconda Guerra Mondiale, pianificata da Hitler. Una Terza Guerra Mondiale è molto inverosimile, ma non è totalmente impensabile».
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Russia isolata? No, più vicina alla Cina. E addio dollaro
La crisi in Ucraina, sollecitata dagli Usa coinvolgendo l’Europa, finirà con l’accelerare in modo decisivo le relazioni strategiche tra Mosca e Pechino, cioè tra la superpotenza delle risorse naturali e quella del capitale e del lavoro. «Mentre l’Europa sta cercando disperatamente di trovare delle fonti energetiche alternative, nel caso la Gazprom dovesse bloccare le esportazioni di gas naturale verso la Germania e l’Europa», osserva il blog “Zero Hedge”, la Russia sta preparando l’annuncio-chiave del commercio energetico, cioè la nascita dell’asse preferenziale con la Cina. «Una mossa che causerebbe onde d’urto geopolitiche in tutto il mondo»: getterebbe le basi «per una nuova valuta di riserva, in grado di aggirare il dollaro». La Russia, come ventilato, potrebbe astenersi dal chiedere prestiti esteri, già nel corso di quest’anno. La grande corsa verso la Cina, a quanto pare, è cominciata.Tradotto in parole semplici, riassume “Zero Hedge” in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, significa che Mosca «potrebbe fare a meno degli acquisti occidentali di debito russo», a loro volta finanziati dagli acquisti cinesi di T-bonds statunitensi, e andare «direttamente alla fonte», ovvero la Cina. E’ questo che intende Mosca quando dice che le sanzioni per l’annessione della Crimea sarebbero «controproducenti». Chiaro il messaggio proveniente dalla Rosneft: se l’Europa e gli Stati Uniti dovessero isolare la Russia, Mosca cercherà nuovi affari, accordi energetici, contratti militari e alleanze politiche ad Oriente. Già per maggio si attende che Putin, in visita in Cina, firmi l’accordo per il super-gasdotto destinato a collegare la Russia con Pechino, sostituendo così l’Occidente come “grande cliente”. Già a partire dal 2018, la Gazprom spera di pompare 38 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno verso la Cina.«Quello che è dolorosamente evidente a tutti», aggiunge il blog, è che «più peggiorano le relazioni della Russia con l’Occidente, più la Russia vorrà averne di buone con la Cina». A questo si aggiungono gli scambi bilaterali denominati sia in rubli che in renminbi (o in oro) con paesi come Iran e India. Presto toccherà anche all’Arabia Saudita, il maggior fornitore di greggio per la Cina: il principe ereditario ha appena incontrato il presidente Xi Jinping per espandere ulteriormente i commerci. «Possiamo cominciare a dire addio ai petrodollari», ipotizza “Zero Hedge”. Per il leader di Pechino, l’asse con Mosca «sarebbe utile ad entrambi i paesi, come contrappeso agli Stati Uniti». Quest’anno, inoltre, la Cina ha superato la Germania come più grande acquirente di petrolio russo, grazie alla Rosneft, che ha aumentato le forniture di petrolio verso est, attraverso il gasdotto che unisce la Siberia Orientale all’Oceano Pacifico, e quello che attraversa il Kazakhstan.«Se Mosca fosse isolata da un nuovo round di sanzioni occidentali – continua “Zero Hedge” – Russia e Cina potrebbero rafforzare la cooperazione anche in altri settori, oltre all’energia. La crescita dei rapporti bilaterali include investimenti strategici nelle infrastrutture ma anche forniture militari, come quella per i caccia Sukhoi Su-35. Un declino del commercio con l’Occidente potrebbe costringere Mosca ad abbandonare alcune delle sue riserve sugli investimenti cinesi nei settori strategici. Il volume del commercio russo-cinese è cresciuto del 8,2% nel 2013, raggiungendo quota 8,1 miliardi di dollari, ma la Russia lo scorso anno era ancora solo il settimo più grande partner cinese per le esportazioni, e non era tra i primi 10 paesi per le merci importate. E’ l’Unione Europea il principale partner economico della Russia, e ancora oggi rappresenta quasi la metà di tutto il suo fatturato commerciale.«E se spingere la Russia verso un caldo abbraccio con la nazione più popolosa del mondo non fosse ancora abbastanza, c’è anche a disposizione il secondo paese più popoloso del mondo, l’India». Putin, in effetti, non ha perso tempo: non si è limitato a rigraziare la Cina per la “comprensione” dimostrata col voto non contrario, all’Onu, sull’annessione della Crimea, ma si è affrettato a riconoscere anche la “moderazione e obiettività” dell’India, intavolando relazioni col premier Manmohan Singh sulla possibilità di sviluppare accordi con un paese non-allineato come l’India. Per l’editore del quotidiano “The Hindu”, autorevole voce dell’establishment di New Delhi, sulla Crimea «la Russia ha degli interessi legittimi». Così, «mentre il più grande spostamento geopolitico dai tempi della Guerra Fredda sta accelerando, con l’inevitabile consolidamento dell’“asse asiatico”», per “Zero Hedge” l’Occidente «monetizza il suo debito e si crogiola nella ricchezza di carta creata da un mercato azionario fortemente manipolato», mentre la propria economia si indebolisce e il futuro svolta verso Oriente.La crisi in Ucraina, sollecitata dagli Usa coinvolgendo l’Europa, finirà con l’accelerare in modo decisivo le relazioni strategiche tra Mosca e Pechino, cioè tra la superpotenza delle risorse naturali e quella del capitale e del lavoro. «Mentre l’Europa sta cercando disperatamente di trovare delle fonti energetiche alternative, nel caso la Gazprom dovesse bloccare le esportazioni di gas naturale verso la Germania e l’Europa», osserva il blog “Zero Hedge”, la Russia sta preparando l’annuncio-chiave del commercio energetico, cioè la nascita dell’asse preferenziale con la Cina. «Una mossa che causerebbe onde d’urto geopolitiche in tutto il mondo»: getterebbe le basi «per una nuova valuta di riserva, in grado di aggirare il dollaro». La Russia, come ventilato, potrebbe astenersi dal chiedere prestiti esteri, già nel corso di quest’anno. La grande corsa verso la Cina, a quanto pare, è cominciata.
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Muos, il silenzio è d’oro: ecco perché i giornali tacciono
Il silenzio è d’oro: meno si parla di missili, droni e Muos, più l’imprenditoria finanziaria italiana – collegata alla grande stampa – farà affari col Pentagono. Ecco perché «la Sicilia è diventata una capitale mondiale dei droni, ma questo non è assolutamente argomento all’ordine del giorno a livello politico e mediatico nel nostro paese», accusa Antonio Mazzeo, da sempre in prima linea contro gli abusi dell’industria degli armamenti. Il nuovo sistema bellico targato Usa di stanza in Italia è un progetto che va ben oltre la semplice trasmissione di informazioni: oltre agli effetti devastanti sul territorio, l’ambiente e la salute delle popolazioni, la stazione Muos sarà un punto di riferimento fondamentale per i droni, sempre più usati in Medio Oriente per la “lotta al terrorismo” e nel nel cuore del Mediterraneo per l’individuazione e il “respingimento” dei barconi coi migranti. Tutto questo nel silenzio quasi totale dei media, nonostante le proteste No-Muos per l’installazione definitiva delle tre enormi parabole a Niscemi.L’ultimo libro di Mazzeo, “Il MUOStro di Niscemi. Per le guerre globali del XXI secolo”, offre un’analisi meticolosa e dettagliata su questo sistema di controllo e comunicazioni satellitare della Marina degli Stati Uniti. Il Muos, dice Mazzeo a Stefano Nanni e Anna Toro di “Osservatorio Iraq” in un’intervista ripresa da “Micromega”, sarà «uno strumento di guerra che a livello mondiale contribuirà a modificare radicalmente la gestione dei conflitti». Le tre antenne montate a Niscemi fanno parte dell’insieme di parabole di uno dei quattro terminali terrestri previsti a livello planetario. Il Mobile User Objective System installato in Sicilia sarà collegato con quelli dislocati alle Hawaii, in Virginia e in Australia, attraverso 5 satelliti orbitanti a 15.000 chilometri dalla Terra. L’architettura del sistema sarà pronta nel 2016, quando saranno mandati in orbita gli ultimi 3 satelliti. Compito del Muos: accelerare, anche di 10 volte, la velocità di invio di informazioni e comandi a tutti i dispositivi militari Usa nel mondo. Compresi i droni, che il ormai Pentagono impiega “a sciami” nella sua strategia di attacco: e Niscemi, a due passi da Sigonella, consentirà di “corpire” Africa, Mediterraneo e Medio Oriente.Non secondario, dice Mazzeo, il ruolo del Muos per il controllo militare dei flussi di migranti, in linea con la missione dell’agenzia europea Frontex. La stessa operazione Mare Nostrum, lanciata dal governo Letta e presentata come un’operazione umanitaria per evitare che si ripetano stragi come quella di Lampedusa del 3 ottobre 2013, in realtà «sta diventando un laboratorio sperimentale per l’uso dei droni: non solo in una funzione di vigilanza e monitoraggio ma anche di vera e propria guerra ai migranti». Risale a fine novembre un accordo tra Italia e Libia per consentire ai droni Predator (di stanza ad Amendola in Puglia ma presto trasferiti a Sigonella e Trapani) di sorvegliare lo spazio aereo libico fino ai confini col Ciad e col Sudan. «Non solo per vigilare e informare le unità navali, ma di fatto anche per individuare eventuali flussi di migranti che provengono dall’Africa Sub-Sahariana, così da avvertire direttamente le autorità libiche: in questo modo, grazie all’operazione Mare Nostrum, si rende possibile dispiegare le operazioni di contenimento e di respingimento ben prima del Mediterraneo».La Sicilia ha protestato con tutte le sue forze per l’impatto ambientale dell’installazione militare: le antenne del Muos sorgono all’interno della “Sughereta”, una delle riserve di sughero più antiche d’Europa, e lo sbancamento è avvenuto in violazione di tutte le leggi. Senza contare l’impatto sulla salute delle onde elettromagnetiche sprigionate dalle 3 maxi-antenne e dalle 46 antenne secondarie. Il governo ha demandato all’Istituto Superiore di Sanità l’ultima parola sul pericolo dell’elettromagnetismo, mentre per la decisione strategica su un impianto-mostro come il Muos il Parlamento è stato completamente scavalcato. Quasi zero anche le ricadute occupazionali: se su Vicenza piovvero 260 milioni di investimento per l’allargamento della base Dal Molin, a Niscemi ci si è limitati a meno di 15 milioni di dollari, cioè «neanche le briciole di questo enorme progetto», che è (chiavi in mano) di Lockheed Martin, «il primo complesso militare industriale a livello mondiale». Un progetto blindato dal silenzio, se non fosse per la tenace opposizione popolare del movimento No-Muos. Secondo Mazzeo, c’è stata «una enorme sottovalutazione della problematicità», come se si trattasse solo di inquinamento elettromagnetico, come ha finto di credere il presidente siciliano Rosario Crocetta.Disinformazione interessata, accusa Mazzeo: «Bisogna guardare proprio agli intrecci del complesso militare industriale e finanziario italiano con quello statunitense, da cui ovviamente dipendono buona parte dei grandi organi della stampa cartacea o radiotelevisiva: qui c’è stata una scelta – in malafede – di cercare di non parlarne, perché questo avrebbe potuto mettere profondamente in discussione i grandi interessi, quelli che portano l’Italia a dover accettare strumenti di morte, Muos, droni, il raddoppio della base a Vicenza, gli F-35 e così via». Tutte operazioni «in cui l’Italia non ci guadagna niente ma di cui al contrario si assume gli oneri, il carico sociale, economico, finanziario e, nel caso del Muos, anche ambientale». L’Italia accetta quello che altri alleati Usa rifiutano: «C’è una logica di scambio tra il capitale finanziario italiano e quello statunitense: io ti consento di trasformare la Sicilia in una roccaforte delle operazioni più sporche a livello internazionale (come le armi chimiche siriane approdate a Gioia Tauro) e tu in cambio mi consenti di diventare un partner credibile per il Pentagono».L’apparato militare Usa, infatti, è «la grande mucca da mungere a livello mondiale, in una guerra globale permanente dove proprio il Pentagono sarà certamente il principale finanziatore dei conflitti e quindi dell’acquisto di armi a livello planetario». Non è un caso che nell’ultima decade Finmeccanica si sia affermata come l’ottavo complesso a livello mondiale per giro di fatturato sulle armi. Ed ecco perché la grande stampa – collegata al capitale finanziario – evita di dire la verità sul Muos e sugli stessi droni, che invece negli Stati Uniti sono ormai un problema politico: il Congresso è spaccato e le stesse Nazioni Unite hanno dato vita a un comitato d’inchiesta sul loro uso a livello internazionale. La Sicilia è diventata «la capitale mondiale dei droni», con un’enorme concentrazione alla base di Sigonella, ma per in Italia non se ne parla. Un copione già visto, per esempio in Sardegna. «Il Muos è la punta dell’iceberg», conclude Mazzeo. Che confida però nella capacità di mobilitazione civile della protesta: le cose potrebbero cambiare, dice, se riuscissimo a spiegare agli insegnanti che si taglia l’università per finanziare la ricerca missilistica. «La crisi è strutturale perché c’è una guerra che va avanti eternamente e che noi paghiamo giorno per giorno».Il silenzio è d’oro: meno si parla di missili, droni e Muos, più l’imprenditoria finanziaria italiana – collegata alla grande stampa – farà affari col Pentagono. Ecco perché «la Sicilia è diventata una capitale mondiale dei droni, ma questo non è assolutamente argomento all’ordine del giorno a livello politico e mediatico nel nostro paese», accusa Antonio Mazzeo, da sempre in prima linea contro gli abusi dell’industria degli armamenti. Il nuovo sistema bellico targato Usa di stanza in Italia è un progetto che va ben oltre la semplice trasmissione di informazioni: oltre agli effetti devastanti sul territorio, l’ambiente e la salute delle popolazioni, la stazione Muos sarà un punto di riferimento fondamentale per i droni, sempre più usati in Medio Oriente per la “lotta al terrorismo” e nel nel cuore del Mediterraneo per l’individuazione e il “respingimento” dei barconi coi migranti. Tutto questo nel silenzio quasi totale dei media, nonostante le proteste No-Muos per l’installazione definitiva delle tre enormi parabole a Niscemi.
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Meno e meglio: oggi sprechiamo metà del nostro cibo
Le grandi aziende tramutano lo sperpero alimentare nel nuovo “trending topic” del marketing sociale aziendale. «Gli attuali dati sugli sprechi alimentari sono uno scandalo etico e morale», accusa Javier Guzmàn, direttore del centro Vsf che si occupa di “giustizia alimentare globale”. In Europa, si perdono o sperperano tra il 30% e il 50% degli alimenti sani e ancora commestibili lungo tutti gli anelli della catena agroalimentare, fino ad arrivare al consumatore finale. Le quantità alimentari che annualmente si sprecano nei 27 stati membri sono 89 milioni di tonnellate, ossia 179 chili per abitante. E senza contare quelle di origine agricola, generate nei processi di produzione, né gli scarti del pescato rigettato a mare. In un’uniformativa sui rifiuti alimentari, la stessa Fao segnala che nel 2007 la terra coltivata per generare sprechi era di 1,4 miliardi di ettari, il 28% della superficie coltivabile a livello mondiale, proprio mentre sta crescendo la pressione su queste risorse a fini non alimentari, cioè per speculazioni finanziarie o per produrre agrocombustibili.In Spagna, sottolinea Guzmàn in un post su “Rebeliòn” ripreso da “Come Don Chisciotte”, ogni anno finiscono nella spazzatura 2,9 milioni di tonnellate di alimenti, in un paese dove secondo la Caritas ci sono 9 milioni di persone ridotte in povertà, con meno di 6.000 euro all’anno. Nel 2012, il Parlamento Europeo ha sollecitato gli Stati membri a impegnarsi a dimezzare gli sprechi entro il 2050. Sempre in Spagna, il ministero dell’agricoltura ha chiesto alla grande distribuzione di ridurre gli sperperi alimentari. In realtà, sostiene Guzmàn, si tratta di campagne che mirano a «nascondere deliberatamente le responsabilità dell’attuale industria agroalimentare», a cominciare dalla reale quantità – tenuta nascosta – dei rifiuti alimentari prodotti. Tesi: «Provano a farci credere che l’attuale spreco alimentare non è una conseguenza del modello agroalimentare imposto negli ultimi anni dalle grandi aziende». Sprechi osceni, a livello globale? Sì, ma secondo loro la colpa è nostra, dei consumatori “spreconi”: compriamo troppe merci, non sappiamo utilizzare al meglio i prodotti, trascuriamo le date di scadenza. Siamo stupidi, compulsivi e irresponsabili.«Scegli i tuoi prodotti secondo le necessità della tua casa», raccomanda la campagna del ministero spagnolo dell’agricoltura. «Prima di programmare un acquisto controlla lo stato degli alimenti che hai in casa, soprattutto i prodotti freschi o con data di scadenza. E pianifica il menù giornaliero o settimanale tenendo conto del numero di persone che mangiano». Ma le grandi aziende agroalimentari e i governi non hanno nessuna colpa? «Se mettiamo a fuoco le industrie e le loro strategie – osserva Guzmàn – cominceremo a vedere i contorni di una responsabilità immensamente superiore». Primo fronte, le quantità di merci immesse: l’Europarlamento insiste sul fatto che gli “agenti della catena alimentare” sono i primi responsabili. L’industria apporta il 39% dei rifiuti, mentre ristoranti, catering e supermercati contribuiscono ad appesantire il sistema ecologico per un altro 20%. Naturalmente, «imprese, governi e lobby alimentari danno per inevitabili queste percentuali». L’industria è responsabile anche nel consumo finale, visto che la maggior parte dei rifiuti domestici sono dovuti gli imballaggi. In Spagna, l’80% degli acquisti alimentari è effettuato all’ipermercato (infatti i piccoli negozi, che prima del 2000 erano ancora 95.000, in pochi anni si sono ridotti a 25.000).Inoltre, con la scusa di “migliorare l’efficienza del processo”, le industrie «integrano le “banche alimentari” nella catena agroalimentare», e così «prendono due piccioni con una fava», perché «migliorano l’immagine aziendale e riducono i costi del trattamento dei rifiuti». Una strategia che, alla fine, «rende cronico un intervento assistenziale che di norma sarebbe d’emergenza temporanea» come il “last minute market” dei prodotti vicini alla scadenza, «facendolo invece diventare parte integrante della “catena”», tra l’altro «dimenticando che questi interventi generano stigmatizzazioni sociali e molte volte l’offerta alimentare non è poi adeguata, con mancanza di alimenti freschi, con alimenti trasformati, poveri di nutrimento e sproporzionati a livello di energie, grassi saturi e carboidrati, favorendo così malattie cardiovascolari e diabete». Tuttavia, continua Guzmàn, queste campagne «vengono spacciate come punti di forza», sia dalla Ue che dalla Fao, come fossero davvero utili per ridurre i rifiuti alimentari e promuovere agricoltura territoriale piccoli negozi locali. Le filiere corte evitano dispersioni sia nella produzione, non soggetta ai canoni standard dell’agroindustria, sia nella distribuzione, perché il prodotto locale «non necessita di una grande catena del freddo e di trasporto per arrivare al consumatore finale».Inoltre, la vendita diretta «migliora l’incontro tra offerta e domanda, consumando esattamente ciò di cui necessitiamo». Così, si creano «prezzi equi per i produttori, posti di lavoro e indotto, dinamizzazione del territorio e rivalorizzazione del mondo rurale, incremento generale della qualità nutritiva degli alimenti». E’ la strada che sta battendo la Francia, fino a ieri “regina” europea della grande distribuzione. Il governo di Parigi, ricorda Guzmàn, si sta impegnando anche a livello legislativo per favorire l’economia a chilometri zero: incentivi per la produzione e la trasformazione locale, adeguamento delle norme igienico-sanitarie alle caratteristiche della piccola produzione e iniziative di sostegno diretto come l’acquisto di alimenti per scuole, ospedali e università, presso agricoltori e allevatori locali, «convertendo lo sviluppo dell’agricoltura locale in uno dei pilastri centrali della strategia contro gli sprechi». La Spagna resta lontana. Solo il 3% degli agricoltori iberici ha accesso alla vendita diretta, contro il 20% dei colleghi francesi. Volendo, conclude Guzmàn, basterebbe imitare la Francia per rilanciare l’economia virtuosa dei territori, abbattendo così anche il costo dei rifiuti agroalimentari.Le grandi aziende tramutano lo sperpero alimentare nel nuovo “trending topic” del marketing sociale aziendale. «Gli attuali dati sugli sprechi alimentari sono uno scandalo etico e morale», accusa Javier Guzmàn, direttore del centro Vsf che si occupa di “giustizia alimentare globale”. In Europa, si perdono o sperperano tra il 30% e il 50% degli alimenti sani e ancora commestibili lungo tutti gli anelli della catena agroalimentare, fino ad arrivare al consumatore finale. Le quantità alimentari che annualmente si sprecano nei 27 stati membri sono 89 milioni di tonnellate, ossia 179 chili per abitante. E senza contare quelle di origine agricola, generate nei processi di produzione, né gli scarti del pescato rigettato a mare. In un’informativa sui rifiuti alimentari, la stessa Fao segnala che nel 2007 la terra coltivata per generare sprechi era di 1,4 miliardi di ettari, il 28% della superficie coltivabile a livello mondiale, proprio mentre sta crescendo la pressione su queste risorse a fini non alimentari, cioè per speculazioni finanziarie o per produrre agrocombustibili.
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La Germania sta spolpando le nostre migliori aziende
«Si chiama Spirale della Deflazione Economica Imposta. Ne ho scritto per la prima volta 4 anni fa ne “Il Più Grande Crimine”», ricorda Paolo Barnard. «Dissi che la Germania e la Francia avevano progettato la distruzione dei paesi industrializzati del sud Europa con l’adozione dell’euro, in particolare dell’Italia, perché era la Piccola Media Impresa italiana che aveva stroncato quella tedesca, al punto che nel 2000, prima dell’euro, l’Italia era il maggior produttore e la Germania l’ultimo (dati Banca d’Italia)». Oggi lo scenario si è ribaltato, puntualmente. E le imprese tedesche vengono a fare shopping da noi, perché «in quel comparto industriale abbiamo il miglior sapere al mondo». E, grazie alla trappola dell’euro, che ha «deprezzato l’economia italiana a livello albanese», i tedeschi comprano le aziende italiane a prezzi stracciati. Lo conferma un recente report del “Financial Times”: «Le piccole medie imprese tedesche si sono gettate in un’abbuffata trans-alpina, rendendole le più attraenti acquirenti straniere in Europa di aziende italiane».«Aziende della base industriale del Mittelstand tedesco ottengono accesso al sapere tecnologico di aziende italiane in difficoltà, mentre in alcuni casi spostano i loro quartieri generali oltr’alpe», scrive il quotidiano finanziario il 27 gennaio, sottolineando l’importanza del “sapere tecnologico italiano”. «Le aziende tedesche stanno afferrando opportunità d’espansione mentre la recessione sospinge verso il basso il prezzo degli affari nel sud Europa in difficoltà». Per Barnard, è esattamente «la Spirale della Deflazione Economica Imposta, per comprarci con due soldi» grazie alle restrizioni promosse dal sistema Ue-Bce. Marcel Fratzscher, direttore dell’istituto economico tedesco Diw, ammette che il terreno di caccia del business tedesco è soprattutto l’area in crisi, dove i tedeschi possono “aiutare” le piccole e medie aziende italiane, che «spesso faticano a ottenere credito». Ovvio: «A noi la Germania ha proibito di avere una “banca pubblica” come la tedesca Kfw», protesta Barnard. Una banca che, «barando sui deficit di Stato tedeschi, ha versato miliardi in crediti alle aziende tedesche».«Le acquisizioni – continua il “Financial Times – sono spesso descritte come accordi strategici, ma degli insider ci dicono che il linguaggio nasconde una serie di acquisizioni aggressive». Di fatto, è la “conquista” di aziende italiane, contro la volontà dei proprietari italiani costretti a vendere. «In alcuni casi gli accordi sono strutturati in modo che il marketing e il management sono esportati dall’Italia, spogliando l’azienda acquistata fino alle sue strutture produttive». Carlos Mack, di Lehel Invest Bayern, dice al “Financial Times” che la logica dietro al trasferimento delle sedi delle aziende italiane «è di avere sia i beni di valore che il marketing e il management in Germania, perché così si ha accesso più facile al credito bancario da banche non italiane». Sempre Mack dice che le aziende tedesche «non sono interessate al mercato italiano, ma solo al prodotto italiano». Ovvero, «sono interessate a vendere il prodotto italiano altrove». Per Barnard, è «la conferma che noi abbiamo le più straordinarie piccole medie imprese del mondo, e ora ci portano via i gioielli della nostra produzione».«A differenza delle aziende italiane – continua il “Financial Times” – le tedesche hanno poche difficoltà a trovare crediti». Una ricerca ha evidenziato che «le banche italiane lavorano bene con le succursali tedesche in Italia, facendogli credito, per proteggersi dai loro investimenti nelle aziende italiane in difficoltà». Ma come, non erano in difficoltà le nostre banche? «Perché prestano ai tedeschi e non a noi?». E’ un “trucco”, innescato dalla Deflazione Economica Imposta dall’euro: «Le nostre aziende affogano, quindi le banche italiane strangolano le aziende italiane perché sono in difficoltà, e arrivano i tedeschi a papparsi i nostri marchi di prestigio a 2 soldi, e le banche italiane ci fanno affari». Norbert Pudzich, direttore della Camera di Commercio Italo-Tedesca a Milano, dice che anche prima della recessione le aziende italiane avevano difficoltà a trovare crediti, perché ad esse manca lo stretto rapporto con le banche “di casa”, che invece le aziende tedesche del Mittelstand hanno. Infatti, osserva Barnard, la stessa Kfw «ha versato miliardi di euro di spesa pubblica sottobanco alle aziende tedesche, barando, mentre costringevano noi a rantolare senza un centesimo dal governo».«Tutto questo – conclude Barnard – io lo denunciai 4 anni fa, e mi davano del pazzo. Questa è la distruzione pianificata di una civiltà, quella italiana, delle nostre famiglie, dei nostri ragazzi. Questo è un crimine contro l’umanità, perché lo stesso accade in altri paesi europei. Questo è nazismo economico». I tedeschi? «Non cambieranno mai», sono «sterminatori nell’anima», andrebbero «commissariati dall’Onu per sempre». Barnard l’ha ripetuto in decine di conferenze, mostrando una slide dell’“Economist”: ora, con la nostra economia retrocessa a condizioni da terzo mondo «proprio a causa dell’Eurozona voluta da Germania e Francia», la Germania e altre potenze vengono a rastrellare aziende italiane pagandole quattro soldi. Tutto previsto: era un piano preciso. Se cessi di immettere denaro nel sistema, proibendo allo Stato di spendere, vince chi bara – in questo caso la Germania, in cu lo Stato finanzia (di nascosto) le aziende, creando un enorme vantaggio competitivo, completamente sleale. La politica italiana? Non pervenuta. E’ per questo che i “predatori” hanno campo libero. E il paese precipita.«Si chiama Spirale della Deflazione Economica Imposta. Ne ho scritto per la prima volta 4 anni fa ne “Il Più Grande Crimine”», ricorda Paolo Barnard. «Dissi che la Germania e la Francia avevano progettato la distruzione dei paesi industrializzati del sud Europa con l’adozione dell’euro, in particolare dell’Italia, perché era la Piccola Media Impresa italiana che aveva stroncato quella tedesca, al punto che nel 2000, prima dell’euro, l’Italia era il maggior produttore e la Germania l’ultimo (dati Banca d’Italia)». Oggi lo scenario si è ribaltato, puntualmente. E le imprese tedesche vengono a fare shopping da noi, perché «in quel comparto industriale abbiamo il miglior sapere al mondo». E, grazie alla trappola dell’euro, che ha «deprezzato l’economia italiana a livello albanese», i tedeschi comprano le aziende italiane a prezzi stracciati. Lo conferma un recente report del “Financial Times”: «Le piccole medie imprese tedesche si sono gettate in un’abbuffata trans-alpina, rendendole le più attraenti acquirenti straniere in Europa di aziende italiane».
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Ghigliottina esangue: perché la Boldrini deve dimettersi
Dev’essere tutta colpa del nipote di Magozurlì, quel tal Carloconti che imperversa la sera su Rai-uno trainando l’ascolto del Tiggì più caro agli italiani con un programma – l’eredità – in cui una ghigliottina cala sul gruzzolo dei concorrenti che si sono sudati la vincita rispondendo a domande impegnative sostenendo che Hitler salì al cancellierato di Germania nel 1970… Il ritorno di moda di una “invenzione” talmente micidiale che ne finì vittima persino il suo ideatore deve aver affascinato una predestinata ad alte cariche istituzionali come la presidente protempore della Camera dei deputati. La butto sull’ironico perché ho letto attentamente e con rispetto una lunga e profonda discussione che alcuni “amici” si sono scambiati sul mio “profilo facebook” scatenata da un post che a mia volta avevo condiviso dal social network.Dico subito che stimo molto coloro che conosco (al di la dell’“amicizia virtuale”) e che altrettanta stima ritengo si debba accordare anche a chi non conosco personalmente ma vedo che si appassiona a ragionare – (oggi!) – di democrazia a rischio! Ma francamente non immaginavo di provocare tanta rovente discussione, raccogliendo la segnalazione di un pezzo uscito su un blog dichiaratamente caustico nei confronti di tutto ciò che pretende di essere “politicamente corretto”. Qualunque commento rischia quindi di essere inadeguato, ma se non lo si fa nell’arena virtuale – potendosi sbagliare e correggere senza aver provocato danni irreparabili – non vedo come si possa auspicare che ciò possa avvenire nelle assemblee elettive di ogni ordine e grado. In tali consessi infatti tutti, anche i migliori, devono difendere la propria squadra non fosse altro in quanto strumento per lavorare al conseguimento dei più nobili obiettivi.Io non conosco la Boldrini se non attraverso la stima di persone che ci hanno avuto direttamente a che fare nella delicata esperienza legata alla sorte degli “ultimi”, dei migranti vittima di tante tragedie consumatesi nella indifferenza quando non nell’ostilità di buona parte dell’opinione pubblica. Ma a maggior ragione chi ha alle spalle quel tipo di storia non può permettersi di “dare scandalo” quando cambia mestiere: io non so e non mi permetto di dire che meglio sarebbe stato se si fosse legata una pietra al collo piuttosto che azionare – per la prima volta in Italia – la lama di una ghigliottina. E non è possibile cavarsela dicendo che non è corso sangue e nessuna testa è caduta nella cesta.Io sto ai fatti perché, mentre “la cosa” stava succedendo, quello che lei ha fatto passare stroncando l’“abominevole ostruzionismo grillino” (ma anche di alcuni suoi “ex compagni” di Sel e degli eletti di Fratellid’italia) è un provvedimento incoerente come tutti i decreti che lo hanno preceduto, un pezzo del quale poteva anche aver requisiti di “necessità e urgenza”, quello relativo alla soppressione dell’Imu, giusta o sbagliata che sia, ma l’altro – il grazioso regalo alle peggio banche italiane e non (vedi Unicredit) – oltre ad essere a dir poco discutibile era sicuramente rinviabile (e proprio con lo scopo di poterne discutere fino in fondo). E’ di queste stesse ore la notizia dell’apposizione di una sorta di segreto di Stato sulla richiesta di Bruxelles che il Monte dei Paschi di Siena restituisca 3 dei 4 miliardi di aiuti ottenuti dal Governomonti…Ora, mentre quel che arriva dalla Commissione Ue diventa sacro e immediatamente esecutivo se si tratta di tagliare pensioni, rientrare dal deficit eccessivo o rinunciare alla italianità della mozzarella, ecco che su questa “trascurabile raccomandazione” cala il più classico dei silenzi assordanti. Che le banche siano importanti (che sia fondamentale che tornino a svolgere la funzione del credito per cui si può considerare un bene da difendere anche la loro “italianità” alla faccia della globalizzazione) è fuor di dubbio. Ma quale uso sia meglio fare di sette miliardi e mezzo di riserve valutarie della Banca d’Italia deve essere materia su cui l’opposizione possa esercitare il diritto regolamentarmene disciplinato ad opporsi. Differentemente tale decisione, come quella su Mps o l’acquisto degli F-35 diventano prerogativa dell’Abi o una scelta insindacabile dell’esecutivo, o materia del Comitato per la Difesa Nazionale presieduto da un post-comunista che si è fatto monarca!Cose ognuna delle quali rappresenta un delitto contro la democrazia assai più grave di turpiloquio, sessismo, e – secondo me – persino delle più volgari e vergognose minacce. Che condanno, sia chiaro, come hanno fatto anche molti eletti a 5stelle – nonostante l’“obbligo di difesa della casamadre” cui ho fatto cenno. Ma che sono il sintomo, non la causa della malattia. Come lo è il tentativo (sin qui fallito) dei forconi che magari (come qualcuno paventava) credevano di avere dalla loro poliziotti e camionisti, ma non sapevano che i primi si sono tolti il casco per ravviarsi i capelli e i secondi erano garantiti da Palenzona & Lupi che di banche, pedaggi autostradali e rimborsi delle accise sul gasolio sono da sempre “razzapadrona”.Ora io credo che se la Boldrini non perde occasione per rincarare la dose affermando (virgolettato) che quello dei parlamentari 5stelle è stato un “attacco eversivo”, farebbe bene a dimettersi senza bisogno che glielo chieda nessuno, perché non può non sapere che sta seduta su una polveriera incomparabilmente più destabilizzante, i cui fuochisti sono quelli che hanno manovrato i pentiti per depistare i magistrati dallo scoprire chi sono stati se non i mandanti almeno i complici “istituzionali” dalle stragi di Capaci e via d’Amelio; perché è circondata da lobbysti che decidono indisturbati in che modo usare le risorse pubbliche per i loro affari privati e quali emolumenti attribuirsi.Allora delle due l’una: o ammetti di essere inadeguato per un ruolo imparziale e ne trai le conseguenze o sei complice di un disegno che è eversivo (quello sì) di quella stessa Costituzione su cui hai giurato. E siccome di spergiuri è piena la lista di attesa, meglio se a compiere (o avallare) le inevitabili nefandezze prossime venture saranno persone dal curriculum politico spregevole e riconoscibili come tali. Spiacente, ma di difensori della classe operaia che passavano da una festa all’altra della nobiltà romana ne abbiamo gia avuto uno, e non era neanche una donna, per cui chi – giustamente – lo attaccava, se non altro, non poteva essere tacciato di sessismo.(Claudio Giorno, “La ghigliottina esangue”, dal blog di Giorno del 2 febbraio 2014).Dev’essere tutta colpa del nipote di Magozurlì, quel tal Carloconti che imperversa la sera su Rai-uno trainando l’ascolto del Tiggì più caro agli italiani con un programma – l’eredità – in cui una ghigliottina cala sul gruzzolo dei concorrenti che si sono sudati la vincita rispondendo a domande impegnative sostenendo che Hitler salì al cancellierato di Germania nel 1970… Il ritorno di moda di una “invenzione” talmente micidiale che ne finì vittima persino il suo ideatore deve aver affascinato una predestinata ad alte cariche istituzionali come la presidente protempore della Camera dei deputati. La butto sull’ironico perché ho letto attentamente e con rispetto una lunga e profonda discussione che alcuni “amici” si sono scambiati sul mio “profilo facebook” scatenata da un post che a mia volta avevo condiviso dal social network.
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Obama finanzia i terroristi, a insaputa degli americani
Dopo la guerra in Afghanistan contro i sovietici, molti autori hanno messo in evidenza il ruolo degli Stati Uniti come finanziatori del terrorismo internazionale. Tuttavia, fino ad ora si trattava solo di azioni segrete, di cui finora Washington non si era assunta la paternità. Un passo decisivo è stato compiuto con la Siria: il Congresso ha approvato il finanziamento e l’armamento di due organizzazioni rappresentative di Al-Qaeda. Ciò che era in precedenza il segreto di Pulcinella ora è diventato la politica ufficiale del “Paese della libertà”: il terrorismo. In violazione delle risoluzioni 1267 e 1373 del Consiglio di sicurezza, Il Congresso degli Stati Uniti ha votato il finanziamento e l’armamento del “Fronte al-Nusra” e dell’“Emirato islamico dell’Iraq e del Levante”, due importanti organizzazioni di Al-Qa’ida e classificate come “terroriste” dalle Nazioni Unite. Questa decisione sarà valida fino al 30 settembre 2014.Lo ricorda il francese Thierry Meyssan, giornalista indipendente, in un’analisi pubblicata da diverse testate e ripresa da “Megachip”. Il paradosso della guerra in Siria? «Le immagini sono esattamente il contrario della realtà». Secondo i media mainstream, il conflitto oppone da un lato gli Stati raccoltisi intorno a Washington e Riyadh, intenti a difendere la democrazia e condurre la lotta mondiale contro il terrorismo, e dall’altra la Siria e i suoi alleati russi, «diffamati come dittature che manipolano il terrorismo». Se tutti sono ben consapevoli del fatto che l’Arabia Saudita non è una democrazia, bensì una monarchia assoluta, «laddove la tirannia di una famiglia e di una setta controlla un intero popolo», gli Stati Uniti godono invece dell’immagine di un democrazia, paladina della “libertà”. Eppure, una notizia-bomba come quella del finanziamento ufficiale della guerriglia jihadista è stata censurata, dal momento che il Congresso «si è riunito segretamente per votare il finanziamento e l’armamento dei “ribelli” in Siria». Può sembrare incredibile, ma «il Congresso tiene incontri segreti che la stampa non può menzionare».Ecco perché la notizia,originariamente pubblicata dall’agenzia di stampa britannica Reuters, è stata «scrupolosamente ignorata dalla stampa e dai media negli Stati Uniti e dalla maggior parte dei media in Europa occidentale e nel Golfo: solo gli abitanti del “resto del mondo” avevano il diritto di conoscere la verità». Poiché nessuno ha letto la legge appena approvata, aggiunge Meyssan, non si sa che cosa stabilisca esattamente. «Tuttavia, è chiaro che i “ribelli” in questione non mirano a rovesciare il governo siriano – ci hanno rinunciato – ma piuttosto a “insanguinarlo”. Ecco perché non si comportano come soldati, ma come terroristi». Sicché l’America, presunta vittima di Al-Qaeda l’11 Settembre e poi leader mondiale della “guerra al terrorismo”, di fatto finanzia «il principale focolaio terroristico internazionale», in cui agiscono due organizzazioni ufficialmente subordinate ad Al-Qaeda. «Non si tratta più di una manovra oscura dei servizi segreti, ma piuttosto di una legge, pienamente assunta, ancorché approvata a porte chiuse per non contraddire la propaganda».D’altra parte, continua Meyssan, ci si chiede in che modo la stampa occidentale – che da 13 anni imputa ad Al-Qaeda di essere l’autrice degli attentati dell’11 Settembre – potrebbe mai spiegare all’opinione pubblica la sua decisione. Infatti, la speciale procedura seguita in questo caso (Cog, “continuità di governo”) è protetta anch’essa dalla censura. «È anche per questo che gli occidentali non hanno mai saputo che, nel corso di quell’11 settembre, il potere era stato trasferito dai civili ai militari, dalle 10 del mattino fino a sera, e durante tutto quel giorno gli Stati Uniti erano governati da un’autorità segreta, in violazione delle loro leggi e della loro Costituzione». Lo stesso discorso annuale di Barack Obama sullo stato dell’Unione «si è trasformato in un eccezionale esercizio di menzogne». Davanti ai 538 membri del Congresso che sin dall’inizio lo applaudivano, il presidente ha dichiarato: «Una cosa non cambierà: la nostra determinazione a non permettere ai terroristi di lanciare altri attacchi contro il nostro paese». E ancora: «In Siria, sosterremo l’opposizione che respinge il programma delle reti terroristiche».Eppure, quando la delegazione siriana ai negoziati di “Ginevra 2” ha sottoposto – a quella che s’intendeva rappresentare come la sua “opposizione” – una mozione, esclusivamente basata sulle risoluzioni 1267 e 1373 del Consiglio di sicurezza, a condanna del terrorismo, questa è stata respinta senza causare alcuna protesta da parte di Washington. E per una buona ragione: il terrorismo sono gli Stati Uniti, e la delegazione “dell’opposizione” riceve i suoi ordini direttamente dall’ambasciatore Robert S. Ford, presente in loco». Ford è stato assistente di John Negroponte in Iraq. Nei primi anni ‘80, ricorda Meyssan, Negroponte aveva contrastato la rivoluzione nicaraguense arruolando migliaia di mercenari e alcuni collaboratori locali, costituendo i cosiddetti “Contras”. La Corte internazionale di giustizia, cioè il tribunale interno delle Nazioni Unite, ha condannato Washington per questa ingerenza che non osava pronunciare il proprio nome. Poi, negli anni Duemila, Negroponte e Ford riproposero lo stesso scenario in Iraq. Questa volta però l’intento era di annientare la resistenza nazionalista facendola combattere da Al-Qaeda.Oggi, mentre i siriani e la delegazione dell’“opposizione” discutevano a Ginevra, a Washington il presidente Obama, applaudito meccanicamente dal Congresso, ha continuato il suo esercizio di ipocrisia: «Noi lottiamo contro il terrorismo non grazie all’intelligence e alle operazioni militari, ma anche rimanendo fedeli agli ideali della nostra Costituzione e restando un esempio per il mondo intero. E continueremo a lavorare con la comunità internazionale per dare al popolo siriano il futuro che merita: un futuro senza dittatura, senza terrore e senza paura». La guerra orchestrata dalla Nato in Siria ha già causato più di 130.000 morti, secondo i dati del Mi6, l’intelligence inglese. La beffa: «I carnefici attribuiscono la responsabilità al popolo che osa contrastarli e al suo presidente, Bashar el-Assad». Durante la guerra fredda, conclude Meyssan, la Cia «finanziava lo scrittore George Orwell affinché immaginasse la dittatura del futuro: Washington ha creduto così di svegliare le coscienze di fronte alla minaccia sovietica». In realtà, l’Urss «non ha mai assomigliato all’incubo di “1984”, intanto che gli Stati Uniti ne sono diventati l’incarnazione».Dopo la guerra in Afghanistan contro i sovietici, molti autori hanno messo in evidenza il ruolo degli Stati Uniti come finanziatori del terrorismo internazionale. Tuttavia, fino ad ora si trattava solo di azioni segrete, di cui finora Washington non si era assunta la paternità. Un passo decisivo è stato compiuto con la Siria: il Congresso ha approvato il finanziamento e l’armamento di due organizzazioni rappresentative di Al-Qaeda. Ciò che era in precedenza il segreto di Pulcinella ora è diventato la politica ufficiale del “Paese della libertà”: il terrorismo. In violazione delle risoluzioni 1267 e 1373 del Consiglio di sicurezza, Il Congresso degli Stati Uniti ha votato il finanziamento e l’armamento del “Fronte al-Nusra” e dell’“Emirato islamico dell’Iraq e del Levante”, due importanti organizzazioni di Al-Qa’ida e classificate come “terroriste” dalle Nazioni Unite. Questa decisione sarà valida fino al 30 settembre 2014.
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Ttip, fuorilegge Stati e diritti: vogliono ucciderci così
«Negoziato in segreto, questo progetto fortemente sostenuto dalle multinazionali permetterebbe loro di citare in giudizio gli Stati che non si piegano alle leggi del liberismo». Si chiama Trattato Transatlantico ed è l’uragano devastante che minaccia il futuro degli europei, o quel che ne resta. All’allarme – da più parti lanciato nei mesi scorsi – si associa ora anche Lori Wallach, direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch, prestigioso osservatorio indipendente di Washington. «Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per quanto inverosimile possa apparire, questo scenario non risale a ieri».Le fondamenta di questo trattato clamorosamente eversivo – il grande business che emana i propri diktat non più di nascosto, attraverso le lobby e i politici compiacenti, ma ormai alla luce del sole, e addirittura per legge – comparivano già a chiare lettere nel progetto di accordo multilaterale sugli investimenti (Mai) negoziato segretamente tra il 1995 e il 1997 dai 29 stati membri dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, come ricorda la Wallach in un intervento su “Le Monde Diplomatique”, il giornale che divulgò la notizia in extremis, sollevando un’ondata di proteste senza precedenti, fino a costringere i suoi promotori ad accantonare il progetto. Quindici anni più tardi, scrive oggi Lori Wallach sempre sul giornale francese, in un intervento ripreso da “Micromega”, la grande “trappola” fa il suo ritorno in pompa magna, sotto nuove sembianze.L’accordo di partenariato transatlantico (Ttip), negoziato a partire dal luglio 2013 tra Usa e Ue – accordo che dovrebbe concludersi entro due anni – non è che una versione aggiornata del Mai. Prevede infatti che «le legislazioni in vigore sulle due coste dell’Atlantico si pieghino alle regole del libero scambio» stabilite dalle corporations, «sotto pena di sanzioni commerciali per il paese trasgressore, o di una riparazione di diversi milioni di euro a favore dei querelanti». Se dovesse entrare in vigore, aggiunge Lori Wallach, «i privilegi delle multinazionali avrebbero forza di legge e legherebbero completamente le mani dei governanti». Impermeabile alle alternanze politiche e alle mobilitazioni popolari, il trattato «si applicherebbe per amore o per forza, poiché le sue disposizioni potrebbero essere emendate solo con il consenso unanime di tutti i paesi firmatari». Ciò riprodurrebbe in Europa «lo spirito e le modalità del suo modello asiatico», ovvero l’Accordo di Partenariato Transpacifico (Trans-pacific partnership, Tpp), attualmente in corso di adozione in 12 paesi dopo essere stato fortemente promosso dagli ambienti d’affari.«In virtù di numerosi accordi commerciali firmati da Washington, 400 milioni di dollari sono passati dalle tasche del contribuente a quelle delle multinazionali a causa del divieto di prodotti tossici, delle normative sull’utilizzo dell’acqua, del suolo o del legname». Sotto l’egida di questi stessi trattati, le procedure attualmente in corso – nelle questioni di interesse generale come i brevetti medici, la lotta all’inquinamento e le leggi sul clima e sulle energie fossili – fanno schizzare le richieste di danni e interessi a 14 miliardi di dollari. Il Ttip «aggraverebbe ulteriormente il peso di questa estorsione legalizzata». Basta osservare gli attori sul terreno: negli Usa sono presenti 3.300 aziende europee con 24.000 filiali, ciascuna delle quali può ritenere di avere buone ragioni per chiedere, un giorno o l’altro, riparazione per un “pregiudizio commerciale”. Dal canto loro, i paesi dell’Unione Europea si vedrebbero esposti a un rischio finanziario ancora più grande, sapendo che 14.400 compagnie statunitensi dispongono in Europa di una rete di 50.800 filiali. In totale, sono 75.000 le società che potrebbero gettarsi nella caccia ai tesori pubblici.Gli accordi-capestro per Atlantico e Pacifico «formerebbero un impero economico capace di dettare le proprie condizioni al di fuori delle sue frontiere: qualunque paese cercasse di tessere relazioni commerciali con gli Stati uniti e l’Unione Europea si troverebbe costretto ad adottare tali e quali le regole vigenti all’interno del loro mercato comune». E dato che i proponenti «mirano a liquidare interi compartimenti del settore non mercantile», i negoziati si svolgono a porte chiuse. Le delegazioni statunitensi contano più di 600 consulenti delegati dalle multinazionali, che dispongono di un accesso illimitato ai documenti preparatori. «Nulla deve sfuggire. Sono state date istruzioni di lasciare giornalisti e cittadini ai margini delle discussioni: essi saranno informati in tempo utile, alla firma del trattato, quando sarà troppo tardi per reagire». Vana la protesta della senatrice Elizabeth Warren, secondo cui «un accordo negoziato senza alcun esame democratico non dovrebbe mai essere firmato».L’imperiosa volontà di sottrarre il cantiere del trattato all’attenzione del pubblico si comprende facilmente, aggiunge la Lori Wallach: «Meglio prendere tempo prima di annunciare al paese gli effetti che esso produrrà a tutti i livelli: dal vertice dello Stato federale fino ai consigli municipali passando per i governatorati e le assemblee locali, gli eletti dovranno ridefinire da cima a fondo le loro politiche pubbliche per soddisfare gli appetiti del privato nei settori che in parte gli sfuggono ancora». Nulla sfugge alle fauci dei super-privatizzatori: sicurezza degli alimenti, norme sulla tossicità, assicurazione sanitaria, prezzo dei medicinali, libertà della rete, protezione della privacy, energia, cultura, diritti d’autore, risorse naturali, formazione professionale, strutture pubbliche, immigrazione. «Non c’è una sfera di interesse generale che non passerà sotto le forche caudine del libero scambio istituzionalizzato». Fine della democrazia: «L’azione politica degli eletti si limiterà a negoziare presso le aziende o i loro mandatari locali le briciole di sovranità che questi vorranno concedere loro».È già stipulato che i paesi firmatari assicureranno la «messa in conformità delle loro leggi, dei loro regolamenti e delle loro procedure» con le disposizioni del trattato. Non vi è dubbio che essi vigileranno scrupolosamente per onorare tale impegno. In caso contrario, potranno essere l’oggetto di denunce davanti a uno dei tribunali appositamente creati per arbitrare i litigi tra investitori e Stati, e dotati del potere di emettere sanzioni commerciali contro questi ultimi. «L’idea può sembrare inverosimile: si inscrive tuttavia nella filosofia dei trattati commerciali già in vigore». Lo scorso anno, l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), ha condannato gli Stati Uniti per le loro scatole di tonno etichettate “senza pericolo per i delfini”, per l’indicazione del paese d’origine sulle carni importate, e ancora per il divieto del tabacco aromatizzato alla caramella, dal momento che tali misure di tutela sono state considerate degli ostacoli al libero scambio. Il Wto ha inflitto anche all’Unione Europea delle penalità di diverse centinaia di milioni di euro per il suo rifiuto di importare Ogm come quelli della Monsanto, che finanziò l’elezione di Obama.«La novità introdotta dal Ttip e dal Tpp – osserva Lori Wallach – consiste nel permettere alle multinazionali di denunciare a loro nome un paese firmatario la cui politica avrebbe un effetto restrittivo sulla loro vitalità commerciale». Sotto un tale regime, «le aziende sarebbero in grado di opporsi alle politiche sanitarie, di protezione dell’ambiente e di regolamentazione della finanza», reclamando danni e interessi davanti a tribunali extragiudiziari. «Composte da tre avvocati d’affari, queste corti speciali rispondenti alle leggi della Banca Mondiale e dell’Onu «sarebbero abilitate a condannare il contribuente a pesanti riparazioni qualora la sua legislazione riducesse i “futuri profitti sperati” di una società». Questo sistema, che oppone le industrie agli Stati, sembrava essere stato cancellato dopo l’abbandono del Mai nel 1998, ma è stato «restaurato di soppiatto» nel corso degli anni. Di fatto, l’adozione del super-trattato riduce in schiavitù le istituzioni pubbliche, per le quali i cittadini votano, affidando ad esse il compito di governare il proprio paese. Con le mostruose norme in via di approvazione semi-clandestina, i poteri pubblici dovranno mettere mano al portafoglio se la loro legislazione ha per effetto la riduzione del valore di un investimento, anche quando questa stessa legislazione si applica alle aziende locali. In altre parole: la civiltà democratica finisce qui.«Negoziato in segreto, questo progetto fortemente sostenuto dalle multinazionali permetterebbe loro di citare in giudizio gli Stati che non si piegano alle leggi del liberismo». Si chiama Trattato Transatlantico ed è l’uragano devastante che minaccia il futuro degli europei, o quel che ne resta. All’allarme – da più parti lanciato nei mesi scorsi – si associa ora anche Lori Wallach, direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch, prestigioso osservatorio indipendente di Washington. «Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per quanto inverosimile possa apparire, questo scenario non risale a ieri».
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Siria, era tutto falso: chi ha mentito ora chieda scusa
Una colossale montatura, progettata a tavolino sulla base di prove false: l’esercito siriano, che la Nato stava per bombardare lo scorso settembre, non ha mai usato armi chimiche contro la popolazione civile di Damasco. Il gas Sarin che ha ucciso centinaia di siriani è stato usato dai “ribelli”, finanziati e protetti dall’Occidente. E’ stata dunque una gigantesca menzogna mediatica – esattamente come quella delle “armi di distruzione di massa” di Saddam – a trascinare il mondo sull’orlo di una guerra devastante. Lo affermano da Boston gli specialisti del Mit, il prestigioso Massachusetts Institute of Technology. «Adesso – dichiara Giulietto Chiesa – sappiamo, oltre ogni dubbio, che la Cia ha mentito e che il bombardamento di armi chimiche sulla periferia di Damasco, il 21 agosto 2013, fu compiuto dai mercenari che combattono contro Bashar al-Assad. Ci furono oltre mille morti, dissero». E non è stato un “tragico errore”. La verità è un’altra: «Mentivano, ma è il loro mestiere».Il nuovo rapporto del Mit, scrive Marinella Correggia in un post ripreso da “Megachip”, smentisce definitivamente Obama, che aveva accusato Assad dell’attacco chimico avvenuto a Ghouta, il 21 agosto 2013. A settembre si era arrivati a un passo dai bombardamenti sulla Siria, evitati solo in extremis grazie alla fermezza di Putin e alla drammatica sollecitudine di Papa Francesco. La prova regina: insieme a Theodore Postol, l’ex ispettore Onu sugli armamenti, Richard Lloyd, rivela che la gittata del «missile rudimentale» trovato dagli ispettori Onu «non poteva essere superiore ai due chilometri». E quindi, «sulla base della mappa delle forze in campo presentata dalla stessa Casa Bianca il 30 agosto, il punto di lancio si doveva per forza trovare nelle aree controllate dai “ribelli”». Contraddizioni e contraffazioni erano del resto subito emerse dalle centinaia di video scioccanti postati dagli anti-Assad che controllavano l’area. «Perfino il numero delle vittime è stranamente rimasto un mistero – le stime vanno da 300 a 1.400, il “dato” degli Usa, stimato sulla base dei corpi apparsi nei video».Come mai non è andata come con la provetta di Colin Powell che scatenò l’inferno in Iraq nel 2003? Il giornalista investigativo Seymour Hersh ha analizzato il caso sulla “London Review of Books”, citando fonti militari e dei servizi. Da mesi l’intelligence aveva avvertito la Casa Bianca che «anche i ribelli potevano avere e usare il gas Sarin». Ma Obama e i suoi, «senza portare nessuna prova, hanno cercato di vendere un bel sacco di bugie». Salvo poi cambiare linea all’ultimo minuto, quando è stato evidente che un’azione militare sarebbe stata sgradita ai più: clamoroso il “no” del Parlamento britannico, schiaccianti i sondaggi tra i cittadini americani, contrari all’intervento. Mesi fa, aggiunge Marinella Correggia, l’analista Sharmine Narwani ha studiato il rapporto degli ispettori Onu: «Alla fine non ci dice nulla su che cosa sia successo a Ghouta, né su come o su chi». Gli esperti militari notano «discrepanze fra le analisi dell’ambiente – niente tracce di Sarin a Muadamya ad esempio – e quelle sulle munizioni e sulle persone esaminate – positive al Sarin, forse portate lì da altri luoghi, dai ribelli che controllano l’area?».Del resto, ammettevano gli ispettori stessi che tutta l’ispezione era avvenuta – cinque giorni dopo il fatto – sotto il controllo dei ribelli e con possibili manipolazioni dei reperti e dei luoghi. Un funzionario dell’Onu, anonimo, puntava il dito sull’intelligence saudita, «ma nessuno osa dirlo». Lo ha detto anche, a suo tempo, il sito di opposizione “Syriatruth” (e anche il newsmagazine “Sibialiria”). Di recente il “New York Times” ha di fatto smentito – a pagina 8 e in poche righe – la propria famosa «analisi del vettore» fatta in settembre insieme a “Human Rights Watch”, analisi a suo tempo così utile a Obama e agli altri interventisti che, come dice Hersh, non avevano davvero altro per le mani. Eppure, protesta Giulietto Chiesa, «per settimane tutti i giornali e tutti i telegiornali italiani dissero – nei titoli, nei testi, nei commenti, come se fosse ovvio – che “il dittatore sanguinario Assad” gasava, massacrava i propri cittadini. Verifiche? Nessuna. Bastava copiare quello che diceva Obama».Adesso, scrive Chiesa sul “Fatto Quotidiano”, quei media dovrebbero essere obbligati a smentire, ma non smentiscono. «Dovrebbero licenziare i giornalisti bugiardi e incompetenti (unico licenziamento che noi saremmo disposti ad applaudire), ma non licenziano. I direttori di quei giornali e telegiornali dovrebbero apparire in video, o in prima pagina, scusandosi per i propri “errori” e orrori. Ma fanno finta di non ricordarsi niente». Eppure non fu cosa da poco. «Arrivammo a un passo dal bombardamento di Damasco da parte delle forze americane e della Nato, per punire il “gasatore”». Gli ipocriti ora tacciono, ed è un silenzio poco rassicurante: «Stiamo tutti molto attenti: una masnada di delinquenti (o di irresponsabili) ha in mano i principali canali di informazione dell’Occidente. Adesso abbiamo la prova che avremmo potuto essere trascinati in guerra da costoro. E sappiamo anche che è già avvenuto ripetutamente. Sono armati. Bisogna togliere loro le armi della menzogna di cui dispongono».Una colossale montatura, progettata a tavolino sulla base di prove false: l’esercito siriano, che la Nato stava per bombardare lo scorso settembre, non ha mai usato armi chimiche contro la popolazione civile di Damasco. Il gas Sarin che ha ucciso centinaia di siriani è stato usato dai “ribelli”, finanziati e protetti dall’Occidente. E’ stata dunque una gigantesca menzogna mediatica – esattamente come quella delle “armi di distruzione di massa” di Saddam – a trascinare il mondo sull’orlo di una guerra devastante. Lo affermano da Boston gli specialisti del Mit, il prestigioso Massachusetts Institute of Technology. «Adesso – dichiara Giulietto Chiesa – sappiamo, oltre ogni dubbio, che la Cia ha mentito e che il bombardamento di armi chimiche sulla periferia di Damasco, il 21 agosto 2013, fu compiuto dai mercenari che combattono contro Bashar al-Assad. Ci furono oltre mille morti, dissero». Ma on è stato un “tragico errore”. La verità è un’altra: «Mentivano», e in fondo «è il loro mestiere».
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Da Google a Twitter, l’élite digitale ha preso il potere
«Informazione, salute, politica, denaro, cultura, relazioni personali, tempo libero: nulla è più come prima». Oggi, infatti, è tutto on-line. Sono passati vent’anni da quando “Time Magazine”, nel 1983, nominò “Machine of The Year” il personal computer. Da quel momento, con la “rivoluzione digitale”, costruttori di computer e geniali inventori di software hanno cominciano a cambiarci la vita. Che dire poi dell’avvento di Internet: nel 1987 erano connessi in rete 10.000 computer, ma nel 1993 comparve Mosaic, il primo browser, e nel 1996 i computer connessi erano già 10 milioni; oggi sono 3 miliardi e a loro si aggiungono 3 miliardi di dispositivi mobili. Qualcosa è cambiato, non c’è dubbio, e la “rivoluzione” si è arricchita di protagonisti e comprimari: alla coppia iniziale hardware-software, riassume Glauco Benigni, si sono aggiunti i servizi di e-commerce e di e-banking, i motori di ricerca, i social network, i blog, i siti di informazione, le Tv online e i loro antagonisti, hacker e pirati.«C’è un pianeta parallelo ormai che vive e vegeta in un’altra dimensione, fatta di sterminate, inconcepibili sequenze di numeri che si spostano a velocità impressionanti, si trasformano e appaiono sui nostri schermi quali testi, foto, immagini in movimento e influiscono su ogni attività contemporanea». La “rivoluzione digitale” incede solenne, scrive Benigni nel suo blog in un post ripreso da “Megachip”. Il web «non perde tempo a condividere i valori e le visioni del passato» e in pratica «non rispetta nessuno, neanche i governi e gli ultimi Stati rimasti sovrani». Tutto viene travolto dalle “digital power élites” «costituite da 20enni, 30enni, solo raramente 40enni e 50enni che, giunti in parte dai garage e dalle cantine degli angoli più remoti del mondo e in parte da prestigiose università, oggi siedono nei consigli di amministrazione di enormi “conglomerates” e da lì “shape the history” (danno forma alla Storia del Futuro)».Il 2013 si era aperto con l’annuncio da parte di Pay Pal, il maggior gestore di transazioni economiche in rete, del proprio sistema mobile: per l’e-trading, un’accelerazione radicale, ovvero «la possibilità di spostare denaro con pochi click sul cellulare o sul tablet». In sintonia con questa tendenza, a febbraio Twitter ha siglato l’accordo con l’American Express: da questa accoppiata – social network e gestori di carte di credito – possono scaturire «scenari da fantaeconomia», osserva Benigni, dal momento che ormai «tre italiani su quattro comprano direttamente online», e nel 2016 il mercato italiano varrà 20 miliardi di euro (in Europa ne vale già 311). Il 2013, continua Benigni, è l’anno in cui i vecchi protagonisti della scena, i Ginger e Fred dell’hardware-software, soffrono di più. «Lord Microsoft accusa pesanti colpi al suo fatturato dovuti all’avvento dei nuovi sistemi operativi, primo fra tutti Android. E anche la vecchia lady Apple, per la prima volta in 10 anni, nonostante la cavalcata selvaggia dei suoi I-Phone e I-Pad, vede un calo degli utili». Tablet e smartphone dilagano dovunque: «Anche il sofferente mercato italiano, a maggio, registra un’impennata di vendite, nonostante la crisi». Il ruolo strategico dei social network condiziona motore di ricerca come “Yahoo!”, costretto a limitarsi al 15% delle ricerche mondiali. Come Google, ha bisogno di possedere un suo social network, e quindi tenta di perfezionare una partnership con i francesi di Daily Motion. Offerta rigettata, ma “Yahoo!” si consolerà presto comprando Tumbir, un social network con 108 milioni di blog, per 1,1 miliardi di dollari. E anche Daily Motion si consolerà, volgendo la propria attenzione al Giappone.Sul piano politico, intanto, si segnala l’altolà imposto a Mark Zuckerberg, patron di Facebook, costretto a pagare 62 milioni di dollari per risarcire broker e investitori travolti dal crollo del titolo in Borsa. Stop anche alla lobby dell’enfant prodige, messa in piedi per “infiltrare” il Congresso. Messaggio: ok al business, ma non alle scorribande politiche – a meno che non siano orchestrate dall’intelligence, che utilizza i social network per pilotare «piccole e medie rivolte di piazza, colpi di Stato, rimozioni di primi ministri e presidenti ormai bolliti e non più graditi al Washington Consensus». La Cina, intanto, stanca delle critiche sulla tutela dei diritti umani (e del pressing di Google) annuncia che non chiederà più l’accesso agli Internet Protocol alle autorità Usa, che ne hanno fatto “cosa nostra”, ma si rivolgerà direttamente all’Agenzia delle Nazioni Unite di Ginevra, che è l’istituzione suprema preposta al rilascio. «La decisione genera un grande imbarazzo diplomatico, ma tant’è: è solo uno degli atti di cyber-guerra fredda degli ultimi anni tra le due superpotenze».Il colpo di grazia alla credibilità di Facebook è il caso Datagate, scoppiato a giugno: tutti i dati sensibili degli utenti sono a disposizione della Nsa. I gestori del web sono in imbarazzo, Zuckerberg licenzia 520 dipendenti della sua controllata Zynga e in Borsa perde il 20%, crollando ai minimi, salvo poi recuperare utenti grazie all’uso dei dispositivi mobili. Per Benigni,la transizione dal Pc al laptop è un’altra “rivelazione” del 2013. Amazon fa sapere che i primi 10 prodotti venduti a livello mondiale «sono tutti devices digitali». E pertanto il boss Jeff Bezos, uno che a 49 anni fornisce 225 milioni di clienti e che in un giorno solo, secondo “Fortune”, riesce a guadagnare o a perdere anche 2 miliardi di dollari, annuncia che vuole mettersi in concorrenza con i grandi costruttori di tablet. E’ forte del successo del suo Kindle, che sta rivoluzionando tutta la tradizione di lettura libri, ma non basta. A Seul quelli della Samsung non lo faranno passare. Comincia a perdere anche Amazon.Infine, nella seconda parte del 2013, si apre un vero scontro politico tra l’élite digitale e i governi. Prima questione: i grandi motori di ricerca, Google in testa, devono pagare editori e case discografiche, perché «è grazie a loro che esiste qualcosa da ricercare». Secondo problema, più rilevante per i governi: «Questi furboni devono pagare le tasse come gli altri», perché «non è giusto che facciano profitti con la pubblicità sui territori europei e poi si inguattino i soldi nei paradisi fiscali». Google viene colta con le mani nel sacco: nel solo 2012 ha trasferito in Bermuda 8,8 miliardi di dollari. E dalle sue sedi europee, soprattutto quella irlandese, si è sottratta al fisco con grande destrezza. I lobbisti di Google si scatenano per correre ai ripari: coi francesi chiudono un pagamento di 60 milioni di dollari a favore di editori e case musicali, ma resta per aria la questione delle tasse – che non è ancora risolta.E mentre “volano gli stracci” quando si scopre che la Nsa ha spiato capi di Stato e di governo alleati, Twitter fa il botto a Wall Street, raddoppiando di valore in un solo giorno. «Anche le società digitali start up israeliane fanno il pieno di investimenti. Per un verso sembra di essere tornati ai bei tempi di Nasdaq prima della bolla del 1999. In realtà è Bernanke che pompa 85 miliardi di dollari al mese nel comparto industriale Usa e quindi ne gode anche la Borsa. In ogni caso la rivoluzione digitale smuove oceani di denaro, provocando tsunami e bonacce, sia nella economia degli scambi reali che nella finanza virtuale». Google oscilla attorno ai 300 miliardi di capitalizzazione e genera un fatturato di circa 50 miliardi l’anno. «E’ diventato uno Stato tra gli Stati», dice Benigni. «Quando ti chiede di accettare le sue Condizioni d’Uso per Google+ o YouTube sembra che proponga le nuove norme base di una futura Costituzione Planetaria». E la stessa YouTube, di proprietà di Google, ha annunciato di aver raggiunto l’incredibile cifra di 1 miliardo di utenti attivi al mese. Tutto questo, aspettando i cibernetici “Google Glasses” e le stampanti 3d che permettono a chiunque di riprodurre oggetti solidi, mentre si fa largo la grande promessa del crowdfunding (azionariato popolare per finanziare l’editoria indipendente) e l’ultima “invenzione”, la più scottante, cioè la moneta virtuale rappresentata dai Bitcoin.«Informazione, salute, politica, denaro, cultura, relazioni personali, tempo libero: nulla è più come prima». Oggi, infatti, è tutto on-line. Sono passati vent’anni da quando “Time Magazine”, nel 1983, nominò “Machine of The Year” il personal computer. Da quel momento, con la “rivoluzione digitale”, costruttori di computer e geniali inventori di software hanno cominciano a cambiarci la vita. Che dire poi dell’avvento di Internet: nel 1987 erano connessi in rete 10.000 computer, ma nel 1993 comparve Mosaic, il primo browser, e nel 1996 i computer connessi erano già 10 milioni; oggi sono 3 miliardi e a loro si aggiungono 3 miliardi di dispositivi mobili. Qualcosa è cambiato, non c’è dubbio, e la “rivoluzione” si è arricchita di protagonisti e comprimari: alla coppia iniziale hardware-software, riassume Glauco Benigni, si sono aggiunti i servizi di e-commerce e di e-banking, i motori di ricerca, i social network, i blog, i siti di informazione, le Tv online e i loro antagonisti, hacker e pirati.
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La grande truffa della storia, scritta dai vincitori
Alla fine bisogna sempre fare “i conti con la storia” e non sono mai conti facili: sono come gli esami che non finiscono mai. Quando Atene si liberò dei Trenta tiranni chiudendo uno dei periodi più foschi della sua storia (nel regolamento di conti che ne seguì Socrate fu messo a morte di fatto per collaborazionismo, altro che corrompere i giovani) fu promulgata una “legge bavaglio” che vietava di rivangare il passato, scriverne, rievocare. L’ordine regna ad Atene: il dibattito è chiuso – si stabilì – pena il collasso della società. Da noi, in Italia, non ci fu una legge, ma solo una canzone napoletana: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto… Chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdammoce ‘o ppassato”. Quello di Atene dopo la dittatura dei Trenta è il più clamoroso esempio che Paolo Mieli porta nel suo ultimo libro “I conti con la storia” (Rizzoli) sul ventaglio di soluzioni possibili quando finisce un conflitto che riverbera odio, dolore e desiderio di vendetta.Ma davvero l’oblio è il medicamento da somministrare dopo ogni conflitto? No, si può fare anche il contrario, se i vincitori sono generosi patrioti. L’esempio è quello degli Stati Uniti che, dopo la fine della guerra civile a metà degli anni Sessanta del XIX secolo (proprio mentre l’Italia si unificava malamente), scelsero di includere i vinti, elevandoli al rango di co-fondatori della nuova nazione. Questo fatto, da noi poco noto, mi colpì molto quando vivevo negli Stati Uniti perché non ti aspetti quella quantità di monumenti, nomi di strade, memorial, che trasformano i nemici di un tempo in patrioti degni di onore. Sarebbe come se in Italia, dopo l’8 settembre 1943, i vinti repubblichini fossero stati promossi al rango di “patrioti avversari” co-fondatori della nuova Repubblica.Sappiamo come andò nella realtà. E a questo proposito Mieli affronta il caso di Giampaolo Pansa, famoso giornalista “di sinistra” che provocò una rottura verticale nel conformismo italiano, guidato dalla legge dell’oblio e, peggio, dalla legge della memoria asimmetrica dei vincitori. Ho sempre pensato che se la guerra l’avesse vinta la Germania, avremmo avuto poi infiniti musei e celebrazioni della memoria dei genocidi di Stalin e dei suoi campi di concentramento, e la Shoah sarebbe stata ignorata, o trattata come un fatto marginale su cui alcuni storici anticonformisti avrebbero sollevato il velo mezzo secolo più tardi. Il tabù infranto da Pansa vieta ai non fascisti di parlare del sangue dei vinti durante la guerra, ma poi anche delle esecuzioni pianificate per classe sociale nel “triangolo della morte” emiliano.Le imprese della Volante Rossa e le stragi successive alla Liberazione, che non furono lo strascico di «comprensibili vendette contro gli aguzzini», ma il passaggio dalla guerra contro tedeschi e fascisti repubblichini alle procedure per instaurare un regime comunista manu militari: ci volle il freddo realismo di Stalin e del suo impassibile portavoce Palmiro Togliatti per bloccare l’ondata insurrezionale, in nome del nuovo ordine nato a Yalta. La convenzione impose che di quei fatti nessuno dovesse più parlare e una lastra di piombo ateniese asfaltò ogni memoria e ogni verità. Nulla nelle scuole, nulla in tv. Degli effetti di quell’oblio sono stato io stesso testimone e vittima. Quando fui eletto nel giugno 2002 presidente della Commissione d’inchiesta sugli agenti russi in Italia (non soltanto le banali e oneste spie, ma anche agenti d’influenza) ebbi la candida idea di proporre ai post comunisti che occupavano la metà del nostro parlamentino un patto d’onore: sediamoci, dissi, intorno a un tavolo e lavoriamo insieme per voltare finalmente pagina, affrontando tutti i temi roventi del passato (la Commissione Mitrokhin era stata chiesta per primo da D’Alema quando la notizia di uno schedario russo reso pubblico fece impazzire la sinistra per le accuse reciproche di “collaborazionismo” sovietico).La condizione che pongo, aggiunsi, è che prima dobbiamo leggere tutti insieme e con accuratezza quella pagina, e poi voltarla. Ma avevo avuto torto: nessuno, da quella parte, aveva intenzione di condividere alcuna verità e di restituirla al Paese. La risposta che ebbi fu sprezzante: venne lanciata una campagna diffamatoria preventiva accusandomi di voler usare la Commissione «come una clava». La parola d’ordine lanciata da D’Alema sulla “clava” diventò una goccia cinese. I giornali russi fecero eco scatenando una campagna di derisione e di falsità contro la commissione del Parlamento italiano e i giornali si schierarono dalla parte della legge-bavaglio, certificando che io non potevo che essere un provocatore. Al mio informatore segreto Alexander “Sasha” Litvinenko fu inflitto il supplizio di Socrate con una pozione letale di moderna cicuta, l’isotopo Polonio 210. La legge di Atene dopo la cacciata dei Trenta era e resta in vigore. Per fortuna, Scotland Yard non ha mollato l’osso quanto a Litvinenko, ma questa è un’altra storia.E dunque, seguendo la linea de “I conti con la storia”, viene da chiedersi chi e che cosa scriverà fra un secolo, o fra cinquanta anni, sull’Italia di oggi, sui veleni della guerra civile a bassa intensità intorno a Berlusconi e all’antiberlusconismo. Ci penseranno gli storici? Secondo Mieli è possibile: la pratica dovrebbe essere gestita dagli storici nei tempi e modi necessari per spurgare le incandescenze emotive ed ideologiche a causa delle quali la storia è usata proprio come “una clava” dalla politica. Come dire che a un certo punto bisogna saper dire basta. L’Italia più di ogni altro Paese mostra quanto indigesto sia il proprio passato anche recente, su cui gli storici professionisti in fondo non possono granché: è un dato di fatto, ricorda, che la sua unità sia stata costruita su molte menzogne. I cittadini degli Stati preunitari dovettero rinnegare le loro identità precedenti raccontandosi a suon di urla e marcette militari di essere stati tutti da sempre ardenti patrioti italiani.Quando arrivò il momento, tutti diventarono entusiasti reduci della Grande Guerra, compresi i milioni che l’avevano avversata nelle piazze. Poi arrivò il momento in cui tutti si dichiararono fascisti da sempre e, subito dopo, antifascisti da sempre, quando si assistette all’improvvisa comparsa in ogni famiglia di indomabili zii e nonni anarchici, meglio se ferrovieri, che con eroica ostinazione avevano rifiutato la tessera del fascio. Nello stesso momento milioni di italiani dichiararono di aver salvato uno o più ebrei, che non erano più di cinquantamila. Alla caduta della Prima Repubblica non si trovava più un socialista craxiano o un democristiano del Caf a pagarlo oro: il camaleontismo opportunista continuerà ad essere l’elemento distintivo del carattere degli italiani, come aveva notato Leopardi. Quanti sono oggi i forconisti “da sempre”? E quelli che «mi ha telefonato Matteo» dopo anni in cui «mi ha telefonato Massimo» e l’ormai lontano «mi ha chiamato Bettino»?Si può davvero scrivere la storia con gente come questa fra i piedi? Mieli ne dubita. Tuttavia può capitare persino che gli storici, se possono alternare sulla testa il cappello dell’opinion leader oltre quello dello storico, abbiano l’opportunità di modificare il corso della storia come fece Mieli quando, direttore del “Corriere della Sera”, decise di pubblicare nel 1994 il famoso avviso di garanzia che provocò il ribaltone e la caduta del primo governo Berlusconi da cui fu generato il governo Dini, la conseguente sconfitta del centrodestra in Italia del 1996 costretto a una lunga apnea fino al 2001. Cito l’evento perché ho ragionevoli dubbi sulla neutralità degli storici. A complicare le cose ci si mettono pure figure retoriche e organismi reali che agiscono e interagiscono sui fatti come il “politicamente corretto”. L’ipocrisia ha poi perfezionato le sue armi con le agenzie delle Nazioni Unite e con i Tribunali internazionali a baricentro non occidentale che hanno come target finale Israele un po’ come la Procura di Milano punta a Berlusconi.Il “politicamente corretto” impedisce per esempio di dire che la tratta degli schiavi africani venduti, trasferiti in catene in America, dal Brasile ai Caraibi, dalla Martinica alle colonie britanniche, non fu fatta dai bianchi europei (mai dagli americani) ma dagli arabi che si servivano di tribù schiaviste di neri africani in un continente che praticava lo schiavismo da oltre mezzo millennio prima che arrivassero i bianchi a comperare insieme agli sceicchi. Ebbene, oggi ci sono Stati africani le cui leggi spediscono in galera chi osa dubitare che lo schiavismo africano sia stato un crimine dei bianchi colonialisti. Il libro di Mieli è una straordinaria e quasi infinita serie di narrazioni certificate autentiche e paradossali d’ipocrisie. È un libro fortemente anticonformista e sconvolgente.Se Calvino fa ardere vivo lo studioso della circolazione sanguigna Michele Serveto in combutta con l’Inquisizione spagnola (fascine verdi per il rogo e un collare di paglia cosparso di zolfo), che dire del grande cancelliere tedesco Bismarck (ammiratore del Risorgimento italiano) che ordinò di impiccare tutti gli abitanti maschi (compresi vecchi e bambini) della città di Ablis dove i francesi avevano catturato sessanta soldati tedeschi? L’ordine fu immediatamente eseguito senza che nessun avversario di Bismarck avesse nulla da ridire. La storia che Mieli viviseziona è quasi sempre falsificata dai vincitori: quando Hitler invase la Polonia nel 1939, il suo alleato e fervido ammiratore Stalin invase secondo gli accordi russo-tedeschi la Polonia da Est. L’Armata Rossa compì ogni sorta di violenza e crimini, senza contare lo scandalo della consegna reciproca fra svastica e falce e martello di rifugiati ebrei contro rifugiati anticomunisti sul ponte di Brest-Litovsk. Il risultato è che dopo la fine della guerra si conoscono solo i crimini tedeschi, non quelli sovietici.E ancora sui fatti di casa nostra: Mieli sostiene che i leghisti non hanno tutti i torti quando dicono che l’unità fu fatta in un modo che non aveva nulla a che fare con gli ideali risorgimentali che prevedevano un’Italia del Nord. Invece le cose andarono diversamente: gli inglesi mollarono il re di Napoli, la mafia e la camorra scesero in campo con Garibaldi e il re sabaudo, così come sarebbero scese in campo con gli americani che risalivano la penisola dalla Sicilia. Per due volte tenuti a battesimo dalla mafia, quale sorpresa di fronte a uno Stato in parte geneticamente mafioso? I conti con la storia non finiranno mai, è vero, ma bisogna pur cominciare a farli se vogliamo dare una mano non solo agli storici ma anche ai cittadini futuri per aiutarli, aiutarci, a guarire dalla genetica ipocrisia.(Paolo Guzzanti, “Dall’Unità a Berlusconi, la storia è un’arma politica”, da “Il Giornale” del 21 dicembre 2013. Il libro: Paolo Mieli, “I conti con la storia”, Rizzoli, 422 pagine, euro 19,50).Alla fine bisogna sempre fare “i conti con la storia” e non sono mai conti facili: sono come gli esami che non finiscono mai. Quando Atene si liberò dei Trenta tiranni chiudendo uno dei periodi più foschi della sua storia (nel regolamento di conti che ne seguì Socrate fu messo a morte di fatto per collaborazionismo, altro che corrompere i giovani) fu promulgata una “legge bavaglio” che vietava di rivangare il passato, scriverne, rievocare. L’ordine regna ad Atene: il dibattito è chiuso – si stabilì – pena il collasso della società. Da noi, in Italia, non ci fu una legge, ma solo una canzone napoletana: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto… Chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdammoce ‘o ppassato”. Quello di Atene dopo la dittatura dei Trenta è il più clamoroso esempio che Paolo Mieli porta nel suo ultimo libro “I conti con la storia” (Rizzoli) sul ventaglio di soluzioni possibili quando finisce un conflitto che riverbera odio, dolore e desiderio di vendetta.
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Srm, scudo solare chimico: l’alibi per la guerra climatica
«Se partiamo dal presupposto che nel 2025 la nostra strategia di sicurezza nazionale includerà la modificazione del clima, il suo uso nella nostra strategia militare nazionale sarà la naturale conseguenza». Modificare il clima: era l’orizzonte a cui già nel lontano 1996 puntava la Air University, una dépendance dell’aviazione Usa con sede nella base aerea di Maxwell, in Alabama. A quanto pare, avvertono Giulietto Chiesa e Paolo De Santis citando fonti delle Nazioni Unite, la “conquista” del clima è già cominciata: per l’Ipcc, il panel scientifico dell’Onu sul clima, la creazione di uno “scudo termico” per proteggere la Terra dall’irraggiamento del sole sarebbe l’unica possibilità di scongiurare la catastrofe del surriscaldamento globale. Lavori già in corso da tempo? «Nessuno di noi ne deve sapere nulla, perché evidentemente la missione è stata interamente delegata ai militari». E mentre i “debunker” tentano di ridicolizzare chi parla di “scie chimiche”, il Palazzo di Vetro squarcia un velo sulle nuove frontiere della geo-ingegneria. E ammette: nessuno è in grado di valutarne gli “effetti collaterali” sul pianeta.