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Trump disperato bombarda Assad, ma le vittime siamo noi
Cinquantanove missili Tomahawk contro la base aerea siriana da cui l’Occidente sostiene, senza alcuna prova, che sia partito l’attacco col gas Sarin che il 4 aprile ha ucciso un’ottantina di civili nella città di Idlib. Ancora una volta, annota Giampiero Venturi sul newmagazine “Difesa Online”, l’unica fonte è lo screditatissimo “Osservatorio siriano per i diritti umani”, noto per sfornare “fake news” da un minuscolo ufficio di Coventry, nel Regno Unito, gestito da una sola persona, in contatto con l’intelligence occidentale che, da ormai cinque anni, sta manipolando forze sul terreno siriano per tentare di rovesciare il governo di Bashar Assad. Sulla vicenda dell’attacco con i gas pesa il terribile precedente del 2013, quando Obama fu a un passo dal bombardamento, dopo aver incolpato da Siria per l’attacco chimico a Ghouta, alla periferia di Damasco, che poi l’Onu chiarì che fu scatenato dai miliziani ostili ad Assad. Stavolta, la Casa Bianca non ha atteso indagini e (dopo aver avvertito i russi) il 7 aprile ha bombardato la base di Ash Shayrat, uccidendo militari siriani. Autorevoli analisti americani, come Paul Craig Roberts, già da tempo avvertono che Donald Trump sarebbe caduto nelle mani dell’establishment neocon, cresciuto con Bush ma rimasto saldamente al potere con Obama e la Clinton: è il partito della guerra, che vive di armamenti e maxi-finanziamenti all’intelligence, per i quali è necessario un “nemico” che giustifichi la spesa.La mossa americana sembra originata dalla lucida disperazione di Trump, completamente isolato sul piano della politica interna: demonizzato dalla potentissima lobby Obama-Clinton, incalzato dalle false notizie sui presunti rapporti privilegiati con Mosca e costretto persino a rimangiarsi la solenne promessa di smontare la riforma sanitaria Obamacare. Trump ha l’aria di essere in un vicolo cieco: per cercare di tenere a bada il vero potere, non esita a ricorrere ai missili: non più solo una minaccia, ma ormai un fatto, destinato a intimidire anche la Corea del Nord e l’Iran, paese impegnato – insieme ai russi e ai libanesi di Hezbollah – a sostenere anche militarmente il regime di Assad, contro il quale cospirano incessantemente la Turchia, Israele, gli Emirati come il Qatar e l’Arabia Saudita, con azioni clandestine e illegali – armamento ai miliziani, protezione tattica e logistica – sotto la supervisione della Nato, che ha garantito la supremazia dell’Isis fino all’intervento dell’aviazione russa disposto da Vladimir Putin. L’attacco coi gas, destinato a rovinare Assad preparando il blitz missilistico – secondo lo stesso Venturi aveva due obbiettivi: rimuovere dall’opinione pubblica internazionale l’impatto del devastante attentato terroristico inferto alla Russia a San Pietroburgo e seppellire l’immagine del governo Assad, che – con l’aiuto di Mosca – in Siria sta ormai vincendo la guerra contro i terroristi armati dall’Occidente.Un conferma indiretta dell’entità reale del pericolo viene dai media mainstream, che continuano – in coro – a raccontare il contrario della verità. Nessuno dei grandi giornali e dei maggiori network televisivi ricostruisce l’origine della crisi siriana, emblematizzata da una foto eloquente: quella del senatore John McCain, inviato speciale di Obama, ripreso in Siria in compagnia del “califfo” Abu Bakr Al-Baghdadi, leader dell’Isis, stranamente scarcerato dal centro di detenzione di Camp Bucca, in Iraq, nel 2009. Da allora, il progetto Isis – perfettamente funzionale al “partito della guerra” – ha infettato l’intero Medio Oriente, fino alla Libia, da cui partirono armi chimiche destinate alla “resistenza” siriana per ordine di Hillary Clinton. Contro questo establishment “nero”, Donald Trump giocò una parte importante della sua campagna elettorale: più che Assad mi preoccupa l’Isis, disse. Ma oggi i missili li ha scagliati contro Assad, non contro l’Isis, ben sapendo che non sono gli amici di Assad, ma quelli dell’Isis, a minacciare il suo futuro alla Casa Bianca.A questi “amici”, Trump ha gettato un osso decisivo, il generale Michael Flynn, considerato una “colomba”, fautore della distensione con la Russia, sacrificato per tentare di placare il “partito della guerra”. Errore fatale, secondo Craig Roberts: è un po’ come illudersi di potersi sbarazzare della mafia pagando il pizzo; se cedi anche una sola volta, vieni percepito come “debole” e verrai assediato fino alla capitolazione. In alternativa, sempre secondo questo ragionamento, Trump potrebbe “salvarsi” nel modo più semplice: allineandosi completamente ai neocon e preparandosi ad eseguire i loro diktat. Per esempio, con una grandinata di missili Tomahawk sulla testa dei siriani, sapendo benissimo che non c’è nessuna prova che siano stati loro a colpire la popolazione di Idlib con i gas. Gli osservatori indipendenti più scettici su Trump l’avevano detto quasi subito: il neopresidente non ha la stoffa per difendersi dal nemico interno, in un sistema che appare irrimediabilmente inquinato. Lo dimostra l’esito delle primarie dei democratici: aveva vinto Sanders, ma a è stato tolto di mezzo ricorrendo a brogli. Il “partito della guerra” puntava su Hillary Clinton. Ha perso, ma non sa perdere. E così “costringe” alla guerra Trump. Oggi contro Assad, domani contro Putin, cioè l’uomo che ha demolito l’Isis in Siria, infliggendo una sconfitta bruciante al “partito della guerra”. Siamo tutti in pericolo? A quanto pare, sì: dai media è letteralmente scomparsa la verità, che – come è noto – è la prima vittima di qualsiasi guerra. La cattiva notizia è che quella in corso, fondata sulla menzogna sistematica, è una guerra innanzitutto contro di noi.Cinquantanove missili Tomahawk contro la base aerea siriana da cui l’Occidente sostiene, senza alcuna prova, che sia partito l’attacco col gas Sarin che il 4 aprile ha ucciso un’ottantina di civili nella città di Idlib. Ancora una volta, annota Giampiero Venturi sul newmagazine “Difesa Online”, l’unica fonte è lo screditatissimo “Osservatorio siriano per i diritti umani”, noto per sfornare “fake news” da un minuscolo ufficio di Coventry, nel Regno Unito, gestito da una sola persona, in contatto con l’intelligence occidentale che, da ormai cinque anni, sta manipolando forze sul terreno siriano per tentare di rovesciare il governo di Bashar Assad. Sulla vicenda dell’attacco con i gas pesa il terribile precedente del 2013, quando Obama fu a un passo dal bombardamento, dopo aver incolpato da Siria per l’attacco chimico a Ghouta, alla periferia di Damasco, che poi l’Onu chiarì che fu scatenato dai miliziani ostili ad Assad. Stavolta, la Casa Bianca non ha atteso indagini e (dopo aver avvertito i russi) il 7 aprile ha bombardato la base di Ash Shayrat, uccidendo militari siriani. Autorevoli analisti americani, come Paul Craig Roberts, già da tempo avvertono che Donald Trump sarebbe caduto nelle mani dell’establishment neocon, cresciuto con Bush ma rimasto saldamente al potere con Obama e la Clinton: è il partito della guerra, che vive di armamenti e maxi-finanziamenti all’intelligence, per i quali è necessario un “nemico” che giustifichi la spesa.
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Web, 10 milioni di voci libere: ecco perché il Ddl Gambaro
Se carico filmati erotici su YouTube mi chiudono l’account, se li carico su YouPorn posso fare milioni di visionamenti. Se pubblicizzo medicine che possono avere effetti dannosi è Ok, se informo sulla relazione tra vaccini e casi di autismo fuorvio l’opinione pubblica. Se insulto il Capo dello Stato su una pagina Facebook che ho aperto in Italia rischio sanzioni e galera, se lo faccio da una pagina aperta in un’altra nazione deregolata non mi succede niente. C’è qualcosa che non va. Gli estensori del Ddl Gambaro non se ne rendono conto? Strano! Nessuno può ancora pensare che noi siamo qui a discutere questioni risolvibili con leggi nazionali. Credo che siate d’accordo. La libertà e il controllo nel web, le norme che dovrebbero regolarlo, i grandi soggetti che lo hanno costruito e lo animano… e così via, sono a ogni effetto questioni e soggetti globali, quindi è meglio alzare il punto di vista dell’osservatore, il più in alto possibile, per cercare di avere una visione d’insieme di un fenomeno molto esteso, molto dinamico e complesso.Alle Nazioni Unite, per esempio, sin dal 1995 si pose la questione delle norme nel web. Dieci anni dopo – a seguito del debutto di YouTube, nel 2005, e poi di Facebook – una delle agenzie Onu, la International Telecommunications Union di Ginevra, cominciò a convocare tutti i soggetti interessati agli Igf, “Forum sulla Governance di Internet”. Proprio ieri si sono avviate le prime consultazioni dell’Igf 2017 a Ginevra e i lavori, in questo momento, sono in corso. Quali sono le aspettative e i risultati dopo 12 anni di incontri? Scarsi. Perché? Per tanti motivi. La materia è in costante progresso, coinvolge centinaia di trattati internazionali e contrappone gli interessi dei governi (e dei militari) a quelli dei mercanti e a quelli dei popoli. I mercanti non amano il metodo di voto dell’Onu dominato dalla presenza dei governi, quindi rallentano e impediscono le decisioni in nome della libertà di commercio e della frenetica innovazione tecnologica, e hanno fatto adottare all’assemblea il sistema multi stake holder. Questo modello di misurazione delle volontà riconosce agli stake holders, ovvero i portatori di interessi, pari peso e dignità.Chi sono gli stake holders? Governi, aziende (sia commerciali che tecnologiche), accademie e la società civile. Quindi, quando si tratta di decidere rispetto alla governance di Internet, un governo ha pari peso e dignità di una multinazionale. È così. Al tavolo è chiamata ad esprimersi anche la società civile, ma le sue rappresentanze non hanno fondi e spesso sono organizzate in grandi sigle internazionali che vivono ufficialmente di donazioni, ma in realtà sono interlocutori senza voce mossi da lobbisti occulti. Risultato? A parte qualche modifica dell’Icann – l’anagrafe planetaria del web, voluta dal ministero del commercio Usa, che attribuisce nomi e domini – ciò che si è ottenuto in 12 anni è stato solo il mantenimento e l’esaltazione del dialogo. Un risultato apprezzabile – dicono i liberisti – che ha consentito alla Rete di crescere, espandersi e di non spezzarzi in “N” tronconi: una rete cinese, una araba, una occidentale e così via. È così! Lo stato del dibattito è molto alto e vivace, durante gli Igf, ma non si arriva a nulla se non a fotografare ciò che i giganti del web modificano incessantemente a loro vantaggio. In sostanza la Rete (di tutti) è nelle salde mani di pochi, cosiddetti Over the Top, che ne fanno ciò che vogliono. È strano che i firmatari del Ddl Gambaro non lo sappiano.Passiamo all’Europa. Nel nostro continente le istituzioni preposte alla creazione di regole per il web sono apparse molto distratte, che strano!, e hanno tollerato l’insediamento dei giganti in territori fiscalmente agevolati e deregolati, quali l’Irlanda e il Lussemburgo, fino ad accorgersi recentemente che: 1) i giganti Over the Top, guarda caso, tutti originati in Usa, non pagano in Europa le tasse che dovrebbero. Secondo “Forbes”, nel 2016, si tratterebbe di cifre comprese tra 50 e 70 miliardi di euro/anno sottratti al fisco da quegli stessi soggetti ai quali qualcuno vuole affidare il controllo delle “fake news” in Rete. Strano anche questo. 2) L’Europa si è accorta anche che la Rete può essere la sede di attività losche e violente. In qualche anno si è passati dall’indignazione per gli schiaffoni in classe filmati e caricati su YouTube, alla scoperta del traffico di organi nel cosiddetto deep web e dei siti che organizzano stragi. A quel punto le istituzioni europee hanno cercato di correre ai ripari, ma non risulta che ci sia alle viste un testo di norme condivisibile da tutti gli Stati membri, pertanto ogni governo locale sta agendo in modo autonomo e diverso dagli altri.La vicenda del Ddl Gambaro si inscrive in questa scena. Poco più di un mese fa, il 25 gennaio 2017, l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, un organismo internazionale privo di poteri e che non ha niente a che fare con il Consiglio Europeo, ha approvato il rapporto “Media online e giornalismo: sfide e responsabilità”, presentato dalla senatrice Gambaro. Obiettivo: promuovere la disciplina dell’informazione online come avviene per quella offline, usando gli strumenti già a disposizione negli ordinamenti giuridici nazionali… e consentendo ai giganti del web l’uso di selettori software (algoritmi) per «rimuovere i contenuti falsi, tendenziosi, pedopornografici o violenti». La senatrice è tornata a casa con questa missione e che ha fatto? Il 7 febbraio ha presentato un Ddl al Senato che: ha molto poco a che vedere con il suo rapporto presentato al Consiglio d’Europa, in cui si disegnava una scena ben più ampia e complessa; sembra scritto da sacerdoti della Verità di Stato; utilizza gli ordinamenti giuridici nazionali soprattutto in chiave di repressione locale; adombra infine un sogno: la soluzione è il rilancio di un immenso Ordine dei giornalisti, disclipinati da una legge di 60 anni fa!Il ruolo e le responsabilità dei giganti del web non vengono mai menzionati. Strano! Eppure, lo sanno tutti, i maggiori players della vicenda Internet sono un drappello di corporations targate Usa. Tra queste: Google-YouTube (confluita in Alphabet), Facebook, Amazon, e-Bay, Yahoo, PayPal. Ognuno di loro, è stato ampiamente dimostrato, chi più chi meno, lavora alacremente a raccogliere Big Data e li passa poi ai pubblicitari e ai servizi segreti. Addirittura, per legge (il Patriot Act), li passa alla Nsa statunitense. Queste sono le loro principali ragion d’essere. Il loro ruolo, dopo una stagione di seduzione, di promesse di libertà di espressione e di uguaglianza e dopo la nascita dei social network, si è rivelato per quello che è: sono megastrutture “pompate nelle Borse”, grandi evasori fiscali, al servizio dei mercanti globali, alleate con alcuni governi e in guerra con altri. Il loro fine ultimo è concedere visibilità in cambio della gestione e del controllo della privacy, degli spazi pubblicitari e dell’e-commerce. In pochi anni hanno mutato la vita sociale, la produzione della cultura, il commercio, e hanno creato stili di vita sempre più uniformi.Grazie all’immenso fenomeno dei “contenuti generati dagli utenti”, ai sistemi di cross selling in rete, all’impero delle carte di credito, l’alleanza Ott–mercanti, a partire dal 2009 ha prodotto enormi risultati. Tra questi è rilevante l’avvenuta sudditanza dei media mainstream al potere, che era già in latenza ma si è conclamata, grazie alla sottrazione di risorse pubblicitarie che sono state destinate al web. Oggi nessun editore è ormai più indipendente, tutti vengono usati a sostegno della visione di potere… e forse questo è anche il motivo per cui il Ddl Gambaro li esclude dalle sanzioni? E arriviamo ai “contenuti generati dagli utenti”, i Cgu (blogs, pagine Fb, canali Yt). Credo sia la prima volta che vengono menzionati con tale dicitura – all’articolo 8 – in un Ddl. Le sanzioni e le pene sono pensate soprattutto per loro. Questo imponente fenomeno che coinvolge nel mondo 2 miliardi di utenti solo su Fb e Yt, riguarda in Italia 50 milioni di accounts. E di questi il 10% è considerabile “antagonista”. Il fenomeno non è mai stato analizzato a fondo da giuristi, economisti e politici. I Cgu hanno scardinato negli ultimi 12 anni alla radice la comunicazione di massa e quindi anche la politica e il costume. Ma ora si stanno rivelando un boomerang. Perché?Avendo ridotto di molto l’autorevolezza dei media tradizionali ed essendosi sostituiti ad essi in occasioni altamente strategiche grazie a testimonianze scritte e filmate imprevedibili e non controllabili, i Cgu hanno consentito la misurazione di una mente collettiva tumultuosa, non conformista, populista e non riconducibile alla divisione classica destra/sinistra. Però molto reale, attiva e determinante per l’organizzazione del consenso non solo elettorale (vedi Brexit, No alla riforma costituzionale, Trump e il dibattito su Europa matrigna, euro, signoraggio bancario, debito predatorio). Quindi il potere cerca di correre ai ripari. La domanda è: perchè non c’è stato il setaccio alle origini? Perchè non ci doveva essere. Almeno nella fase in cui gli Ott hanno usato i Cgu per raggiungere alcuni obiettivi prima impensabili, tra i quali la sudditanza generalizzata. Per diventare sudditi e partecipare all’orgia digitale bastava e basta un semplice “I accept”… “Io accetto le norme di chi mi ospita”. Oggi, però, su pressione di alcuni governi e potentati, gli Ott stanno cominciando a “setacciare”… tanto, gli obiettivi delle origini sono per loro stati raggiunti, i Big Data sono stati accumulati, la pubblicità ingannevole dilaga a costi minimi per gli inserzionisti; il mainstream è asservito, centinaia di milioni di umani vengono veicolati all’acquisto di merci e servizi di massa, globalizzati e inquinanti. I mercanti hanno vinto, ora “selezionano” le truppe digitali che appaiono non ossequiose.Accenniamo ora all’evanescente concetto di “fake news”, bufale, notizie vero/falso… questo tipo di comunicazione esiste da sempre (dai tempi di Nerone, dai tempi di Giordano Bruno). La novità è che la rete è un enorme amplificatore di tutto, quindi anche di “fake news”, le sue caratteristiche di velocità e ubiquità e possibile anonimità, la rendono una dimensione in cui il vero e il falso possono coincidere nello stesso spazio tempo. Questo determina aspetti politici e sociali inaspettati. Quando il potere planetario, organizzato nelle sue diverse aree di influenza, nonostante abbia sottratto sovranità ai governi locali, si accorge che i media al suo servizio non sono in grado di raggiungere un’organizzazione del consenso per esso soddisfacente; quando si accorge che esistono sacche quali Wikileaks e Anonimous e milioni di Cgu che sono incontrollabili e destabilizzanti, il potere planetario si innervosisce e tira le orecchie ai governi locali lanciando una semplice parola d’ordine, “meno libertà e più controllo… datevi da fare, ognuno sul proprio territorio”. E così si mette in moto la macchina del controllo e talvolta, come nel caso del Ddl Gambaro, va fuori strada e diventa la macchina della repressione.I firmatari tentano di addolcire la pillola con le proposte di alfabetizzazione e promozione dell’uso critico dei media online. Bene! Oltre che nelle scuole secondarie (se mai la faranno) la facessero in prima serata sulle reti Rai, visto che tanto paghiamo sempre noi. Ma diciamoci una verità: perchè il Ddl Gambaro non menziona e reprime le bufale diffuse dalla pubblicità e dai media mainstream? Perchè non controlla e reprime le migliaia di “fake news” che ogni giorno circolano in Rete mascherate da suggerimenti per fare affari nelle Borse? O addirittura per salvare i risparmi di una vita, mettendoli in realtà a rischio? Queste sì che sono fake news destabilizzanti. Eccome! Noi però non possiamo dimenticare che «la democrazia punisce i fatti compiuti mentre è la dittatura che punisce le opinioni».(Glauco Benigni, “I grandi mercanti del web ora vogliono setacciare gli utenti”, da “Megachip” del 3 marzo 2017. Benigni è presidente di Wac, Web Activists Community).Se carico filmati erotici su YouTube mi chiudono l’account, se li carico su YouPorn posso fare milioni di visionamenti. Se pubblicizzo medicine che possono avere effetti dannosi è Ok, se informo sulla relazione tra vaccini e casi di autismo fuorvio l’opinione pubblica. Se insulto il Capo dello Stato su una pagina Facebook che ho aperto in Italia rischio sanzioni e galera, se lo faccio da una pagina aperta in un’altra nazione deregolata non mi succede niente. C’è qualcosa che non va. Gli estensori del Ddl Gambaro non se ne rendono conto? Strano! Nessuno può ancora pensare che noi siamo qui a discutere questioni risolvibili con leggi nazionali. Credo che siate d’accordo. La libertà e il controllo nel web, le norme che dovrebbero regolarlo, i grandi soggetti che lo hanno costruito e lo animano… e così via, sono a ogni effetto questioni e soggetti globali, quindi è meglio alzare il punto di vista dell’osservatore, il più in alto possibile, per cercare di avere una visione d’insieme di un fenomeno molto esteso, molto dinamico e complesso.
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Rottamati la Merkel e Draghi, addio all’euro entro 18 mesi
L’Europa due velocità? E’ la carta della disperazione prima del crollo dell’euro, moneta alla quale Ted Malloch, portavoce Usa in Ue, non concede più di 18 mesi di vita. La Merkel e Draghi? Sono gli ultimi due baluardi del vecchio establishment. E soccomberanno, stritolati da una tenaglia: da una parte Trump, dall’altra gli euroscettici alle urne nei prossimi mesi. Lo sostiene Federico Dezzani, osservando il fatale deteriorarsi del quadro generale in Europa: «Senza la morfina iniettata dalla Bce, i mercati finanziari sarebbero in preda a convulsioni peggiori del 2012». L’amministrazione Trump si sarebbe saldata con le forze populiste europee, il “Gruppo di Coblenza”. E anche se da Washington piovono duri attacchi contro la Germania e i suoi saldi commerciali record, «persino i nazionalisti tedeschi, i falchi della Cdu-Csu, viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda della Casa Bianca». Ormai, «solo due superstiti del vecchio establishment liberal, Angela Merkel e Mario Draghi, oppongono ancora resistenza al processo di euro-dissoluzione», ma «difficilmente riusciranno però a salvarsi».La situazione è critica: capitali congelati, denaro in fuga verso “l’area marco”, banche del Sud Europa in crisi, finanze pubbliche in evidente stress, agenzie di rating che declassano senza sosta i titoli di Stato. «Molti investitori scommettono ormai sull’implosione della moneta unica». Di qui la contromossa di Angela Merkel, «proconsole europeo dell’oligarchia finanziaria»: l’Europa a due velocità. Per la cancelliera sarebbe il colpo d’ala per uscire dal pantano in cui sta sprofondando l’euro. Due velocità, ovvero: «Un nocciolo di paesi che procede con l’integrazione fiscale e politica. Tesoro unico, bilancio comune, dissoluzione dei Parlamenti nazionali in un’entità sovranazionale: dopotutto l’euro, un banale regime a cambi fissi calato su un’area monetaria non ottimale, non è stato studiato proprio per questo obiettivo? Strappare i massonici Stati Uniti d’Europa con una lancinante crisi economica e finanziaria?». Abbiamo bisogno di più Europa, ripete la Merkel al “Financial Times”. L’unione monetaria non basta, dice la cancelliera: per uscire dalle sabbie mobili servono l’unione fiscale e politica: bisogna cedere ancora più sovranità all’Europa.«È musica per le orecchie del milieu finanziario-politico che ha scommesso tutto sulla federazione del continente: alla cancelliera federale, gongolano soddisfatti, siede una preziosa alleata che segue con cura il copione». Sono gli stessi, aggiunge Dezzani, che nel 2012 si affrettarono a firmare il “Manifesto per gli Stati Uniti d’Europa” promosso dal “Sole 24 Ore”: Romano Prodi, Antonio Tajani, George Osborne, Jacques Delors, Joschka Fischer. Era l’epoca del “whatever it takes” pronunciato da Mario Draghi per puntellare l’euro. Da allora, «i Btp hanno subito una raffica di declassamenti, le sofferenze bancarie in Italia sono esplose, la Grecia è stata a un passo dall’abbandonare l’euro, la presidenza Hollande è nata ed è morta, l’Eurozona è sprofondata nella deflazione, la Bce ha varato l’allentamento quantitativo attirandosi le ire di Berlino». E i “populismi” sono cresciuti, fino a conquistare percentuali maggioritarie dell’elettorato. «Parlare nuovamente di “Europa a due velocità”, corrobora la tesi di Karl Marx che la storia si ripeta sempre due volte: la prima in tragedia e la seconda in farsa», commenta Dezzani, secondo cui «ridicola è anche la reazione di quegli stessi personaggi che cinque anni anni fa firmarono il manifesto del “Sole 24 Ore”», che erano «terrorizzati dall’idea di essere risucchiati dal cesso della storia insieme alla moneta unica e ai palazzi di Bruxelles».Intervistato dalla “Repubblica”, Romano Prodi, per il quale «Trump e Le Pen sono i due volti dello stesso pericolo: non capisco come mai non si siano ancora sposati», ha così commentato “l’Europa a due velocità” proposta dalla Merkel: «E’ la risposta che aspettavo, anche se avrei preferito che nascesse da un più ampio dibattito politico. Finalmente la Germania sembra cominciare ad assumersi quel ruolo di leadership che non aveva mai voluto esercitare. Va bene così». Ma davvero, obietta Dezzani, qualcuno crede ancora che un manipolo di paesi volenterosi decida, nel 2017, dopo quasi sette anni di eurocrisi, di fondersi in una federazione? «Probabilmente non ci crede neppure Prodi, considerato che altri illustri tecnocrati illuminati hanno già gettato la spugna nel corso del 2016», come lo stesso: Juncker: «Basta parlare di Stati Uniti d’Europa, la gente non li vuole», L’Eurozona è oggi dilaniata dalle forze centrifughe. E se sui mercati regna un relativa calma è solo grazie alla morfina iniettata da Draghi, al ritmo di 80 miliardi al mese: «E’ un oppiaceo, che lenisce il dolore ma non risolve le cause della malattia». Considerato poi che il “quantitative easing” è stato prorogato per tutto il 2017, «è ormai evidente che la moneta unica non cadrà sotto i colpi degli assalti speculativi, ma sotto quelli della politica». Meglio ancora: «Cadrà vittima di una precisa strategia politica: una manovra a tenaglia, progettata dall’amministrazione Trump e dalle forze nazionaliste europee per liquidare i superstiti dell’establishment liberal e, con loro, l’Unione Europea e la moneta unica».Dezzani lo deduce osservando la nascita di «una tacita, ma ben visibile, alleanza delle forze “populiste” americane ed europee contro l’élite finanziaria mondialista: non sbaglia Romano Prodi quando definisce Trump e Le Pen come “due volti dello stesso pericolo”, perché rappresentano effettivamente una declinazione della stessa corrente politica, quella dei movimenti nazionali che insorgono contro l’oligarchia liberal e le sue istituzioni: le Nazioni Unite (vedi i tagli ai finanziamenti operati da Trump), le agenzie sovranazionali che predicano il cambiamento climatico, la Chiesa di Jorge Mario Bergoglio, i paladini dell’immigrazione indiscriminata, la Nato, l’Unione Europea e la sua colonna portante, la moneta unica». Il neo-presidente americano «non può certo presentare una formale dichiarazione di guerra alle istituzioni di Bruxelles», è ovvio, «ma tutte le azioni sinora intraprese vanno il quel senso: il duro attacco sferrato dall’amministrazione Trump contro la Germania, accusata di macinare esportazioni record ai danni degli altri membri dell’Eurozona e degli Usa stessi, sfruttando l’euro debole, equivale a mettere nel mirino le due figure chiave dell’impalcatura europea», Angela Merkel e il governatore della Bce, «senza le quali l’euro si sarebbe già dissolto da almeno due anni».La Merkel è stata «la garante politica dell’integrità dell’Eurozona, respingendo a suo tempo l’ipotesi di una Grexit caldeggiata dai falchi tedeschi», mentre Draghi «ha “sedato” l’eurocrisi iniettando massicce dosi di liquidità e svalutando l’euro, attraverso quell’allentamento quantitativo osteggiato sempre dai falchi tedeschi». Aggiunge Dezzani: «Si noti come i “duri” tedeschi, capeggiati da Wolfgang Schaeuble, siano in perfetta sintonia con la retorica di Trump», perché «entrambi lavorano, neppure troppo velatamente, per lo smantellamento dell’Eurozona per come è configurata oggi». Secondo Dezzani, Schaeuble «viaggia sulla stessa lunghezza d’onda dell’amministrazione Trump anche su altro dossier che sta tornando alla ribalta in questi giorni, il salvataggio della Grecia: i falchi tedeschi, sempre in opposizione ad Angela Merkel, si oppongono a qualsiasi riduzione del debito pubblico greco, invitando la Grecia ad abbondare l’euro per alleviare il fardello del debito». Così facendo, «si pongono così sulle stesse posizioni dell’amministrazione Trump». E il probabile, futuro ambasciatore americano presso la Ue, “l’euroscettico” Malloch, si è già espresso a favore dell’uscita di Atene dalla moneta unica, definendo «un inutile e doloroso spreco di tempo» il tentativo di evitare la Grexit.A un’analisi più approfondita, continua Dezzani, la politica europea dell’amministrazione Trump non è quindi un “attacco alla Germania”, ma l’ennesima prova di un’alleanza tra la Casa Bianca e le forze nazionaliste (compresi i falchi della Cdu-Csu) contro gli ultimi esponenti superstiti dell’establishment “liberal”, caduti i quali «si spianerebbe la strada alla dissoluzione della moneta unica e dell’Unione Europea». Sempre secondo Dezzani, «il fulmineo e misterioso vertice svoltosi alla cancelliera di Berlino il 9 febbraio tra Angela Merkel e Mario Draghi», nel quale i due avrebbero discusso “sul futuro dell’Europa”, altro non sarebbe che «il disperato tentativo di coordinamento tra due sopravvissuti, che studiano come coprirsi le spalle a vicenda di fronte all’attacco concentrico: nazionalisti tedeschi, populismi europei e amministrazione Trump». La “Stampa” titola, infatti: «Vertice in cerca di alleanza tra Merkel e Draghi». Al termine dell’incontro, «la cancelliera ha dovuto addirittura rimangiarsi l’ipotesi dell’Europa a due velocità lanciata appena pochi giorni prima: già, perché procedere verso la creazione di nocciolo di paesi federati presuppone almeno due o più volontari. Ma chi potrebbe seguire la cancelliera Merkel nel febbraio del 2017 in quest’impresa?».Certamente, risponde Dezzani, non lo farebbe nessuno di quei paesi che si avvicinano alle elezioni, promettendo ottimi risultati al “Gruppo di Coblenza”: «Ci riferiamo a quei movimenti nazionalisti che il 21 gennaio, all’indomani dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, si sono ritrovati nella città tedesca per lanciare la loro sfida congiunta all’Unione Europea». Agli «amanti dei retroscena», l’analista ricorda che proprio Coblenza fu la base dei monarchici francesi dopo la Rivoluzione del 1789, massonica e illuministica, che invece Dezzani definisce «coordinata da quegli Illuminati che avevano la propria base a Francoforte». Tornando a oggi: al vertice di Coblenza hanno presenziato Matteo Salvini, la tedesca Frauke Petry di “Alternative für Deutschland”, l’olandese Geert Wilders e Marine Le Pen. «Con quale paese la cancelliera Angela Merkel potrebbe quindi procedere verso la creazione di una federazione europea? Con la “germanica” Olanda? Molto difficilmente, considerato che il populista Partito della Libertà è dato in testa ai sondaggi e ha promesso di indire un referendum sulla permanenza nell’Unione Europea. Oppure con l’altra metà del “motore franco-tedesco”, quella Francia dopo il Front National è il primo partito e la “populista” Marine Le Pen avrà gioco facile a sconfiggere al ballottaggio il candidato della banca Rothschild, Emmanuel Macron?».Per Dezzani «ci sono pochi dubbi sulla dinamica dell’Eurozona all’indomani della vittoria di Marine Le Pen, tanto che il suo consulente economico, Bernard Monot, ha già svelato il piano da attuare nelle ore successive al voto del 7 maggio». Un’agenda di guerra: immediata convocazione di un vertice europeo d’emergenza. Sostituzione dell’euro con un paniere di valute, paragonabile al vecchio Ecu. Libera fluttuazione del “nuovo franco” fino ad massimo del 20% rispetto al paniere. E poi: ridenominazione del debito pubblico in franchi, abolizione della legge del 1973 per riportare la Banca di Francia sotto il controllo del Parlamento, a supporto di una politica monetaria espansiva per stimolare l’economia. Ecco le premesse per la “profezia” di Malloch, intervistato dalla “Bbc: addio all’euro, entro 18 mesi. «Previsione più che realistica», secondo Dezzani, considerata la “manovra a tenaglia” studiata dall’amministrazione Trump e dal “Gruppo di Coblenza” per liquidare gli ultimi due pilastri dell’establishment “liberal” in Europa, cioè l’Ue e il suo corrispettivo militare, la Nato. «Gli stessi centri di potere, per inciso, che avrebbero preferito la vittoria di Hillary Clinton e la conseguente escalation militare con la Russia, pur di sopravvivere». Tra i vecchi oligarchi euroatlantici resistono Draghi e la Merkel: «Chiusa la tenaglia, non ne rimarrà in piedi nessuno».L’Europa a due velocità? E’ la carta della disperazione prima del crollo dell’euro, moneta alla quale Ted Malloch, portavoce Usa in Ue, non concede più di 18 mesi di vita. La Merkel e Draghi? Sono gli ultimi due baluardi del vecchio establishment. E soccomberanno, stritolati da una tenaglia: da una parte Trump, dall’altra gli euroscettici alle urne nei prossimi mesi. Lo sostiene Federico Dezzani, osservando il fatale deteriorarsi del quadro generale in Europa: «Senza la morfina iniettata dalla Bce, i mercati finanziari sarebbero in preda a convulsioni peggiori del 2012». L’amministrazione Trump si sarebbe saldata con le forze populiste europee, il “Gruppo di Coblenza”. E anche se da Washington piovono duri attacchi contro la Germania e i suoi saldi commerciali record, «persino i nazionalisti tedeschi, i falchi della Cdu-Csu, viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda della Casa Bianca». Ormai, «solo due superstiti del vecchio establishment liberal, Angela Merkel e Mario Draghi, oppongono ancora resistenza al processo di euro-dissoluzione», ma «difficilmente riusciranno però a salvarsi».
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Addio olio e pesci: climate change, la catastrofe nascosta
Il crollo della produzione di olio extra vergine in Europa è solo il campanello. Fattela addosso, tuo figlio è nella merda, come si dice in francese. Il mio sforzo, piuttosto disperato nel paese che vede meno che a 7 cm dal suo naso sempre e su tutto, è di farvi capire ciò che tuo figlio/a, oggi di 2 anni, dovranno affrontare quando avranno la tua età. Sono capaci tutti di scrivere le news di oggi. Ci vuole un certo cervello per offrirvi le news che faranno mettere le mani sulla faccia ai vostri bimbi fra 30 anni, ma offrirvele oggi (vedi pezzo precedente su Agorastrea, anche se in altro ambito). E’ ciò che sto facendo da due anni, in un paese dove i lettori hanno una visione di 7 cm dal loro naso. Una siccità senza precedenti nella storia della Siria fu l’innesco della guerra civile là. Orde di disperati fuggirono nel 2006 dalle campagne verso le città perché morivano di fame. Il marasma di povertà, disperazione, orrore governativo di quella bestia umana di Assad, pari solo all’orrore delle bestie umane della “opposizione moderata di Hollywood”, e le tensioni derivanti, è precisamente ciò che oggi vedete come guerra civile in Siria.Una siccità senza precedenti nella storia… Climate Change. Sapete cosa poi ci ha portato quella guerra civile, le gigantesche conseguenze sull’Europa, sulle politiche, sull’economia del tuo portafoglio, ci ha portato Trump (in parte), e lo dico a te signor taxista di Novara… (che mai capisce dove sono i veri drammi, ma neppure Barra-Caracciolo ci capisce una mazza, e non fa il taxista). Perché, e vengo a oggi, la produzione italiana del suo gioiello olio extra vergine è crollata in un anno del 41%, il peggior crollo della storia in Italia? “Commodity3” ha appena pubblicato un rapporto che pela vivi i banali articoletti apparsi (nascosti) di recente su “Repubblica” e sul “Fatto Q” su questo problema. Ma davvero questo crollo è dovuto a un parassita arrivato da Marte? Può essere, ma perché i giornalucoli non vi spiegano che quei parassiti di Marte sono figli del Climate Change, come invece dimostra la miglior ricerca biotech del mondo nascosta da Syngenta? E ’sto clima impazzito che abbiamo già nelle nostre regioni non c’entra? Ma dai? Allora perché un collasso di olio capita in Spagna e in Grecia senza i parassiti italiani?Ma che interesse ha la fetida Commissione Europea a permettere a un ufficietto negli scantinati del suo palazzo di Bruxelles di pubblicare un rapporto, letto da nessuno perché si trova molto dopo pag. 20 di Google, dove si legge “L’agricoltura europea sta vacillando sotto il peso del Climate Change… sono registrati cambiamenti drammatici in precipitazioni, temperature che vanno agli estremi del gelo e dell’afa, poi tempeste, allagamenti, in tutta la Ue”. L’Un Intergovernmental Panel on Climate Change, poi, ci dice che, altro che quote pesca della Ue. La vera bomba a mano nelle reti dei nostri Porto Garibaldi o Mazara del Vallo è il Climate Change. La scala grafica che l’Onu pubblica sugli sconvolgimenti della pesca nel Mediterraneo dovuti alla pazzia del clima, gli dà, su 5, 4 tacche rosse. Aspettiamo la quinta? Ah, dimenticavo. Ho già scritto che se siete preoccupati per l’invasione dei migranti, ancora non avete visto nulla. Aspettatatevi che i 300.000.000 (si legge trecentomilioni, non 3 milioni) di indiani che stanno rimanendo senza acqua per la semi-sparizione dei più vicini ghiacciai dell’Himalaya decidano che se proprio devono crepare, be’, val la pena tentare la via per l’Europa… Baciate i vostri bimbi stanotte, incoscienti. Poi baciate Bertolli. Il Climate Change è una fantasia, dai, vi ho solo fatto bu’!!!(Paolo Barnard, “Dalla Siria al mercato dell’olio di oliva: Climate Change, guardate 50 anni avanti”, dal blog di Barnard del 10 febbraio 2017).Il crollo della produzione di olio extra vergine in Europa è solo il campanello. Fattela addosso, tuo figlio è nella merda, come si dice in francese. Il mio sforzo, piuttosto disperato nel paese che vede meno che a 7 cm dal suo naso sempre e su tutto, è di farvi capire ciò che tuo figlio/a, oggi di 2 anni, dovranno affrontare quando avranno la tua età. Sono capaci tutti di scrivere le news di oggi. Ci vuole un certo cervello per offrirvi le news che faranno mettere le mani sulla faccia ai vostri bimbi fra 30 anni, ma offrirvele oggi (vedi pezzo precedente su Agorastrea, anche se in altro ambito). E’ ciò che sto facendo da due anni, in un paese dove i lettori hanno una visione di 7 cm dal loro naso. Una siccità senza precedenti nella storia della Siria fu l’innesco della guerra civile là. Orde di disperati fuggirono nel 2006 dalle campagne verso le città perché morivano di fame. Il marasma di povertà, disperazione, orrore governativo di quella bestia umana di Assad, pari solo all’orrore delle bestie umane della “opposizione moderata di Hollywood”, e le tensioni derivanti, è precisamente ciò che oggi vedete come guerra civile in Siria.
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Tarchi: un altro mondo è impossibile, dicono. E ci crediamo
Benvenuti nell’era della rassegnazione, in cui siamo costretti ad accettare falsi valori ormai crollati, in un Occidente che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, dopo l’ultima immensa illusione aperta dal crollo del Muro di Berlino. A parlare è il politologo Marco Tarchi, docente di scienze politiche a Firenze e già ideologo della cosiddetta “nuova destra” italiana, esperienza metapolitica abbandonata nel 1994 insieme alla dicotomia destra-sinistra. Oggi, lo scenario che Tarchi illumina in una lunga riflessione affidata al blog “La Crepa nel Muro”, è segnato dalla disillusione. «Chi ha più di trentacinque anni e ha speso una quota del proprio tempo occupandosi del mondo che gli ruota intorno, difficilmente avrà dimenticato il clima che si diffuse negli ambienti politici ed intellettuali nei giorni e nei mesi che seguirono la caduta del Muro di Berlino». Quella data – ottobre 1989 – parve universalmente segnare un evento fatidico, un punto di svolta. E il crollo dell’impero sovietico, che di lì a poco ne seguì, non fece che confermare là prima impressione. «Quanti avevano in uggia il duopolio che dalla conferenza di Yalta in poi aveva indirizzato le sorti del mondo esultarono. Dilagarono i sogni di nuovi scenari in cui i vincoli oppressivi del bipolarismo si sarebbero sciolti».Sgombrato il campo dalle suggestioni di un “socialismo reale” ormai fallito, e sgretolate le fondamenta dell’apparente opposizione tra destra e sinistra, si pensò a un progetto che all’individualismo contrapponesse «la solidarietà organica, la promozione dell’interesse collettivo, il recupero del senso di comunità e la tutela del diritto alla specificità dei popoli». Al posto del «cosmopolitismo omogeneizzante», l’elogio delle «identità plurali» e della diversità culturale. E al dominio dell’economia sulla politica si opponeva il riconoscimento primario dei valori non-economici, spirituali, e di “qualità della vita”. Stop al «culto delle forme istituzionali», meglio «la sostanza della democrazia: il controllo popolare sul potere». Scrive Tarchi: «Erano sogni, ma gli oltre vent’anni trascorsi li hanno derubricati ad illusioni». La realtà è nuda: «Il tracollo del “blocco orientale” non ha restituito all’Europa alcuna compattezza sostanziale, e soprattutto non le ha restituito l’indispensabile sensazione di possedere, in mancanza di una lingua o di una radice etnoculturale, un’anima comune».Al bipolarismo Usa-Urss, che «aveva fondato un condominio sul pianeta», si è sostituita «una voglia unilaterale di egemonia che ha prodotto instabilità e guerre a getto continuo», verso «un ordine planetario a sovranità limitata controllato da un unico gendarme riconosciuto». E i guasti «provocati da un capitalismo sempre meno umano e produttivo» sono stati «moltiplicati dall’espansione parossistica dello strapotere della speculazione finanziaria, che tramite la globalizzazione ha inaugurato l’era delle delocalizzazioni e dell’economia virtuale». Conseguenza immediata: l’esplosione dei flussi migratori di massa. Un fenomeno che esalta i cantori delle “società multietniche” capaci di dissolvere le “barriere” identitarie, «in nome e per conto di una “società di mercato” la cui pietra miliare è un individuo visto come il titolare di interessi esclusivi, e pertanto egoistici».Ancora: «La diffusione degli stili di vita ispirati al consumismo, considerati l’unica tangibile prova dell’accesso ad un mondo migliore (prima di tutto perché emancipato dall’impiccio di regole dettate dalla tradizione), ha propagato ovunque un materialismo pratico che ha ridotto la coltivazione della dimensione spirituale dell’esistenza a grottesca sopravvivenza di superstizioni fuori moda». E la consacrazione dell’ideologia dei diritti dell’uomo, che Tarchi considera «ipocrita nella sua geometria, variabile secondo le convenienze del momento», di fatto «ha sepolto la nozione del dovere verso qualunque entità che trascenda la soggettività individuale, fatto salvo uno strumentale culto formale di istituzioni che vengono considerate democratiche solo fintanto che servono gli interessi delle élites di potere, e quando cessano di farlo, magari per un voto “sbagliato” del corpo elettorale a favore di qualche outsider, sono additate alla pubblica esecrazione».In questo scoraggiante panorama, aggiunge l’analista, gli ex “non conformisti degli anni Ottanta” hanno offerto pessima prova di sé, a cominciare da «alcuni intellettuali di punta formatisi in ambienti di sinistra largamente predominanti nelle università e nell’editoria», che nel volgere di pochi anni «si sono allineati al nuovo Zeitgeist, limitandosi tutt’al più a connotare la loro marcia di avvicinamento a tappe forzate all’ideologia liberale di qualche accento di apertura “sociale”, fornendo una sequenza disarticolata di versioni progressiste dell’accettato modello occidentale». Un tragitto comodo, «date le posizioni di privilegio e di prestigio che da tempo detenevano e il favore dell’apparato massmediale che ne ha amplificato e lodato le esternazioni, le conversioni, i ripensamenti, le prese di posizione». Percorso analogo, anche se «più accidentato», quello delle «molto più esigue truppe» del perimetro “di destra”, ansionse di «cogliere l’occasione finalmente maturata per riguadagnare il campo della legittimità», a costo di abbandonare la “diversità” coltivata per decenni.Tarchi parla di un inglorioso «ripiegamento convergente, da sinistra e da destra», verso il “centro” liberale che ha «fagocitato pressoché ogni velleità di pensiero critico». Per l’intellettuale fiorentino, è stato «l’avvio di un’era della rassegnazione». Ovvero: «Rassegnazione a vivere in un eterno presente, nel migliore dei mondi possibili – quello che Fukuyama aveva sottilmente descritto e predetto nell’immagine della “fine della Storia”, che vedeva nel modello politico, culturale e sociale del liberalismo realizzato il non plus ultra del cammino della civiltà umana». Ma anche «rassegnazione ad accettare in un primo momento la mentalità diffusa del nostro tempo come sgradevole ma immodificabile, salvo poi, cammin facendo, convincersi che in fondo non è poi così sbagliata: che il consumismo è divertente, che forse la spiritualità è un ingannevole feticcio, che l’orizzonte del vivere è tutto qui e ora, che essere tutti uguali e cancellare ogni segno distintivo fra gli individui – e non fra le persone, concetto troppo impegnativo e complicato – sarebbe più “giusto” che continuare a riconoscersi reciprocamente diversi».Rassegnazione: pensare che, «in fondo, ad Occidente il mondo è libero da tradizioni, convinzioni, regole e convenzioni che impediscono a ciascuno di comportarsi come più gli aggrada, e occidentalizzare l’intero pianeta non sarebbe male». E, soprattutto, «rassegnazione a rinunciare ad ogni progetto di modificare lo stato di cose vigente, perché si sa che cosa si lascerebbe ma non che cosa potrebbe scaturire dal cambiamento». E’ per questo, scrive Tarchi, che – a sinistra come a destra – anche in ambienti che un tempo si volevano ribelli e radicali, cresce la propensione a condividere pubblicamente giudizi storici su eventi del passato che sono stati per decenni oggetto di accese contese, «pensando che una memoria “condivisa” possa favorire compromessi bilateralmente utili sul terreno politico, spartizioni di risorse, alternanze pacifiche e quindi, a turno, vantaggiose». Ed ecco che «prosperano le professioni di fede nei valori del politicamente corretto, nella filosofia dei diritti dell’uomo, nell’universalismo omologante. Mentre annoiano, disturbano, appaiono ripetitive ed inefficaci le critiche ai capisaldi dell’ordine vigente».Criticare l’americanismo? «E’ passato di moda». Aprire gli occhi sulle tante forme in cui, dietro le presunte esplosioni del “desiderio di libertà” qua e là per i continenti, si mettono in opera i dispositivi di un’ulteriore fase di occidentalizzazione del mondo? «Dà un fastidio quasi fisico, puzza di complottismo», come «indignarsi di fronte ai crimini che gli Usa ed i loro alleati perpetrano in nome dei sacri principi che ci assicurano di voler difendere, denunciare le menzogne dietro cui li celano». Tutto questo, ormai, «sa di litania risaputa». Sconveniente e inutile anche «prendersela con la Nato, con l’Onu, con quel profluvio di organizzazioni internazionali che servono realmente solo gli interessi di quella Nuova Classe che a buon diritto Christopher Lasch ha fustigato». E così, «dopo due secoli fin troppo effervescenti, siamo entrati in un tempo nel quale l’orizzonte delle teorie politiche e sociali è integralmente desertificato». Il panorama è piatto: «Non si profilano modelli alternativi all’esistente. E tutti i segnali di insofferenza che le rivolte, i voti di protesta, le ondate di “indignazione” inviano, faticano ad uscire dal recinto di soluzioni già sperimentate».Scommettere sulla legittimità del cosiddetto populismo? Lo scenario è fosco: crisi economica, calo demografico e invecchiamento della popolazione, con il dubbio futuro dei sistemi pensionistici. E poi l’immigrazione, l’avvento “spaesante” dell’universo telematico. E ancora: la messa in crisi degli antichi paradigmi della sessualità, della procreazione e della genitorialità: tutto contribuisce a diffondere nei meno istruiti, nei più anziani, nei soggetti deboli (cioè nella maggioranza) un clima di inquietudine, «di ricerca non tanto di sicurezza quanto di certezze, di valori stabili e riconosciuti», per dirla con Ernesto Galli della Loggia). Ma, obietta Tarchi, quelle stesse tendenze che spaventerebbero «una componente residuale – debole, anziana, meno istruita: insomma, una sorta di relitto», sono invece accolte con favore dai “forti”, «i giovani, gli istruiti». Il vero problema? E’ che «quelle certezze, quei valori stabili e riconosciuti di cui si parla, nel quadro attuale nessuno è in grado di fornirli». Peggio ancora: «Nessuno indaga la possibilità di battere altre vie. Ci si rassegna alla propagazione virale della mentalità del materialismo consumistico e individualista veicolata dall’ideologia liberale. E si punta sul fatto che gli inquieti, i delusi, gli insofferenti, i ribelli, ingabbiati nella logica dell’insuperabilità dello status quo, finiranno per accettare il destino degli animali selvatici rinchiusi, o nati, in uno zoo: preoccuparsi giorno per giorno della mera sopravvivenza, aspettando inconsapevolmente il giorno della fine».Benvenuti nell’era della rassegnazione, in cui siamo costretti ad accettare falsi valori ormai crollati, in un Occidente che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, dopo l’ultima immensa illusione aperta dal crollo del Muro di Berlino. A parlare è il politologo Marco Tarchi, docente di scienze politiche a Firenze e già ideologo della cosiddetta “nuova destra” italiana, esperienza metapolitica abbandonata nel 1994 insieme alla dicotomia destra-sinistra. Oggi, lo scenario che Tarchi illumina in una lunga riflessione affidata al blog “La Crepa nel Muro”, è segnato dalla disillusione. «Chi ha più di trentacinque anni e ha speso una quota del proprio tempo occupandosi del mondo che gli ruota intorno, difficilmente avrà dimenticato il clima che si diffuse negli ambienti politici ed intellettuali nei giorni e nei mesi che seguirono la caduta del Muro di Berlino». Quella data – ottobre 1989 – parve universalmente segnare un evento fatidico, un punto di svolta. E il crollo dell’impero sovietico, che di lì a poco ne seguì, non fece che confermare là prima impressione. «Quanti avevano in uggia il duopolio che dalla conferenza di Yalta in poi aveva indirizzato le sorti del mondo esultarono. Dilagarono i sogni di nuovi scenari in cui i vincoli oppressivi del bipolarismo si sarebbero sciolti».
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Kerry confessa: noi con l’Isis in Siria, dalla base di Smirne
La guerra contro la Siria è il primo conflitto dell’epoca informatica a durare oltre sei anni. Numerosissimi documenti che sarebbero dovuti rimanere a lungo segreti sono già stati pubblicati. Benché siano stati divulgati, in misura diversa, in paesi diversi e l’opinione pubblica non abbia così potuto prenderne piena consapevolezza, essi consentono sin da ora una ricostruzione degli avvenimenti. La pubblicazione della registrazione di quanto dichiarato da John Kerry in privato, a settembre scorso, rivela la politica del Dipartimento di Stato americano e costringe tutti gli osservatori, noi compresi, a rivedere le proprie analisi. La registrazione integrale dell’incontro del segretario di Stato John Kerry con membri della Coalizione nazionale siriana delle forze dell’opposizione e della rivoluzione, avvenuta il 22 settembre nei locali della delegazione olandese alle Nazioni Unite, pubblicata da “The Last Refuge”, rimette in causa la nostra analisi della posizione Usa nei confronti della Siria.In primo luogo, avevamo creduto che Washington, dopo aver dato inizio all’operazione chiamata “Primavera araba”, finalizzata a rovesciare i regimi laici a beneficio dei Fratelli Musulmani, avesse lasciato i propri alleati da soli a dare l’avvio alla seconda guerra contro la Siria, iniziata a luglio 2012. E avevamo creduto che, perseguendo questi alleati obiettivi propri (ricolonizzazione per Francia e Regno Unito; conquista del gas per il Qatar; espansione del wahabismo e vendetta della guerra civile libanese per l’Arabia Saudita; annessione della Siria del nord per la Turchia, secondo il modello cipriota, ecc.), l’obiettivo iniziale fosse stato abbandonato. Invece, nella registrazione si sente John Kerry affermare che Washington non ha mai rinunciato ai tentativi di rovesciamento della repubblica araba siriana. Ciò significa che gli Usa hanno seguito passo per passo l’operato degli alleati. Di fatto, negli ultimi quattro anni gli jihadisti sono stati comandati, armati e coordinati dall’AlliedLandCom (Comando delle forze terrestri) della Nato, basato a Smirne (Turchia).In secondo luogo, John Kerry riconosce che Washington non poteva esporsi maggiormente per due ragioni: il diritto internazionale e la posizione della Russia. Sia chiaro, gli Stati Uniti non hanno mai avuto scrupoli a violare il diritto internazionale: hanno distrutto le strutture nodali della rete petrolifera e del gas della Siria, con il pretesto di combattere gli jihadisti (ciò che è conforme al diritto internazionale), senza però che il presidente al-Assad glielo avesse chiesto (quindi, in violazione del diritto internazionale). Non hanno invece osato mandare truppe terrestri per combattere in campo aperto la repubblica siriana, come viceversa avevano fatto in Corea, in Vietnam e in Iraq. E hanno scelto di mandare in prima linea i loro alleati (secondo la strategia della “leadership from behind” – leadership occulta) e di sostenere, senza peraltro grande discrezione, i mercenari, come avvenne in Nicaragua, rischiando di venire condannati dalla Corte internazionale di Giustizia (il tribunale dell’Onu).In realtà, Washington non vuole imbarcarsi in una guerra contro la Russia. E, dal canto suo, la Russia, che non si era opposta alla distruzione della Jugoslavia e della Libia, ora ha rialzato la testa e spinto più in là il limite da non oltrepassare. Mosca è in condizione di difendere il diritto con la forza, qualora Washington ingaggiasse apertamente una nuova guerra di conquista. In terzo luogo, quanto detto da John Kerry dimostra che Washington sperava in una vittoria di Daesh sulla repubblica siriana. Fino a oggi, basandoci sul rapporto del generale Michael Flynn del 12 agosto 2012 e dell’articolo di Robert Wright sul “New York Times” del 28 settembre 2013, avevamo ritenuto che il Pentagono volesse creare un “Sunnistan” a cavallo tra Siria e Iraq, per tagliare la via della seta. Nella registrazione Kerry confessa che il piano andava ben oltre. Probabilmente, Daesh avrebbe dovuto prendere Damasco per poi venirne cacciato da Tel Aviv (ossia, ripiegare sul “Sunnistan”, appositamente creato). La Siria avrebbe potuto così essere spartita: il sud a Israele, l’est a Daesh, il nord alla Turchia.Ciò fa capire perché Washington abbia dato l’impressione di non controllare nulla, di “lasciar fare” gli alleati: gli Stati Uniti hanno indotto Francia e Regno Unito a impegnarsi nel conflitto, facendo loro credere che avrebbero potuto ricolonizzare il Levante, mentre, al contrario, avevano già deciso che sarebbero stati esclusi dalla spartizione della Siria. In quarto luogo, John Kerry, ammettendo di aver “sostenuto” Daesh, riconosce di averlo armato. La retorica della “guerra contro il terrorismo” si riduce perciò a nulla. Dall’attentato del 22 febbraio 2006 alla moschea al-Askari di Samarra, Iraq, sapevamo che Daesh (che inizialmente si chiamava “Emirato islamico dell’Iraq”) era stato creato dal direttore nazionale dell’intelligence Usa, John Negroponte, e dal colonnello James Steele per stroncare la resistenza irachena e provocare una guerra civile, sul modello di quanto fatto in Honduras. Dopo la pubblicazione sul quotidiano del Pkk, Partito dei lavoratori del Kurdistan, “Özgür Gündem”, del processo verbale della riunione di pianificazione, tenutasi ad Amman il 1° giugno 2014, sapevamo che gli Stati Uniti avevano organizzato un’offensiva congiunta di Daesh su Mosul, e del governo regionale del Kurdistan iracheno su Kirkuk.In quinto luogo, abbiamo ritenuto che il conflitto tra il clan Allen/Clinton/Feltman/Petraeus da un lato, e l’amministrazione Obama/Kerry dall’altro vertesse sul sostegno o no a Daesh. Non è affatto così. Entrambi i campi non hanno avuto scrupoli a organizzare e sostenere gli jihadisti più fanatici. Il loro disaccordo attiene esclusivamente al ricorso alla guerra aperta – e al rischio di un conflitto con la Russia – o alla scelta di manovrare dietro le quinte. Solo Flynn, attuale consigliere per la sicurezza di Trump – si è opposto allo jihadismo. Se accadesse che, fra qualche anno, gli Stati Uniti crollassero, com’è accaduto per l’Urss, la registrazione di John Kerry potrebbe essere utilizzata contro di lui e contro Obama davanti a una giurisdizione internazionale – ma non davanti alla Corte penale internazionale dell’Onu, ormai screditata. Avendo riconosciuto la veridicità degli estratti pubblicati dal “New York Times”, Kerry non potrebbe contestare l’autenticità del documento sonoro integrale. Il sostegno a Daesh che Kerry esibisce vìola parecchie risoluzioni delle Nazioni Unite e costituisce una prova della responsabilità sua e di Obama nei crimini contro l’umanità commessi dall’organizzazione terrorista.(Thierry Meyssan, “Le confessioni del criminale John Kerry”, da “Megachip” del 19 gennaio 2017).La guerra contro la Siria è il primo conflitto dell’epoca informatica a durare oltre sei anni. Numerosissimi documenti che sarebbero dovuti rimanere a lungo segreti sono già stati pubblicati. Benché siano stati divulgati, in misura diversa, in paesi diversi e l’opinione pubblica non abbia così potuto prenderne piena consapevolezza, essi consentono sin da ora una ricostruzione degli avvenimenti. La pubblicazione della registrazione di quanto dichiarato da John Kerry in privato, a settembre scorso, rivela la politica del Dipartimento di Stato americano e costringe tutti gli osservatori, noi compresi, a rivedere le proprie analisi. La registrazione integrale dell’incontro del segretario di Stato John Kerry con membri della Coalizione nazionale siriana delle forze dell’opposizione e della rivoluzione, avvenuta il 22 settembre nei locali della delegazione olandese alle Nazioni Unite, pubblicata da “The Last Refuge”, rimette in causa la nostra analisi della posizione Usa nei confronti della Siria.
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Zero Anthropology: l’Impero sta cominciando a perdere
Quello che si è appena concluso è stato probabilmente «l’anno più memorabile degli ultimi decenni, un accumulo incessante di punti di svolta e di eventi significativi». La morte di Fidel Castro, la riconquista di Aleppo in Siria, la Brexit che certifica il “coma profondo” dell’Ue, la sconfitta di Hillary Clinton, la non-colonizzazione definitiva della Libia. Per il blog internazionale “Zero Anthropology”, «abbiamo cominciato ad assistere alla fine del globalismo, all’ascesa della de-globalizzazione e al tramonto dell’imperialismo neoliberale». Ovvero: «Non solo le nazioni tornano ad avere importanza, ma si riaffermano anche le storie locali e le stesse forze regionali». Qualcuno ha scritto che, con la dipartita di Fidel, è finito davvero il ‘900. Per “Zero Anthropology” se n’è andata «una figura monumentale nella storia del mondo, un gigante dei Caraibi che ha segnato gli eventi in tutto il mondo per decenni». Sopravvissuto a 638 tentativi di assassinio da parte degli Stati Uniti, nel corso di 11 diverse amministrazioni presidenziali, il combattente Castro «è morto per cause naturali, non imperiali».Un uomo «di enorme intelligenza, in confronto al quale la maggior parte dei nostri leader sembrano dei bambini sciocchi». Si è distinto come «il padre della decolonizzazione e dell’anti-imperialismo». Resta «un’eredità vivente, un punto di riferimento ineludibile», scrive “Zero Anthropology” in un post tradotto da “Voci dall’Estero”. Quindi la vittoria contro l’Isis ad Aleppo: «Finalmente la Siria ha fatto un progresso enorme nella bonifica del suo territorio, in un importante punto di svolta della lunga guerra per procura finalizzata al cambio di regime combattuta dagli Stati Uniti e dai loro alleati del Golfo. Liberati dalla barbarie assoluta delle forze terroristiche che li hanno tenuti in ostaggio nella loro città per anni, gli abitanti di Aleppo sono usciti in massa per festeggiare la vittoria del loro governo nazionale, e anche per festeggiare il Natale. La Siria così ha testimoniato coi fatti che non avrebbe accettato di essere ridotta alla terra di nessuno di un piccolo club di stati imperiali che si autodefinisce “comunità internazionale”».I funzionari degli Stati Uniti, che avevano affermato che “Assad se ne deve andare” e che “i giorni di Assad sono contati” ora stanno facendo le valigie e preparandosi a partire, nei loro ultimi giorni al potere, «cacciati da milioni di persone che hanno preso parte ad uno sconvolgimento politico epocale negli stessi Stati Uniti», continua “Zero Anthropology”. Parla da sola, infatti, «l’eccezionale sconfitta di Hillary Clinton, e con lei della politica dell’imperialismo liberale, del potere dell’industria della pubblicità, delle pubbliche relazioni, della propaganda, della classe istituzionalizzata degli esperti e, soprattutto, dei mezzi di comunicazione di massa». I perdenti, continua il blog, stanno ancora cercando disperatamente di gestire questa sconfitta, cercando di trasformarla in qualcos’altro. «Il loro metodo è il solito, quello che li ha portati a una tale meritata sconfitta: la negazione di ogni responsabilità per le conseguenze delle loro politiche, e una negazione della realtà».Per “Zero Anthropology” il neoliberalismo utopistico, con le sue illusioni sostenute dalle lobby e dai think tank grazie a massicce infusioni di denaro, ha oltrepassato il suo apice e ora è rimasto nudo al freddo, a mormorare confusamente: “La Russia, è stata la Russia…è stato Putin”. Tutto questo è stato preceduto da un’avvisaglia altrettanto clamorosa, la Brexit: «Uno dei motori della globalizzazione neoliberalista che al suo interno ha determinato delle condizioni di integrazione disuguali, l’Unione Europea, continua ad arrancare». Il voto pro Brexit nel Brexit nel Regno Unito contribuisce a classificare il 2016 come «un anno cruciale per la storia europea», insieme anche al referendum italiano del 4 dicembre, con la vittoria del No «con margini che nessuno aveva previsto». Gli eventi dall’altra parte dell’Atlantico, poi, «non hanno fatto che rafforzare la causa dell’autodeterminazione nazionale».Secondo “Zero Anthropology”, inoltre, il 2016 «ha finalmente visto il ritorno della classe operaia, riammessa nel vocabolario politico dallo stesso mainstream che per decenni ha cercato di farla sparire, insieme con il concetto di imperialismo». Una modalità di potere che, in Libia, secondo il blog si è impantanata: il paese di Gheddafi «ha continuato ad essere una zona di devastazione imperialista e di caos», eppure «nel 2016 il piano che prevedeva la trasformazione del paese in un nuovo protettorato delle Nazioni Unite è andato in pezzi». Da un lato, i libici «si sono rifiutati di cedere le redini del proprio futuro», e gli alleati della regione «si affermano come mediatori di potere più significativi rispetto agli Stati Uniti, lontani e ormai indeboliti».Quello che si è appena concluso è stato probabilmente «l’anno più memorabile degli ultimi decenni, un accumulo incessante di punti di svolta e di eventi significativi». La morte di Fidel Castro, la riconquista di Aleppo in Siria, la Brexit che certifica il “coma profondo” dell’Ue, la sconfitta di Hillary Clinton, la non-colonizzazione definitiva della Libia. Per il blog internazionale “Zero Anthropology”, «abbiamo cominciato ad assistere alla fine del globalismo, all’ascesa della de-globalizzazione e al tramonto dell’imperialismo neoliberale». Ovvero: «Non solo le nazioni tornano ad avere importanza, ma si riaffermano anche le storie locali e le stesse forze regionali». Qualcuno ha scritto che, con la dipartita di Fidel, è finito davvero il ‘900. Per “Zero Anthropology” se n’è andata «una figura monumentale nella storia del mondo, un gigante dei Caraibi che ha segnato gli eventi in tutto il mondo per decenni». Sopravvissuto a 638 tentativi di assassinio da parte degli Stati Uniti, nel corso di 11 diverse amministrazioni presidenziali, il combattente Castro «è morto per cause naturali, non imperiali».
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Lo squallore di Obama, il bugiardo più pericoloso del mondo
Eh sì, ora potete verificare di persona che tipo di persona sia Barack Obama. E soprattutto potete rendervi conto di quanto importante e destabilizzante sia stata la vittoria di Trump, che ha posto fine a un lunghissimo periodo di potere esercitato da un gruppo élitario – neoconservatore ma non solo – che, ha dominato Washington, rovinando sia gli Usa sia il mondo. Circa tre settimane fa in un’intervista al blog di Beppe Grillo affermavo che l’establishment di Obama, che aveva le sue radici strategiche e ideologiche nell’amministrazione Bush, avrebbe fatto di tutto per mettere in difficoltà o addirittura impedire l’elezione di Trump. Avete visto cos’è successo negli Stati Uniti: manifestazioni di piazza, riconteggio dei voti in alcuni Stati, pressioni senza precedenti sui Grandi Elettori affinché rinnegassero il voto popolare. Tutto inutile, per fortuna. Per fermare Trump restano solo due modi: un colpo di stato parlamentare o l’eliminazione fisica. Entrambi non ipotizzabili, al momento.La reazione scomposta di Obama in questi giorni, però, non rivela solo la stizza di un presidente uscente e la scarsa caratura di un uomo ampiamente sopravvalutato, evidenzia soprattutto la frustrazione di un clan che vede svanire il perseguimento dei propri obiettivi strategici. Infatti: gli Usa hanno perso la guerra in Siria, combattuta la fianco dei peggiori gruppi fondamentalisti. Nessun rappresentante dell’establishment uscente è stato eletto nei posti chiave dell’amministrazione Trump. La globalizzazione e il continuo smantellamento delle sovranità nazionali non sono più garantite, anzi rischiano di essere fermate da Trump che crede nei valori e negli interessi nazionali. L’obiettivo di conquistare il controllo dell’Eurasia, facendo cadere Putin, sostituendolo con un presidente filomaericano, è fallito; Putin oggi è più forte che mai. Persino Israele, che si è subito allineata a Trump, è diventata ostile. Il via libera alla Risoluzione Onu rappresenta un’inversione a “U” clamorosa e dai chiari intenti punitivi.Le ultime decisioni dell’amministrazione Obama segnalano il tentativo di far deragliare il nuovo corso di Trump o perlomeno di metterlo in fortissima difficoltà sia con Israele, sia, soprattutto, con la Russia. La speranza segreta della Casa Bianca era che Putin potesse cedere a una reazione impulsiva, tale da mettere davvero in imbarazzo Trump. E invece il presidente russo ha tenuto i nervi a posto. Anzi ha dato a Obama l’ennesima lezione di stile, rifiutandosi di espellere a propria volta 35 diplomatici americani. Le nuove sanzioni e l’espulsione di 35 diplomatici russi sono comunque un colpo basso, tale da provocare tensioni con il Congresso, ma non così gravi da far desistere Trump dall’avviare un nuovo corso con Putin. Quanto alle accuse di ingerenze russe nel voto americano sono risibili, pretestuose. Quel che conta, alla fine di un incredibile 2016, è la sostanza. Ovvero: il clan che ha governato l’America per almeno 16 anni lascia per la prima volta il potere. E chi si è opposto, dentro e fuori gli Usa, a politiche egemoniche autenticamente neoimperiali trova motivi di speranza. Ed è un’ottima notizia per il mondo.(Marcello Foa, “Che squallore Obama! Ora capite che uomo è (e perché Trump fa tanta paura)”, dal blog “Il Cuore del Mondo” su “Il Giornale” del 30 dicembre 2016).Eh sì, ora potete verificare di persona che tipo di persona sia Barack Obama. E soprattutto potete rendervi conto di quanto importante e destabilizzante sia stata la vittoria di Trump, che ha posto fine a un lunghissimo periodo di potere esercitato da un gruppo elitario – neoconservatore ma non solo – che, ha dominato Washington, rovinando sia gli Usa sia il mondo. Circa tre settimane fa in un’intervista al blog di Beppe Grillo affermavo che l’establishment di Obama, che aveva le sue radici strategiche e ideologiche nell’amministrazione Bush, avrebbe fatto di tutto per mettere in difficoltà o addirittura impedire l’elezione di Trump. Avete visto cos’è successo negli Stati Uniti: manifestazioni di piazza, riconteggio dei voti in alcuni Stati, pressioni senza precedenti sui Grandi Elettori affinché rinnegassero il voto popolare. Tutto inutile, per fortuna. Per fermare Trump restano solo due modi: un colpo di stato parlamentare o l’eliminazione fisica. Entrambi non ipotizzabili, al momento.
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Addio fatale 2016, mai così tante morti eccellenti: perché?
La scomparsa di George Michael contribuisce a fare del 2016 l’anno nero della musica pop, dopo la perdita di David Bowie, Prince e Leonard Cohen, nonché del cantante degli Eagles, Glenn Frey, e di uno degli eroi di Woodstock, Paul Kantner, leader dei Jefferson Airplane. Ma non c’è solo musica nel “cimitero” del 2016: se ne sono andati due grandissimi come Fidel Castro e Muhammad Alì. Morti pure Shimon Peres e Dario Fo, Giorgio Albertazzi e Umberto Eco. Il grande cinema piange Michael Cimino, Abbas Kiarostami, Gene Wilder. Stando al necrologista della “Bbc”, Nick Serpell, nei primi tre mesi del 2012 erano stati solo 3 i “coccodrilli” tirati fuori dal cassetto, mentre nello stesso periodo del 2016 la cifra è salita subito a 24. Vale anche per le carrellate di foto che “Corriere.it” dedica ogni anno all’elenco delle persone famose scomparse: 50 decessi nel 2013, quasi 100 nel 2014. Molti personaggi celebri che se ne sono andati nel 2016, annota Federica Seneghini sul “Corriere”, appartenevano alla cosiddetta generazione del baby boom, nata tra il 1946 e il 1964. «Oggi i babyboomers hanno tra i 52 e i 70 anni. In Italia gli over 65% sono il 22%. La fascia d’età 65-69 è quella in cui il tasso di mortalità fa un brusco salto in avanti ed è pari a 10,2 ogni 1.000 abitanti».Lo schema è chiaro, secondo il “Corriere”: «Più persone nate in una certa fascia di tempo, più persone diventate famose, più persone che oggi sono anziane e quindi hanno più probabilità di morire. Molte star morte nel 2016 sono babyboomers: Prince (57 anni), David Bowie (69), Anna Marchesini (63), Alain Rickman (69), Victoria Wood (62), Gianroberto Casaleggio (61), Johan Cruyff (68), Glenn Frey (67)». Tra le varie spiegazioni che si possono trovare a questo “Spoon river”, aggiunge il giornale, c’è anche il culto delle celebrity, che «dagli anni Cinquanta a oggi, è cresciuto esponenzialmente grazie a cinema, tv e globalizzazione: da 60 anni a questa parte sono sempre di più gli sportivi, altezze reali e i cantanti considerati famosi». C’è poi il “fattore social”, che trasforma in notizie di massa quelle che in una lontana epoca pre-Facebook non lo erano affatto. «Un esempio: quella della morte della star del wrestling Chyna, ripresa in Italia dai media nazionali. Fino a qualche tempo fa sarebbe risultata accessibile (e di interesse) solo a una ristretta cerchia di fan».Secondo Giovanni Boccia Artieri, docente di sociologia dei media digitali all’università di Urbino, ormai «bastano pochi clic per trasformare notizie che fino a qualche tempo fa sarebbero state di nicchia», restituendoci dunque l’impressione che le persone più o meno famose muoiano più di prima. Esiste anche un sito, Deathlist.net, che pubblica (dal 1987, all’inizio di ogni anno) la classifica delle 50 persone famose che molto probabilmente moriranno entro 12 mesi. «Tra i candidati di quest’anno – scrive Federica Seneghini – finora il sito ci ha preso 7 volte, azzeccando la scomparsa del giocatore di cricket Martin Crowe, dell’ex presidente della Fifa Joao Havelange, dell’attore Abe Vigoda, dell’ex first lady Nancy Reagan, dell’ex segretario generale dell’Onu Boutros-Ghali, del presentatore tv Cliff Michelmore e di Muhammad Ali». Certo resta impressionante, l’elenco dei “caduti”, soprattutto nell’ambito della musica: se n’è andato Keith Emerson, tastierista e anima degli Emerson, Lake & Palmer, seguito dal suo bassista Greg Lake. Addio anche a George Martin, produttore dei Beatles, nonché a Pete Burns, frontman dei Dead or Alive (“You spin me round”).In Italia ci ha lasciati il cantautore Gianmaria Testa. Poi il cinema e la televisione: oltre ad Anna Marchesini del trio Lopez-Marchesini-Solenghi e al presentatore Luciano Rispoli sono scomparsi Lino Toffolo e Carlo Pedersoli (Bud Spencer). Il cinema internazionale ha perso il polacco Andrzej Wajda, lo statunitense Garry Kent Marshall (“Pretty woman”, “Happy days”), gli attori Alan Rickman (della serie “Harry Potter”), Douglas Wilmer (Sherlock Holmes). Nonché Michael Massee, Peter Vaughan, Zsa Zsa Gabor, l’italiana Silvana Pampanini e la scrittrice Harper Lee, autrice de “Il buio oltre la siepe”. Addio anche a Franca Sozzani, storica direttrice di “Vogue Italia”, all’oncologo Umberto Veronesi, a Carlo Azeglio Ciampi, all’astronauta e pioniere dello spazio John Glenn.La scomparsa di George Michael contribuisce a fare del 2016 l’anno nero della musica pop, dopo la perdita di David Bowie, Prince e Leonard Cohen, nonché del cantante degli Eagles, Glenn Frey, e di uno degli eroi di Woodstock, Paul Kantner, leader dei Jefferson Airplane. Ma non c’è solo musica nel “cimitero” del 2016: se ne sono andati due grandissimi come Fidel Castro e Muhammad Alì. Morti pure Shimon Peres e Dario Fo, Giorgio Albertazzi e Umberto Eco. Il grande cinema piange Michael Cimino, Abbas Kiarostami, Gene Wilder, Ettore Scola. Stando al necrologista della “Bbc”, Nick Serpell, nei primi tre mesi del 2012 erano stati solo 3 i “coccodrilli” tirati fuori dal cassetto, mentre nello stesso periodo del 2016 la cifra è salita subito a 24. Vale anche per le carrellate di foto che “Corriere.it” dedica ogni anno all’elenco delle persone famose scomparse: 50 decessi nel 2013, quasi 100 nel 2014. Molti personaggi celebri che se ne sono andati nel 2016, annota Federica Seneghini sul “Corrieredario fo”, appartenevano alla cosiddetta generazione del baby boom, nata tra il 1946 e il 1964. «Oggi i babyboomers hanno tra i 52 e i 70 anni. In Italia gli over 65% sono il 22%. La fascia d’età 65-69 è quella in cui il tasso di mortalità fa un brusco salto in avanti, pari a 10,2 ogni 1.000 abitanti».
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Bartlett: Assad difende i siriani, falsi anche i video nei Tg
Ci sono sicuramente giornalisti onesti, nel mondo estremamente compromesso dei media. Organizzazioni internazionali sul posto? Quali organizzazioni internazionali sono sul campo ad Aleppo Est? Ok, rispondo io: nessuna. Nessuna. Queste organizzazioni si appoggiano all’Osservatorio Siriano per i Diritti umani (Sohr) che ha la sua sede a Coventry, nel Regno Unito, ed è formato da una sola persona. Si appoggiano a gruppi compromessi come i Caschi Bianchi, che sono stati fondati nel 2013 da un ex ufficiale inglese, sono stati fondati con un accordo da 100 milioni di dollari tra Stati Uniti, Regno Unito, Europa e altri Stati. Sostengono di soccorrere i civili ad Aleppo Est e a Idlib, ma nessuno ad Aleppo Est ha mai sentito parlare di loro e dico “nessuno” avendo ben presente che adesso il 95% delle aree di Aleppo Est sono state liberate. I Caschi Bianchi sostengono di essere neutrali, eppure sono stati visti girare armati e in piedi sui corpi di soldati siriani morti e i loro filmati video mostrano perfino bambini “riciclati” per differenti testimonianze. Puoi trovare una bambina di nome Aya che appare in una testimonianza, per esempio, ad agosto, e poi torna di nuovo fuori il mese successivo in due posti diversi.Non sono credibili. Neanche il Sohr è credibile. Gli “attivisti anonimi” non sono credibili. Una volta o due, forse. Ma ogni volta? Non è credibile. Quindi di fonti vostre sul posto, non ne avete. Per quel che riguarda il programma di alcuni grandi media, è il programma di rovesciare il regime. Come possono il “New York Times” e “Democracy Now” sostenere ancora oggi che questa è una guerra civile in Siria? Come possono continuare a sostenere che le proteste erano disarmate e non violente fino, diciamo, al 2012? Questo non è assolutamente vero. Come possono sostenere che il governo siriano sta attaccando i civili ad Aleppo quando tutti quelli che escono da queste zone occupate dai terroristi dicono il contrario?Come quantifico il sostegno del popolo siriano? Le elezioni. Nel 2014 in Siria si sono tenute le elezioni. Quello che è emerso è che la gente sostiene in maniera schiacciante il presidente Assad. Ci sono persone che vogliono un cambio di governo, non stiamo facendo finta che non vogliano il cambiamento. Tutti vogliono un cambiamento. Ma se valutiamo il sostegno al governo, il punto è che non vedono il presidente Assad come un problema. Vedono il problema del terrorismo, vedono elementi problematici nel sistema che hanno, ma il presidente Assad non è visto come un problema. Lo sostengno in maniera preponderante. Quindi, io mi baso sulla loro scelta del loro leader e sui miei rapporti con le persone in Siria.(Eva Bartlett, “La fabbrica delle notizie sulla guerra in Siria”, testimonianza della giornalista canadese durante una conferenza stampa organizzata dall’Onu sulla guerra in Siria, ripresa da YouTube e tradotta da “Voci dall’Estero” il 20 dicembre 2016).Ci sono sicuramente giornalisti onesti, nel mondo estremamente compromesso dei media. Organizzazioni internazionali sul posto? Quali organizzazioni internazionali sono sul campo ad Aleppo Est? Ok, rispondo io: nessuna. Nessuna. Queste organizzazioni si appoggiano all’Osservatorio Siriano per i Diritti umani (Sohr) che ha la sua sede a Coventry, nel Regno Unito, ed è formato da una sola persona. Si appoggiano a gruppi compromessi come i Caschi Bianchi, che sono stati fondati nel 2013 da un ex ufficiale inglese, sono stati fondati con un accordo da 100 milioni di dollari tra Stati Uniti, Regno Unito, Europa e altri Stati. Sostengono di soccorrere i civili ad Aleppo Est e a Idlib, ma nessuno ad Aleppo Est ha mai sentito parlare di loro e dico “nessuno” avendo ben presente che adesso il 95% delle aree di Aleppo Est sono state liberate. I Caschi Bianchi sostengono di essere neutrali, eppure sono stati visti girare armati e in piedi sui corpi di soldati siriani morti e i loro filmati video mostrano perfino bambini “riciclati” per differenti testimonianze. Puoi trovare una bambina di nome Aya che appare in una testimonianza, per esempio, ad agosto, e poi torna di nuovo fuori il mese successivo in due posti diversi.
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Pieczenik, il boia di Moro, gola profonda sull’11 Settembre
Basta attentati “false flag”, basta manipolazioni come l’11 Settembre. A dirlo è nientemeno che Steve Pieczenik, uno che se ne intende: «Pieczenik è un esponente dello “Stato profondo”, l’uomo che al tempo del rapimento Moro fu mandato in Italia dal Dipartimento di Stato per assicurarsi che Moro non tornasse a casa», scrive Maurizio Blondet. «A modo suo un servitore dello Stato, e di quegli apparati nazionali che i neocon hanno sbattuto fuori l’11 Settembre, prendendo a forza il comando della politica estera Usa nella “lotta al terrorismo islamico”, per il bene di Israele». E quindi, se oggi proclama “Mai più 11 Settembre”, «sta avvertendo: sappiamo che siete stati voi, possiamo riaprire l’inchiesta». In un video, nel quale si rallegra della vittoria di Trump, che attribuisce alla mobilitazione dei «16 servizi di intelligence», Pieczenik elenca “ciò che il popolo americano non vuole più”: «Non più false flag, non più 11 Settembre, non più Sandy Hook, sparatorie di Orlando o altri imbrogli, propaganda e stronzate! Quel che vogliamo oggi è la verità». Ciò significa che l’enorme rimescolamento di poteri causato dallo tsunami-Trump potrebbe scoperchiare tante verità sepolte?Sandy Hook è il massacro in una scuola elementare nel Connecticut, il 14 dicembre 2012, dove un folle ha ucciso 27 persone, bambini e insegnanti. A Orlando, la strage nella discoteca gay “Pulse”, giugno 2016, fu attribuita a un musulmano. Due casi denunciati sui blog come “false flag”, operazioni di auto-terrorismo. «Oggi Pieczenik, allusivamente, conferma: sappiamo che siete stati voi». Ma chi sono i “voi”? «Li vediamo affrettarsi ad infiltrare anche l’amministrazione Trump», scrive Blondet. C’è chi si precipita, infatti, a scrivere «articoli adulatori sul generale Michael Flynn», il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale, «che tutti danno come suggeritore di Trump per il Medio Oriente e la pacificazione con Mosca». Quando era capo della Dia, l’intelligence militare, cioè fino al 2014, Flynn «ha raccontato come ha sabotato – insieme al capo degli stati maggiori di allora, ammiraglio Dempsey – il piano di Obama di armare i jihadisti in Siria per abbattere Assad». Flynn e Dempsey non eseguirono gli ordini di Obama, «collaborando sotto sotto coi russi». E adesso, improvvisamente, il potente mainstream – fino a ieri schierato con Obama e Hillary – presenta il generale Flynn come un eroe nazionale.Lo stesso Flynn ha appena scritto un libro, “Field of Fight”, che ha come sottotitolo “come possiamo vincere la guerra contro l’Islam radicale e i suoi alleati”, dove racconta gli “insabbiamenti e falsificazioni” di Obama a favore dell’Isis e di Al-Qaeda. Attenzione: il libro l’ha scritto con Michael Ledeen, vecchia conoscenza – purtroppo – della politica italiana, come Pieczenik. Temibile neocon, esponente dell’ultra-destra americana vicina alla lobby israeliana, Ledeen «è ricomparso in Italia a fianco di Marco Carrai, l’“intimo amico” di Renzi». Per Blondet, Carrai è «un evidente agente israeliano, a cui Renzi ha affidato l’incarico di suo consulente al Dis (l’organismo di coordinamento dei servizi segreti), il che equivale a consegnare la nostra intelligence al Mossad». Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Uno Editori) indica proprio Ledeen come il grande manovratore occulto della “sovragestione” della politica italiana, dal caso Moro alla P2: «Sponsorizzò prima Craxi e poi Di Pietro, ora Renzi e contemporaneamente il grillino Di Maio».Oggi Ledeen sembra di nuovo in piena corsa, tra i neocon che sgomitano per condizionare la politica di Trump, attraverso la collaborazione con Michael Flynn. «Apparentemente, il generale Flynn non potrebbe aver niente da spartire con Ledeen, di cui non ignora certo le parti che ha giocato l’11 Settembre», scrive Blondet. «Il punto di contatto sembra essere nella volontà – ferocemente ebraica – di far sì che il presidente stracci il trattato sul nucleare con l’Iran». Da almeno dieci anni, aggiunge Blondet, gli israeliani «tentano di indurre Washington a bombardare per loro l’Iran, specie le sue centrali atomiche». Trump li asseconderà? Altre ombre si addensano su Rudolph Giuliani: la sua presenza nello staff presidenziale «sembra assicurare che non sarà aperta un’inchiesta sull’11 Settembre e i suoi veri mandanti». Giuliani, a quel tempo sindaco di New York, «fu pesantemente partecipe al piano della distruzione delle Twin Towers», sostiene Blondet. Per contro, nel team c’è anche Steve Bannon, il direttore di “Breitbart.com” (18 milioni di lettori: un’audience che il “New York Times” può solo sognarsi). Bannon è «un antisistema proclamato e quindi bollato ad altissima voce dai media come “antisemita”, oltre che anti-islamico e anti-gay». Bannon, quindi, «può rassicurare sul coraggio di Trump di non piegarsi alla nota lobby», confermando «la pulsione “rivoluzionaria” che l’ha portato alla vittoria elettorale».Squarci di verità, tra i retroscena “imperiali” degli ultimi 15 anni? Sul “Fatto Quotidiano”, Giulietto Chiesa mette le mani avanti: «Una delle fonti che io considero più attendibili, Paul Craig Roberts, sul suo blog ha commentato con molta prudenza queste fonti, limitandosi a dire che, in caso fossero reali le intenzioni di Trump di riaprire l’inchiesta sull’11 Settembre, difficilmente resterebbe vivo fino al momento del suo insediamento». Non ci sono solo Bannon e il generale Flynn, nella cerchia di Trump, ma anche John Bolton, «superfalco neocon ed ex rappresentante all’Onu», e Mike Pompeo, che sarà alla testa della Cia («uno che ha comunicato al mondo, via Twitter, la sua impazienza di cancellare il negoziato con l’Iran»). Tutto questo, scrive Chiesa, «fa pensare che l’11 Settembre resterà nei cassetti delle rivelazioni future ancora per qualche tempo». Il che, però, «non significa che tutto sia immobile». Impossibile sottovalutare le esternazioni di Steve Pieczenik: «Parole che non possono essere ignorate per molte ragioni». Pieczenik è stato «un fedele e abile servitore dello Stato Imperiale per molti anni e su scenari assolutamente decisivi per la politica statunitense: è stato al servizio di diversi presidenti, come agente dei servizi segreti, come diplomatico, come influencer di alto profilo».Basterebbe ricordare che Pieczenik «venne inviato da Washington in Italia per “assistere” l’allora ministro degl’interni Francesco Cossiga, poi divenuto presidente della Repubblica, nel non facile compito di gestire il rapimento e poi l’uccisione di Aldo Moro». In qualche intervista, anni fa, Pieczenik «non fece mistero del suo compito di allora: liquidare definitivamente Aldo Moro». Non solo: «Alcune allusioni che egli stesso fece filtrare condussero molti, tra cui il sottoscritto, a ritenere che fosse proprio lui uno dei manovratori delle Brigate Rosse, dei servizi italiani “deviati”, e dei depistaggi che impedirono agli inquirenti italiani di giungere al carcere segreto dove Moro era rinchiuso prima che fosse ucciso». Adesso è in pensione, fuori servizio, ma fino a un certo punto: «In piena campagna elettorale americana se ne uscì parlando come se fosse parte del “contro-colpo di Stato” dell’Fbi contro (perdonate la reiterazione) il “colpo di Stato” della Clinton». È indubbio che Pieczenik ha accesso a fonti di prima mano. «E se oggi dice – e promette – “non più false flag”, “non più 11 Settembre”, “non più finte uccisioni di Osama bin Laden” si ha ragione di ritenere che nei meandri della lotta politica feroce che dilania l’establishment americano, questa questione si sta muovendo».Certo, resta da capire perché parla ora: lo fa «con il contagocce, ma parla, allude». Succede a molti di questi alti esecutori, di parlare quando vanno in pensione, di togliersi qualche sassolino dalla scarpa. «Magari si rendono conto, in prossimità della fine, delle mostruosità che hanno contribuito a compiere», scrive Chiesa. «Oppure vogliono vendicarsi per i torti subiti da chi stava sopra di loro e li ha usati, magari senza neppure premiarli per il lavoro svolto». O ancora, semplicemente, «vogliono rendersi utili e rimediare, per quanto possibile, in ritardo, alle loro malefatte: in cerca, almeno, del Purgatorio». In ogni caso, «ben vengano le rivelazioni, anche postume». Se non altro, tutto questo «potrebbe venire utile anche a coloro che, qui da noi, si sono messi, in tutti questi anni, al servizio della menzogna e hanno cercato, in tutti i modi, di attaccare, ridicolizzare, emarginare, insultare coloro che la verità la videro, o la intuirono, o comunque la cercarono». Sembrano dunque aprirsi spiragli che lasciano intravedere meglio l’interno della “casa americana”, che appare «molto diversa da come ce l’hanno dipinta». Così, «quando si spalancherà la porta, saranno in molti a doversi nascondere», primi fra tutti i media mainstream, solerti custodi di verità rimaste sotto chiave: se fossero state denunciate per tempo – Watergate insegna – molti orrori non sarebbero neppure andati in scena, il Deep State non sarebbe arrivato a tanto.Basta attentati “false flag”, basta manipolazioni come l’11 Settembre. A dirlo è nientemeno che Steve Pieczenik, uno che se ne intende: «Pieczenik è un esponente dello “Stato profondo”, l’uomo che al tempo del rapimento Moro fu mandato in Italia dal Dipartimento di Stato per assicurarsi che Moro non tornasse a casa», scrive Maurizio Blondet. «A modo suo un servitore dello Stato, e di quegli apparati nazionali che i neocon hanno sbattuto fuori l’11 Settembre, prendendo a forza il comando della politica estera Usa nella “lotta al terrorismo islamico”, per il bene di Israele». E quindi, se oggi proclama “Mai più 11 Settembre”, «sta avvertendo: sappiamo che siete stati voi, possiamo riaprire l’inchiesta». In un video, nel quale si rallegra della vittoria di Trump, che attribuisce alla mobilitazione dei «16 servizi di intelligence», Pieczenik elenca “ciò che il popolo americano non vuole più”: «Non più false flag, non più 11 Settembre, non più Sandy Hook, sparatorie di Orlando o altri imbrogli, propaganda e stronzate! Quel che vogliamo oggi è la verità». Ciò significa che l’enorme rimescolamento di poteri causato dallo tsunami-Trump potrebbe scoperchiare tante verità sepolte?
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Trump ha una pistola alla tempia, soccomberà anche lui?
«Qualunque cosa farà Trump sarà sempre un decimo dei danni che avrebbe potuto fare la Clinton», ma il problema ormai è un altro: riuscirà a resistere alle micidiali pressioni cui è già sottoposto dal super-potere che aveva puntato su Hillary? Il neoeletto deve vedersela con il complesso militare-industriale, i neocon, la Cia, il Pentagono: gente che ha liquidato i Kennedy, che ha messo al guinzaglio Obama, che riportò all’ordine persino Bush, lui pure – all’inizio – isolazionalista quanto Trump. Lo scrisse un neocon di razza come Michael Ledeen: «Quando Bush fu eletto, nel 2000, pensava all’America; poi venne l’11 Settembre e da quel momento capì che doveva continuare a occuparsi del mondo intero». Ledeen lo dice chiaramente, facendo capire che furono loro a fargli cambiare idea. «Oggi non serve neppure più eliminare fisicamente un presidente», spiega Massimo Mazzucco: «In genere bastano gli avvertimenti». Come quello, inequivocabile, che un altro neocon come John Bolton, già ambasciatore Usa all’Onu, ha appena rivolto a Trump: il neopresidente, secondo Bolton, dovrà stare in guardia «contro il terrorismo internazionale e anche il terrorismo interno». Nuovo 11 Settembre in arrivo? O basta la semplice minaccia?«Vedremo quanto Trump saprà resistere a questi “avvertimenti” nemmeno troppo velati», dichiara il regista Massimo Mazzucco, autore di importanti documentari sul maxi-attentato del 2001 che ha cambiato la storia del pianeta, proiettando le guerre americane in ogni continente. Intervenendo a “Border Nights”, trasmissione web-radio condotta da Fabio Frabetti, Mazzucco sostiene che l’elevata vocazione “criminale” di Hillary Clinton rivela la vera natura dei poteri che l’hanno sostenuta, gli stessi che oggi già assediano Trump. La vera colpa della Clinton, agli occhi degli elettori che alla fine si sono rassegnati a votare Trump? «Non solo ha usato il server di casa anziché quello del ministero degli esteri, ma ha anche cancellato 30.000 email per sottrarle all’Fbi, salvo poi andare in televisione a dire, mentendo, di aver messo tutte le email a disposizione delle indagini». Da quelle email, hackerate da Wikileaks, emergono retroscena imbarazzanti: milioni di dollari incamerati dalla Fondazione Clinton in cambio di favori a paesi arabi filo-Isis, concessi da Hillary quando era Segretario di Stato, e in più lo scandalo di Bengasi, con l’uccisione dell’ambasciatore americano, cioè dell’uomo che avrebbe potuto provare il traffico di armi che dalla Libia venivano fatte affluire in Siria, sotto copertura Usa, per rovesciare Assad.Bene per noi europei, se ha vinto Trump: in teoria, avremo meno tensioni e meno guerre. A favore del neoeletto depongono alcuni aspetti rilevanti: «E’ l’unico presidente americano, almeno negli ultimi 50 anni, ad aver vinto una campagna elettorale solamente con i suoi soldi», sottolinea Mazzucco. «Ha speso un centesimo, credo, di quello che ha speso la Clinton, e quindi ha vinto meritatamente, per quello che ha detto». Da qui in poi, però, è possibile che accada di tutto: «Temo che Trump sia talmente inesperto da circordarsi di gente dell’establishment». Sta già accadendo: come capo di gabinetto, posizione fondamentale nel governo americano, Trump ha scelto Reince Priebus, cioè il segretario nazionale del partito repubblicano, «lo stesso partito repubblicano che ha cercato in tutti i modi di far fuori Trump e che adesso cerca di controllarlo attraverso la scelta del suo capo di gabinetto». Altra scelta fondamentale, «passata inosservata ma che si dimosterà molto significativa nel corso del tempo», è il vicepresidente che «gli hanno messo di fianco», Mike Pence: «Non è affatto un governatorino di campagna come sembra, tranquillo e tradizionalista». Al contrario: «E’ un forsennato, feroce, fetente neocon della prima ora».Mike Pence, continua Mazzucco, è l’uomo che nel 2001, subito dopo l’11 Settembre, si occupò di inondare i media con la propaganda del caso-antrace, appena due mesi dopo l’attentato alle Torri. Con “lettere all’antrace” venivano minacciati diversi senatori, «stranamente tutti democratici, e stranamente tutti quelli che chiedevano di fare una commissione senatoriale sull’11 Settembre, che poi infatti non si fece». Fu proprio Pence ad alimentare la teoria che quell’antrace venisse da Saddam Hussein, «perché lui era mandato avanti da neocon come Cheney e Rumsfeld, che avevano bisogno di una scusa per portare la guerra in Iraq». E quando l’Fbi, «in uno strano gesto di onestà», dichiarò che l’antrace non veniva dall’Iraq ma era “scappato” da un laboratorio Usa, lo stesso Pence scrisse una lettera aprerta al ministro giustizia di allora, John Ashcroft, dicendo: “Lo sappiamo tutti che l’antrace è di Saddam”. «Questo – dice Mazzucco – dimostra che Mike Pence non è affatto un tranquillo governatore di campagna, è un mastino da guerra dei neocon. E sono convinto che l’abbiamo messo accanto a Trump proprio per cercare di condizionare la sua politica estera».Donald Trump è davvero isolazionista, «ha capito benissimo che il mondo sta in piedi fin che c’è un equilibrio e ognuno si fa gli affari suoi: Russia, Cina e Stati Uniti. Non si può continuare a andare a invadere dappertutto». Ma se Trump si rivelasse “troppo” isolazionista, cioè non-guerrafondaio, «Mike Pence cercherà sicuramente di condizionare la sua politica estera verso una strategia più aggressiva». Mazzucco è convinto che per Trump sarà durissima: «Se si dimostra sordo nel continuare le strategie imperialistiche in Medio Oriente, o gli sucede qualcosa (e diventa presidente Mike Pence), o comunque in qualche modo riusciranno a convincerlo. Un po’ come convinsero Bush nel 2000, che in campagna elettorale – prima dell’11 Settembre – diceva le stesse cose diTrump: smettere di fare “nation building”, cioè conquistare paesi». Oggi, a preoccupare il Deep State sono i rapporti con Putin: la distensione in programma con Mosca è nelle corde di Trump, a partire dalla Siria: la priorità «non è più abbattere Assad, come voleva Obama, ma abbattere l’Isis, in collaborazione con Putin». Glielo lasceranno fare?Quasi a rassicurare una parte di quei poteri-ombra, Trump lascia capire che – in cambio – abbandonerà i palestinesi al loro destino: ha dichiarato che Gerusalemme sarà proprietà esclusiva di Israele e che gli insediamenti nei Territori Occupati non sono un ostacolo per la pace in Medio Oriente. Un’evidente concessione tattica alla lobby israeliana, che è uno dei poteri schierati con Hillary. Trump sta provando a destreggiarsi, ben sapendo che «difficilmente i veri poteri Usa si rassegneranno a perdere l’egemonia completa sul mondo». Se così fosse, c’è già Bolton a ricordargli che dovrà guardarsi anche dal “terrorismo interno”. La questione è della massima serietà e pericolosità, insiste Mazzucco: «Anche Obama, appena eletto, pensava davvero di potersi ritirare dall’Afghanistan». Forse non sapeva ancora che «le decisioni non le prende il presidente». Ogni mattina, alla Casa Bianca, riceve il briefing del capo dell’Fbi, che lo informa di quello che succede all’interno del paese, e quello del capo della Cia, che gli racconta quello che succede nel resto del mondo. «Quindi è chi controlla quei briefing che, in realtà, fa fare le scelte al presidente».«Se vai da Obama e gli dici: guarda che qui, a meno di mettere 30.000 soldati in più, ci portano via tutto, gli oleodotti, le basi che li controllano e anche le coltivazioni di oppio da cui dipende il traffico mondiale di eroina, che avviene sotto il controllo statunitense, è chiaro che ti trovi un Obama che, dopo aver vinto il Premio Nobel, manda 30.000 soldati in più in Afghanistan a combattere». Ma, appunto, «dipende da quello che gli raccontano i veri poteri», cioè il complesso militare-industriale, il Pentagono, la Cia: «Sono loro che cercheranno di condizionare anche Trump». Aggiunge Mazzucco: «Io al posto di Obama avrei preteso le prove di quanto mi veniva detto, ma è anche vero che le prove si fabbricano in fretta: è facile condizionare un presidente». Non ci riuscirono solo in un caso: quello di Kennedy. Fu «l’ultimo, vero presidente della storia americana». E cercò di smantellare la Cia, «proprio perché aveva capito che era diventato un centro di potere molto più forte della presidenza». Kennedy aveva già avviato lo smantellamento dell’intelligence: «Ha iniziato licenziando il capo della Cia, Allen Dulles, per la storia della Baia dei Porci», lo sgangherato piano per rovesciare Fidel Castro con il disastroso tentativo di invasione di Cuba, affidato a mercenari.Come sappiamo, però, Kennedy «non ha fatto in tempo a finire il lavoro: è stato fatto fuori da un’alleanza tra la Cia e la mafia», ovvero: «La Cia l’ha deciso e la mafia ha fatto l’esecuzione». Curiosamente, aggiunge Mazzucco, nel ruolo più importante della Commissione Warren, incaricata delle indagini ufficiali, il nuovo presidente Lyndon Johnson «ha messo proprio Allen Dulles, cioè l’ex direttore della Cia licenziato da Kennedy». A giudicare chi è fosse stato a uccidere Kennedy misero proprio la principale vittima politica di Kennedy, il “pezzo da novanta” che Jfk era riuscito a far fuori durante la sua presidenza. «I due Kennedy sapevano che sarebbero morti, ma decisero di andare fino in fondo». Due casi più unici che rari: «Non credo ci siano state altre persone così testarde, di fronte agli “avvisi” ricevuti». Bush abbandonò il suo isolazionismo, Obama il suo pacifismo. Di che stoffa è fatto Donald Trump lo vedremo solo adesso. «Visti i precedenti, c’è da temere davvero un attentato “false flag”, un grande “avvertimento” al neopresidente che vorrebbe archiviare la guerra». Ottimismo? In una battuta: forse si può davvero “tifare” per Trump, «se non altro perché non gli hanno ancora dato il Nobel per la Pace».«Qualunque cosa farà Trump sarà sempre un decimo dei danni che avrebbe potuto fare la Clinton», ma il problema ormai è un altro: riuscirà a resistere alle micidiali pressioni cui è già sottoposto dal super-potere che aveva puntato su Hillary? Il neoeletto deve vedersela con il complesso militare-industriale, i neocon, la Cia, il Pentagono: gente che ha liquidato i Kennedy, che ha messo al guinzaglio Obama, che riportò all’ordine persino Bush, lui pure – all’inizio – isolazionalista quanto Trump. Lo scrisse un neocon di razza come Michael Ledeen: «Quando Bush fu eletto, nel 2000, pensava all’America; poi venne l’11 Settembre e da quel momento capì che doveva continuare a occuparsi del mondo intero». Ledeen lo dice chiaramente, facendo capire che furono loro a fargli cambiare idea. «Oggi non serve neppure più eliminare fisicamente un presidente», spiega Massimo Mazzucco: «In genere bastano gli avvertimenti». Come quello, inequivocabile, che un altro neocon come John Bolton, già ambasciatore Usa all’Onu, ha appena rivolto a Trump: il neopresidente, secondo Bolton, dovrà stare in guardia «contro il terrorismo internazionale e anche il terrorismo interno». Nuovo 11 Settembre in arrivo? O basta la semplice minaccia?