Archivio del Tag ‘omertà’
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Mani Pulite, sfasciare l’Italia per venderla ai suoi carnefici
Mani Pulite? Un “golpe” giudiziario per radere al ruolo la Prima Repubblica, corrotta fin che si vuole ma non disposta a demolire la sovranità nazionale. «La vecchia dirigenza Dc-Psi, che per anni, nel bene e nel male, aveva governato l’Italia – scrive Gianni Petrosillo – non avrebbe mai ceduto alle pressioni esterne tese ad ottenere la liquidazione degli asset strategici e patrimoniali del Belpaese, per una sua completa subordinazione a (pre)potenze straniere, in atto di ricollocarsi sullo scacchiere geopolitico dopo l’implosione dell’Unione Sovietica». Tutto ciò «verrà fatto dopo, dai residuati della Prima Repubblica, sospettamente scampati alla mannaia giudiziaria, pur avendo ricoperto ruoli e funzioni di primo piano per una lunga fase, e da nuovi partiti frettolosamente nati sulle macerie di quelli vecchi o appena riverniciati di falso moralismo necessario a mimetizzarsi tra scandali e persecuzioni». Un magistrato come Tiziana Maiolo denunciò le “stranezze” del pool di Milano, «il quale, incredibilmente, insabbiò le indagini sui comunisti e mise i bastoni tra le ruote a quei magistrati che avrebbero voluto fare maggiore chiarezza anche da quella parte».La stessa Maiolo, scrive Petrosillo su “Conflitti e Strategie”, «riprende la tesi del complotto della Cia nell’affaire Tangentopoli», anche se «non arriva a comprendere come gli americani potessero fidarsi dei comunisti, cresciuti sotto l’ala di Mosca, per raggiungere i loro scopi». Forse alla Maiolo erano sfuggiti «importanti spostamenti di campo che il Pci iniziò ad operare sin dalla fine degli anni ’60 e che diventarono sempre più evidenti con il compromesso storico, le dichiarazioni berlingueriane favorevoli alla Nato e i viaggi d’oltreoceano di Giorgio Napolitano». L’onda lunga del “tradimento” si completerà in seguito alla caduta dell’Urss con la svolta occhettiana della Bolognina, che porterà la “ditta” a cambiare apertamente nome e ragione sociale. «E’ vero che la gioiosa macchina da guerra del Pds s’ingripperà sul più bello, mentre dava l’assalto al potere», ma in effetti anche il complotto meglio pianificato può incontrare un inghippo: in quel caso l’inghippo fu Berlusconi, «catalizzatore del bacino elettorale dei partiti distrutti dai giudici».Quando il pool di Milano «procedeva come un carro armato e tutti aspettavano che finalmente andasse a colpire anche il Pci-Pds, che andasse a fondo, che facesse una pulizia totale», grande stupore destarono quindi le parole del procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, che in un’intervista rilasciata al quotidiano “L’Unità” il 26 maggio 1993 annunciò che a grandi linee l’inchiesta su Tangentopoli era finita, dopo aver colpito Dc e Psi e risparmiato il Pci-Pds. Fu lo stesso D’Ambrosio, aggiunge Petrosillo, a battersi per dimostrare che Primo Greganti, il faccendiere del Pci-Pds che aveva prelevato denaro in Svizzera dal “Conto Gabbietta”, «rubava per sé e non per il partito». Un paio di anni dopo, quando il quadro politico era radicalmente cambiato e non esistevano più la Dc né il Psi (ma esisteva ancora l’ex partito di Occhetto), il ministro di giustizia del governo Dini, Filippo Mancuso, avvierà un’ispezione nei confronti del pool di Milano, e la questione Greganti salterà di nuovo fuori. Dov’erano finiti quei soldi? «Nelle casse del Pci-Pds». Ma il pool di Milano cessò di indagare. E a Tiziana Parenti, la giovane magistrata che aveva osato sfidare i vertici della Quercia, l’inchiesta fu tolta.«Ci sarà un altro magistrato la cui inchiesta sul Pci-Pds si infrangerà su un muro di omertà complici e di “aiutini”», continua Petrosillo. Si tratta del procuratore di Venezia, Carlo Nordio, cui a un certo punto furono trasferiti anche atti provenienti da Milano. «L’interrogatorio di Luigi Carnevale, che chiamava in causa esplicitamente Stefanini, Occhetto e D’Alema, non arrivò mai. Si disse che era stata una “dimenticanza”. E così l’inchiesta di Venezia, come tante altre che si snodarono in tutta Italia, si risolse con le condanne dei pesci piccoli». E che dire di quel miliardo di lire che Raul Gardini, patron di Enimont, avrebbe consegnato a Botteghe Oscure, su cui esistono diverse testimonianze e per il quale Sergio Cusani fu condannato a sei anni di carcere? «Sparito nelle stanze buie della grande federazione del Pci-Pds. Nessun magistrato, né Di Pietro né in seguito i diversi tribunali individuarono in quali mani il denaro fosse finito. Per D’Alema e Occhetto non è mai valso il principio del “non poteva non sapere” o della “responsabilità oggettiva” con cui fu colpito Bettino Craxi. Eppure c’era stato il racconto (indiretto) di Sergio Cusani che aveva riferito di aver consegnato un miliardo nelle mani di Achille Occhetto».Il tribunale che condannò Cusani scrisse: «Gardini si è recato di persona nella sede del Pci portando con sé 1 miliardo di lire. Il destinatario non era quindi semplicemente una persona, ma quella forza di opposizione che aveva la possibilità di risolvere il grosso problema che assillava Enimont e il fatto così accertato è stato dunque esattamente qualificato come illecito finanziamento di un partito politico». Non si ricordano urla e strepiti del pubblico ministero Antonio Di Pietro (anche se chiederà timidamente di interrogare D’Alema), che dopo quel processo gettò la toga, scrive Petrosillo. Occhetto e D’Alema non furono neppure sentiti e il miliardo passò alla storia come finanziamento illegale “a un partito”. Francesco Misiani, pm romano di sinistra aderente alla corrente più radicale di “Magistratura democratica”, ha spiegato in un libro quale fosse il suo stato d’animo quando scoprì che il Pci-Pds, «lungi dal rappresentare quella “diversità” su cui tanto si era appassionato Enrico Berlinguer, era invece assolutamente omologo (un terzo, un terzo, un terzo) ai partiti di governo e, proprio come aveva denunciato l’inascoltato Craxi, si era sempre finanziato in modo illecito o illegale». Anzi, avendo anche ricevuto finanziamenti dall’Unione Sovietica, come racconterà con franchezza in un altro libro Gianni Cervetti, aveva persino maggiore disponibilità finanziaria.Un politico di Forza Italia come Giuliano Urbani racconta: «Nel 1994, quando ero ministro del primo governo Berlusconi, fui avvicinato da alcuni professori miei amici, che erano legati alla Cia, i quali mi misero in guardia da Di Pietro, mi suggerirono di diffidare della persona. Mi dissero con certezza che Di Pietro nella costruzione di tangentopoli era stato aiutato dai servizi segreti americani». Secondo i “contatti” di Urbani, il desiderio di vendetta degli Stati Uniti nei confronti di Craxi, Spadolini e Andreotti per i fatti di Sigonella ebbe diversi strumenti operativi, tra cui appunto l’uso di Tonino Di Pietro. «Il quale in effetti arrivò, distrusse e se ne andò. Su mandato dei servizi segreti americani». Il racconto di Urbani, proprio perché proviene da un liberale che arrivò nei palazzi del potere “dopo”, e quindi non aveva nessun motivo di revanchismo nei confronti del Pm di Mani Pulite, sembra convincente: «Quegli amici mi hanno avvicinato per avvertirmi della doppiezza dell’uomo, che era stato protagonista di una pagina oscura. E mi hanno proprio cercato loro, appositamente». Vengono con facilità alla memoria quelle trattative, poi saltate, per far entrare Di Pietro nel governo Berlusconi. E i dubbi aumentano. «Sappiamo come è cominciata, ma non sappiamo perché», osserva Petrosillo. «Perché una colossale retata giudiziaria a strascico abbia rivoluzionato la fisionomia politica del paese».C’è chi ha sposato la teoria del complotto internazionale, scrive Petrosillo. Sostenuta da molti esponenti governativi prestigiosi della Prima Repubblica (Craxi in primis), questa ipotesi parte dal presupposto che la magistratura fino al 1992 ignorò il finanziamento illecito dei partiti. Poi, con l’arresto di Mario Chiesa, il caso esplose e si trasformò in un “processo al sistema”. «Qualcuno, si dice, aveva interesse ad annientare l’intera classe politica al governo e sostituirla con un’altra. Chi? Perché?». Francesco Cossiga ha fatto parte di coloro che hanno creduto al complotto internazionale. In una delle sue ultime interviste, attribuì alla Cia un ruolo importante sull’inizio di Tangentopoli, così come sulle “disgrazie” di Craxi e Andreotti. In quel periodo alla Casa Bianca c’erano amministrazioni del Partito democratico, «le più interventiste e implacabili». Un altro boss della Prima Repubblica, l’ex ministro democristiano Paolo Cirino Pomicino, sostiene che il “complotto” iniziò proprio nel 1992, la data fatidica di Mani Pulite. In quei giorni il capo della Cia, James Woolsey, spiegò che l’amministrazione Clinton aveva disposto un vero spionaggio industriale, e a Milano sbarcò l’agenzia privata di investigazioni Kroll. Gli Usa raccolsero corposi dossier sul finanziamento illecito. E il capo della Cia fece sapere al suo governo che c’era la possibilità di far scoppiare scandali, se fosse servito.Nell’analisi di Cirino Pomicino, aggiunge Petrosillo, c’è anche la Gran Bretagna, dove «la Thatcher aveva perso la battaglia sulla moneta unica e gli americani iniziarono una politica aggressiva per difendere il dollaro», oltre che una certa attenzione ai problemi avuti da Chirac in Francia e Kohl in Germania. In quel momento «sarebbe stata scelta l’Italia, come luogo dove far scoppiare lo scandalo». Il punto debole, conclude Petrosillo, è la strategia che gli americani avrebbero avuto sul “dopo”. «Chi assaltò il Palazzo d’inverno, chi prese la Bastiglia aveva un progetto per il giorno dopo la rivoluzione. I servizi segreti americani avevano dunque un accordo con Occhetto? Oppure con quei “poteri forti” che cercavano la discontinuità e che non ameranno mai Berlusconi, trattato sempre come un Maradona, geniaccio arrivato d’improvviso dalle favelas?». La risposta è nei fatti, dal Britannia in poi, col clamoroso precedente del divorzio tra il Tesoro e Bankitalia, quando la banca centrale era retta da Ciampi. Lo ha spiegato molto bene Nino Galloni, consulente di Andreotti alla vigilia del Trattato di Maastricht: l’Italia fu deliberatamente azzoppata, con la complicità delle sue élite tecnocratiche in quota al futuro centrosinistra, per sabotare il sistema produttivo nazionale, come chiedeva la Germania per aderire all’euro e gestire il disegno strategico di indebolimento generale dell’Europa. Il resto è cronaca, e si chiama crisi.Mani Pulite? Un “golpe” giudiziario per radere al ruolo la Prima Repubblica, corrotta fin che si vuole ma non disposta a demolire la sovranità nazionale. «La vecchia dirigenza Dc-Psi, che per anni, nel bene e nel male, aveva governato l’Italia – scrive Gianni Petrosillo – non avrebbe mai ceduto alle pressioni esterne tese ad ottenere la liquidazione degli asset strategici e patrimoniali del Belpaese, per una sua completa subordinazione a (pre)potenze straniere, in atto di ricollocarsi sullo scacchiere geopolitico dopo l’implosione dell’Unione Sovietica». Tutto ciò «verrà fatto dopo, dai residuati della Prima Repubblica, sospettamente scampati alla mannaia giudiziaria, pur avendo ricoperto ruoli e funzioni di primo piano per una lunga fase, e da nuovi partiti frettolosamente nati sulle macerie di quelli vecchi o appena riverniciati di falso moralismo necessario a mimetizzarsi tra scandali e persecuzioni». Un magistrato come Tiziana Maiolo denunciò le “stranezze” del pool di Milano, «il quale, incredibilmente, insabbiò le indagini sui comunisti e mise i bastoni tra le ruote a quei magistrati che avrebbero voluto fare maggiore chiarezza anche da quella parte».
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Banda d’Italia, “vigila” sulle banche obbedendo ai banchieri
E’ un riflesso condizionato: se uno dice Banca d’Italia a me vengono subito in mente Paolo Baffi, Mario Sarcinelli e Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidatore della Banca Privata di Michele Sindona che pagò con la vita la sua dedizione al Paese, al bene comune, all’onestà e alla verità. Poi, certo, ci sono altri grandi, grandissimi economisti che hanno ricoperto il ruolo di governatore prima di Baffi o che gli sono succeduti, come Carlo Azeglio Ciampi. Ma a me, in quegli anni in cui ero ragazzo, il senso “forte” dell’istituzione Banca d’Italia lo hanno trasmesso quei tre uomini con il loro esempio. Ecco perché ho trovato particolarmente dolorosa la lettura di “La Banda d’Italia” (Chiarelettere), il libro-inchiesta di Elio Lannutti su un’istituzione che da diversi anni ormai sembra essersi trasformata nel contrario di ciò che era. Lettura dolorosa ma rivelatrice di un inganno fattosi sistema attraverso la collusione con i controllati, favorita anche dal meccanismo delle porte girevoli che consentono passaggi “arditi”, come quelli dei molti ispettori e funzionari divenuti dirigenti bancari, per non parlare delle nomine ai più alti livelli dell’istituto centrale concertate con gli azionisti, cioè le banche.Quello che Lannutti mette in luce con la forza dei dati e di quasi trent’anni di battaglie a fianco dei correntisti e dei risparmiatori è un sistema autoreferenziale e omertoso dove la vigilanza viene usata come una clava contro i piccoli per costringerli a consegnarsi ai grandi. Una vigilanza che, contrariamente a quanto accadeva ai tempi di Carli e di Baffi, si guarda bene dal vigilare. O, se vigila, viene annichilita come accaduto non molti anni fa nell’era di Antonio Fazio, l’ultimo governatore “a vita”. O ancora “silenziata”, come dice Lannutti a proposito di Mario Draghi e dell’acquisizione di Antonveneta da parte del Monte dei Paschi di Siena: «La Banca d’Italia guidata da Mario Draghi nel 2007 sapeva che Antonveneta era un cattivo affare, ma non trasmise le sue informazioni al Monte dei Paschi che la strapagò per 9 miliardi». A luglio il Tesoro diverrà azionista dell’istituto senese – terzo gruppo bancario italiano, tecnicamente “fallito” varie volte in questi anni grazie anche a quell’acquisizione – perché i bilanci sono ancora in perdita e dunque Siena non ha potuto pagare gli interessi sui cosiddetti Monti-bond, i prestiti miliardari gentilmente offerti dallo Stato a spese dei contribuenti.L’elenco dei disastri è lungo ed è costato miliardi ai risparmiatori, ma chi pensa che questo sia l’unico prezzo pagato è un illuso: il costo sistemico è enorme perché le banche italiane sono tre volte più care delle concorrenti europee, ma la Banca d’Italia non se ne preoccupa. Anzi, fornisce dati che sottostimano i costi effettivi delle banche misurati non solo dall’Adusbef, l’associazione degli utenti bancari di cui Lannutti è presidente, ma anche dall’Università Bocconi e da altre prestigiose istituzioni. Peggio ancora: “La Banda d’Italia” denuncia responsabilità precise di Via Nazionale nel mancato contrasto all’usura e sulla pratica dell’anatocismo (cioè il pagamento di interessi sugli interessi) e aggiunge il carico pesante dei privilegi della casta di Via Nazionale che gode non solo di stipendi al di fuori di ogni logica (il governatore della Banca d’Italia, ormai quasi privo di poteri, guadagna molto di più del presidente della Bce e di quello della Fed), ma anche di benefit più consoni a sceicchi che a funzionari pubblici, come l’uso della carta di credito per spese personali fino a 10mila euro al mese e case di lusso a prezzi calmierati. Per non parlare della banca interna riservata ai dipendenti.Quando è iniziata la mutazione genetica della più prestigiosa e antica istituzione italiana? Secondo Lannutti lo spartiacque è stato il 2003, il non accorgersi di quanto stava accadendo a Parmalat con oltre 3 miliardi di Riba (ricevute bancarie) falsificate. Da lì in poi è effettivamente accaduto di tutto: banche di provincia come la Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani balzate improvvisamente ai primi posti della graduatoria nazionale, baci in fronte al governatore, un utilizzo sempre più improprio di due beni preziosi quali l’autonomia e la discrezionalità e l’emergere di un madornale conflitto d’interessi essendo il controllore posseduto per oltre il 90% da banche e assicurazioni su cui esercita poteri di vigilanza e che, tra molti favori e regalie, hanno beneficiato anche della super-rivalutazione delle quote disposta dall’ex ministro del Tesoro Fabrizio Saccomanni, già direttore generale di Bankitalia. Dal caso della Banca dell’Etruria allo strano commissariamento del Banco di Credito di Siracusa, passando per le Coop e i molti casi di svolgimento abusivo dell’attività bancaria: la “Banda d’Italia”, come recita il sottotitolo, è “la prima vera inchiesta su Bankitalia, la super casta degli intoccabili che governa i nostri soldi” e non a caso denuncia le lacune dell’informazione italiana che – salvo rare eccezioni – su Via Nazionale e le sue vicende preferisce far calare la coltre del silenzio.(Francesco Scorza, “Banca d’Italia, l’altra casta. Vigilanza a danno dei piccoli e dei risparmiatori”, dal “Fatto Quotidiano” del 26 giugno 2015. Il libro: Elio Lannutti, “La Banda d’Italia. La prima vera inchiesta su Bankitalia, la super-casta di intoccabili che governa i nostro soldi”, Chiarelettere, 146 pagine, 13 euro).E’ un riflesso condizionato: se uno dice Banca d’Italia a me vengono subito in mente Paolo Baffi, Mario Sarcinelli e Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidatore della Banca Privata di Michele Sindona che pagò con la vita la sua dedizione al Paese, al bene comune, all’onestà e alla verità. Poi, certo, ci sono altri grandi, grandissimi economisti che hanno ricoperto il ruolo di governatore prima di Baffi o che gli sono succeduti, come Carlo Azeglio Ciampi. Ma a me, in quegli anni in cui ero ragazzo, il senso “forte” dell’istituzione Banca d’Italia lo hanno trasmesso quei tre uomini con il loro esempio. Ecco perché ho trovato particolarmente dolorosa la lettura di “La Banda d’Italia” (Chiarelettere), il libro-inchiesta di Elio Lannutti su un’istituzione che da diversi anni ormai sembra essersi trasformata nel contrario di ciò che era. Lettura dolorosa ma rivelatrice di un inganno fattosi sistema attraverso la collusione con i controllati, favorita anche dal meccanismo delle porte girevoli che consentono passaggi “arditi”, come quelli dei molti ispettori e funzionari divenuti dirigenti bancari, per non parlare delle nomine ai più alti livelli dell’istituto centrale concertate con gli azionisti, cioè le banche.
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Sapir: aprite gli occhi, l’euro sta portando l’Europa in guerra
Gettare l’euro nella spazzatura della storia. Lo chiede a gran voce il partito euroscettico tedesco “Alternative für Deutschland”, che dopo le ultime elezioni è entrato nelle assemblee locali di molti länder tedeschi. In allarme per le reazioni anti-tedesche in tutta Europa, nel suo recente memorandum sulla questione della Grecia, Afd si pronuncia a favore di un’uscita di Atene dall’Eurozona e per uno smantellamento generale di quest’ultima. I problemi di competitività dei paesi membri dell’area euro? Irrisolvibili, se non si possono svalutare le monete rispetto a quelle di economie più competitive. Afd, rileva l’economista francese Jacques Sapir, sottolinea infine come le cosiddette strategie di “svalutazione interna” si siano dimostrate disastrose da un punto di vista sociale, oltre che inefficaci: hanno infatti gettato più di mezza Europa in una trappola di “euro-austerità”. Oltre a Afd, in Germania ne parla anche una parte della Linke, legata a Oskar Lafontaine, mentre in Italia si segnalano voci no-euro come quelle di Stefano Fassina, esponenti di Forza Italia e del M5S, in linea col dibattito critico in corso anche in Olanda e in Spagna.«La Francia – scrive Sapir, in un post ripreso da “Vox Populi” – resta il solo paese in cui l’omertà dell’Ump e del Ps ha strozzato il dibattito», fondamentale per il futuro dell’Europa, «le cui tinte stanno diventando sempre più fosche a causa dell’esistenza dell’euro». Non è solo una questione economica o finanziaria, continua Sapir: non si sono mai viste né un’ampia unione di trasferimenti, né un’unione fiscale e men che meno un’unione sociale, «che avrebbero dovuto essere realizzate se si fosse voluto che l’euro avesse successo». Di tutto questo, «tutti i popoli dell’Unione economica e monetaria ne stanno ora pagando il prezzo». Ma quella dell’euro è anche e soprattutto una questione politica: «Avendo preteso – certamente a torto – che l’euro rappresentasse il completamento dell’Unione Europea, ora le classi dirigenti dei paesi membri sono terrorizzate dalla prospettiva di un suo fallimento, di cui perfino i più cocciuti tra loro iniziano a rendersi conto, e dalle conseguenze politiche che ne deriveranno».Credono che la fine dell’euro significherebbe la fine dell’Europa? «Non si rendono conto che è l’esistenza stessa dell’euro a sollevare un popolo contro l’altro, a far rivivere i vecchi antagonismi, ad aver fatto della guerra economica tra i paesi membri la normalità quotidiana, finché il conflitto militare, cosa che oggi è da temere, non arrivi a sostituirsi a questo conflitto economico». L’euro, continua Sapir, «distrugge i singoli paesi membri anche mettendo i lavoratori contro altri lavoratori, inventando nuove divisioni tra chi si avvantaggia dell’euro (in realtà una piccola minoranza) e chi invece vede la sua vita e il suo lavoro distrutti dall’euro, ed è questa ormai la realtà quotidiana per una maggioranza». Apriamo gli occhi, insiste Sapir: «La realtà è che l’euro ha distrutto l’Europa: non solamente le sue strutture istituzionali, che sarebbe dopotutto il male minore, ma anche le sue radici politiche e culturali. L’euro è la guerra. Ed è per questo che la dissoluzione dell’Eurozona non è solamente un obiettivo economico desiderabile, ma anche un’urgenza politica del nostro tempo».Gettare l’euro nella spazzatura della storia. Lo chiede a gran voce il partito euroscettico tedesco “Alternative für Deutschland”, che dopo le ultime elezioni è entrato nelle assemblee locali di molti länder tedeschi. In allarme per le reazioni anti-tedesche in tutta Europa, nel suo recente memorandum sulla questione della Grecia, Afd si pronuncia a favore di un’uscita di Atene dall’Eurozona e per uno smantellamento generale di quest’ultima. I problemi di competitività dei paesi membri dell’area euro? Irrisolvibili, se non si possono svalutare le monete rispetto a quelle di economie più competitive. Afd, rileva l’economista francese Jacques Sapir, sottolinea infine come le cosiddette strategie di “svalutazione interna” si siano dimostrate disastrose da un punto di vista sociale, oltre che inefficaci: hanno infatti gettato più di mezza Europa in una trappola di “euro-austerità”. Oltre a Afd, in Germania ne parla anche una parte della Linke, legata a Oskar Lafontaine, mentre in Italia si segnalano voci no-euro come quelle di Stefano Fassina, esponenti di Forza Italia e del M5S, in linea col dibattito critico in corso anche in Olanda e in Spagna.
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Giannuli: non credo al Grande Complotto, fuori le prove
Cari complottisti, non esagerate: la «implausibiltà» delle vostre tesi è spesso così clamorosa da costituire il miglior regalo al potere che, «attraverso i suoi manutengoli nei mass media», potrà agevolmente provvedere a «ridicolizzare ogni tentativo di mettere in discussione le “verità ufficiali”». Storico e politologo, esperto di servizi segreti e trame oscure, il professor Aldo Giannuli avverte il bisogno di mettere in guardia dall’eccesso di dietrologia i lettori del suo blog. Il web è inondato da milioni di informazioni su piste scomode, che il mainstream silenzia accuratamente? Non importa: per Giannuli il problema è la proliferazione incontrollata di tesi non dimostrate. La definisce «una moda», evidentemente preoccupante visto che in Italia «miete molti consensi a sinistra o in ambienti come quello dei 5 Stelle, degli ex “Italia dei Valori”, lettori del “Fatto” e del “Manifesto”». La colpa? E’ dell’attuale «processo di spoliticizzazione di massa», che secondo Giannuli «apre spazio ad un immaginario para-magico sostitutivo delle categorie politiche di analisi».Eppure, annota il docente dell’ateneo milanese, il «paradigma “complottista”» nasce in ambienti di destra nel XIX secolo, «avendo a bersaglio fisso massoni ed ebrei», in diversi casi accomunati in un’unica congiura. «E’ il mondo cattolico – scrive Giannuli – il primo ventre fecondo di questo indirizzo, che vede la modernità stessa come il frutto della congiura diabolica dei massoni: dalla Rivoluzione Francese all’Unità d’Italia, dall’industrialismo allo sviluppo del capitale finanziario, dal modernismo alla rivoluzione sessuale è tutto il prodotto di essa». Non è difficile, in questo, scorgere l’eredità della Santa Inquisizione, «che spiegava eresie e rivolte con l’intervento del Maligno attraverso infedeli (ebrei in testa), streghe e indemoniati: il “Malleus maleficarum” è un testo di rara chiarezza a questo proposito». A questo filone principale, continua Giannuli, si aggiunse in seguito l’antisemitismo di destra, alimentato dai falsi della polizia politica zarista (i “Protocolli dei Savi di Sion”), poi sfociato nel nazismo. «La crisi del 1929 offrì una formidabile occasione per l’antisemitismo», e infatti si scaricò la catastrofe «sulle spalle della congiura finanziaria ebraica».Infine, ad alimentare e modernizzare l’immaginario complottista, giunse la crescita dello spionaggio dalla Prima Guerra Mondiale in poi: «L’ossessione della spia in agguato crebbe per tutti i decenni centrali del secolo scorso, producendo un genere letterario e cinematografico che contribuì non poco a socializzare le masse a questa “cultura del sospetto”». Secondo Giannuli, «il paradigma complottista è stato preparato in cucine di destra (cattolicesimo tradizionale, antisemitismo nazista, servizi segreti e derivazioni letterarie)», mentre poi «a “sdoganarlo” a sinistra fu lo stalinismo con le sue ossessioni e la sua caccia alle streghe trotzkjiste (manco a dirlo: ebrei anche quelli, come il loro capo)». Finita la guerra, scese in campo la “controinformazione”, con la missione di rompere il silenzio omertoso attorno al potere, partendo dall’analisi critica delle apparenze: «Spesso le apparenze ingannano, soprattutto nei casi più oscuri e drammatici come stragi, assassinii politici, colpi di Stato o scandali finanziari, per cui occorre indagare con spirito critico». E’ quello che si dovrebbe fare sempre, per esempio «su un “suicidio” dietro il quale si nasconde un omicidio». Il punto è, soprattutto nei casi “politici”, «la polizia non è una parte fuori del conflitto, ma un personaggio in commedia, che spesso falsifica, omette, depista, confonde le acque».Nei casi politici, la ricerca del movente politico è un pezzo decisivo dell’indagine. Ma la riflessione critica – secondo la scuola della controinformazione – deve sempre muoversi sul filo della razionalità. «Il fatto che una versione ufficiale “non quadri” logicamente, non significa che si possano dipingere gli scenari più fantasiosi e intimamente incoerenti». Quindi, primo passo: «Una versione falsificata dice solo che le cose non possono essere andate nel modo in cui essa le racconta, ma non ci dice ancora come è andata davvero». In secondo luogo, «l’apparenza va processata logicamente, non rimossa». Se emergono aspetti dubbi, incoerenti o anche spudoratamente falsi, questo «non autorizza a mettere da parte tutto il resto come falso e incoerente: ogni singolo aspetto di quel che ci appare va accolto come vero sino a prova contraria. Si può accettarlo “con beneficio di inventario” ma bisogna comunque accettarlo, perché ci si priverebbe degli elementi su cui lavorare». Infine, occorre distinguere sempre fra prove e indizi, certezze e semplici ipotesi. «L’importante è che la spiegazione “certa” (ovviamente “certa” solo sino a prova contraria che dimostri l’errore) non nasca troppo presto. E qui c’è l’errore classico dei dilettanti: prima formulare la ricostruzione d’insieme e dopo andare cercando prove e indizi a sostegno».A Giannuli non piace che si evochi – o si denunci – l’esistenza di «un vertice mondiale che tutto dirige e regola». Obiezione: «Se ci fosse questa “cupola mondiale” si dovrebbe registrare un quadro mondiale sostanzialmente aconflittuale o al massimo con limitatissimi conflitti periferici, mentre la nostra conoscenza ci indica un mondo attraversato da crescenti conflitti tutt’altro che periferici e una sostanziale assenza di ordine internazionale». Secondo quello che Giannuli definisce teorema “complottista pregiudiziale”, le crisi finanziarie non sono altro che fenomeni intenzionalmente manovrati per impoverire chi è già povero a spese dell’élite. «Può anche darsi che le cose stiano così, ma spetta a chi fa queste affermazioni produrre le prove a sostegno», replica il professore. «Ad esempio: constatare che la crisi ha lasciato come sedimento (almeno sinora) un aumento delle diseguaglianze, con ricchi ancor più ricchi e poveri sempre più poveri, non basta a dimostrare che quell’esito sia stato cercato sin dall’inizio e la crisi appositamente provocata, perché esso potrebbe essere stato solo il prodotto oggettivo, ma non prevedibile, di un processo innescato da altri fattori».Il guaio è che il “complottista pregiudiziale”, per Giannuli, «non avverte normalmente questa esigenza di rigore analitico», perché «obbedisce prima di tutto a uno stato d’animo, l’ansia per i pericoli da cui si sente minacciato, l’angoscia per la sua impotenza di fronte ad un mondo ostile e buio». Il professore si esprime con durezza: «La stupidità è sempre nemica dell’intelligenza e serva del potere», sentenzia. Trascurando il fatto – non proprio irrilevante – che se oggi il dibattito sulle “vere cause” della grande crisi appassiona milioni di persone, lo si deve essenzialmente a tanti “complottisi”, regolarmente denigrati, certamente spaventati da un mondo sempre più spietato e incomprensibile, ma soprattutto scandalizzati dal silenzio assordante del mainstream mediatico, televisivo, editoriale, accademico, politico, sindacale. La grande crisi sta facendo a pezzi l’Europa e quel che resta della pace del mondo. Chi doveva fornire spiegazioni, non l’ha fatto. Se non altro, i “complottisti” ci provano. L’alternativa è il silenzio sordo di un establishment marmoreo, muto anche di fronte alle denunce più serie e circostanziate.Cari complottisti, non esagerate: la «implausibiltà» delle vostre tesi è spesso così clamorosa da costituire il miglior regalo al potere che, «attraverso i suoi manutengoli nei mass media», potrà agevolmente provvedere a «ridicolizzare ogni tentativo di mettere in discussione le “verità ufficiali”». Storico e politologo, esperto di servizi segreti e trame oscure, il professor Aldo Giannuli avverte il bisogno di mettere in guardia dall’eccesso di dietrologia i lettori del suo blog. Il web è inondato da milioni di informazioni su piste scomode, che il mainstream silenzia accuratamente? Non importa: per Giannuli il problema è la proliferazione incontrollata di tesi non dimostrate. La definisce «una moda», evidentemente preoccupante visto che in Italia «miete molti consensi a sinistra o in ambienti come quello dei 5 Stelle, degli ex “Italia dei Valori”, lettori del “Fatto” e del “Manifesto”». La colpa? E’ dell’attuale «processo di spoliticizzazione di massa», che secondo Giannuli «apre spazio ad un immaginario para-magico sostitutivo delle categorie politiche di analisi».
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Grillini, ragionate: sono ben altri i ladri del nostro futuro
Fin dagli albori ho seguito con attenzione genesi ed evoluzione del “Movimento 5 Stelle”, avanguardia italiana capace di cristallizzare un moto di ribellione e di protesta oramai estesosi, con declinazioni differenti, in tutto il Vecchio Continente. La perversa alleanza che unisce in funzione pro-austerity i vertici del Partito Popolare Europeo con i pari grado del Partito Socialista, non poteva infatti alla lunga non provocare l’esplosione elettorale di nuovi partiti e movimenti in grado di incanalare il crescente malcontento nei confronti di un establishment considerato a ragione corrotto e infingardo. “Podemos” in Spagna, Syriza in Grecia, il Front National in Francia e l’Ukip in Inghilterra, solo per fare gli esempi più evidenti, sono termometri diversi che registrano però la capillare e omogenea diffusione ad ogni latitudine degli stessi identici sentimenti: ovvero rabbia, disillusione e sfiducia nei confronti delle forze politiche “tradizionali”. In questo campo, oggettivamente, il “Movimento 5 Stelle” può orgogliosamente affermare di avere aperto una breccia e indicato una strada.Per queste ragioni, pur non sfuggendomi alcuni evidenti limiti ontologici, avevo in passato più volte invitato ai miei lettori a votare per i pentastellati. Non accordare consenso ai partiti che hanno sostenuto governi come quello di Mario Monti è il primo, insufficiente, passo per raggiungere una libertà che cammini sulla ali della consapevolezza. Limitarsi però ad evidenziare le aberrazioni altrui senza contestualmente costruire una alternativa politica credibile, coerente e ideologicamente orientata è prassi sterile e in prospettiva perdente. Renzi, ennesimo curatore fallimentare nominato premier dal presidente Napolitano (quest’ultimo in forza alla Ur-Lodge “Three Eyes” fin dal 1978), è riuscito a “svuotare” in parte il bacino elettorale del Movimento di Grillo e Casaleggio, sfidandoli proprio sul loro terreno: quello delle retorica contro la Casta, gli sprechi, i corrotti e altre simili amenità, non a caso alimentate e fomentate dai giornali di regime fin dai tempi di Mani Pulite.La Rottamazione di Renzi rappresenta nulla di più che l’evoluzione, perfezionata e politicamente corretta, del già rodato “tutti a casa” di grillina memoria. Al sistema schiavista dominante, quello che parla per bocca di ectoplasmi con la penna che creano ad arte finti mostri come lo spread e il debito pubblico, interessa poco della sorte personale dei diversi burattini che si alternano al governo del paese; ai padroni veri, quelli che operano all’interno dei templi più esclusivi ed occulti, interessa soltanto che non vengano messi in discussione i paradigmi concettuali che legittimano la prosecuzione di politiche antisociali e disumane. Per queste ragioni, tempo fa, rimasi inorridito nel leggere una intervista rilasciata da Casaleggio al “Fatto Quotidiano” contenente un indiscriminato attacco alla spesa pubblica degno di un Enrico Letta qualsiasi. Perché mai, mi chiesi allora, il “Movimento 5 Stelle” sceglie una narrazione dei fatti terribilmente simile a quella recitata dai vari Napolitano, Renzi e Merkel? E’ possibile si tratti di una opposizione di comodo, nata cioè con lo specifico intento di fornire agli altri una buona scusa per formare all’infinito governi consociativi ed etero-diretti dall’esterno?Questo rovello mi ha inseguito fino al 5 gennaio scorso, giorno in cui il blog di Grillo ha deciso coraggiosamente di pubblicare una riflessione di Gioele Magaldi, leader del movimento massonico di opinione Grande Oriente Democratico nonché autore del fortunato libro “Massoni” (Chiarelettere editore). Solo degli uomini liberi, infatti, possono permettersi di rilanciare le tesi di Magaldi senza dover chiedere il preventivo consenso del “maestro venerabile” di turno. E Grillo e Casaleggio, evidentemente, appartengono alla categoria degli uomini e non a quella, nutritissima, dei quaquaraquà. Certo, dopo anni passati a dispensare letture delle realtà molto semplificate, non sarà agevole spingere i militanti e i simpatizzanti del “Movimento 5 Stelle” ad abbracciare immediatamente una dimensione politica più articolata. Sono comunque certo del fatto che le tante sottili intelligenze che animano il Movimento di Grillo colgono l’impellente necessità di uno scatto in avanti.Non a caso, anche oggi, dimostrando una lodevole apertura mentale, Grillo ha pubblicato sul suo blog un articolo chiaramente e positivamente influenzato dalla fruttuosa lettura del libro “Massoni”. Nelle more del summenzionato pezzo, infatti, Grillo scrive: «Il miglioramento rispetto ai picchi dello spread di novembre 2011 pilotato per cacciare Berlusconi e imporre Monti e la sua “Three Eyes” in grembiulino…», dando perciò prova di avere già indossato le pregiate lenti offerte da Magaldi. Giusto per essere precisi, è bene sottolineare come Mario Monti risulti organico tanto alla superloggia “Babel Tower”, quanto alla Gran Loggia Unita d’Inghilterra. Alla Ur-Lodge “Three Eyes”, invece, fondata da Kissinger, Brzezinski e David Rockefeller nel 1967, è affiliato fin dall’aprile del 1978 il nostro presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (ma non Mario Monti). Ma questi sono dettagli. Il dato davvero importante è quello che testimonia come oggi, in Italia, esista una forza politica importante che conserva la libertà di chiedere conto al sistema dominante di fatti e dinamiche decisive, graniticamente silenziate da un circuito mediatico omertoso che invoca implicitamente un oblio che mai otterrà.(Francesco Maria Toscano, “Il Movimento 5 Stelle è perfezionabile, ma è guidato da uomini liberi”, da “Il Moralista” del 9 gennaio 2015).Fin dagli albori ho seguito con attenzione genesi ed evoluzione del “Movimento 5 Stelle”, avanguardia italiana capace di cristallizzare un moto di ribellione e di protesta oramai estesosi, con declinazioni differenti, in tutto il Vecchio Continente. La perversa alleanza che unisce in funzione pro-austerity i vertici del Partito Popolare Europeo con i pari grado del Partito Socialista, non poteva infatti alla lunga non provocare l’esplosione elettorale di nuovi partiti e movimenti in grado di incanalare il crescente malcontento nei confronti di un establishment considerato a ragione corrotto e infingardo. “Podemos” in Spagna, Syriza in Grecia, il Front National in Francia e l’Ukip in Inghilterra, solo per fare gli esempi più evidenti, sono termometri diversi che registrano però la capillare e omogenea diffusione ad ogni latitudine degli stessi identici sentimenti: ovvero rabbia, disillusione e sfiducia nei confronti delle forze politiche “tradizionali”. In questo campo, oggettivamente, il “Movimento 5 Stelle” può orgogliosamente affermare di avere aperto una breccia e indicato una strada.
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Il marcio Juncker? Perfetto per imporre all’Europa il Ttip
Imbarazzante, impresentabile, ricattabile. Cioè perfetto, per eseguire ordini senza discutere. E’ l’increscioso profilo del lussemburghese Jean-Claude Juncker, imposto dalla Germania alla guida della Commissione Europea. A tracciare il “nuovo” identikit di Juncker, massimo protettore europeo dell’evasione fiscale per i super-ricchi, è l’esplosivo dossier realizzato da Icij, consorzio internazionale di giornalisti basato negli Usa. In realtà, precisa Paolo Raffone, l’indagine svela una realtà già arcinota: da piccolo paese agricolo, il Lussemburgo si è trasformato in potenza finanziaria, collegata sia alla Svizzera sia alla corona britannica, e dagli anni ‘70 ha accomodato convenientemente gli interessi finanziari, con la massima discrezione, di Stati, imprese e facoltose famiglie. Semmai, l’offensiva anche mediatica contro l’indifendibile Juncker – a sua volta a capo di un’istituzione ormai famigerata come la Commissione Europea – può solo preludere a una stretta finale della finanza e delle multinazioni anglosassoni, che attraverso le loro potentissime lobby premeranno sul lussemburghese per ottenere la capitolazione dell’Europa di fronte al Ttip, il Trattato Transatlantico che metterebbe fine alla residua sovranità europea sulle merci e sulla tutela del suolo, della salute e della sicurezza alimentare.L’anello debole, oggi, si chiama innanzitutto Juncker. Qualcuno, scrive Raffone sul “Sussidiario”, dovrebbe ricordarsi dello scandalo Clearstream (“flusso pulito”), esploso grazie a un giornalista tra il 2001 e il 2002, che dimostrava come dagli anni ‘70 era stata creata una “camera di compensazione” per rendere non tracciabili le transazioni finanziarie. «Clearstream serviva da piattaforma “legale” per le compensazioni inter-bancarie (attività perfettamente illegale) che offriva soluzioni mondiali per l’evasione fiscale e il riciclaggio di denaro». Finite nel nulla le prime inchieste giudiziarie avviate in Lussemburgo e in Francia. Seguì una seconda indagine francese, nota come “Clearstream 2”, che attorno alla costituzione di fondi neri dell’industria franco-tedesca della difesa, Eads, coinvolse il presidente Jacques Chirac e il ministro Dominique De Villepin, ma anche indirettamente il presidente Nicolas Sarkozy e numerosi membri dell’establishment francese, oltre a oligarchi russi e narcotrafficanti colombiani. Nel 2013 si concluse con l’assoluzione dei molti politici coinvolti e la condanna di alcuni alti dirigenti della Eads.Un’indagine parlamentare, diretta dall’ex ministro socialista Arnaud Montebourg (poi silurato da Hollande perché contrario al rigore della Troika) si è limitata alla pubblicazione di un rapporto sul riciclaggio, mentre un’indagine del Parlamento Europeo «ricevette l’incredibile risposta dell’allora commissario Frits Bolkestein che ritenne che “non vi erano ragioni di non credere alle autorità del Lussemburgo”». Nel 2006, continua Raffone, l’eurodeputato olandese Paul Van Buitenen, famoso per aver denunciato lo scandalo di corruzione che fece cadere la Commissione Santer, contestò a Barroso la presenza di Frits Bolkestein nella Commissione, visto che lo stesso era nel consiglio di amministrazione della Shell che aveva conti “occulti” con Clearstream. La risposta di Barroso? Burocraticamente evasiva, in pieno stile Ue: un altro lussemburgese, Jacques Santer, nel 1999 fu costretto a dimettersi da presidente della Commissione Europea per un caso di corruzione. Dal 2002, aggiunge Raffone, Clearstream è controllata al 100% da Deutsche Borse. E, insieme alla consorella Euroclear, che fu di Jp Morgan, è il secondo oligopolista mondiale come “depositario centrale internazionale”, cioè dove si trattano tutti gli eurobond e si opera la “clearence” delle transazioni, dai derivati ai conti bancari.Nel 2011, dopo 10 anni, Clearsteram ha perso tutte le cause contro Denis Robert, il giornalista che aveva reso nota la “lavanderia del Lussemburgo”. Clearstream è da sempre legalmente basata in Lussemburgo, continua Raffone, mentre Euroclear è in Belgio, dove dal 1973 risiede anche Swift, cioè il monopolista mondiale della rete di telecomunicazione per le relazioni finanziarie interbancarie, con oltre 9.000 istituzioni collegate in più di 209 paesi. «Coincidenze o il Benelux ha qualcosa di “speciale”?». Per Raffone, l’offensiva anti-Juncker coincide con la grave sconfitta di Obama nelle elezioni di midterm. E i finanziatori della Icij sono tutti anglosassoni, «ampiamente membri delle élites della mondializzazione e del “nuovo ordine mondiale”», mai teneri con l’Europa. Tra loro spiccano la Open Society Foundation (americana, legata a Soros), la Ford Foundation (americana, con collegamenti israeliani), la Adessium Foundation (famiglia Van Vliet, olandese naturalizzata americana e specializzata in asset management), il Sigrid Rausing Trust (famiglia di origine svedese proprietaria della Tetra Pack, basata nel Regno Unito), la David and Lucile Packard Foundation (la famiglia americana fondatrice di Hp), e poi Pew Charitable Trusts (americana, svolge attività di lobbying nel settore pubblico e possiede il terzo più influente think tank di Washington) e la Waterloo Foundation (britannica, impegnata nelle cause ambientaliste).Quanto allo scandalo attuale, che coinvolge «la reputazione e la credibilità di Jean-Claude Juncker nella sua nuova funzione di presidente della Commissione Europea», per Raffone bisogna partire dal passato recente di Juncker che, nel luglio 2013, dopo 18 anni da primo ministro del Lussemburgo, ha dovuto rassegnare le sue dimissioni in seguito allo scandalo delle “intercettazioni segrete” che, per sua negligenza e omesso controllo e vigilanza, i servizi segreti del Granducato avevano compiuto per alcuni anni. «I fatti dell’inchiesta riferiscono che tra il 2004 e il 2009, oltre alle 300 schede personali di politici e imprenditori e almeno 13.000 “fiches d’information” sui 500.000 abitanti, erano state eseguite violando tutte le leggi vigenti». Secondo il capo dei servizi lussemburghesi, durante la guerra fredda erano oltre 300.000 le “note d’ascolto” collezionate dall’agenzia statale. «Inoltre, sono emerse anche commistioni tra il mondo dell’intelligence lussemburghese, gli affari finanziari, il dipartimento delle imposte e alcune aziende che forniscono beni di lusso».Decisamente grave, per il leader di un paese fondatore dell’Ue. «Possibile che nessuno abbia trovato che già questo evento fosse sufficiente a far dubitare dell’onorabilità di Jean-Claude Juncker prima della sua recente elezione a capo della Commissione Europea?». Eppure era persona ben conosciuta, premier dal 1995 al 2013, poi ministro delle finanze, e infine (dal 2005 al 2013) primo presidente dell’Eurogruppo. «Nessuno sapeva? La spiegazione – afferma Raffone – è che a livello dell’Unione Europea vige la regola dell’omertà, che si cristallizza nella relazione incestuosa tra le alte burocrazie nazionali e le tecnocrazie europee». Pletoriche e tardive le proteste di politici come Gianni Pittella o del belga Guy Verohstadt, del gruppo Alde. Juncker dovrebbe “fare chiarezza” al Parlamento Europeo? «È una farsa che avrebbero potuto risparmiarci. Più dignitosa è stata la difesa d’ufficio del capogruppo Ppe, il tedesco Manfred Weber, che reclama “l’imparzialità” di Juncker.», mentre «la voce più chiara è stata quella di Marine Le Pen, del Fn francese, che ha chiesto le dimissioni incondizionate di Juncker e della sua Commissione».Strada senza uscita, scrive Raffone: se Juncker cade, crolla tutto. Ma se resta al suo posto, la credibilità delle istituzioni europee «sarà indecentemente rovinata». Ipotesi: «Un aiuto a quella creazione del “caos” che a certa parte dell’establishment americano, soprattutto dopo la vittoria dei repubblicani, fa molto comodo per “disciplinare” gli europei nell’alleanza transatlantica?». Scandaloso non è solo il regime fiscale del Lussemburgo, ma anche il fatto che Juncker, come premier, abbia concluso oltre 340 accordi con multinazionali perché la loro tassazione fosse inesistente oppure dell’1%. E ancor più grave, aggiunge Raffone, è che questi accordi fossero segreti. «Le solite società di auditing hanno fatto il resto. La patetica difesa della Pwc ricorda quella della blasonata Arthur Andersen quando nel 2007 esplose il caso della Aig americana, che portò alla chiusura di quella “casa di contabili”. Perché Juncker lo ha permesso? E per conto di chi?». Niente di nuovo, comunque: «Per qualsiasi piccolo investitore che cercasse di “ottimizzare” la propria tassazione, era ben noto che in Lussemburgo si potesse “triangolare” con estrema facilità e compiacenza del governo per fare schemi di elusione fiscale trans-europei, coinvolgendo società di comodo in Belgio, Olanda, Polonia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito, senza disdegnare la Svizzera e lo Stato americano del Delaware. Insomma, un gioco fai da te, disponibile anche su Internet».C’è da chiedersi perché la Germania abbia fatto la voce grossa con il principato del Liechtenstein – i famosi nomi trafugati dai servizi tedeschi – mentre sul “suo” Lussemburgo tace. Probabilmente, ipotizza Raffone, il Liechtenstein era uno specchietto per le allodole, mentre la “ciccia” era chiaramente nel Granducato. «Nella guerra finanziaria in corso tra il sistema angloamericano, che in Europa è rappresentato dalla City di Londra, e quello “Ost” rappresentato dalla Germania, per capirci tra Euroclear e Clearstream, questa volta i falchi anglosassoni hanno colpito l’Ue per punire la Germania». Quest’ultima è rea di pensare a un eventuale “Eurogruppo 2” e si è permessa di sfidare il Regno Unito, chiedendo che «decida subito cosa fare, se stare o meno nell’Ue». Detto fatto, reazione puntuale: «A farne le spese non sarà solo la Germania, ma tutti i paesi dell’Eurozona». Juncker? «E’ stato una pessima scelta anche per la Germania», che si è affidata a un politico iper-ricattabile da troppi poteri. Per esempio, gli americani: «Obama deve rabbonire i suoi falchi, ormai vincitori a casa sua. Quindi può avere una sola possibilità per farlo: la resa incondizionata e definitiva dell’Unione Europea all’egemone americano. Primo passo, la firma del Ttip prima del prossimo Consiglio Europeo di dicembre». Forse, conclude Raffone, Renzi e la Mogherini lo avevano intuito, e quindi sin da subito avevano dichiarato che «il Ttip non è solo un accordo commerciale, ma strategico, una scelta culturale».Imbarazzante, impresentabile, ricattabile. Cioè perfetto, per eseguire ordini senza discutere. E’ l’increscioso profilo del lussemburghese Jean-Claude Juncker, imposto dalla Germania alla guida della Commissione Europea. A tracciare il “nuovo” identikit di Juncker, massimo protettore europeo dell’evasione fiscale per i super-ricchi, è l’esplosivo dossier realizzato da Icij, consorzio internazionale di giornalisti basato negli Usa. In realtà, precisa Paolo Raffone, l’indagine svela una realtà già arcinota: da piccolo paese agricolo, il Lussemburgo si è trasformato in potenza finanziaria, collegata sia alla Svizzera sia alla corona britannica, e dagli anni ‘70 ha accomodato convenientemente gli interessi finanziari, con la massima discrezione, di Stati, imprese e facoltose famiglie. Semmai, l’offensiva anche mediatica contro l’indifendibile Juncker – a sua volta a capo di un’istituzione ormai famigerata come la Commissione Europea – può solo preludere a una stretta finale della finanza e delle multinazioni anglosassoni, che attraverso le loro potentissime lobby premeranno sul lussemburghese per ottenere la capitolazione dell’Europa di fronte al Ttip, il Trattato Transatlantico che metterebbe fine alla residua sovranità europea sulle merci e sulla tutela del suolo, della salute e della sicurezza alimentare.
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Quegli strani suicidi all’italiana, da Gardini a Pantani
Finalmente, dopo dieci anni s’è riaperto il caso Pantani, frettolosamente archiviato come suicidio anche se il campione quella mattina del 2004 aveva chiesto aiuto per due volte, invocando l’intervento dei carabinieri, prima che fosse ritrovato senza vita, in una stanza distrutta, con accanto un misterioso biglietto con scritto che “le rose sono contente e la rosa rossa è la più contata”. Indagini all’epoca così “distratte” da non registrare le troppe anomalie: tali e tante, che il giornalista francese Philippe Brunel ne ha scritto un libro-denuncia, “Gli ultimi giorni di Marco Pantani”, edito da Rizzoli-Bur. Il fatto è che nel nostro paese sono davvero parecchi i “casi Pantani”, osserva l’avvocato Solange Manfredi: «Casi da cui risulta evidente che qualcosa non funziona, o forse funziona sin troppo bene». Troppe indagini diffettose, troppi processi che poi a distanza di anni si rivelano completamente da rifare, perché «caratterizzati sempre dagli stessi errori, le stesse carenze e violazioni». Pantani, Gardini, Cagliari. E tutti gli altri suicidi apparenti di cui è lastricata la nostra storia recente.«Chi come me studia i fascicoli processuali – scrive Solange Manfredi nel blog di Paolo Franceschetti – si ritrova sempre davanti alle stesse situazioni: quasi come se esistesse un meccanismo che si mette in moto per impedire l’accertamento delle uniche cose che il procedimento penale ha lo scopo di accertare», ovvero «come si sono svolti i fatti e chi ne è responsabile». I suicidi anomali, avverte la Manfredi, sono molto frequenti, anche se sono veramente pochi quelli che balzano agli onori delle cronache. In tutti questi casi, «le indagini presentano sempre le stesse carenze». Delle stranezze sulla fine di Pantani, trovato morto a Rimini il 14 febbraio 2004 in una stanza del residence “Le Rose”, si sa ormai abbastanza. Il “suicida” Pantani aveva ingerito cocaina: nel corpo ne era stata rinvenuta una quantità sei volte superiore alla dose letale. «Eppure ci sono tante cose che non quadrano». Per due volte, poco prima di morire, aveva telefonato alla reception: «Per favore, chiamate i carabinieri, ci sono qui due persone che mi stanno dando fastidio».Nel cestino della camera vengono ritrovati i resti di del cibo cinese che Marco detestava: quel cibo non l’ha mai ordinato, né tantomeno mangiato. In camera vengono ritrovati indumenti che l’atleta, all’arrivo in albergo, non aveva. Il ciclista viene ritrovato in una pozza di sangue del diametro di un metro, sul suo corpo sono presenti ferite (conseguenza di calci e pugni) e la stanza è a soqquadro, come se ci fosse stata una lotta. Secondo l’ultima perizia, poi, i segni sul corpo del campione rivelano che Pantani è stato trascinato. Tutto molto strano. Come il “suicidio anomalo” del giovane Attilio Manca, avvenuto appena due giorni prima, a Viterbo, la mattina del 12 febbraio 2004. Il corpo viene ritrovato nel suo appartamento, e anche in questo caso per la Procura si è trattato di suicidio. Attilio ha nelle vene un mix letale di tre sostanze: eroina, sedativi e sostanza alcolica. Ma le modalità di assunzione sono assolutamente incredibili, prende nota Solange Manfredi.«Attilio viene ritrovato in camera da letto riverso sul letto seminudo, dal naso e dalla bocca è fuoriuscita una ingente quantità di sangue che ha provocato una pozzanghera sul pavimento. I suoi pantaloni sono appoggiati sulla sedia, ma nella casa non si ritrovano né i suoi boxer né la camicia. Il volto presenta una vistosa deviazione del setto nasale e sugli arti sono presenti numerose ecchimosi». Sul corpo di Attilio, poi, sono visibili i segni di due distinte iniezioni: una al polso e una all’avambraccio. In effetti, «nell’appartamento vengono ritrovate due siringhe da insulina usate, una in bagno e una nella pattumiera della cucina». La la cosa strana è che «ad entrambe è stato riapposto il tappo salva-ago». E attenzione: «I segni delle iniezioni letali sono sull’avambraccio sinistro, ma Attilio era un mancino puro: con la destra non sapeva fare praticamente nulla. Eppure, quando decide di suicidarsi, usa proprio la destra».Dunque, conclude la Manfredi, sia Marco che Attilio si sarebbero suicidati con una overdose: Marco ingerendo cocaina contenuta all’interno di palline fatte di mollica di pane, e Attilio praticandosi due iniezioni – una sull’avambraccio e una sul polso – con la mano destra, lui che era mancino puro. Overdose volontaria? E allora perché entrambi i corpi presentano ferite da colluttazione? «Attilio ha addirittura il setto nasale deviato, mentre Marco risulta essere stato trascinato». Ma per gli inquirenti si è trattato di suicidio, in entrambi i casi. Accadde la stessa cosa con altri tre suicidi eccellenti, maturati in piena Tangentopoli: quelli di Sergio Castellari, Gabriele Cagliari e Raul Gardini. Castellari, direttore generale degli affari economici del ministero delle Partecipazioni Statali, poi consulente Eni, scompare il 18 febbraio 1993. Il corpo senza vita viene ritrovato il 25. Per la Procura è suicidio. O meglio, il più incredibile dei suicidi.Castellari si sarebbe sparato alla testa e la morte sarebbe avvenuta il 18 febbraio. «Eppure, il cadavere – rinvenuto 7 giorni dopo – non presenta processi putrefattivi». In più, «entrambe le mani presentano amputazioni di alcune dita». Le dita sono state certamente amputate, non mangiate da qualche animale. Inoltre, «la pistola Smith & Wesson calibro 9 con cui si sarebbe sparato è infilata nella cintura dei pantaloni», addirittura. Dettaglio ulteirore: «Il cane dell’arma è alzato». E poi il proiettile con cui si sarebbe suicidato: sparito, dissoltosi nel nulla. Infine, «sull’arma non vengono ritrovate impronte», men che meno quelle della vittima. «Dunque, secondo la Procura, Castellari prima si amputa qualche dito (che non verrà ritrovato) da entrambe le mani, quindi si suicida sparandosi alla testa con una calibro 9 – che gli porta via mezza calotta cranica – e, dopo, compie queste attività: riarma il cane della pistola, la pulisce dalle impronte digitali, se la infila nei pantaloni, fa sparire il bossolo del proiettile con cui si è sparato e solo dopo, finalmente, muore».Il 20 luglio 1993 tocca a Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni, arrestato l’8 marzo di quell’anno. Viene ritrovato nel bagno della sua cella con una busta di plastica legata al collo. Altro suicidio, per gli inquirenti. Cagliari si sarebbe suicidato chiudendosi nel bagno: prima di farla finita, avrebbe bloccato la porta della toilette con un paletto inserito nella maniglia. «Eppure il pezzo rotto e mancante del paletto che sarebbe servito a Cagliari per chiudersi dentro il bagno non si trova», ricorda Solange Manfredi. Inoltre, secondo le testimonianze, «nei primi soccorsi a Cagliari sarebbe stato strappato il sacchetto dal viso per permettergli di respirare: eppure quel sacchetto viene ritrovato integro». Al momento dell’autopsia vengono poi riscontrate sul corpo di Cagliari diverse lesioni agli zigomi, al cuoio capelluto, allo sterno e alle costole, con ecchimosi e infiltrazioni emorragiche. «Ma se al momento del ritrovamento Cagliari era morto, come se le è prodotte quelle lesioni? Gli ematomi si possono formare solo se vi è circolazione sanguigna. Questo vuol dire che quelle ecchimosi se l’era prodotte prima della morte. Come?».Infine, Raul Gardini. Il capo del gruppo Ferruzzi, coinvolto nel caso Enimont, muore il 23 luglio del 1993. Ufficialmente, «sparandosi un colpo di pistola alla tempia nella sua camera da letto». Peccato che «sul letto, sull’orologio, sui cuscini e sul lenzuolo» non siano stati ritrovati residui di polvere da sparo. Inoltre, «nessuno dei collaboratori domestici presenti in casa ha sentito lo sparo», benché l’arma non fosse dotata di silenziatore. Strana pistola: «Viene ritrovata appoggiata sulla scrivania a diversi metri dal letto». E persino il bossolo «viene rinvenuto sul pavimento a tre metri di distanza da dove avrebbe dovuto trovarsi se Gardini si fosse suicidato». Anche in questo caso sull’arma non vengono rilevate impronte, neanche quelle della vittima. Sulle cartucce, invece, «vengono trovate impronte non appartenenti a Raul Gardini». All’esame autoptico, per contro, «il corpo presenta una frattura alla base cranica e una ecchimosi sotto l’occhio». Per l’avvocato Manfredi sono lesioni compatibili con ben altra dinamica: qualcuno ha afferrato la testa di Gardini e gliel’ha sbattuta contro un corpo solido.«Anche in questo caso – scrive Solange Manfredi, sarcastica – Gardini si è prima procurato una lesione alla base cranica, quindi si è sparato alla testa sul letto, quindi si è alzato, ha pulito la pistola dalle impronte digitali, l’ha riposta con cura sullo scrittoio, ha spostato il bossolo (forse perché dov’era faceva disordine), quindi è ritornato a letto, e poi è morto». Storie semplicemente incredibili. «Tutti i corpi presentano lesioni immediatamente precedenti il suicidio». Lesioni «difficilmente spiegabili con la dinamica suicidaria». Più verosimilmente, quelle ferite sono «compatibili con una colluttazione». In tutti i luoghi del ritrovamento, poi, alcuni oggetti mancano, insipegabilmente. E, altrettanto misteriosamente, altri oggetti – non collegabili al “suicida” – vengono rinvenuti sulla scena del crimine. «E le attività investigative sono carenti e contraddittorie». Tutti suicidi anomali. Così numerosi e macroscopici da indurre un magistrato come Mario Almerighi, amico di Giovanni Falcone, a indagare a fondo, nel libro “Suicidi? Castellari, Cagliari, Gardini”, editito dall’Università La Sapienza. «Ancora una volta il meccanismo si è messo in moto, e ancora una volta con tragico successo», si è portati a pensare. Perché «anche il sistema uccide». Per la precisione, «uccide chi diventa inaffidabile».Finalmente, dopo dieci anni s’è riaperto il caso Pantani, frettolosamente archiviato come suicidio anche se il campione quella mattina del 2004 aveva chiesto aiuto per due volte, invocando l’intervento dei carabinieri, prima che fosse ritrovato senza vita, in una stanza distrutta, con accanto un misterioso biglietto con scritto che “le rose sono contente e la rosa rossa è la più contata”. Indagini all’epoca così “distratte” da non registrare le troppe anomalie: tali e tante, che il giornalista francese Philippe Brunel ne ha scritto un libro-denuncia, “Gli ultimi giorni di Marco Pantani”, edito da Rizzoli-Bur. Il fatto è che nel nostro paese sono davvero parecchi i “casi Pantani”, osserva l’avvocato Solange Manfredi: «Casi da cui risulta evidente che qualcosa non funziona, o forse funziona sin troppo bene». Troppe indagini diffettose, troppi processi che poi a distanza di anni si rivelano completamente da rifare, perché «caratterizzati sempre dagli stessi errori, le stesse carenze e violazioni». Pantani, Gardini, Cagliari. E tutti gli altri suicidi apparenti di cui è lastricata la nostra storia recente.
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L’amara lezione di Zanoli, il Giusto che ripudia Israele
Atto di dolore, da parte di Gad Lerner, per la drammatica decisione del novantenne avvocato olandese Henk Zanoli, giunto a “ripudiare” lo status di “Giusto tra le Nazioni”, attribuitogli da Israele per aver salvato un bambino ebreo nell’Olanda occupata dai nazisti. Zanoli, che ha acquisito parenti palestinesi dopo che la figlia, diplomatica, ha sposato un economista di Gaza, protesta così – nel modo più plateale – dopo il bombardamento della Striscia che il 20 luglio ha sterminato i suoi parenti palestinesi, sei persone, tra cui una bambina di 12 anni. Lerner, ebreo, denuncia «il dilemma morale che lacera le nostre coscienze: l’Israele di oggi, l’Israele che c’è, non sta forse gettando un’ombra sinistra sull’eterno Israele messianico luogo di salvezza?». Nel calvario familiare di Henk Zanoli c’è anche la memoria del padre, di cui porta il nome, ucciso a Mauthausen dov’era stato rinchiuso per aver osato opporsi all’occupazione nazista. E ora, la carneficina di Gaza. Che trasforma il dolore di Zanoli in condanna: lo Stato di Israele è razzista, violento, spietato, disumano.«La scelta compiuta dal Giusto, che tale naturalmente rimane, è terribile e nobile al tempo stesso», scrive Lerner su “Repubblica”. Nobile, certo, «perché investe la sua autorevolezza nel denunciare l’ottenebrarsi delle coscienze, spinte a tollerare come necessari la strage dei civili e la prospettiva dell’apartheid». Ma anche “terribile”, secondo il giornalista, «perché, anche senza volerlo, ripropone un’insidiosa, ambigua comparazione fra i crimini di cui furono vittime gli ebrei settant’anni fa in Europa, e gli atti criminali compiuti nel corso di azioni di guerra dallo Stato che di quelle vittime si sente erede e portavoce». Zanoli lo ha scritto in una lettera all’ambasciatore israeliano all’Aja: «Conservare l’onorificenza concessami dallo Stato d’Israele in queste circostanze sarebbe un insulto alla memoria della mia coraggiosa madre», Johana, che lo aiutò a proteggere il bambino in pericolo durante il terrore nazista.Sotto le bombe di Gaza, Zanoli sente “insultate” «le ultime quattro generazioni» della sua famiglia. Ma non basta. «Dopo l’orrore della Shoah – aggiunge – la mia famiglia ha sostenuto con forza il popolo ebraico anche riguardo alle sue aspirazioni a un focolare nazionale. Ma in più di sei decenni ho cominciato a realizzare che il progetto sionista fin dall’inizio conteneva in sé un elemento razzista mirante a costruire uno Stato esclusivamente per gli ebrei». Su questo passaggio, Lerner dissente: «L’esclusivismo negatore di una possibile convivenza con gli arabi di Palestina fu teorizzato solo da una corrente interna al movimento sionista, da altri contrastato, e dunque non ne rappresentava un esito inevitabile». Il che, però, «non toglie che riesca arduo – ammette Lerner – disgiungere l’anelito di redenzione, l’impronta socialista e ugualitaria del movimento di liberazione ebraico, da quell’altro ineludibile dato di fatto che Ari Shavit, nel suo bel libro “La mia terra promessa” (Sperling & Kupfer) ha avuto la franchezza di definire “la brutalità sionista”».Non è un caso, aggiunge Lerner, se gli storici revisionisti israeliani che per primi hanno documentato l’esistenza di un piano per scacciare i palestinesi dalle loro case durante la guerra d’indipendenza del 1948, da Ilan Pappe a Benny Morris, pur giungendo a identiche conclusioni ne abbiano poi tratto conseguenze radicalmente opposte: il primo giudicandolo un peccato originale inestinguibile (la pulizia etnica della Palestina), il secondo giustificando quella brutalità come “passaggio inevitabile”. In realtà, lo stesso Pappe documenta come la cacciata dei palestinesi fu perseguita con spietata lucidità decenni prima dell’avvento di Hitler. E Paolo Barnard, autore del saggio “Perché ci odiano” (Rizzoli) ricorda le agghiaccianti “raccomandazioni” di David Ben Gurion, leader del sionismo moderno e padre fondatore dello Stato di Israele: sterminare tutti i palestinesi, compresi anziani, donne e bambini.Gad Lerner esprime il timore che il genocidio palestinese, che definisce «poco più che un dettaglio della storia», agli occhi di un grande reduce come Zanoli, possa essere equiparato all’Olocausto degli ebrei d’Europa, costituito da «milioni di vittime». In realtà, secondo il massimo testimone della Shoah – Primo Levi, peraltro mai tenero con Israele – la terribile unicità storica dell’abominio nazista non scaturisce tanto dalla tragica conta delle vittime, quanto dalla micidiale capacità di progettazione stragistica dei nazisti, il cinismo nel rivendicare apertamente il diritto al massacro e la loro lucida meticolosità nell’applicare fino in fondo le procedure della strage con cieca abnegazione. Un concetto che Levi sottolinea in numerosi scritti, tra cui i capitoli “La zona grigia” e “Lettere di tedeschi” del suo ultimo capolavoro, “I sommersi e i salvati”. Per concludere che, in fondo, è toccato alla Germania dimostrare di cosa è capace l’essere umano: un intero popolo interamente corrotto dal veleno ideologico, incapace di riconoscere il male e pronto a farsi carnefice, esecutore, complice, pavido testimone omertoso.Pur rifiutando il paragone col nazismo, Gad Lerner ammette che «quella brutalità» commessa da Israele contro i palestinesi «si sarebbe perpetuata nei decenni successivi, fino a oggi, quando il mondo (per fortuna) fatica a sopportarla». E ricorda che Henk Zanoli «non è il primo testimone a coinvolgere Yad Vashem», cioè la suprema istituzione che elabora e onora la memoria della Shoah, «nel confronto con le guerre mediorientali». E cita un sopravvissuto ai lager, Schlomo Schmalzman, che nell’estate 1982 – quando Begin e Sharon scatenarono un’offensiva per la conquista di Beirut – salì sul monte Herzl a Gerusalemme e, all’interno di Yad Vashem, intraprese uno sciopero della fame. Voleva così protestare contro «l’osceno strumentale paragone» con cui il premier Begin aveva sostenuto: «L’alternativa all’attacco in Libano è Treblinka». Durante quella stessa guerra, aggiunge Lerner, un comandante di brigata, Eli Geva, rifiutò di guidare le sue truppe alla presa di Beirut precisando, per scongiurare insinuazioni sul suo coraggio, che avrebbe partecipato all’operazione da soldato semplice: non se sentiva di comandare le truppe (e i miliziani locali, falangisti) che avrebbero fatto a pezzi donne e bambini nei campi profughi di Sabra e Chalila, suscitando l’orrore del mondo.Ancora oggi, continua Lerner, una delle voci più note del dissenso israeliano, la giornalista di “Haaretz” Amira Hass, rivendica la sua opera di denuncia delle discriminazioni inflitte ai palestinesi come tributo all’esperienza vissuta dai suoi genitori: la madre deportata a Bergen Belsen, il padre rinchiuso nel ghetto di Shogorad. «Né va dimenticato un predicatore del dialogo come Marek Halter, che non esita a incontrare i dirigenti di Hamas presentandosi loro come sopravvissuto del ghetto di Varsavia». La forza del gesto di Henk Zanoli, sostiene Lerner, «ripropone l’insidia dei paragoni storici spesso branditi con stolta o maliziosa ignoranza, all’unico scopo di umiliare chi ancora si porta addosso le piaghe della Shoah». Parallelismi difficili, ma non impossibili: Marek Edelman, il sopravvissuto vicecomandante della rivolta del ghetto di Varsavia, autonominatosi “guardiano” degli ebrei polacchi sterminati, nel 1993 decise di accompagnare fin dentro a Sarajevo assediata un convoglio di aiuti umanitari. «Diciamo che si è proposto egli stesso come “allusione” necessaria», conclude Lerner. «Se serve, a fin di bene, con la dovuta cautela, in casi eccezionali, i Giusti possono violare il paradigma sacrale dell’unicità dello sterminio che ha sfregiato l’Europa. Di fronte agli armeni, agli zingari, ai cambogiani, ai tutsi, agli yazidi, ai milioni di profughi di nuovo oggi in fuga dalle loro case, chi mai avrebbe titolo per proibirlo?».http://www.gadlerner.it/2014/08/17/il-giusto-e-le-terribili-lezioni-della-storia-fra-israele-e-gaza?utm_source=feedburner&utm_medium=email&utm_campaign=Feed%3A+gadlerner%2Ffeed+%28Gad+Lerner+Blog%29Atto di dolore, da parte di Gad Lerner, per la drammatica decisione del novantenne avvocato olandese Henk Zanoli, giunto a “ripudiare” lo status di “Giusto tra le Nazioni”, attribuitogli da Israele per aver salvato un bambino ebreo nell’Olanda occupata dai nazisti. Zanoli, che ha acquisito parenti palestinesi dopo che la figlia, diplomatica, ha sposato un economista di Gaza, protesta così – nel modo più plateale – dopo il bombardamento della Striscia che il 20 luglio ha sterminato i suoi parenti palestinesi, sei persone, tra cui una bambina di 12 anni. Lerner, ebreo, denuncia «il dilemma morale che lacera le nostre coscienze: l’Israele di oggi, l’Israele che c’è, non sta forse gettando un’ombra sinistra sull’eterno Israele messianico luogo di salvezza?». Nel calvario familiare di Henk Zanoli c’è anche la memoria del padre, di cui porta il nome, ucciso a Mauthausen dov’era stato rinchiuso per aver osato opporsi all’occupazione nazista. E ora, la carneficina di Gaza. Che trasforma il dolore di Zanoli in condanna: lo Stato di Israele è razzista, violento, spietato, disumano.
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Ledeen, l’amico americano che tiene al guinzaglio il Pd
Se ieri le nostre piazze saltavano in aria perché l’Italia era lo scudo occidentale contro il comunismo sovietico, e si doveva impedire a tutti i costi che il Pci di Berlinguer andasse al governo con Moro, oggi la situazione dello Stivale è persino peggiorata, dato il progressivo esaurimento delle risorse fossili. Questo spiega l’instabilità sul fronte est (lo scontro tra Usa e Russia in Ucraina) e quella sul fronte sud (il massacro di Gaza, motivato anche dall’enorme giacimento di gas, il “Leviatano”, nelle acque palestinesi). «Gli interessi geopolitici del “Gruppo di Georgetown” e del Mossad, quindi, sono identici», sostiene Stefano Ali, mentre «gli interessi economici e militari della destra conservatrice e interventista Usa in Italia sono sensibilmente incrementati», come dimostra l’installazione del Muos a Niscemi o anche l’insistenza sull’acquisto dei disastrosi F-35. «Continuiamo ad essere un paese anomalo, servo della Nato e solo apparentemente democratico, ad opera degli stessi spettri del passato». Da Kissinger a Renzi, passando per Michael Ledeen, indicato come consigliere-ombra del giovane premier per la politica estera.In un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, Ali evoca una lobby come il “Gruppo di Georgetown”, capitanato da quel Kissinger che definì Napolitano «il mio comunista preferito», corretto immediatamente da Napolitano (ex comunista, prego). «E Renzi. Matteo Renzi con la sua rete di amicizie internazionali, attraverso Marco Carrai. Davide Serra (con forti interessi in Israele e che porta in dote i legami con la Morgan Stanley), Marco Bernabè (sempre con Tel Aviv con il fondo Wadi Ventures e il padre, Franco, e le sue dorsali telefoniche Italia-Israele), Yoram Gutgeld (israeliano e suo consulente economico – porta in anche dote l’esperienza McKinsey di cui era socio anziano fino al marzo 2013)». Ma sopratutto Ledeen, cioè «la figura più inquietante», che «si allunga dietro tutte le stragi, tutti i depistaggi che hanno attraversato l’Italia e non solo». L’ammiraglio Fulvio Martini, all’epoca capo del Sismi, lo definì «non gradito all’Italia». Ledeen, racconta Ali, fu «sdoganato da Berlusconi appena giunto al potere», e così «imperversò nelle sue televisioni sotto la forma di “commentatore politico internazionale”».Secondo Ali, Ledeen è stato in grado di «ordinare a Matteo Renzi» la cessione degli aeroporti toscani al magnate argentino Eduardo Eurnekian. Secondo il blogger, «Henry Kissinger, Michael Ledeen e le strutture israeliane sono di nuovo (e da sempre) i padroni della scena». C’è chi dice che il Pd è la nuova Dc? Peggio: il partito fondato da Veltroni «ha ormai da tempo tradito le origini, ma con il binomio Renzi-Napolitano è diventato l’antitesi della storia della sinistra». Secondo Stefano Ali, «è l’erede di tutto quel fronte anticomunista che si asservì e asservì l’Italia alla destra conservatrice Usa di Kissinger e Ledeen e del Mossad». Il “muro di gomma” delle stragi impunite? Frutto del blocco di potere «“garante” della subalternità e della sottomissione dello Stato italiano agli interessi del “Gruppo di Georgetown”». Linea diretta coi rottamatori? «Per le referenze su Federica Mogherini, Renzi dice: “Chiedete a John Kerry”». L’esponente Pd fu «ammessa agli incontri segreti con agenti Usa sin dal 2006», scrive Ali, che illumina il retroterra del presunto potere occulto di ieri e di oggi basandosi anche sul testimonianze come quelle del senatore Giovanni Pellegrino, fino al 2001 presidente della Commissione Stragi, autore del libro-denuncia “Segreto di Stato”.«Ciò che può sembrare intreccio di fantascienza complottistica è solo il frutto di un lavoro certosino fatto dalla Commissione Stragi», avverte Ali. «Teniamolo sempre a mente, anche quando sembra di precipitare nelle allucinazioni ansiogene». Nella sua analisi, Pellegrino parte da una premessa ancora attuale: l’Italia non è mai stata una democrazia “normale”, perché – dal Trattato di Yalta – è stata sempre considerata “marca di frontiera”, al doppio crocevia est-ovest e nord-sud. Sovranità limitata: «Una specie di portaerei Nato nel Mediterraneo». A questo, oltre alla pesante presenza del Vaticano, si aggiunga «una spaccatura verticale interna, determinata da post-fascismo e post-Resistenza», tra italiani «anticomunisti» e italiani «antifascisti». Tutta la storia del dopoguerra, secondo Pellegrino, va interpretata in quest’ottica. E’ per questo che certi fili non si spezzano: l’attuale capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda, figlio dell’ex capo della polizia e allora giornalista dell’“Espresso”, secondo un report del Sisde risalente al lontano 1984 ebbe «rapporti molto stretti» con Ledeen, dopodiché fu promosso consigliere di amministrazione dell’“Editoriale L’Espresso” e ricoprì l’incarico di addetto stampa di Francesco Cossiga durante il sequestro Moro. Stefano Ali parla di connessioni sotterranee con la P2, che faceva da tramite col super-potere Usa, di cui il Mossad israeliano sarebbe stato un braccio operativo nella stagione della strategia della tensione, fra attentati e depistaggi.Se la stagione della guerra fredda aveva permesso lo sviluppo della cosiddetta “Gladio Rossa”, formata da “Lotta Continua”, “Potere Operaio” e le prime Brigate Rosse, fino cioè all’arresto di Curcio e Franceschini, «con la svolta parlamentare del Pci, l’isolamento di Secchia e soprattutto la morte di Feltrinelli», di fatto l’eversione “rossa” «si dissolse, per confluire nelle Brigate Rosse», che però finirono sotto il controllo di Mario Moretti, scampato alla retata che fruttò la cattura dei fondatori grazie a Silvano Girotto, in arte “Frate Mitra”, un classico infiltrato. Da quel momento, scrive Ali, al di là della facciata “di sinistra” delle Br di Moretti, «connotazione ideologica utilizzata solo per fomentare i militanti», i vertici delle strutture “eversive” passarono – tutti – sotto il controllo «degli ambienti della destra repubblicana Usa». Versione controversa: secondo altri analisti, rimase forte anche l’influenza dell’Urss, attraverso la Stasi, l’intelligence della Germania Est. L’Italia, in ogni caso, era un campo di battaglia. E gli attori – sulla sponda occidentale – sono ormai noti. La notizia? Un vecchio arnese come Ledeen, molto «vicino» a Zanda in quegli anni secondo il Sisde, è un super-consigliere di Renzi.«Mossad e destra repubblicana Usa – continua Ali – erano già riusciti a instaurare (in Grecia, Spagna e Portogallo) regimi fascisti». Le stragi italiane, fino al 1969 dovevano quindi servire «affinché, nel dicembre del 1969, Mariano Rumor dichiarasse lo “stato d’emergenza” che ne consentisse l’instaurazione anche in Italia». Rumor, però, non dichiarò lo stato d’emergenza. E il tentato “golpe Borghese” del 1970 fu l’ultimo tentativo, anche quello andato a vuoto. «Da notare che già dagli anni ‘60 la P2 di Gelli era molto attiva: con la sua rete di iscritti soprattutto nelle forze armate e nei servizi segreti, era nelle condizioni di garantire tutta la copertura necessaria». Secondo Ali, da vari documenti risulta che Kissinger e Ledeen «fossero iscritti alla P2 nel “Comitato di Montecarlo” (o “Superloggia”)», un “braccio” della P2 «che si occupava di traffico internazionale di armi e al quale venne fatta risalire in modo diretto l’organizzazione della strage di Bologna». Se Gelli era «solo una sorta di segretario», significa che «le “menti” stavano altrove». Il vero leader? Rimasto nell’ombra, fino ad oggi. In compenso, conclude Ali, molti nomi di allora sono rimasti al loro posto. E qualcuno, oggi, è vicinissimo al governo Renzi. Pronti a tutto, nel caso gli eventi precipitassero in Ucraina con l’offensiva Usa contro la Russia di Putin?Se ieri le nostre piazze saltavano in aria perché l’Italia era lo scudo occidentale contro il comunismo sovietico, e si doveva impedire a tutti i costi che il Pci di Berlinguer andasse al governo con Moro, oggi la situazione dello Stivale è persino peggiorata, dato il progressivo esaurimento delle risorse fossili. Questo spiega l’instabilità sul fronte est (lo scontro tra Usa e Russia in Ucraina) e quella sul fronte sud (il massacro di Gaza, motivato anche dall’enorme giacimento di gas, il “Leviatano”, nelle acque palestinesi). «Gli interessi geopolitici del “Gruppo di Georgetown” e del Mossad, quindi, sono identici», sostiene Stefano Ali, mentre «gli interessi economici e militari della destra conservatrice e interventista Usa in Italia sono sensibilmente incrementati», come dimostra l’installazione del Muos a Niscemi o anche l’insistenza sull’acquisto dei disastrosi F-35. «Continuiamo ad essere un paese anomalo, servo della Nato e solo apparentemente democratico, ad opera degli stessi spettri del passato». Da Kissinger a Renzi, passando per Michael Ledeen, indicato come consigliere-ombra del giovane premier per la politica estera.
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Vattimo: vorrei armare Hamas contro i nazisti israeliani
«Israele vuole distruggere definitivamente i palestinesi, è una guerra di puro sterminio. Sono nazisti puri e forse un po’ peggio di Hitler perché hanno anche l’appoggio delle grandi democrazie occidentali». Sembrano scolpite nel marmo, le parole che il filosofo Gianni Vattimo consegna ai microfoni di “Radio24”. «Andrei a Gaza a combattere a fianco di Hamas», aggiunge l’ex europarlamentare. «Direi che è il momento di fare le Brigate Internazionali come in Spagna, perché Israele è un regime fascista che sta distruggendo un popolo intero. In Spagna non era niente in confronto a questo. Questo è un genocidio in atto, nazista, razzista, colonialista, imperialista. E ci vuole una resistenza». Vattimo si spinge oltre: dice che lancerebbe una campagna per raccogliere fondi e consentire ai palestinesi di difendersi, con vere armi, adatte a fronteggiare l’aggressione israeliana. Una voce, la sua, assolutamente isolata, nel grande silenzio che avvolge gli intellettuali, come rileva Renato Rallo: su Medio Oriente e Palestina, ormai, vige la consegna dell’indifferenza.«C’è una nuovissima, meravigliosa avanguardia tra gli intellettuali-de-sinistra (Michele Serra, Christian Raimo, Ida Dominijanni e tanti altri) sul conflitto in Medioriente: gli esaltatori del silenzio», scrive Rallo su “L’Intellettuale Dissidente”. «Laddove l’intellettuale deve sempre necessariamente prendere una posizione, anche solo perchè dovrebbe sapere meglio di tutti che l’imparzialità è un’utopia (o un’omertà), essi invece tacciono, e se ne vantano. Tra gli argomenti, oltre alla già nota “tragedia da entrambe le parti”, la “complessità della situazione”, spunta la geniale novità: la stanchezza. Ebbene sì, gli intellettuali-de-sinistra non prendono più posizione sul conflitto israelo-palestinese perchè sono stanchi della ripetitività della situazione, dell’impotenza, e questa noia li uccide al punto che non riescono neanche più a scrivere due righe sul sionismo». La loro “ipersensibilità filantropica”, aggiunge Rallo, li costringe «ad un silenzio colto, tenebroso, raffinato, ed invita il pubblico a fare altrettanto. Un’elegantissima orazione funebre in onore di un popolo che però, sfortunatamente, ancora deve morire».Non è solo la paura di “uscire dal giro” ad impedire a molti opinion leader di «dire una-parola-una sull’apartheid israeliana, sulle radici di quest’ennesimo episodio di pulizia etnica». Aggiunge Rallo: «Non hanno paura: si stanno solo annoiando». Un “consiglio” ai palestinesi? «Smettetela di morire in modo così banale: non so, magari prima che il vostro corpo venga dilaniato da una bomba, mangiatevi dei coriandoli». Non ha bisogno di incoraggiamenti, invece, il professor Vattimo: proprio lui, teorico del “pensiero debole”, si esprime nel modo più drastico sulla storica controversia, tragicamente rinverdita dalle bombe “intelligenti” di Netanyahu. E denuncia anche il colpevole assenteismo dei media mainstream: «Tutta l’informazione, compresa la stampa italiana, piange sul fatto che c’è una pioggia di missili su Israele. Però Hamas quanti morti ha fatto? Nessuno».Vogliamo parlare dei palestinesi? «I poveretti non hanno armi, sono dei miserabili tenuti in schiavitù, come tutta la Palestina. Hanno dei razzetti per bambini». Meritano di avere la possibilità di difendersi, dice Vattimo: «Voglio promuovere una sottoscrizione mondiale per permettere ai palestinesi di comprare delle vere armi e non delle armi giocattolo. Cominciamo a distruggere il nucleare israeliano, Israele è lo Stato-canaglia che ha il nucleare». Alla domanda se sparerebbe contro gli israeliani, il filosofo ammette: «Io sono un non-violento, però contro quelli che bombardano ospedali, cliniche private e bambini sparerei, ma non ne sono capace». E aggiunge: «Gli ebrei italiani dalla parte di Israele sono gli ex fascisti, che adesso sono dalla parte dell’America. La comunità ebraica italiana è rappresentata da quell’ossimoro che è Pacifici, ma ci sono molti ebrei d’accordo con me. Li c’è uno Stato nazista che cerca di sopprimere un altro popolo. E io ce l’ho con lo Stato di Israele, non con gli ebrei».«Israele vuole distruggere definitivamente i palestinesi, è una guerra di puro sterminio. Sono nazisti puri e forse un po’ peggio di Hitler perché hanno anche l’appoggio delle grandi democrazie occidentali». Sembrano scolpite nel marmo, le parole che il filosofo Gianni Vattimo consegna ai microfoni di “Radio24”. «Andrei a Gaza a combattere a fianco di Hamas», aggiunge l’ex europarlamentare. «Direi che è il momento di fare le Brigate Internazionali come in Spagna, perché Israele è un regime fascista che sta distruggendo un popolo intero. In Spagna non era niente in confronto a questo. Questo è un genocidio in atto, nazista, razzista, colonialista, imperialista. E ci vuole una resistenza». Vattimo si spinge oltre: dice che lancerebbe una campagna per raccogliere fondi e consentire ai palestinesi di difendersi, con vere armi, adatte a fronteggiare l’aggressione israeliana. Una voce, la sua, assolutamente isolata, nel grande silenzio che avvolge gli intellettuali, come rileva Vittorio Ray: su Medio Oriente e Palestina, ormai, vige la consegna dell’indifferenza.
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Ma Cantone sarà solo contro la lobby dei partiti ladri
Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi. Gli italiani – purtroppo – ne hanno un bisogno che sconfina ormai nella dipendenza. L’ultimo è di oggi, 12 maggio, si chiama Raffaele Cantone, è il coraggioso magistrato del tribunale di Napoli recentemente nominato presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione e che adesso viene chiamato a salvare l’Expo 2015 di Milano! «Cancellare l’esposizione mondiale sarebbe come ammettere che l’illegalità ha vinto», ha dichiarato al quotidiano partenopeo “Il Mattino”, che lo ha intervistato per l’occasione; e la lobby delle grandi opere – già confortata ieri dal premier – ha immediatamente tirato un sospiro di sollievo. Che tuttavia deve essersi leggermente strozzato in gola alla lettura della parole – pesanti come macigni – aggiunte forse a “beneficio” di chi ha tentato di minimizzare il ruolo dei partiti in quello che appare solo come l’ultimo degli scandali di una tangentopoli ormai cronica: «La politica tarda a liberarsi da un diffuso malcostume».«Non so se si tratta di un fallimento politico. Di certo in questi anni si è sbagliato a non lavorare abbastanza sulla prevenzione. Si è clamorosamente abbassato il livello di guardia di fronte a certi fenomeni». Un atteggiamento che, secondo l’ex magistrato, «è anche il frutto di un’opinione pubblica spesso distratta», che «su alcuni temi si è rivelata eccessivamente ondeggiante». Perché, se a fronte di alcuni episodi «c’è stata grandissima attenzione, finanche con rigurgiti di moralismo, in altri si è stati del tutto incapaci di indignazione». Il virgolettato è copiato integralmente dall’intervista e, in assenza di smentite, va preso per buono. E non finisce qui: pur avendo smesso la toga, quel che segue sembrerebbe quasi l’istruttoria di una indagine in cui si analizzano analogie e differenze col passato, remoto o prossimo che sia: «Tangentopoli non ci ha insegnato nulla. Tornano alla ribalta personaggi già condannati: il peggio poteva essere scongiurato e i partiti hanno grandi responsabilità perché non hanno saputo attrezzarsi con delle regole chiare di finanziamento trasparente. La trasparenza – sottolinea – è l’anticorpo più potente nei confronti del malaffare».E quasi a voler tirare le orecchie al governo per la sua proposta (poi precipitosamente ritirata) con cui proprio alla vigilia degli arresti si proclamava di voler “slegare la crescita” dai lacci e laccioli della burocrazia, Cantone aggiunge che il controllo pubblico non è sinonimo di ritardi e inefficienze, anzi: «Si può tranquillamente mettere in campo una rete di controlli efficace, intelligente, agile e non burocratica, purché ci sia davvero trasparenza». Per cancellare ogni possibilità di equivoco circa la severità del suo giudizio, l’ex magistrato sottolinea poi che «personaggi già condannati per corruzione sono arrivati a ritagliarsi un ruolo, non di diritto ma di fatto, per incidere nuovamente nell’assegnazione e nella gestione degli appalti», arrivando senza nessun ostacolo a ricandidarsi e farsi eleggere (come nel caso di Gianstefano Frigerio, Pdl), nonostante la precedente condanna per corruzione. Cosa avvenuta sfacciatamente e nel disinteresse generale, il che rappresenta la sostanza della anomalia italiana.Una anomalia peggiorata, se possibile rispetto al 1992 (l’anno della prima tangentopoli) perché «lo scenario è indubbiamente cambiato: oggi esistono gruppi di potere o di pressione del tutto autonomi dalla politica, ovvero che rispondono ai partiti ma piuttosto ne influenzano l’attività politica». Cosa aggiungere dalla mia comoda poltroncina seduto davanti al monitor? Che Milano ha già avuto un eroe, come ebbi modo di ricordare in uno dei miei primi interventi su queste pagine virtuali: si chiamava Giorgio Ambrosoli, ebbe il “torto” di voler andare fino in fondo nell’incarico che gli era stato assegnato di liquidatore del Banco Ambrosiano del banchiere di Cosa Nostra Michele Sindona, sodale dei partiti e delle lobby finanziarie dell’epoca… Se Cantone è scaramantico farà bene a svolgere i riti propiziatori del caso, ma mi (e soprattutto gli) auguro che i riflettori accesi sulla vicenda odierna siano tali da illuminare a giorno la scena che fu lasciata all’epoca completamente al buio dai responsabili della tutela della incolumità di chi si assume incarichi così delicati. Al punto che addirittura i funerali della vittima avvennero nel “disinteresse generale” che il neo commissario denuncia in un altro brano della sua intervista…Oltre agli auguri di buon lavoro che ogni cittadino gli deve, anche nel proprio interesse di contribuente, voglio tuttavia e un po’ a malincuore concludere con una nota di sincero scetticismo: Cantone, come molti suoi colleghi, ha studiato migliaia di pagine, dal diritto romano a quello internazionale e commerciale, per poter svolgere al meglio la sua professione e meritarsi la riconoscenza di tutte le persone oneste e di buona volontà (quelle cui sembra alludere quando fa riferimento alla necessità di indignazione). Ma, avendo come tutti una sola vita a disposizione, non può aver avuto una esperienza di trentatsei anni nel mondo delle grandi opere come è capitato in sorte al sottoscritto… Che riteneva (come ritiene) eroica l’azione di moralizzazione della vita pubblica che pochi coraggiosi magistrati svolgono in una paese che spesso sembra più una infida palude che un’oasi bucolica. E per questo ci si è anche provato – nel limite delle proprie capacità e conoscenze – di inviar loro degli esposti su quel che pareva fosse una caratteristica costante di questo particolare mondo: le tangenti.Inutile dire che la cosa servì, temo, solo ma farmi considerare, “nell’ambiente”, come “uno che sputava nel piatto dove mangiava” (espressione molto in uso in ogni corporazione “che si rispetti”). E proprio perché ho questo passato “certificabile” alle spalle mi permetto di sostenere con convinzione – pur sperando vivamente di sbagliarmi – che le grandi opere, alle lobby che le promuovono, le progettano, le appaltano e poi le gestiscono (generalmente attraverso il famigerato istituto della concessione) servono soprattutto per rubare denaro pubblico. A volte (non sempre, ma solo quando non sono inutili) servono anche ai cittadini. Ma facendogli pagare più volte il conto: con il lievitare spropositato dei costi (sempre a carico pubblico e “a debito”, checché si prometta), con gli interessi bancari, col pedaggio permanente (a fronte dei trent’anni di durata massima generalmente stabilita); e infine con i costi folli delle manutenzioni straordinarie, dovute quasi sempre alla scarsa qualità dei materiali impiegati, che però vengono fatturati per buoni.Un meccanismo che rende la “forbice” tra costi reali e soldi pubblici erogati talmente ampia che si possono accontentare tutti: dai partiti, alle banche, alla ‘ndrangheta al “cartello delle imprese”. Per questo ritroviamo tesserato al Pd di Renzi (e tardivamente sospeso) Primo Greganti, il compagno-G della prima tangentopoli che tanti meriti guadagnò, in quel partito che si chiamava ancora Pds, nel tacere sulla famosa valigia piena di soldi del Gruppo Gavio. Un pesante fardello di quasi un miliardo – c’era ancora la lira – che doveva tornare al mittente per il tramite di un altro compagno, che vive e marcia assieme a noi e proprio a Milano: quel Filippo Penati che consentì ai manager di Tortona l’affare delle azioni dell’autostrada Milano-Serravalle, in cambio di un aiutino nel tentativo di scalata all’Antonveneta della Unipol di un altro “compagno”, Giovanni Consorte, quello a cui ancora un “compagno”, quel Piero Fassino che De Benedetti vorrebbe presidente della nostra (ma non della sua) Repubblica, chiese: «Abbiamo una banca?».Difficile pensare che un uomo solo – per quanto coraggioso e determinato – possa venire a capo di un sistema. Difficile credere che possa farlo senza l’aiuto, se non di tutti i cittadini, di quella parte di opinione pubblica che non intende smettere di indignarsi. Buon lavoro, Cantone. E se vuole, conti su di noi. Ma soprattutto, non conti sulla collaborazione che non potrà che essere di facciata di chi crede (o vuol far credere) che a governare partiti e un intero paese siano quelli che vengono eletti nelle primarie – o, per ben che vada, alle politiche – e non quelli che ne costituiscono, da sempre, le cupole.(Claudio Giorno, “Alla Scala-Expo di Milano va in scena l’Eroica di… Cantone”, dal blog di Giorno del 12 maggio 2014).Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi. Gli italiani – purtroppo – ne hanno un bisogno che sconfina ormai nella dipendenza. L’ultimo è di oggi, 12 maggio, si chiama Raffaele Cantone, è il coraggioso magistrato del tribunale di Napoli recentemente nominato presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione e che adesso viene chiamato a salvare l’Expo 2015 di Milano! «Cancellare l’esposizione mondiale sarebbe come ammettere che l’illegalità ha vinto», ha dichiarato al quotidiano partenopeo “Il Mattino”, che lo ha intervistato per l’occasione; e la lobby delle grandi opere – già confortata ieri dal premier – ha immediatamente tirato un sospiro di sollievo. Che tuttavia deve essersi leggermente strozzato in gola alla lettura della parole – pesanti come macigni – aggiunte forse a “beneficio” di chi ha tentato di minimizzare il ruolo dei partiti in quello che appare solo come l’ultimo degli scandali di una tangentopoli ormai cronica: «La politica tarda a liberarsi da un diffuso malcostume».
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Giunti e Teghille: ma il mostro eversivo si chiama Tav
Il Procuratore della Repubblica di Torino interviene sulla manifestazione di sabato 19 a Roma, spiegando che se una marcia pacifica si può fare a Roma allora in val Susa si possono e si devono isolare i violenti. Con il massimo rispetto per la sua figura e la sua storia, proviamo a esprimere qualche riflessione, perché da molti anni sentiamo ripetere questo ritornello. Giornalisti e politici, anche sensibili alle ragioni della protesta, spesso ci spiegano quali danni porterebbe alla causa non espellere le mele marce. Noi, stolidi montanari, continuiamo a non capire. In realtà anche a Roma qualche scontro si è verificato, certamente non come due anni fa, sempre in ottobre, quando un analogo corteo ha avuto tutt’altro esito, né come – ricordiamo tutti – a Napoli e ancor più a Genova nel 2001. In quelle situazioni, anche sabato scorso, i filmati mostrano che curiosamente la polizia fa agire i violenti per poi accanirsi con i più tranquilli. In qualche caso si vedono agenti in borghese confondersi con i manifestanti o con i giornalisti. La storia del nostro Paese ci ha fatto conoscere anche le figure dei provocatori e degli infiltrati. Non c’è ragione per credere che gli antitav siano riusciti a restarne immuni.Non è la popolazione della valle di Susa che, alimentando simpatie antagoniste, ha promosso il progetto Torino-Lione e l’apertura del cantiere di Chiomonte. Sono questi che, per la loro insostenibilità e protervia, hanno richiamato l’antagonismo, in maniera quasi turistica. D’altronde, se qualcuno ritiene – a torto – che possa scoppiare una rivoluzione, sarà inesorabilmente attratto dove sussistono forti tensioni sociali e ambientali. Non andrà certo a Montecarlo o in Costa Smeralda! La gran parte delle iniziative condotte in vent’anni contro la Torino-Lione sono azioni pacifiche e culturali. A cominciare dalle manifestazioni, che continuano a radunare migliaia di persone in marcia a volto scoperto, per arrivare alle assemblee, alle serate informative, alle feste e agli spettacoli, a decine di conferenze di ospiti interessanti e competenti. Focalizzarsi sugli episodi violenti e sui sabotaggi è facile e strumentale ma non rende onore alla verità e al lungo cammino percorso da questo movimento.L’opposizione NoTav non è un partito o un’istituzione. Non ha un segretario politico né un presidente. E’ fatta da centinaia di persone con sensibilità diverse, anche distanti, che si ritrovano concordi nel denunciare un sistema perverso di potere, di opere, lavoro ed economia deviati, che non deve più trovare albergo nel nostro paese. Quindi non esiste nessuno che possa, in nome di tutti gli altri, prendere le distanze da qualcosa o espellere qualcuno. Al suo interno sono presenti anche moltissimi amministratori pubblici, sindaci in testa. Sempre, sempre, hanno condannato e rigettato – senza balbettare – ogni violenza, a cominciare proprio dagli eccessi nelle manifestazioni. Negare il fatto non lo cancella. Hanno anche ricordato, però, che i violenti sono molti. Persino lo Stato può esserlo, se prima impone un’opera, poi la camuffa come condivisa e infine la difende con i militari. Persino le forze dell’ordine e la Magistratura possono eccedere, non solo quando usano la forza fisica oltre il necessario, ma anche quando indagano con visioni preconcette e in una sola direzione. Persino i massmedia, se sono ossequiosi con lo sloganeggiante notabile di turno o se ignorano gli appelli alle istituzioni, i dati tecnici, la pochezza dei progetti, i dubbi espressi in altri Stati, possono fare violenza.La politica nazionale pare sappia rispondere soltanto con arroganza e con sotterfugi. L’ultimo esempio si trova nella legge sul femminicidio, che assimila i cantieri a caserme e allarga il perimetro dell’art. 260 del codice penale. Tratta di spionaggio e usa termini come stato in guerra, efficienza bellica, operazioni militari. Addirittura, in caso di conflitto, contemplava la pena di morte! Oppure si può analizzare la ratifica dell’ultimo accordo internazionale proposta al Parlamento: con essa si applicherebbe anche sul lato italiano il diritto francese, spostando oltralpe gli eventuali contenziosi ma soprattutto annullando ogni normativa antimafia, che là non esiste. Non sono forme di eversione anche le dismissioni di sovranità e lo svilimento dell’ordinamento dello Stato?La “Libera Repubblica” della Maddalena non voleva un altro Stato, ma uno Stato migliore e più rispettoso della Costituzione italiana. Rivendicava – forse immodestamente – il collegamento con la Resistenza da cui quella Costituzione nacque. Qualcosa come i 40 giorni di libertà della val d’Ossola, i 23 giorni della Città di Alba o la difesa del Monte Rubello. Non una “enclave” ma un laboratorio, fantasioso, disordinato, partecipato e vitale come ogni esperimento. Sono altre le enclaves che dovrebbero preoccupare gli italiani, le regioni dominate dalla criminalità organizzata, ad esempio, o i grumi affaristico-politico-finanziari i cui scandali scoppiano ogni settimana, ma sempre dopo che i guasti sono avvenuti. I NoTav invece, con tutti i loro difetti, stanno cercando di fermarli prima che accadano.Per quanto possa apparire blasfemo, i cittadini che si oppongono alla costruzione della Torino-Lione sono consapevoli di infrangere talvolta le leggi esistenti. Ma lo fanno in nome di un senso di giustizia più alto, magari confuso per gli altri ma limpido per loro, seguendo il principio che Giuseppe Dossetti, guardando alla Francia, avrebbe voluto inserire nella Costituzione della Repubblica Italiana: La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino. Tra quei diritti inviolabili ci sono la salute e il paesaggio che proprio la Torino-Lione massacrerebbe. Le buone ragioni di chi ha ragione non vengono cancellate da metodi poco ortodossi o addirittura illeciti. La compresenza di pratiche diverse per sostenerle non è motivo valido per sconfessarle o ignorarle. Restano valide, anche se è comodo nasconderle enfatizzando le azioni più clamorose.La fiducia nella giustizia e nei loro rappresentanti viene messa a dura prova. Cittadini informati e vilipesi l’hanno perduta perché ogni loro appello, denuncia, ricorso, esposto, è stato sempre lasciato cadere da chiunque l’abbia ricevuto, magistrato o Presidente della Repubblica che fosse. Si badi bene: non è stato accolto, giudicato e poi, eventualmente, ritenuto infondato nel merito. Non è proprio stato recepito. Non solo. Chi si è permesso di denunciare abusi e pericoli è stato inquisito per false comunicazioni e procurato allarme. Come una certa Tina Merlin a proposito del Vajont. Alla lunga una certa disistima nelle istituzioni centrali appare giustificata. L’incrollabile convinzione del Procuratore di Torino sull’eversione ricorda con amarezza le “prove granitiche” che dieci anni fa sono state considerate dalla Cassazione insufficienti per sostenere proprio l’accusa di terrorismo nella nostra valle, non senza aver cagionato due suicidi in carcere e 4 anni di ingiusta detenzione al terzo indagato. Si sta recitando da capo lo stesso identico copione, e nessuno qui in giro vuole che si ripeta anche lo stesso epilogo.Nonostante tutto, rimane la speranza – forse ingenua – che la giustizia faccia il suo corso. Non si spiegherebbe altrimenti l’ostinazione nell’analizzare progetti, sorvegliare il cantiere, produrre documenti, redigere i famosi esposti. Va poi ricordato, per quanto fastidioso sia, che in tutta questa storia si annoverano tre sentenze: quella che ha assolto i presunti Lupi Grigi dall’accusa di terrorismo, quella che ha condannato la dirigenza Sitaf per turbativa d’asta per gli appalti di Venaus, quella che riconosce i pestaggi ingiustificati delle forze dell’ordine durante lo sgombero del 2005, sempre a Venaus. Quest’ultima addirittura proclama l’omertà dei funzionari e la loro reticenza davanti ai giudici! Sentenze, non chiacchiere NoTav. Tutte decisioni ultime della Magistratura che in qualche modo confermano le tesi degli oppositori alla Torino-Lione. Aspettiamo dunque rispettosamente le conclusioni dei processi istruiti negli ultimi due anni: potrebbero rivelare delle sorprese.Il Procuratore ha già radicato la convinzione che tutti i sabotaggi sono da ricondursi al movimento NoTav, nonostante non siano stati rivendicati, le indagini siano in corso, e addirittura alcuni bersagli abbiano dichiarato di pensarla diversamente. Ma il giudizio è già vissuto come inappellabile. Eppure, molti dubbi si affollano sulle dinamiche dei singoli episodi, così come sul contesto in cui sarebbero avvenuti. Ad esempio, si apprende dalla stampa che attentati simili si sono verificati nel chivassese e nell’emiliano, sempre a carico di ditte in qualche modo coinvolte nei movimenti di terre Tav. In quelle aree lontane, per fortuna, nessuno ha ancora incolpato i NoTav. Non sarà possibile, almeno in ipotesi, che anche in val Susa gli autori siano altri e abbiano altri scopi? Che la torta da spartire sia così succulenta da attirare appetiti più onnivori di qualche presunto contestatore più esuberante di altri? E’ positivo che la legge finanziaria in discussione preveda nuove risorse proprio per risarcire le ditte eventualmente colpite dai NoTav. Costringerà a individuare senza dubbi i veri autori dei danneggiamenti, perché senza responsabilità accertata in capo ai NoTav i risarcimenti saranno zero. Come in una famosa pubblicità: No colpevoli, No soldi!A nostro modo di vedere, c’è un sistema molto facile e immediato per scoprire se davvero esiste una frattura negli oppositori e se una frangia del movimento vuole lo scontro a tutti i costi. Ascoltare le voci degli amministratori e dei docenti universitari, che chiedono di fermarsi a riflettere – ma in maniera seria, trasparente e obiettiva – sui dati trasportistici, economici, ambientali e sociali dell’opera. Se dopo tale analisi si dovesse appurare che la Torino-Lione è utile, proposta in maniera cristallina, sopportabile dall’ambiente e dalle casse dello Stato, una buona parte di chi si oppone sarebbe disposto a farsi da parte. Noi, almeno, lo faremmo. In ogni caso, è indubitabile che sic stantibus rebus non si possa andare avanti. Occorre prendere atto che l’Osservatorio governativo istituito nel 2006 ha fallito. Era stato incaricato di condividere il progetto con il territorio, di facilitare l’accettazione dell’opera, di ridurre la contestazione e abbassare la tensione. Non c’è riuscito, per la semplice ragione che la Torino-Lione è indifendibile sotto ogni punto di vista.Per accorgersene definitivamente, basta smettere di ascoltare i proclami rassicuranti che il Commissario dipinge nei salotti e in luoghi protetti, ben lontano da ogni confronto. Non potranno certo essere installati i cantieri a Susa nei prossimi due anni, come più volte annunciato. In mezzo a quartieri abitati, aziende, scuole, strade e altre strutture pubbliche. Non ci si troverà più in una valle secondaria isolata tra i monti e disabitata. Dall’estate del 2011 Chiomonte e la val Clarea insegnano che costa di più difendere l’opera che costruirla. A Susa questi costi potrebbero decuplicare. E ormai dovrebbe essere evidente a tutti che repressione e falsità non sono i metodi idonei per uscire da questo buco.(Luca Giunti e Bruno Teghille, “Riflessioni sulla lettera del procuratore della Repubblica di Torino”, 24 ottobre 2013. Giunti e Teghille sono due esponenti del movimento No-Tav).Il Procuratore della Repubblica di Torino interviene sulla manifestazione di sabato 19 a Roma, spiegando che se una marcia pacifica si può fare a Roma allora in val Susa si possono e si devono isolare i violenti. Con il massimo rispetto per la sua figura e la sua storia, proviamo a esprimere qualche riflessione, perché da molti anni sentiamo ripetere questo ritornello. Giornalisti e politici, anche sensibili alle ragioni della protesta, spesso ci spiegano quali danni porterebbe alla causa non espellere le mele marce. Noi, stolidi montanari, continuiamo a non capire. In realtà anche a Roma qualche scontro si è verificato, certamente non come due anni fa, sempre in ottobre, quando un analogo corteo ha avuto tutt’altro esito, né come – ricordiamo tutti – a Napoli e ancor più a Genova nel 2001. In quelle situazioni, anche sabato scorso, i filmati mostrano che curiosamente la polizia fa agire i violenti per poi accanirsi con i più tranquilli. In qualche caso si vedono agenti in borghese confondersi con i manifestanti o con i giornalisti. La storia del nostro Paese ci ha fatto conoscere anche le figure dei provocatori e degli infiltrati. Non c’è ragione per credere che gli antitav siano riusciti a restarne immuni.