Archivio del Tag ‘omertà’
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Strinati: Lillo Zucchetto, il “cacciatore” di mafiosi latitanti
«Poliziotto d’altri tempi, a caccia di delinquenti e scempi». Così il poeta Fabio Strinati celebra la memoria di Calogero Zucchetto, detto Lillo, ucciso dalla mafia che non gli ha perdonato l’impegno con cui braccava gli inafferrabili latitanti di Cosa Nostra, protetti dall’omertà generale nella Palermo dei primi anni ‘80. Aveva solo 27 anni, Zucchetto, quando – la sera di domenica 14 novembre 1982 – all’uscita dal bar Collica nell’elegante via Notarbartolo, in pieno centro, fu freddato con cinque colpi di pistola alla testa sparati da due killer in sella a una moto. Erano Pino Greco detto “Scarpuzzedda” e Mario Prestifilippo: Lillo li aveva entrambi frequentati quando ancora non erano mafiosi. Zucchetto, ricorda Pietro Alongi nel suo blog, era uno degli uomini di fiducia di Ninni Cassarà, vicequestore aggiunto e vicecapo della squadra mobile di Palermo, a sua volta assassinato in un agguato mafioso, tre anni dopo. Era «un poliziotto della prima linea, da strada, di quelli veri che provano passione per il loro lavoro: di tasca sua si pagava la benzina e col suo Vespone andava a scovare e spiare i soldati e i boss di Cosa Nostra in quei luoghi per loro sicuri». Era affabile e simpatico. Infaticabile: non aveva orari. Ed era pronto a parlare con tutti per recuperare informazioni. Qualità che gli sono probabilmente costate la vita.Quella maledetta domenica Lillo Zucchetto era con un collega, Eugenio Franco Palumbo: avevano trascorso la giornata con le rispettive fidanzate, erano stati anche allo stadio a vedere la partita. Poi, congedate le ragazze, i due poliziotti decidono di proseguire la serata in discoteca, ma per lavoro: la loro specialità era tenere d’occhio i “picciotti” per risalire ai boss latitanti. Davanti al bar, la separazione momentanea: forse, ricorda il collega, prima di raggiungere la discoteca, Zucchetto contava di incontrare (da solo) qualche informatore. Il tempo di un panino e una birra, poi il poliziotto lascia il bar e viene crivellato di proiettili. «Ero a pochi isolati di distanza», ricorda Palumbo: «Ho sentito i colpi e sono accorso, ma ormai era tardi». Lillo Zucchetto era a terra. Nel cranio, cinque pallottole calibro 38. In capo a qualche mese si sarebbe dovuto sposare. Tristemente celebri i suoi killer, esponenti di rilievo della famiglia mafiosa di Ciaculli, frazione del comune di Palermo “famosa” per la spietata abilità nell’uccidere. Uno dei due, Giuseppe Greco, su proposta di Totò Riina venne nominato capomandamento di Ciaculli: a lui sono attribuiti 58 omicidi tra cui quelli del magistrato Rocco Chinnici, del generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, dell’onorevole Pio La Torre e del boss mafioso Stefano Bontade.Mandanti dell’omicidio Zucchetto: lo stesso Riina, insieme a Bernardo Provenzano, Raffaele Ganci e altri esponenti della “cupola” di Cosa Nostra. Perché “doveva” morire, Lillo Zucchetto? Si occupava di mafia e, in particolare, collaborava alla ricerca dei latitanti, allora molto numerosi. Con Cassarà collaborò alla stesura del cosiddetto “rapporto Greco Michele + 161”, che tracciava un quadro della guerra di mafia iniziata nel 1981 e dei nuovi assetti delle cosche, segnalando in particolare l’ascesa del clan dei Corleonesi (Liggio, Riina e Provenzano). Riuscì a entrare in contatto anche con il pentito Totuccio Contorno, che si rese molto utile con le sue confessioni per la redazione del “rapporto dei 162”. Sempre con il commissario Cassarà, Zucchetto andava in giro in motorino per i vicoli di Palermo e in particolare per quelli della borgata periferica di Ciaculli, che conosceva bene, a caccia di ricercati. In uno di questi giri, con Cassarà, incontrò due killer al servizio dei corleonesi: erano Greco e Prestifilippo, gli stessi che poi lo avrebbero ucciso. Pochi giorni prima di morire, all’inizio di novembre del 1982, dopo una settimana di appostamenti tra gli agrumeti di Ciaculli, Zucchetto riconobbe il latitante Salvatore Montalto, boss di Villabate. Essendo solo e non avendo mezzi per arrestarlo, Lillo rinunciò alla cattura (avvenuta poi il 7 novembre con un blitz dello stesso Cassarà). Di seguito, la commossa rievocazione poetica con cui Strinati – su Libreidee – ricorda il giovane poliziotto ucciso.A CALOGERO ZUCCHETTOAnima dal valore immenso,gli occhi accesi sul mondoe quel doloroso vento tra i vicolidi Palermo insanguinati,che ti hannosottratto giovine gioviale sguardoe aperto al cielo, uno squarcio oleoso,profondo e sventurato.Poliziotto d’altri tempi,a caccia di delinquenti e scempispento troppo prestoda tuono mafioso, e un accidiosolampo caduto sopra il tuo corpo esile,che riecheggia ( rumoroso ) ancor nel ventoquel suono oscuro, nefasto e miserabile.(Fabio Strinati)Fabio Strinati (Esanatoglia, 1983) è poeta, artista visivo, compositore e fotografo. È presente in diverse riviste e antologie letterarie. Da ricordare “Il Segnale”, rivista letteraria fondata a Milano dal poeta Lelio Scanavini, la rivista “Sìlarus” fondata da Italo Rocco, e “Osservatorio Letterario – Ferrara e L’Altrove”. È stato inserito da Laura Margherita Volante nel volume “Ti sogno, Terra”, viaggio alla scoperta di Arte Bellezza Scienza e Civiltà, inserito nei “Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche”. Sue poesie sono state tradotte in romeno e in spagnolo. È inoltre il direttore della collana poesia per “Il Foglio Letterario” e cura una rubrica poetica dal nome “Retroscena”, proprio sulla Rivista trimestrale del “Foglio Letterario”. Pubblicazioni: “Pensieri nello scrigno. Nelle spighe di grano è il ritmo” (2014); “Un’allodola ai bordi del pozzo” (2015); “Dal proprio nido alla vita” (2016); “Al di sopra di un uomo” e “Periodo di transizione” (2017), “Aforismi scelti Vol.2” e “L’esigenza del silenzio” (2018).«Poliziotto d’altri tempi, a caccia di delinquenti e scempi». Così il poeta Fabio Strinati celebra la memoria di Calogero Zucchetto, detto Lillo, ucciso dalla mafia che non gli ha perdonato l’impegno con cui braccava gli inafferrabili latitanti di Cosa Nostra, protetti dall’omertà generale nella Palermo dei primi anni ‘80. Aveva solo 27 anni, Zucchetto, quando – la sera di domenica 14 novembre 1982 – all’uscita dal bar Collica nell’elegante via Notarbartolo, in pieno centro, fu freddato con cinque colpi di pistola alla testa sparati da due killer in sella a una moto. Erano Pino Greco detto “Scarpuzzedda” e Mario Prestifilippo: Lillo li aveva entrambi frequentati quando ancora non erano mafiosi. Zucchetto, ricorda Pietro Alongi nel suo blog, era uno degli uomini di fiducia di Ninni Cassarà, vicequestore aggiunto e vicecapo della squadra mobile di Palermo, a sua volta assassinato in un agguato mafioso, tre anni dopo. Era «un poliziotto della prima linea, da strada, di quelli veri che provano passione per il loro lavoro: di tasca sua si pagava la benzina e col suo Vespone andava a scovare e spiare i soldati e i boss di Cosa Nostra in quei luoghi per loro sicuri». Era affabile e simpatico. Infaticabile: non aveva orari. Ed era pronto a parlare con tutti per recuperare informazioni. Qualità che gli sono probabilmente costate la vita.
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Strinati: caro Giacomelli, unico giudice ucciso in pensione
Un delitto “senza”: senza clamore e senza assassini (mai trovati), senza movente per lungo tempo, senza lapidi e celebrazioni per ricordare l’uomo e il magistrato. Un delitto senza niente e senza tutto, quello del giudice trapanese Alberto Giacomelli, freddato dai killer il 14 settembre 1988: il primo a morire già in pensione, dopo aver osato (di nuovo: per primo) applicare in Sicilia la legge Rognoni-La Torre sulla confisca dei patrimoni mafiosi. «Un giudice dimenticato un attimo dopo la sua morte violenta», lo ricorda Attilio Bolzoni nella sua prefazione della biografia “Un uomo per bene” (Edb, 2018) scritta da Salvo Ognibene. Giacomelli? «Inghiottito da maldicenze e depistaggi, dall’omertà, dall’ignoranza. Inghiottito da una Sicilia che appena qualche giorno dopo stava piangendo il presidente della Corte d’assise Antonino Saetta e qualche giorno dopo ancora il giornalista Mauro Rostagno». Proprio ad Alberto Giacomelli, su Libridee, Fabio Strinati dedica un’intensa rievocazione poetica.Si saprà solo dopo molti anni – quando ne parleranno i pentiti di Cosa Nostra – che Alberto Giacomelli aveva “pagato” per avere confiscato con un provvedimento un “bene di famiglia”, una proprietà di Gaetano Riina, il fratello dello “zio Totò”, il capo dei capi, in quel 1988 latitante già da quasi vent’anni. Giacomelli, scrive ancora Bolzoni, era presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Trapani: un uomo defilato, silenzioso, sobrio. Dietro il sipario, decideva i destini economici di quei “galantuomini”. E aveva «messo la sua firma su un patrimonio che per sua volontà e in nome del popolo italiano non apparteneva più al mafioso di Corleone», il feroce padreterno che in Sicilia «decideva chi doveva vivere e chi doveva morire». Così è uscito di scena, in punta di piedi, «un coraggiosissimo magistrato siciliano che non aveva mai avuto le attenzioni dei cronisti o le luci degli studi televisivi». Così è morto in solitudine Alberto Giacomelli, classe 1919, in magistratura dal ‘45, congedato nell’87 e assassinato appena un anno dopo, con un proiettile in testa.Il fatale provvedimento l’aveva firmato quattro anni prima. Pentiti di mafia e collaboratori di giustizia confermarono che fu proprio quella decisione a costargli la vita. Per la prima volta, Cosa Nostra decise di colpire un magistrato giudicante. E quello di Giacomelli resta l’unico caso di omicidio, nella storia d’Italia, di un magistrato in pensione. Ancora Bolzoni inquadra l’omicidio nella luce sinistra del biennio ‘88-89, che preparò le stragi di Capaci e via d’Amelio. «Corvi, talpe, sciacalli, candelotti di dinamite, “menti raffinatissime”, misteri che hanno fatto tremare l’isola e anche l’Italia». Inquietante il diario dell’ex sindaco palermitano Giuseppe Insalaco, che proprio nel 1988 indicò i “buoni” (Piersanti Mattarella, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Cesare Terranova e Pio La Torre, tutti assassinati), additando fra i “cattivi” Salvo Lima e Andreotti, il procuratore capo Vincenzo Pajno e l’esattore mafioso Ignazio Salvo. «E in mezzo, una Palermo sprofondata nella paura», in balìa dei sicari di Riina.Il maxi-processo si era concluso un anno prima, con le prime e decisive condanne per la Cupola. «L’impianto accusatorio del pool antimafia aveva retto alla prova della Corte d’Assise, ma in tanti speravano nell’appello per disintegrare quel capolavoro di ingegneria giudiziaria che aveva inventato Giovanni Falcone». Era già arrivata la stagione del disincanto, scrive Bolzoni. Fu in quella primavera, aggiunge, che a Roma «decisero di scavare la fossa istituzionale a Falcone». Al posto di Antonino Caponnetto, il consigliere istruttore che aveva sostituito Rocco Chinnici (saltato in aria nell’83), il Csm nominò «un vecchio magistrato che non sapeva nulla di questioni mafiose e che in poche settimane disintegrò a colpi di penna “l’unicità” di Cosa Nostra, sparpagliando in mille rivoli tutte le indagini che il pool aveva centralizzato». Per Bolzoni, era la fine di un metodo di lavoro e di investigazione che aveva dato per la prima volta straordinari risultati. «Un segnale per Giovanni Falcone, dentro e fuori Palermo, dentro e fuori lo Stato». Paolo Borsellino denunciò «la fine della lotta alla mafia».L’estate siciliana del 1988, aggiunge Bolzoni, se ne andò con un titolo in prima pagina – ogni giorno – su tutti i quotidiani italiani. Era esploso il “caso Palermo”, con il suo tribunale ormai chiamato il Palazzo dei Veleni, le infuocate polemiche sulla mancata nomina di Falcone a consigliere istruttore, il cambio improvviso dei vertici della polizia palermitana, i timori degli ambienti politici romani, le speranze dei siciliani. «Un’estate inquieta, che non era ancora finita. E il 14 settembre, di mattina, nel silenzio più cupo uccisero Alberto Giacomelli, giudice figlio di un giudice, che da poco più di un anno aveva lasciato la toga». Delle indagini, ricorda oggi la Rai, si occupò lo stesso Borsellino, poi ucciso in via d’Amelio, in collaborazione con Paolo Germanà, scampato ai killer a Mazara del Vallo quattro anni dopo. Una storia esemplare ma coperta dal silenzio, quella di Giacomelli, in un paese – scrive Ognibene – che ha il difetto di dimenticare in fretta. Anche per questo assume un particolare valore la tensione emotiva della poesia di Strinati, commosso omaggio a un uomo mite e giusto come Giacomelli.AD ALBERTO GIACOMELLIHanno contaminato il tuo addomeavvelenato il tuo dabbene sguardosottratto la tua anima alla vitausando il megafono della violenzail microfono dell’arroganza,il sotterfugio putrido vile dell’ignoranza;hanno calpestato il tuo onorepestato il tuo cognome da galantuomoscucito al mondo il tuo sorrisodelicato che sapeva come corteggiare la speranza;hanno usato la peggior vergognaper ammorbare il tuo esile corpoattraverso un colorante colmo, strapieno di sangue…e ti hanno tolto l’esistenzaperché figli di un frutto acerbodi un albero avverso nutrito dal morbofradicio della menzognala più cattiva rogna che sembra uno sciame,intinto, in un volume abnorme di peccato.(Fabio Strinati)Fabio Strinati (Esanatoglia, 1983) è poeta, artista visivo, compositore e fotografo. È presente in diverse riviste e antologie letterarie. Da ricordare “Il Segnale”, rivista letteraria fondata a Milano dal poeta Lelio Scanavini, la rivista Fabio Strinati“Sìlarus” fondata da Italo Rocco, e “Osservatorio Letterario – Ferrara e L’Altrove”. È stato inserito da Margherita Laura Volante nel volume “Ti sogno, Terra”, viaggio alla scoperta di Arte Bellezza Scienza e Civiltà, inserito nei “Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche”. Sue poesie sono state tradotte in romeno e in spagnolo. È inoltre il direttore della collana poesia per “Il Foglio Letterario” e cura una rubrica poetica dal nome “Retroscena”, proprio sulla Rivista trimestrale del “Foglio Letterario”. Pubblicazioni: “Pensieri nello scrigno. Nelle spighe di grano è il ritmo” (2014); “Un’allodola ai bordi del pozzo” (2015); “Dal proprio nido alla vita” (2016); “Al di sopra di un uomo” e “Periodo di transizione” (2017), “Aforismi scelti Vol.2” e “L’esigenza del silenzio” (2018).Un delitto “senza”: senza clamore e senza assassini (mai trovati), senza movente per lungo tempo, senza lapidi e celebrazioni per ricordare l’uomo e il magistrato. Un delitto senza niente e senza tutto, quello del giudice trapanese Alberto Giacomelli, freddato dai killer il 14 settembre 1988: il primo a morire già in pensione, dopo aver osato (di nuovo: per primo) applicare in Sicilia la legge Rognoni-La Torre sulla confisca dei patrimoni mafiosi. «Un giudice dimenticato un attimo dopo la sua morte violenta», lo ricorda Attilio Bolzoni nella sua prefazione della biografia “Un uomo per bene” (Edb, 2018) scritta da Salvo Ognibene. Giacomelli? «Inghiottito da maldicenze e depistaggi, dall’omertà, dall’ignoranza. Inghiottito da una Sicilia che appena qualche giorno dopo stava piangendo il presidente della Corte d’assise Antonino Saetta e qualche giorno dopo ancora il giornalista Mauro Rostagno». Proprio ad Alberto Giacomelli, su Libridee, Fabio Strinati dedica un’intensa rievocazione poetica.
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Livigni: ci governa la cupola che liquidò Kennedy e Mattei
Vorrei tornare su Enrico Mattei, di cui sono stato uno strettissimo collaboratore, per dire che in Italia è avvenuto qualcosa di orrendo, di sporco. Era stata fatta una inchiesta, quando l’aereo precipitò a Bascapè: un’inchiesta vergognosa, fatta da depistaggi e coperture della verità. Un’altra mezza inchiesta era stata subito chiusa. Nel 1994 ho pubblicato un libro con la Mondatori che si chiama “La grande sfida”, e sono riuscito avere documentazioni top secret dagli archivi della Jfk Library di Boston, dall’Eisenhower Library e, con mia sorpresa, ho scoperto che tra Mattei e Kennedy c’era una corrispondenza molto stretta. Dopo la crisi di Suez, quando Inghilterra e Francia erano state invitate dagli Stati Uniti a ritirarsi durante la Guerra di Suez, perché gli Usa temevano uno shock petrolifero, l’Italia avanzò la proposta di coprire un ruolo di nazione strategica, sul Mediterraneo, in sostituzione di Francia e Inghilterra. Kennedy era d’accordo, però bisognava dare stabilità politica al governo italiano, che cambiava ogni due mesi (c’era stata la crisi del governo Tambroni, che durò un mese e mezzo). Per dare stabilità politica bisognava scegliere un uomo e fare riforme. Kennedy esaminò tutti i possibili interlocutori italiani, e li scartò subito: via Fanfani, via Gronchi. E arrivò a Mattei: di lui, Kennedy era affascinato. E iniziarono delle trattative.Una prima trattativa avvenne all’Hotel Excelsior di Roma, in grandissimo segreto. Mattei non si fece assistere da nessuno. Kennedy chiese alle grandi compagnie americane di mettere Mattei in condizioni di fare affari, di offrirgli contratti migliori di quelli che aveva con l’Unione Sovietica. Dopo lunghe trattative, venne fatto un contratto tra l’Eni e la Esso per la fornitura di 12 milioni di tonnellate l’anno di greggio a condizioni veramente migliori di quelle che Mattei aveva con l’Urss. Dopo l’accordo commerciale, segretissimo, si passò alla trattativa politica. Parteciparono il responsabile della politica estera di Kennedy e il futuro capo della Cia in Italia. Mattei doveva andare a dicembre 1962 a incontrare Kennedy. Non ne parlò con nessuno, neanche con me. Era abbastanza teso, in quei giorni: aveva ricevuto minacce. La cosa che mi colpì è che era stato in Sicilia, il 18 ottobre 1962. C’era stato un incontro a Gela, un Cda della Agip Mineraria. Lui transitò da Palermo, mi chiamò e mi disse: «Ti voglio vedere subito in aeroporto». Arrivò con l’aereo aziendale, mi diede indicazioni su fatti che stavamo svolgendo e io gli dissi: «Presidente, venga entro l’anno, perché abbiamo fatto una realizzazione, a Gela, che voleva lei: un grande deposito costiero per importare dalla raffineria di Gela i prodotti sul mercato». Lui disse: «Non posso venire, ho parecchi impegni, ci vediamo il prossimo anno».Dopo sette giorni ricevo una sua telefonata. Io mi trovo a Palermo, avevo un incarico di “scout man”, l’uomo dei servizi segreti nel petrolio che cerca di sapere cosa fanno le altre compagnie. Mi disse: «Sto partendo per Gela». «Presidente, ma… come mai?». «Poi glielo dico». Arrivai a Gela prima di lui, andai al Motel Agip e mi dissero: «Non atterra qui». L’Agip aveva un aeroporto privato, l’aeroporto di Ponte Olivo, con una pista molto sorvegliata. Ma la sera prima avevano messo una carica di tritolo e rotto la pista per non farlo atterrare, per farlo venire con l’elicottero. E lui dovette atterrare a Catania, arrivò intorno alle 13. Abbiamo parlato di problemi in corso che riguardavano l’Iraq. Nessun libro, dei 300 e rotti pubblicati nel mondo su Mattei, ha mai parlato dell’Iraq. Sapevo che c’era una questione in Iran: non si era riusciti a entrare nel consorzio dopo la caduta di Mossadeq, fatto cadere dagli angloamericani perché aveva nazionalizzato il petrolio (fatto cadere con l’uso dei sicari dell’economia). Mossadeq fu denunziato come se fosse un pazzo, e invece era molto saggio: era presidente del Consiglio del primo governo democratico iraniano, un governo eletto dal popolo.Gli americani tornarono con gli inglesi e riaprirono le compagnie angloamericane, fecero un consorzio e noi siamo stati rifiutati. E Mattei disse: «Andiamoci a prendere il petrolio in Iraq». Che cosa era successo? Io ho conosciuto a Taormina Dino Grandi, ex ministro degli esteri del governo Mussolini, che mi ha informato che nel 1934 l’Agip, fondata nel 1926, era riuscita a ottenere in Iraq il più grande giacimento nell’area di Kirkuk, nell’area curda. Era riuscita per l’abilità di Grandi che venne a patti con gli inglesi, che avevano l’85% del territorio iracheno. Una concessione enorme, con una sessantina di concessioni. L’Iraq è un’invenzione di Churchill, che aveva capito che – tirando una linea, un rettangolo, e unificando sciiti, curdi, sunniti e turcomanni – avrebbe creato un paese in eterno confitto, facilmente governabile e dominabile da un punto di vista coloniale. Dino Grandi diede appoggio all’Inghilterra, perché scadeva il protettorato inglese nel 1934, presso la Società delle Nazioni, la futura Onu. In contropartita, l’Inghilterra accettò che l’Agip rilevasse una piccola società petrolifera, e poi accettò che questa si ingrandisse fino a diventare una concessione importante, che si chiama Mossul Oil Field.E però avvenne che nel 1935 le truppe italiane invadono l’Etiopia, gli inglesi ricattano la Agip, dicono: «Se vuoi che noi interveniamo alla Società delle Nazioni per non fare sanzioni e un embargo petrolifero, ci devi cedere la Mossul Oil Field». Grandi trattò, e alla fine trovarono una soluzione: sarebbe andato a inglesi e americani il 51%, però l’Agip avrebbe mantenuto il 39% e una presenza strategica nella “golden share” della società, cioè avrebbe partecipato alle politiche e alle strategie. Quando Grandi tornò a Roma, Mussolini ebbe paura e disse: «No, cediamo la società, perché gli inglesi poi mi possono giocare un brutto scherzo, e io non posso fermare in Etiopia le truppe con un embargo». Mattei sapeva tutto questo, e dopo che fummo rifiutati dal consorzio iraniano disse: «Andiamoci a prendere il petrolio in Iraq». Si formò un gruppo molto ristretto. Io lavorai con l’équipe che andò in Iraq quando Khassem, nel 1958, abbatté la monarchia irachena di Re Faysal. Khassem venne contattato nel mese di agosto, in una caserma, mentre fuori si sparava. Gli fu portata una credenziale di Mattei, in cui diceva: «Vogliamo fare con voi un contratto paritetico, un partenariato, non un contratto in cui vi vede paese esattore di tasse o di royalty. Facciamolo insieme, facciamo una società paritetica che si occuperà anche di altre cose connesse al petrolio». Lui accettò e disse: «Voglio però prima cacciare via l’Iraq Petroleum Company».E così si iniziò a dare assistenza legale a Khassem esaminando, concessione per concessione, l’Iraq Petroleum Company, per vedere dove questa società aveva mancato. Su 60 e rotti concessioni, la società ne aveva sfruttato solo tre, con un atteggiamento di scorrettezza enorme: si era mantenuta come riserva le altre risorse, privando il popolo iracheno di quelle royalty, ancorché irrisorie. Nel 1962 Khassem revocò le concessioni, queste 57 concessioni, all’Iraq Petroleum Company. Era una bomba! Una delle più grandi compagnie del mondo veniva buttata fuori, perché Khassem avrebbe fatto entrare l’Eni. Seguii da vicino la faccenda, ma non eravamo sicuri di essere sfuggiti ai servizi segreti americani e inglesi, perché in Italia c’era parecchia gente che voleva la fine di Mattei – parecchia. Lui aveva rotto con Fanfani: mandò all’opposizione i fanfaniani siciliani, che non erano gente troppo facile – erano Gioia, Lima. Avevano indirizzato i finanziamenti alla Dc, a Fanfani, a Moro. Era rottura totale, e Fanfani era presidente del Consiglio. Poi c’è la questione Cefis: Mattei lo aveva cacciato fuori, il vicepresidente, che era un uomo dei servizi inglesi.Mattei era isolato, e durante la trattativa ho scoperto, con i documenti avuti, che c’erano stati interventi pesantissimi dell’ambasciata americana e inglese a Roma su Fanfani, per fermare Mattei, e Fanfani ha risposto: «Io Mattei non lo posso fermare, non ho il potere». È una cosa gravissima: «Fermare a ogni costo». Khassem fece una società nazionale per creare poi una società paritetica con noi, fece sapere che voleva dare un annunzio al giornalismo internazionale di questo progetto della costizione della compagnia nazionale: non c’era più influenza esterna. Noi abbiamo detto: «Prendi tempo!». Era il 16 settembre del 1962. E Khassem, per la smania di dimostrare al popolo che stava lavorando per il bene dell’Iraq, rilasciò un’intervista che ci fece gelare. Disse: «Io ho revocato le concessioni all’Iraq Petroleum company e sto realizzando una società paritetica con l’Eni». Ci siamo sentiti persi: era grave, gravissimo. Abbiamo detto a Mattei di stare attento, di non viaggiare più in aereo. E quindi arrivò in Sicilia il giorno 26 ottobre. Eravamo terrorizzati. Io ho detto: «Presidente, non riparta questa sera per Milano. Venga con me, andiamo in campagna, mia moglie ha campagne vicino Palermo. Si riposi, non chiami neanche sua moglie. Un amico andrà a Roma e avviserà sua moglie, ma lo farà in modo privato: per un mese, “faccia finta di…”». Lui disse: «No, devo andare. Devo incontrarmi a Milano con l’onorevole Tremelloni questa sera e poi devo partire, devo fare il contratto con l’Algeria».Era un altro contratto molto osteggiato dagli angloamericani, ma soprattutto da Fanfani perché non voleva che Mattei portasse avanti una politica di rottura nei confronti delle Sette Sorelle (fu Mattei a definirle così, in verità all’inizio voleva dire “sorellastre” ma poi i giornalisti l’hanno modificato). E’ voluto partire lo stesso, Mattei. E quella sera l’aereo è caduto. In Italia abbiamo avuto una porcheria degna di nessun paese al mondo. Quando pubblicai “La grande sfida”, il procuratore Vincenzo Calia di Pavia, zona dove l’aereo è caduto, riaprì l’inchiesta perché la novità era il rapporto Mattei-Kennedy. Indagò con molta serietà, Calia. Ho avuto l’onore di collaborare da vicino con l’avanzamento inchiesta, e si accertò l’avvenuto sabotaggio. Si sono riesumati i corpi di Mattei e Bertuzzi, il pilota, e si sono trovate tracce di esplosivo: Compound 200, un esplosivo molto potente. Si è accertato che l’esplosivo era stato messo sotto i comandi del carrello, e si può fare attraverso il ruotino: si infila la carica con una calamita. La notte tra il 25 e il 26, l’aereo era stato portato dentro l’hangar militare della Nato (quello che vi dico è nell’inchiesta), ed è stato sabotato dai servizi: l’ho scritto. L’aereo, quando il pilota azionò la cloche per scendere, è andato in aria, è esploso.Ebbene, quest’inchiesta, che stava arrivando ai mandanti, già individuati (il magistrato stava acquisendo ulteriori elementi per le prove) è stata archiviata nel 2003. Dicono che Mattei non si sa perché è morto, alcuni dicono in un incidente: è una vergogna che una verità sia stata occultata. Se ammazzano un uomo non succede niente: un paese indegno. (Io ci ho perduto la moglie, nel luglio 2007: una macchina ci ha speronato e mia moglie è morta. Ebbene, chi ci ha speronato – che era ubriaco e drogato – sta passeggiando tranquillo, si diverte, va alle feste. Denunziato per omicidio colposo, ma non succederà niente!). Ritorniamo a Mattei. Archiviata l’inchiesta, io ho fatto un libro in 25 giorni, lavorando notte e giorno, che si chiama “Caso Mattei, un giallo Italiano”. Perché giallo italiano? Perché alla fine è stata gestito da italiani, da uomini per cui l’escalation di Mattei nella politica avrebbe dichiarato la fine politica o manageriale. E poi ho messo in evidenza, da una serie di documenti, un rapporto tra l’assassinio di Kennedy e quello di Mattei. A Catania c’era, quel giorno, Carlos Marcello, che è stato implicato nell’assassinio di Kennedy. Il tutto converge sull’oligarchia britannica – sulla Permidex, controspionaggio inglese.Siamo sempre lì: il centro del mondo nella finanza è Londra, e quindi Mattei ha messo in difficoltà gli inglesi. Kennedy lo stesso, perché ha rotto i rapporti con l’oligarchia britannica della politica a fini finanziari, e ha posto fine alla guerra in Corea senza interpellare gli inglesi. Non ci sono prove, ma c’è un legame comune. Quindi Mattei è stato ucciso, anche se tutti quelli che hanno scritto libri, come Bruno Vespa, dicono è caduto per un incidente aereo. Negli anni ‘90 è accaduto qualcosa di grave, ma i giornali italiani non hanno parlato di nulla perché fanno solo propaganda, poi alla fine le verità vengono negate. E’ successo questo: cade il Muro di Berlino, e il ministro Scotti avverte il capo del governo che manovre strane stavano avvenendo da parte di importanti banche d’affari contro l’economia italiana. Poi ribadisce: me lo ha detto Parisi. Mi ha detto pure che potrebbero avvenire stragi o uccisioni. Nel ‘92 avvenne la strage di Capaci, dove la mafia ha avuto solo un ruolo di supporto militare. Invece è una strage con gruppi di potere più o meno occulto, che prepararono una svolta economica e politica: «Vogliamo sedere in Parlamento, vogliamo governare». Allora l’Italia avvia la svendita dell’economia pubblica.Voglio parlare dell’Eni. Quando finì la guerra si avviò un dibattito tra i cattolici sociali e la sinistra italiana, guidata dai comunisti. Dovevano decidere quale struttura economica si doveva dare lo Stato italiano dopo il fascismo. I cattolici sociali hanno rifiutato il liberismo con una grande intuizione, perché il liberalismo penalizza le classi più deboli e spesso anche la vita della gente. Si creò un compromesso con lo Stato imprenditore che opera con le leggi del mercato in concorrenza, indirizzando in aree depresse anche l’economia privata. Viene privatizzato l’Eni, nel 1994 viene privatizzato l’Iri, altre aziende dello Stato nel campo delle telecomunicazioni. Alla fine di questo scempio, di questa carneficina, si sono divisi tutto. E nessuno ha mai parlato. Un pezzo alla sinistra, un pezzo alla destra: un’operazione scellerata di abbrutimento. L’unica denunzia viene fatta dal movimento civile americano di Lyndon LaRouche, ma Ciampi diventò presidente e tutto fu insabbiato. Tutto il patrimonio immobiliare dell’Eni, stimato in 100.000 miliardi, viene svenduto a un fondo Goldman Sachs. Stranamente, l’uomo che ha condotto questa operazione è stato Mario Draghi, che poi è diventato vicepresidente della Goldman. Non si può accettare, si tratta della logica più miserabile. Io l’ho denunziato, ma non è successo niente.Vorrei tornare su Enrico Mattei, di cui sono stato uno strettissimo collaboratore, per dire che in Italia è avvenuto qualcosa di orrendo, di sporco. Era stata fatta una inchiesta, quando l’aereo precipitò a Bascapè: un’inchiesta vergognosa, fatta da depistaggi e coperture della verità. Un’altra mezza inchiesta era stata subito chiusa. Nel 1994 ho pubblicato un libro con la Mondatori che si chiama “La grande sfida”, e sono riuscito avere documentazioni top secret dagli archivi della Jfk Library di Boston, dall’Eisenhower Library e, con mia sorpresa, ho scoperto che tra Mattei e Kennedy c’era una corrispondenza molto stretta. Dopo la crisi di Suez, quando Inghilterra e Francia erano state invitate dagli Stati Uniti a ritirarsi durante la Guerra di Suez, perché gli Usa temevano uno shock petrolifero, l’Italia avanzò la proposta di coprire un ruolo di nazione strategica, sul Mediterraneo, in sostituzione di Francia e Inghilterra. Kennedy era d’accordo, però bisognava dare stabilità politica al governo italiano, che cambiava ogni due mesi (c’era stata la crisi del governo Tambroni, che durò un mese e mezzo). Per dare stabilità politica bisognava scegliere un uomo e fare riforme. Kennedy esaminò tutti i possibili interlocutori italiani, e li scartò subito: via Fanfani, via Gronchi. E arrivò a Mattei: di lui, Kennedy era affascinato. E iniziarono delle trattative.
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Scie chimiche, Gianini: se smontate un aereo scoprite tutto
«Mi portino pure in tribunale», dice. «Gli dirò di fare una cosa semplicissima: basta prendere un aereo e smontarlo, per capire subito da dove vengono quelle scie». Enrico Gianini, per anni operatore aeroportuale a Milano Malpensa, ha le idee chiarissime sulle strane tracce, bianche e persistenti, che da circa 15 anni intasano letteralmente i nostri cieli. «Tutti sanno tutto, in aeroporto, ma nessuno dice niente», dichiara Gianini ai microfoni di “Border Nights”, denunciando l’omertà generale che coprirebbe la cosiddetta irrorazione quotidiana dell’atmosfera. «Sanno tutto anche i piloti, la cui mortalità sembra sia in aumento: tumori e infarti». Da quando le normative antiterrorismo li obbligano a volare in cabine sigillate, aggiunge, proprio i piloti sono i primi a respirare l’aria inquinata dai composti destinati a essere rilasciati dall’aereo sotto forma di aerosol. Gianini è convinto di aver scoperto il dispositivo clandestino: serbatoi supplementari inseriti in coda, nelle stive dei velivoli. Per trent’anni addetto al carico e scarico dei bagagli, se n’è accorto stazionando sotto gli aerei, da cui sgocciola liquido anomalo, pieno di metalli pesanti. Ne ha parlato tempo fa in un video su YouTube, che ha fatto notizia. E oggi conferma: l’operazione “cieli a strisce” continua, nell’indifferenza generale, senza che nessuna autorità di vigilanza protesti per il costante inquinamento indotto dagli aerei di linea trasformati abusivamente in “tanker”.Alluminio e cadmio, bario, manganese. E poi ferro, torio e stronzio: sono gli elementi chimici riscontrati nel liquido che gli aerei perdono, una volta a terra. L’atmosfera è cambiata, da quando è diventato massiccio il ricorso alla geoingegneria. Sul sito “Tanker Enemy”, Rosario Marcianò spiega che i primi esperimenti risalgono agli anni ‘80, ma il “trattamento dei cieli” è diventato intensivo, anche in Italia, dal 1° gennaio 2001, quando l’allora primo ministro Berlusconi firmò con gli Usa l’accordo “Open Skies Treaty”, divenuto operativo il 23 giugno 2003. Motivazione: il contrasto del surriscaldamento climatico. Di fatto, secondo lo stesso Gianini, era un pretesto per manipolare le condizioni atmosferiche con esiti anche catastrofici, come si è visto anche nella recentissima alluvione che ha devastato il Sud, in particolare la Calabria. Ma in fenomeno è vistoso anche in Sicilia e Sardegna. «Da allora – dice Gianini – è aumentata la concentrazione anomala di piogge, capaci di trasformare ruscelli asciutti in impetuosi torrenti». Gianini crede alla manipolazione sistematica usata come arma: cita i vigneti della Loira e della Borgogna, qualche anno fa distrutti dalle intemperie (caldo africano, seguito da gelate) allo scopo di “convincere” François Hollande a rinunciare alla sua iniziale politica anti-austerity.Nel dossier “Owning the weather”, il generale Fabio Mini, già a capo delle forze Nato in Kosovo, conferma che la “guerra climatica” è ormai una realtà: si possono creare nubi artificiali per “accecare” le difese avversarie, ma quelle stesse nubi possono essere “fabbricate” per provocare siccità o eventi alluvionali, danneggiando l’agricoltura e le infrastrutture. Gianini parla di voli-fantasma, militari, che una volta in Italia vengono classificati civili. Ma cita soprattutto le compagnie low-cost, Ryanair e EasyJet, come i maggiori vettori dell’aerosol atmosferico: sospetta che alcune compagnie campino, letteralmente, con questo “lavoro” clandestino, non essendo sostenibile il bilancio economico del solo trasporto dei passeggeri a bassissimo costo. Inoltre, aggiunge, la recentissima liberalizzazione delle quote da seguire, all’interno delle rotte, rende ancora più efficace l’azione di “disseminazione chimica” del cielo, consentendo sorvoli a minore altitudine. Visivamente, lo strano spettacolo a cui tutti possono assistere è ormai familiare: mentre le ormai rarissime “contrails” (scie di condensazione) svaniscono quasi subito, le “chemtrails” rilasciate dagli aerei restano nell’aria per ore, fino ad espandersi e abbassarsi, creando un velo capace di appannare il sole e cancellare l’azzurro del cielo.Fate un esperimento semplicissimo, dice Gianini: se al mattino trovate la vostra auto cosparsa di una leggera polverina, vedrete che quella polvere – stranamente – si attaccherà alla calamita che avrete cura di far scorrere sul parabrezza. E’ vero che la “sabbia del deserto” può essere anche ferrosa, ammette Gianini, ma ben di rado la sabbia del Sahara “piove” fino alle nostre latitudini, dove invece la “polverina” è pressoché quotidiana. «Oppure – scherza – fate la prova del nove con il comandante di un aereo: quando vi imbarcate, provate a domandargli “scusi, oggi spruzziamo o voliamo puliti?”, e state a vedere che faccia fa». Non teme ritorsioni sul lavoro, Gianini: «Ho di fatto già abbandonato Malpensa, ma per altri motivi. Mai mi avrebbero licenziato per la mia denuncia pubblica: avrebbe fatto troppo rumore e avrebbe costretto i media a parlare del caso, cioè delle scie». Movente e regia? I massimi poteri, secondo Gianini: «I mafiosi, in confronto, sono dei dilettanti». Ma perché nessuno parla, a parte lui? E soprattutto – gli domanda il conduttore di “Border Nights”, Fabio Frabetti – come si fa a custodire un segreto così ingombrante? Non è improbabile che tutte quelle persone – piloti, assistenti, controllori di volo – tengano sempre la bocca chiusa, per anni, senza che a nessuno scappi mai una parola?Enrico Gianini ha una spiegazione anche per questo: il programma di irrorazione dei cieli, dice, è stato avviato in modo graduale, dopo una partenza in sordina affidata a pochissimi voli. Poi l’operazione è cresciuta progressivamente, poco alla volta, ma in modo inesorabile. Quello che ieri poteva sembrare un’anomalia, oggi è la normalità – di cui tutti, sostiene, sono al corrente. «E se lavori in aeroporto a chi la racconti, questa cosa, sapendo che i tuoi colleghi la sanno già?». E la polizia aeroportuale? «Mi rivolsi anche a loro», racconta sempre Gianini, «e ho visto che non erano molto contenti delle mie curiosità». Ma, aggiunge, non è stato mai ostacolato nelle sue ricerche, quando si aggirava sotto la pancia degli aerei armato della bottiglietta con cui raccogliere il liquido, inquinatissimo, che colava sull’asfalto. «In fondo, a nessuno – nemmeno ai poliziotti – fa piacere scoprire che qualcuno può avvelenare impunemente l’aria che poi respiriamo tutti». Che fare? «Semplice: continuare a denunciare il fenomeno, sperando che prima o poi qualcuno si svegli, controlli e intervenga. Ripeto: basta prendere un aereo a caso e smontarlo, per vedere che la coda è ingombra di cisterne piene di liquido».Il caso è clamoroso: di scie chimiche, semplicemente, è vietato parlare. Chi lo fa viene deriso, preso per un cretino visionario e complottista. Le tante interrogazioni parlamentari, sul tema (presentate anche da esponenti del Pd) sono rimaste senza risposta. Ogni tanto, anche sui media mainstream filtra qualche notizia, perlomeno riguardo all’impalpabile mondo dei voli civili, sempre protetto dalla massima discrezione: la “Stampa” ricorda che, se un pilota muore d’infarto mentre è ai comandi, viene sostituito dal suo vice fino all’atterraggio, senza che i passeggeri abbiano il minimo sentore dell’accaduto. Su “Smartweek”, Federico Ciapparoni scrive: «Non è raro che fumi tossici facciano breccia nella cabina di pilotaggio». E aggiunge che molti piloti hanno condotto aerei affollati «mentre respiravano dalle mascherine attraverso cui fluisce l’ossigeno, mentre tutti i passeggeri erano ignari di ciò che accadeva nella cabina». Sulle “chemtrails”, però, la rimozione più eclatante sembra quella della gente comune: ormai ci si è abituati a vedere il cielo “a strisce”, quasi fosse un fatto naturale. Il fenomeno è invece palesemente artificiale: tutti vedono che sono gli aerei a depositare quelle strisce, che poi diventano “nuvole”, ma quasi nessuno si chiede perché. Già: perché, oggi, i cieli sono diventati “sporchi”? Nessuno sente il bisogno di scoprire come mai, oggi – da una quindicina d’anni – i normalissimi aerei di linea “sporcano” il cielo, fino a cancellare l’azzurro?«Mi portino pure in tribunale», dice. «Gli dirò di fare una cosa semplicissima: basta prendere un aereo e smontarlo, per capire subito da dove vengono quelle scie». Enrico Gianini, per anni operatore aeroportuale a Milano Malpensa, ha le idee chiarissime sulle strane tracce, bianche e persistenti, che da circa 15 anni intasano letteralmente i nostri cieli. «Tutti sanno tutto, in aeroporto, ma nessuno dice niente», dichiara Gianini ai microfoni di “Border Nights”, denunciando l’omertà generale che coprirebbe la cosiddetta irrorazione quotidiana dell’atmosfera. «Sanno tutto anche i piloti, la cui mortalità sembra sia in aumento: tumori e infarti». Da quando le normative antiterrorismo li obbligano a volare in cabine sigillate, aggiunge, proprio i piloti sono i primi a respirare l’aria inquinata dai composti destinati a essere rilasciati dall’aereo sotto forma di aerosol. Gianini è convinto di aver scoperto il dispositivo clandestino: serbatoi supplementari inseriti in coda, nelle stive dei velivoli. Per trent’anni addetto al carico e scarico dei bagagli, se n’è accorto stazionando sotto gli aerei, da cui sgocciola liquido anomalo, pieno di metalli pesanti. Ne ha parlato tempo fa in un video su YouTube, che ha fatto notizia. E oggi conferma: l’operazione “cieli a strisce” continua, nell’indifferenza generale, senza che nessuna autorità di vigilanza protesti per il costante inquinamento indotto dai jet di linea trasformati abusivamente in “tanker”, aerei-cisterna.
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Magaldi: Draghi e Mattarella, il padrone e il maggiordomo
Come va letta, la visita di Draghi a Mattarella? «Be’, come dire: il padrone è venuto a visitare il maggiordomo». Indovinato: è Gioele Magaldi a esprimersi in questi termini, per commentare l’insolita “capatina” al Quirinale, da parte del presidente della Bce, proprio mentre l’establihment finanziario, politico e mediatico spara sul governo Conte, che si è permesso di alzare il deficit al 2,4% del Pil – nella previsione 2019 del Def – sperando di cominciare a finanziare reddito di cittadinanza, taglio delle tasse e pensioni più decorose. La novità è che, dall’8 ottobre, Magaldi “esterna” – sempre di lunedì, alle 12 – sul canale YouTube di “Border Nights”, dopo l’improvvisa chiusura di “Massoneria On Air” da parte di “Colors Radio”, che ha licenziato il conduttore, David Gramiccioli. «L’editore, che in tre anni mi aveva lasciato la massima libertà – spiega lo stesso Gramiccioli, durante il collegamento con Fabio Frabetti – mi ha contestato il crollo del fatturato pubblicitario, legato anche a strutture sanitarie». Facile che a turbare gli sponsor sia stata l’offensiva giornalistica di Gramiccioli, che contro l’obbligo vaccinale introdotto dalla legge Lorenzin ha anche scritto e interpretato il fortunatissimo spettacolo teatrale “Il decreto”.Gramiccioli ha anche ospitato stabilmente Massimo Mazzucco, che smonta la versione ufficiale sull’11 Settembre. Ha dato spazio a Enrica Perucchietti, autrice di saggi su “fake news” e terrorismo “domestico” gestito da servizi segreti occidentali sotto falsa bandiera. E “Colors Radio” ha fatto audience ogni lunedì con Magaldi, che non ha esitato a svelare la cifra massonica (occulta) di tanti uomini di potere. Gianfranco Carpeoro, ospite con Gramiccioli della prima puntata di “Gioele Magaldi Racconta”, cita i “Promessi sposi”: elegante, Gramiccioli, nel non infierire sulla proprietà di “Colors Radio” che l’ha lasciato a piedi senza preavviso, e senza alcun rispetto per i tantissimi, affezionati ascoltatori. Ma certo, dice Carpeoro, il comportamento dell’editore ricorda quello di Don Abbondio. “Il coraggio, uno non se lo può dare”, scrive Manzoni. Specie se magari, come in questo caso, ha incontrato i “bravi”, che gli hanno fatto il loro discorsetto: via Gramiccioli, o niente più contratti pubblicitari. Onore al conduttore, in ogni caso, «ottimo giornalista e uomo dalla schiena diritta», lo saluta Magaldi. Che promette: la storia non finisce qui, naturalmente. Tanto per cominciare, la voce di Magaldi il lunedì mattina trasloca su “Border Nights”, grazie al tandem Carpeoro-Frabetti. E comunque, il progetto “Massoneria On Air” «riprenderà vita presto, vedremo come e dove».Anche perché il Movimento Roosevelt, di cui Magaldi è presidente, annuncia un impegno a tutto campo, anche sulla comunicazione. La missione è chiara: intanto, difendere il governo Conte e aiutarlo di fare di più e meglio. E’ vergognoso – dice Magaldi – che l’esecutivo gialloverde venga attaccato a reti unificate: per la prima volta, dopo l’orrenda stagione della Seconda Repubblica, un governo osa contestare la “teologia” del rigore, avanzando le prime proposte (ancora timide) per risollevare l’economia espandendo il deficit. «Le idee sono buone», riconosce lo stesso Carpeoro, nella speranza che poi «vengano effettivamente recepite nella finanziaria», vista la pericolosità dei super-poteri in azione, decisi a impedirlo con ogni mezzo. A fine novembre, annuncia Magaldi, lo stesso Movimento Roosevelt scenderà in campo – con un’assemblea generale a Roma – per presentare idee-forza da sottoporre poi al governo. In altre parole: siamo solo all’inizio della “primavera italiana”. Superati i primi scogli, poi i gialloverdi dovranno osare di più. E i circuiti massonici progressisti, di cui lo stesso Magaldi è portavoce, «si impegneranno a livello europeo per far sì che l’operato del governo italiano sia percepito in modo corretto», nonostante il fuoco d’interdizione cui è sottoposto ogni giorno dai grandi media, asserviti ai poteri oligarchici.Bei tempi, quando l’informazione italiana era affidata a professionisti come Stefano Andreani, prematuramente scomparso, cui Magaldi dedica un commosso ricordo. Stranissimo giornalista, Andreani, cattolico militante ma formatosi alla scuola di “Radio Radicale”: un uomo onesto, capace sempre di impedire alle proprie idee di intorbidire la verità destinata ai lettori. Esattamente il contrario dell’attuale deriva del post-giornalismo italico (gridato, fazioso, omertoso e bugiardo) che “bombarda” ogni giorno Di Maio e Salvini, in ossequio a poteri che poi, magari, impongono il licenziamento di un reporter coraggioso come Gramiccioli. Poteri forti, si capisce, che – ai piani alti – hanno il volto di Mario Draghi, supermassone «ascrivibile alla peggiore contro-iniziazione, che non manca certo di spessore e capacità strategica». Non come Mattarella, che politicamente «è un “maggiordomo” paramassone, come Enrico Letta», sintetizza Magaldi. Letta e Mattarella? «Figure ancillari e servizievoli, con poca autonomia e spessore di pensiero». Draghi in visita al capo dello Stato? Ovvio: «Fu Draghi a proporre Mattarella a Renzi, per il Quirinale, e quindi oggi Mattarella “prende ordini” da Draghi, talvolta per mezzo di Ignazio Visco», il governatore di Bankitalia. Ecco dunque, chiosa Magaldi, a cosa è servito l’incontro fra Draghi è Mattarella: ha permesso «che il padrone il suo maggiordomo concertassero qualche azione comune contro le pur labili, flebili innovazioni che questo governo sta cercando di introdurre».Come va letta, la visita di Draghi a Mattarella? «Be’, come dire: il padrone è venuto a visitare il maggiordomo». Indovinato: è Gioele Magaldi a esprimersi in questi termini, per commentare l’insolita “capatina” al Quirinale, da parte del presidente della Bce, proprio mentre l’establishment finanziario, politico e mediatico spara sul governo Conte, che si è permesso di alzare il deficit al 2,4% del Pil – nella previsione 2019 del Def – sperando di cominciare a finanziare reddito di cittadinanza, taglio delle tasse e pensioni più decorose. La novità è che, dall’8 ottobre, Magaldi “esterna” – sempre di lunedì, alle 12 – sul canale YouTube di “Border Nights”, dopo l’improvvisa chiusura di “Massoneria On Air” da parte di “Colors Radio”, che ha licenziato il conduttore, David Gramiccioli. «L’editore, che in tre anni mi aveva lasciato la massima libertà – spiega lo stesso Gramiccioli, durante il collegamento con Fabio Frabetti – mi ha contestato il crollo del fatturato pubblicitario, legato anche a strutture sanitarie». Facile che a turbare gli sponsor sia stata l’offensiva giornalistica di Gramiccioli, che contro l’obbligo vaccinale introdotto dalla legge Lorenzin ha anche scritto e interpretato il fortunatissimo spettacolo teatrale “Il decreto”.
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Foa in Rai: che succede quando un eretico sale al potere?
Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.C’è qualcosa di meta-politico, di profondamente eversivo, nella sola idea di aver pensato a un cavaliere solitario e coltissimo come Foa, giornalista di razza e gentiluomo, per la presidenza della televisione di Stato, vera e propria fabbrica del consenso, per decenni affidata il più delle volte a mani servili e mediocri. È antropologicamente eversiva, la figura del liberale Foa al vertice della Rai: è il bambino che non può fare a meno di svelare l’imbarazzante nudità del sovrano, del monarca che si gloria nel celebrare una pace apparente, mentre intorno infuria la peggiore delle guerre. La guerriglia di oggi, nella quale Marcello Foa si trova coinvolto – dopo aver dato la sua avventurosa disponibilità a quell’ipotesi democratica chiamata “governo gialloverde” – non è un conflitto come quelli che l’hanno preceduto: è un sordido massacro quotidiano perpetrato ovunque, senza frontiere, senza più neppure le bandiere di un tempo. È una guerra orwelliana, affidata a mercenari. Navi corsare, che combattono (per lo più in incognito) per conto di padroni potentissimi, protetti dall’anonimato. Non c’è più neppure il triste onore della battaglia: si viene sopraffatti in modo subdolo, sistematicamente sommersi da menzogne spacciate per verità di fede, che il sistema mediatico non si cura più di verificare. Ed è proprio per questo che l’attuale sistema mediatico italiano detesta, e teme, Marcello Foa.Ascoltando solo e sempre un’unica campana, il sistema mainstream ci ha raccontato in questi anni che le poderose, ciclopiche Torri Gemelle di Manhattan sono crollate su se stesse, come se fossero state di cartone anziché di acciaio, solo perché colpite – con una manovra proibitiva persino per i migliori “top gun” – da normalissimi e leggerissimi jet di linea fatti di alluminio, dirottati da apprendisti piloti arabi, di cui tuttora non si sa nulla: non un’immagine, al fatale imbarco, di nessuno dei 19 presunti dirottatori (salvo poi rintracciare i loro passaporti, nientemeno, nell’inferno fumante di Ground Zero). Finge di credere sempre e soltanto alla versione ufficiale, il mainstream media, anche quando dimentica di ricordare che furono gli Usa a incoraggiare Saddam Hussein a invadere il Kuwait, dopo averlo spinto a combattere contro l’Iran. Dà retta unicamente al super-governo universale, il club dei telegiornali, anche quando assicura che Saddam disponeva di micidiali armi di distruzione di massa. E tace, invece, quando l’Onu dimostra che quelle armi erano pura fantasia, come i gas siriani di Assad, le fosse comuni di Gheddafi, le violenze della polizia di Yanukovich in Ucraina. E poi applaude a reti unificate, la consorteria mediatica, quando in Italia appaiono i cosiddetti salvatori della patria – i Monti, i Cottarelli – armati del bisturi che useranno per amputare carne viva, risparmi e pensioni, economia italiana di aziende e famiglie, oscurando il futuro dei giovani.All’epoca in cui Marcello Foa lavorava al “Giornale” di Indro Montanelli, il mondo probabilmente appariva infinitamente più semplice – più chiaro, più visibile nei suoi errori e orrori: la guerra fredda, il Medio Oriente e gli sconquassi africani della decolonizzazione, la strategia della tensione organizzata per gambizzare l’Italia e impedirle di prendere il volo come autonoma potenza euromediterranea fondata sulla forza formidabile dell’economia mista, pubblico-privata. In quella redazione milanese, dove Foa è cresciuto professionalmente, su una parete c’era appesa una carta geografica di Israele che indicava come capitale Gerusalemme, già allora, anziché Tel Aviv. Se Enrico Berlinguer impiegò anni per ammettere che si sentiva più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che tra i carri armati del Patto di Varsavia, Marcello Foa e il suo maestro Montanelli non avevano mai avuto dubbi sul fatto che niente di buono potesse venire, per l’Occidente, da un’oligarchia sedicente comunista che aveva soppresso sul nascere i primi vagiti democratici della Russia, cambiando semplicemente look all’antico dispotismo zarista. L’eroico sacrificio dell’Unione Sovietica, decisivo nell’abbattere il nazifascismo, non poteva cancellare né i Gulag di Stalin né l’esilio di Aleksandr Solženicyn. Era fatto di certezze, il mondo di Foa e Montanelli: la libertà (inclusa quella d’impresa) come fondamento irrinunciabile di qualsiasi comunità civile degna di chiamarsi democratica.Ed è questo che rende Foa insopportabile al potere economico di oggi, dove la libertà d’impresa cede il passo al dominio di immensi oligopoli finanziari globalizzati, privilegiati da legislazioni truccate come quelle dell’Unione Europea ordoliberista. È tanto più sgradevole e insidioso, Foa, perché non proviene – come invece molti anchorman televisivi – dalla contestazione giovanile del capitalismo: credeva, Foa, negli stessi valori professati dall’élite economica di un tempo, orientata pur sempre alla promozione della mobilità sociale, in sostanziale accordo con le forze sindacali dell’allora sinistra. Una dialettica anche aspra, ma vocata in ogni caso al miglioramento complessivo del sistema-paese. E mediata – sempre – dalla politica, letteralmente scomparsa dai radar italiani per 25 lunghissimi anni. Solo oggi, alla distanza, ci si mette le mani tra i capelli nel rivedere il film dell’euforia generale con la quale i cittadini avevano accolto il Trattato di Maastricht e, dieci anni dopo, l’ingresso nell’Eurozona disegnata dalle banche e governata dalla Bce con modalità feudali, imperiali, senza la supervisione di alcun controllo democratico. Succedeva negli anni cui, con la caduta del Muro di Berlino benedetta da Gorbaciov, l’umanità si era illusa che il fantasma della guerra sarebbe stato semplicemente cancellato dalla storia del pianeta.Magari fosse un comune complottista, Marcello Foa: sarebbe più comodo liquidarlo, come velleitario chiacchierone. Chi oggi gli promette guerra, invece, sa benissimo che l’ex caporedattore del “Giornale”, nonché docente universitario, nonché feroce critico del sub-giornalismo odierno, è un vero e proprio disertore. Non era un eretico: lo è diventato negli ultimi anni, disgustato dallo spettacolo al quale è stato costretto ad assistere. Per questo, al di là del reale potere che gli conferisce la carica di presidente Rai, Marcello Foa rappresenta un vero pericolo, per i malintenzionati che oggi gli danno del traditore. Nell’Italia corporativa delle caste, ha osato “sparare” contro la sua – quella dei giornalisti – definendoli “stregoni della notizia”, bugiardi e omertosi spacciatori di “fake news” di regime. E non c’è niente di peggio, per i servi, che l’ex schiavo che si libera delle catene: la sua rivolta personale, intellettuale, suona umiliante per chi si ostina a raccontare che la Terra è piatta, e che è il Sole a orbitarle attorno.Chi l’avrebbe detto? Oggi l’Italia riesce incredibilmente a piazzare una persona autorevole, onesta e competente, alla guida della televisione pubblica. Marcello Foa non è infallibile: ma quando ha sbagliato – anche di recente, prendendo per buona la notizia di presunte istruzioni che il governo tedesco avrebbe impartito alla polizia, per enfatizzare il terrorismo “casereccio” targato Isis – non ha esitato ad ammetterlo, tempestivamente. Quanti, al suo posto, avrebbero avuto lo stesso coraggio? E ora, questo volto pulito del nostro giornalismo è alle prese con una sfida estremamente impegnativa. È davvero impossibile fare molta strada, in politica, se non si è almeno in parte ricattabili, e quindi controllabili, in quanto complici dell’apparato da cui si è stati promossi? Così almeno ebbe a dire un protagonista della vita pubblica italiana come Giuliano Ferrara. Qualcuno – sincero o meno – obietterà che questa regola non vale necessariamente per tutti. Ma è sicuro che, una volta entrati in cabina di regia, le proprie virtù possono trasformarsi in problemi: in un ambiente non esattamente cristallino, le qualità naturali dell’eretico diventano un’enorme seccatura, se non un ostacolo da rimuovere prima che possa mettere in pericolo la sopravvivenza del sistema stesso.Questa è la sfida di Marcello Foa, nella quale è in gioco l’Italia intera: restare fedeli alla propria coscienza significa contribuire a riaccendere la luce sulle notizie. Senza un’informazione trasparente, lo sappiamo, non c’è neppure vera democrazia. Lo sostiene con vigore, Marcello Foa, che resta innanzitutto un uomo leale e garbato – anche quando si permette di dissentire in modo netto sull’operato del presidente della Repubblica: chi oggi lo accusa di aver addirittura insolentito Sergio Mattarella, dopo la bocciatura di Paolo Savona al ministero dell’economia, più che il prestigio del capo dello Stato sembra aver a cuore la disciplina sociale dell’ossequio, da imporre al popolo nei confronti di chiunque rivesta funzioni di potere. Non è questa la democrazia per la quale il giovane liberale Foa tifava, quando polemizzava con quel comunismo da cui provengono moltissimi dei suoi attuali, smemorati detrattori. Non sappiamo come si svilupperà, la sua avventura negli uffici della Rai. Ma sappiamo che – contro ogni previsione – è tornata sotto i riflettori, in Italia, un’antropologia che si credeva estinta. Quella delle persone per bene, a cui il governo in carica affida addirittura la guida della televisione.(Giorgio Cattaneo, “Marcello Foa alla guida della Rai: che succede quando un eretico sale al potere?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 27 settembre 201).Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.
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Strinati: una poesia per Mauro De Mauro, ucciso 48 anni fa
«Mauro De Mauro rappresenta quel modello di uomo a cui ho sempre aspirato nella vita:curioso, caparbio, onesto, giusto e anche molto preciso nel suo sguardo magnetico eperfetto. Aveva quella straordinaria capacità di andare oltre una parola o meglio, sapevafare l’uomo e sapeva interpretare il ruolo serio del giornalista, passando prima attraversol’uomo». Così il poeta Fabio Strinati introduce la poesia inedita “A Mauro De Mauro”, offerta al blog “Libreidee” per la sua pubblicazione nel quarantottesimo anniversario della scomparsa del grande giornalista siciliano, rapito da Cosa Nostra il 16 settembre 1970. Secondo il pentito Rosario Naimo, “l’ater ego di Riina in America”, interrogato nel 2011 dai magistrati palermitani Sergio Demontis e Antonio Ingroia, il cronista de “L’Ora” – prelevato sotto casa, testimone la figlia – fu portato a Fondo Patti, dietro al motovelodromo di Palermo, in una tenuta dove il boss Francesco Madonia aveva un allevamento di polli. Secondo Naimo fu ucciso subito, sul posto, e gettato in un pozzo. Sempre secondo il pentito, alcuni anni più tardi il pozzo fu “ripulito”, su disposizione dello stesso Madonia. Il corpo del giornalista, fratello del linguista e futuro ministro Tullio De Mauro, non è mai stato ritrovato. Probabile movente dell’omicidio: la fine di Enrico Mattei.Ottimo cronista, nel 1962 Mauro De Mauro aveva seguito la morte del presidente dell’Eni. E nel settembre del 1970 si stava nuovamente occupando del caso, in seguito all’incarico ricevuto dal regista Francesco Rosi per il suo film “Il caso Mattei”, che sarebbe uscito due anni dopo. A investigare sulla scomparsa di Mauro furono per i carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa e per la polizia Boris Giuliano, entrambi a loro volta assassinati dalla mafia. Su “L’Ora” di Parlermo, De Mauro aveva pubblicato già nel 1962 un verbale di polizia risalente al 1937, in cui un medico siciliano – Melchiorre Allegra, affiliato a Cosa Nostra e poi dissociatosi dalla criminalità, elencava tutta la struttura del vertice malavitoso: gli aderenti, le regole, l’affiliazione, l’organigramma delle cosche. Davanti a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, quindici anni dopo la morte del giornalista, il super-pentito Tommaso Buscetta dichiarò che «De Mauro era un cadavere che camminava», e che «avrebbe pagato, per quello scoop». La sentenza di morte fu eseguita otto anni dopo, quando Di Mauro stava per tornare sull’affare Mattei: il caso politico più scottante dell’Italia del dopoguerra, con l’uccisione del leader dell’Eni, protagonista della rinascita economica italiana grazie al petrolio, in aperta sfida al potere internazionale delle Sette Sorelle. Ed ecco il testo poetico che Strinati dedica al coraggioso, indimenticato De Mauro:A MAURO DE MAUROHanno spento il tuo cuoreinnamorato della vitae sepolto il tuo corposotto una montagna di terraconcimata coi fiori della morte.Hanno trafugato la tua animapiena di una luce chiara,frugato nel tuo sguardo vispocapace di esplorar le cosee di osservare oltre il buio lividodella notte.Ti hanno rapito il tempo,costretto allo strazioatroce di una sorte ingiustatogliendoti il respirodentro una colonna d’aria.(Fabio Strinati)Strinati (Esanatoglia, 1983 ) è poeta, artista visivo, compositore e fotografo. È presente in diverse riviste e antologie letterarie. Da ricordare “Il Segnale”, rivista letteraria fondata a Milano dal poeta Lelio Scanavini, la rivista “Sìlarus” fondata da Italo Rocco, e “Osservatorio Letterario – Ferrara e L’Altrove”. È stato inserito da Margherita Laura Volante nel volume “Ti sogno, Terra”, viaggio alla scoperta di Arte Bellezza Scienza e Civiltà, inserito nei “Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche”. Sue poesie sono state tradotte in romeno e in spagnolo. È inoltre il direttore della collana poesia per “Il Foglio Letterario” e cura una rubrica poetica dal nome “Retroscena”, proprio sulla Rivista trimestrale del “Foglio Letterario”. Pubblicazioni: “Pensieri nello scrigno. Nelle spighe di grano è il ritmo” (2014); “Un’allodola ai bordi del pozzo” (2015); “Dal proprio nido alla vita” (2016); “Al di sopra di un uomo” e “Periodo di transizione” (2017), “Aforismi scelti Vol.2” e “L’esigenza del silenzio” (2018).«Mauro De Mauro rappresenta quel modello di uomo a cui ho sempre aspirato nella vita: curioso, caparbio, onesto, giusto e anche molto preciso nel suo sguardo magnetico e perfetto. Aveva quella straordinaria capacità di andare oltre una parola o meglio, sapeva fare l’uomo e sapeva interpretare il ruolo serio del giornalista, passando prima attraverso l’uomo». Così il poeta Fabio Strinati introduce la poesia inedita “A Mauro De Mauro”, offerta al blog Libreidee per la sua pubblicazione nel quarantottesimo anniversario della scomparsa del grande giornalista foggiano, trapiantato in Sicilia e rapito da Cosa Nostra il 16 settembre 1970. Secondo il pentito Rosario Naimo, “l’ater ego di Riina in America”, interrogato nel 2011 dai magistrati palermitani Sergio Demontis e Antonio Ingroia, il cronista de “L’Ora” – prelevato sotto casa, testimone la figlia – fu portato a Fondo Patti, dietro al motovelodromo di Palermo, in una tenuta dove il boss Francesco Madonia aveva un allevamento di polli. Racconta Naimo che il reporter fu ucciso subito, sul posto, e gettato in un pozzo. Sempre secondo il pentito, alcuni anni più tardi il pozzo fu “ripulito”, su disposizione dello stesso Madonia. Il corpo del giornalista, fratello del linguista e futuro ministro Tullio De Mauro, non è mai stato ritrovato. Probabile movente dell’omicidio: la fine di Enrico Mattei.
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Bergoglio: preti pedofili, vergogna. Dopo le parole, i fatti?
Di fronte all’irrefrenabile scandalo dei comportamenti amorali di tanti preti e suore, Bergoglio in Irlanda dichiara: «La Chiesa ha fallito, provo vergogna». Bene, era ora che, invece di “coprire” i misfatti per salvare la “santità” dell’istituzione – come hanno incredibilmente fatto Papi precedenti, anche “santi subito” – un Papa ammettesse come stanno le cose. Ma ora vediamo se trarrà conseguenze logiche e pratiche da queste dichiarazioni… Infatti, così dicendo, Bergoglio ha in pratica ammesso che Santa Madre Chiesa non è né Santa né tanto meno Madre, visto come si è comportata con i bambini. E quindi rimane solo una “fallibile”, ricca e potente istituzione “mondana” come un’altra. Priva di infallibile “guida divina”. Perché se questa guida divina ci fosse stata, certamente non avrebbe coperto i preti pedofili, non avrebbe compiuto le mille nefandezze della sua storia, e avrebbe formato meglio preti, suore e curie dal punto di vista etico.Ma allora ragioniamo: se “ha fallito” – come dice il Papa – vuole dire che “non è infallibile”, e quindi dovrebbe rinunciare alla sua pretesa di essere una autorità morale superiore, e scendere dal gradino che pretende ormai abusivamente di occupare. E magari darsi da fare per aiutare la gente dal basso (come alcuni dei suoi membri privi di potere già fanno), e non “dall’alto”, visto che questo “Alto” chiaramente non guida la Chiesa, ma solamente le coscienze individuali che si aprono al vero amore per gli altri. E quindi rinunciare finalmente all’imperiale, verticale “principio di autorità”, che non ha un suo fondamento. E rifondare finalmente se stessa su un “principio di fratellanza” orizzontale (troppo spesso la Chiesa ha amato più se stessa del prossimo). Lo farà? Qui si vedrà se le sue parole sono genuine, o solo un tentativo di frenare l’enorme emorragia di fedeli e di regolare qualche conto interno alle gerarchie vaticane. La “protesta delle scarpe” lasciate sul selciato di Dublino da un gruppo di vittime di preti pedofili era accompagnata dallo striscione “no words” (basta parole). Ci auguriamo che gli atti non si riducano a fare fuori qualche pezzo di Curia inviso ai gesuiti…(Fausto Carotenuto, “Bergoglio rinuncerà finalmente al Principio di Autorità?”, dal nesmagazine “Coscienze in Rete” del 26 agosto 2018. Già analista geopolitico dell’intellicence Nato, nel libro “Il mistero della situazione internazionale”, edito da UnoEditori, Carotenuto fornisce una sua personalissima “mappa” del potere mondiale in chiave spiritualistica. Nella sua ricostruzione, il mondo sarebbe dominato sostanzialmente da due “piramidi oscure”, al cui vertice si troverebbero poteri massonici e poteri gesuitici, in concorrenza tra loro ma, nei momenti decisivi, alleati – di fatto – nel disegno di dominio che accomunerebbe entrambi, da secoli. Sempre secondo Carotenuto, le cosiddette “piramidi oscure” – anche se i loro membri non ne sarebbero sempre consapevoli, lavorano in realtà per conto della “fratellanza bianca”: sono semplici “forze dell’ostacolo”, la cui funzione consiste nel costringere la coscienza dell’umanità a risvegliarsi progressivamente. Carotenuto è ottimista: sostiene che almeno il 30% della popolazione mondiale ha ormai imparato a non fidarsi più del potere, oggi essenzialmente economico-finanziario, che dirige la politica. L’analista insiste sul carattere eminentemente spirituale delle “forze dell’ostacolo”: le crisi e le guerre, dice, vengono spesso scatenate per sete di denaro, di risorse e di petrolio, ma in realtà – sottolinea – la vera missione, da parte delle “piramidi oscure”, consiste nel generare la maggiore sofferenza possibile, drammaticamente “necessaria” all’umanità per prendere coscienza del fatto che solo la fratellanza universale potrà spezzare le catene dell’odio).Di fronte all’irrefrenabile scandalo dei comportamenti amorali di tanti preti e suore, Bergoglio in Irlanda dichiara: «La Chiesa ha fallito, provo vergogna». Bene, era ora che, invece di “coprire” i misfatti per salvare la “santità” dell’istituzione – come hanno incredibilmente fatto Papi precedenti, anche “santi subito” – un Papa ammettesse come stanno le cose. Ma ora vediamo se trarrà conseguenze logiche e pratiche da queste dichiarazioni… Infatti, così dicendo, Bergoglio ha in pratica ammesso che Santa Madre Chiesa non è né Santa né tanto meno Madre, visto come si è comportata con i bambini. E quindi rimane solo una “fallibile”, ricca e potente istituzione “mondana” come un’altra. Priva di infallibile “guida divina”. Perché se questa guida divina ci fosse stata, certamente non avrebbe coperto i preti pedofili, non avrebbe compiuto le mille nefandezze della sua storia, e avrebbe formato meglio preti, suore e curie dal punto di vista etico.
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Anziché dei migranti, perché il Papa non parla dei pedofili?
Il documento di accusa di monsignor Viganò a Papa Francesco è durissimo, ma ancora non ha trovato nessuna risposta da parte del Vaticano, nonostante dagli Usa giungano le conferme alle accuse, anche se non giungono a livello massimo del Papa. Si tratta di un caso unico in cui questi report, assolutamente riservati, sono stati invece inviati alla stampa, ma ciò che contiene è effettivamente esplosivo. Il fatto è che Viganò muove delle accuse precise, chiare, ad un Papa che, avvisato dal 2013 dei casi di abusi sessuali nella diocesi di Washington e in tutti gli Usa, non ha agito per reprimere gli eventi il tutto sotto la spinta di una lobby omosessuale potentissima in Parlamento. Le accuse sono enormi, e immaginiamo la difficoltà di Viganò, 77 anni, nunzio, quindi abituato a portarsi i segreti nella tomba, a portare questo tema in pubblico. Ne parla diffusamente Marco Tosatti nel suo blog, a cui rimandiamo per informarsi in modo approfondito. La stampa italiana, sempre viscidamente prona al potere, non ha chiesto spiegazioni, limitandosi a polemizzare con il nunzio e sul fatto che possa essere un’espressione delle parti più “radicali” e retrive della curia; ma nessuno, tranne “La Verità”, ha chiesto veramente una risposta.Quindi riproponiamo le 10 domande fatte da “La Verità”, sulla base del documento di Viganò. Risulta vero che l’arcivescovo cardinal McCarrick di Washington aveva delle tendenze pedofile e che queste erano a conoscenza della Congregazione dei Vescovi fin dal 2013, con tanto di dossier sulla materia? Risulta vero che nel 2013 il Papa Benedetto XVI diede un dossier sulla lobby omosessuale in Vaticano al nuovo Papa? Risulta vero che Benedetto XVI aveva deciso di togliere a McCarrick la berretta cardinalizia e di ordinargli di lasciae il seminario in cui viveva? Risulta vero che il nunzio Viganò abbia più volte segnalato le accuse verso l’arcivescovo McCarrick al cardinal Bertone e al cardinal Levada della Congregazione della Fede? Risulta vero che i predecessori di monsignor Viganò come nunzi negli Usa, cioè i monsignori Montalvo e Sambi, informarono il Vaticano dei comportamenti gravemente immorali di McCarrick?Risulta vero che Viganò riferì su McCarrick direttamente al Papa in colloquio privato, nel giugno 2013? Risulta vero che in quell’occasione Viganò parlò al Papa delle generazioni di seminaristi corrotti da McCarrick e dell’immoralità del suo comportamento? Risulta vero che Papa Francesco non rese operativa la decisione di Benedetto XVI di destituire McCarrick togliendogli il cappello cardinalizio, ma, al contrario, gli ha confermato tutti gli incarichi? Risulta vero che monsignor Viganò parlò con il cardinal Wuerl delle aberrazioni che stavano accadendo alla Georgetown University? Risulta vero che McCarrick abbia avuto un grosso peso in diverse nomine all’interno della curia? Senza chiarezza e verità non ci può essere fiducia nella Chiesa. In questa luce veramente appare un Vaticano govrnato da una lobby perversa, con più odore di zolfo che di incenso. Il Papa deve chiarire.(Guido da Landriano, “Bergoglio risponderà alla accuse del nunzio apostolico Viganò o utilizzerà gli immigrati come arma di distrazione di massa?”, da “Scenari Economici” del 29 agosto 2018. Monsignor Carlo Maria Viganò, originario di Varese, è l’arcivescovo cattolico che dal 2011 al 2016 ha rivestito l’incarico di nunzio apostolico negli Stati Uniti. E’ considerato il maggior ispiratore della denuncia pubblica contro la pedofilia in Vaticano, culminata nel caso “Vatileaks”).Il documento di accusa di monsignor Viganò a Papa Francesco è durissimo, ma ancora non ha trovato nessuna risposta da parte del Vaticano, nonostante dagli Usa giungano le conferme alle accuse, anche se non giungono a livello massimo del Papa. Si tratta di un caso unico in cui questi report, assolutamente riservati, sono stati invece inviati alla stampa, ma ciò che contiene è effettivamente esplosivo. Il fatto è che Viganò muove delle accuse precise, chiare, ad un Papa che, avvisato dal 2013 dei casi di abusi sessuali nella diocesi di Washington e in tutti gli Usa, non ha agito per reprimere gli eventi il tutto sotto la spinta di una lobby omosessuale potentissima in Parlamento. Le accuse sono enormi, e immaginiamo la difficoltà di Viganò, 77 anni, nunzio, quindi abituato a portarsi i segreti nella tomba, a portare questo tema in pubblico. Ne parla diffusamente Marco Tosatti nel suo blog, a cui rimandiamo per informarsi in modo approfondito. La stampa italiana, sempre viscidamente prona al potere, non ha chiesto spiegazioni, limitandosi a polemizzare con il nunzio e sul fatto che possa essere un’espressione delle parti più “radicali” e retrive della curia; ma nessuno, tranne “La Verità”, ha chiesto veramente una risposta.
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Silenzio stampa sulla droga: la strage non è più di moda
Ci inchiodano per giorni e giorni a parlare di due tredicenni che chiamano sporco negro un immigrato e gli sparano a salve con la scacciacani, o di una capotreno che usa parole sconvenienti per far scendere dal treno zingari molesti senza biglietto e magari con portafogli altrui. O perfino di un barista che espone la foto di Mussolini. Tutto il circo è impegnato nell’impresa: dai clown del Pd ai trapezisti dell’ideologia, dai prestigiatori di notizie ai domatori di bufale, fino alle foche ammaestrate dalla sinistra da passeggio e da corteo. Ma nel frattempo passa inosservato un fenomeno quotidiano grave e preoccupante: lo spaccio e il consumo di droga crescente nel nostro paese, il numero di morti all’anno per overdose e in generale per droga, molti più dei femminicidi e di altre emergenze vere e presunte, il numero record di detenuti per reati connessi alla droga, gli incidenti anche mortali a causa di guidatori in stato di ebbrezza o di allucinazione, la scalata dell’Italia ai primi posti dei consumi e della tossicodipendenza. Quasi trecento all’anno: eran trecento, eran giovani e storti, e sono morti… Cresce l’eroina, per non dire delle droghe sintetiche, ottenute chimicamente, oltre quelle più note.Sono migliaia gli episodi di violenza, di minacce, di ricatti per procacciarsi la “signorina” che scorrono come un fiume quotidiano di sangue e di pazzia, e non ci facciamo più caso. Non c’è giorno che io non senta, magari col passaparola, episodi legati alla droga: infanticidi per alterazione mentale, uccisioni brutali di nonni, genitori, zii che non volevano più finanziare il vizio dei loro nipoti scellerati, aggressioni a donne, ex-conviventi, in stati di allucinazione dovuti alla droga, risse mortali davanti e dentro discoteche tra ragazzi in preda a deliri di droga, e potrei continuare… Certe zone, certi luoghi e certe ore sono off limits in tutte le città italiane perché è in corso la sagra dello spaccio, con relativa brutta umanità al seguito e sciame sismico di violenze e abusi. Si sente ogni tanto, a mezza bocca, notizia di partite di droga sequestrate; ma sono solo una piccola parte e solo il segnale di quale movimento, quale giro colossale vi sia dietro. Di tutto questo arriva poco o nulla alla Fabbrica delle Notizie e ai falsificatori di cui sopra, impegnati a denunciare un solo Male sotto mille vesti, il Razzismo.Perché passa sotto silenzio la droga, o si parla solo di qualche episodio ma senza la grancassa mediatica e intellettuale che ne indaga il fenomeno? Perché nella droga il razzismo o il nazionalismo non c’entra ma emerge piuttosto il suo rovescio, confluiscono due piaghe sconvenienti che si devono tacere: da una parte la manovalanza massiccia di migranti, soprattutto neri, nello spacciare e procurare la droga, dall’altro un modello di società libertaria, radical, trasgressiva, anti-proibizionista, che deriva dai piani alti della nostra società, dal nichilismo diffuso e dal cinismo degli imprenditori di morte. Diciamo che sulla droga s’incontra la libertà psichedelica del “tutto è permesso” di matrice sessantottina dove i diritti sconfinano nei desideri e l’accoglienza illimitata di migranti che, per fame ed estraneità al territorio, sono facilmente reclutabili nel racket. I due fattori, shakerati dall’ideologia radical, disegnano la nuova società verso cui andiamo incontro e che ha perso il senso del limite, personale e territoriale, morale e civile.Masse di espiantati, disperati, privi di tutto a disposizione dei racket e dall’altro masse di consumatori, disperati anch’essi, ma benestanti o comunque in grado di mungere soldi, privi di ogni riferimento. La tratta dei pomodori, lo schiavismo nelle campagne, assume – e giustamente – grande rilievo nei media; la tratta della droga, la vendita di morte, invece va in sordina. I caporali nelle campagne sono una brutta bestia ma impallidiscono in confronto ai caporali della droga e ai loro legami con la criminalità organizzata. Sentite mai parlare di campagne contro la droga, di emergenza droga, di educazione civica contro la droga? Macché, solo razzismo, nazismo, sessismo. L’omertà sulla droga e i mali derivati è una forma di complicità mediatica e politica assai grave. È anche un occultamento di cadavere: muore il senso del limite e della realtà e qui si festeggia il mondo global, senza frontiere tra i popoli, tra il bene e il male, tra il lecito e l’illecito. Un’informazione drogata.(Marcello Veneziani, “Silenzio stampa sulla droga”, dal “Tempo” del 14 agosto 2018; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Ci inchiodano per giorni e giorni a parlare di due tredicenni che chiamano sporco negro un immigrato e gli sparano a salve con la scacciacani, o di una capotreno che usa parole sconvenienti per far scendere dal treno zingari molesti senza biglietto e magari con portafogli altrui. O perfino di un barista che espone la foto di Mussolini. Tutto il circo è impegnato nell’impresa: dai clown del Pd ai trapezisti dell’ideologia, dai prestigiatori di notizie ai domatori di bufale, fino alle foche ammaestrate dalla sinistra da passeggio e da corteo. Ma nel frattempo passa inosservato un fenomeno quotidiano grave e preoccupante: lo spaccio e il consumo di droga crescente nel nostro paese, il numero di morti all’anno per overdose e in generale per droga, molti più dei femminicidi e di altre emergenze vere e presunte, il numero record di detenuti per reati connessi alla droga, gli incidenti anche mortali a causa di guidatori in stato di ebbrezza o di allucinazione, la scalata dell’Italia ai primi posti dei consumi e della tossicodipendenza. Quasi trecento all’anno: eran trecento, eran giovani e storti, e sono morti… Cresce l’eroina, per non dire delle droghe sintetiche, ottenute chimicamente, oltre quelle più note.
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La rivoluzione della verità: Marcello Foa alla guida della Rai
Che succede, se diventa presidente della Rai l’uomo che più di ogni altro, in Italia, ha denunciato le malefatte quotidiane degli “stregoni della notizia”? E’ semplicemente favolosa, infatti, la nomina di Marcello Foa nel Cda di viale Mazzini, caldeggiata dalla Lega e appoggiata dai 5 Stelle. Gli “stregoni” ovviamente sono già al lavoro: da quelli de “L’Espresso”, querelato da Foa per aver insinuato che il grande giornalista possa aver avuto un misterioso ruolo nella presunta sparizione in Svizzera del “tesoro-fantasma” del Carroccio, all’Enrico Mentana che, a caldo, in prima serata al Tg de La7, ha presentato Foa – liberale, anticomunista e noto estimatore di Trump – come un intellettuale “non amico” degli Usa. Un benvenuto a colpi di “fake news”, dunque, per il giornalista italiano, allievo di Indro Montanelli, che dal suo blog sul “Giornale” ha additato senza esitazioni le notizie false spacciate regolarmente per vere dai media mainstream a reti unificate. Notizie pesanti: dalle armi chimiche in Siria (mai usate da Assad contro i civili) alla foto straziante del bambino messicano in lacrime, presentato come profugo separato ferocemente dai genitori per colpa del perfino Trump, pur essendo invece solo un piccolo attore, impegnato in una drammatica performance di protesta in Texas. Marcello Foa alla guida della Rai? L’impossibile, che diventa possibile: qualcuno finalmente comincerà a dire che “il re è nudo”, e lo farà dagli studi dal Tg1?Ha un che di destabilizzante e rivoluzionario, la decisione di Salvini e Di Maio. Obiettivo evidente: coprire le spalle al governo gialloverde, sottoposto al fuoco di sbarramento del sistema televisivo, pilotato dal vecchio establishment per il quale la verità è solo una variabile del copione. La nomina di Foa piomba come un ordigno nucleare su una palude maleodorante di telegiornali bugiardi e reticenti, di talkshow orwelliani infestati di testimonial unilaterali del calibro di Elsa Fornero e Carlo Cottarelli, presentati come marziani super-partes paracadutati, loro malgrado, fra le disgrazie “neo-sovraniste” dell’Italietta gialloverde. Lo stesso Mentana – piazzato da Craxi al Tg2 e poi approdato a Mediaset prima di finire a La7 – liquida con irridente sarcasmo i poveri fessi che ancora non credono alla versione ufficiale dell’11 Settembre, cioè la madre di tutte le “fake news” – la peggiore e più sanguinosa, la più gravida di orrori per il resto dell’umanità, letteralmente travolta da un quindicennio di guerre devastanti, organizzate da una propaganda che ha presentato il massone Osama Bin Laden, socio dei Bush e giù uomo Cia in Afghanistan, come una specie di cavernicolo anti-Usa. Da Al-Qaeda all’Isis, dall’Iraq alla Siria fino alla catena di spaventosi attentati “false flag” in Europa: mai un brandello di verità, da Mentana e soci, sulla strategia della tensione finto-islamista che ha indotto la Francia a sigillare col segreto di Stato (segreto militare) le indagini su Charlie Hebdo, dopo la “triangolazione delle armi” emersa a collegare il commando Isis ai servizi segreti.Dal 2001, il pubblico occidentale è stato sistematicamente inondato di menzogne e “fake news” di regime, propagandate dai governi, senza che i giornalisti delle principali testate abbiano opposto la minima resistenza civile, professionale e intellettuale. Se i reporter avessero fatto il loro lavoro, accusa un grande del giornalismo anglosassone come Seymour Hersh, Premio Pulitzer, non avremmo dovuto seppellire così tante vittime innocenti. Poi, negli ultimi anni, qualcosa è cambiato: non grazie ai giornalisti, ma malgrado loro. Gli inglesi hanno votato la Brexit e gli americani hanno eletto Trump nonostante i media fossero tutti schierati per il Remain e per la Clinton. Nel suo piccolo, l’Italia si è sbarazzata di Renzi con il referendum sulla riforma costituzionale, supportata a reti unificate da giornali e televisioni. Peggio ancora: contro il sistema mainstream ancora allineato al vecchio ordine politico (Obama e Merkel, Draghi e Mattarella) gli elettori italiani hanno scelto i 5 Stelle e la Lega, che infine hanno trovato il coraggio di un compromesso di governo. Fino al punto, oggi, di insediare alla guida della Rai un cavallo di razza come Foa, alle prese con una missione incredibile: rompere il muro di omertà mediatica, spezzare il coro delle finte notizie e cominciare a raccontare, finalmente, la verità.Che succede, se diventa presidente della Rai l’uomo che più di ogni altro, in Italia, ha denunciato le malefatte quotidiane degli “stregoni della notizia”? E’ semplicemente favolosa, infatti, la nomina di Marcello Foa nel Cda di viale Mazzini, caldeggiata dalla Lega e appoggiata dai 5 Stelle. Gli “stregoni” ovviamente sono già al lavoro: da quelli de “L’Espresso”, querelato da Foa per aver insinuato che il grande giornalista possa aver avuto un misterioso ruolo nella presunta sparizione in Svizzera del “tesoro-fantasma” del Carroccio, all’Enrico Mentana che, a caldo, in prima serata al Tg de La7, ha presentato Foa – liberale, anticomunista e noto estimatore di Trump – come un intellettuale “non amico” degli Usa. Un benvenuto a colpi di “fake news”, dunque, per il giornalista italiano, allievo di Indro Montanelli, che dal suo blog sul “Giornale” ha additato senza esitazioni le notizie false spacciate regolarmente per vere dai media mainstream a reti unificate. Notizie pesanti: dalle armi chimiche in Siria (mai usate da Assad contro i civili) alla foto straziante del bambino messicano in lacrime, presentato come profugo separato ferocemente dai genitori per colpa del perfido Trump, pur essendo invece solo un piccolo attore, impegnato in una drammatica performance di protesta in Texas. Marcello Foa alla guida della Rai? L’impossibile, che diventa possibile: qualcuno finalmente comincerà a dire che “il re è nudo”, e lo farà dagli studi dal Tg1?
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Magaldi: massoni e democrazia, resa dei conti rivoluzionaria
«E speriamo che passi, all’Europarlamento, l’infame bavaglio del web promosso dal massone contro-iniziato Günther Oettinger: più forte sarà l’indignazione popolare contro questa oligarchia usurpatrice e più rovinoso e rapido sarà il suo crollo, dopo che tutti avranno finalmente aperto gli occhi». Parola del massone progressista Gioele Magaldi, pubblico smascheratore dell’élite neo-aristocratica cripto-massonica, subdola e occulta, che ha sequestrato la democrazia in Europa. «Se il Parlamento Europeo si macchierà di un simile misfatto avremo l’occasione, forse, per accelerare il processo di abbattimento di coloro che hanno fatto scempio del sogno europeo», dichiara Magaldi a “Colors Radio”, puntando l’indice contro le date, mai casuali, degli eventi-chiave dell’attualità europea. La “norma vergogna” contro la libertà delle Rete è attesa in aula per il 4 luglio, ricorrenza storica del celebre 1776, quando – con la dichiarazione d’indipendenza – le colonie americane si ribellarono al dispotismo della corona britannica. «Se venisse promulgata questa norma tutto sarebbe denudato e chiaro, l’attentato alla libertà di espressione sarebbe evidente e palese: con l’espediente della tutela del copyright, i provider potrebbero censurare preventivamente i contenuti web».Tanto peggio, tanto meglio: «L’eventuale approvazione di una norma così liberticida sarebbe l’inizio di una rivoluzione, contro questa infame gestione dell’Ue in senso antidemocratico». Autore del bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata”, che illumina i retroscena del potere svelando il ruolo di 36 Ur-Lodges sovranazionali nelle grandi decisioni sul futuro del pianeta, Magaldi ha offerto al pubblico un’inedita rilettura dell’evo contemporaneo: proprio attraverso le idee, gli uomini e le storiche decisioni delle superlogge, è possibile fare piena luce sui troppi lati fino a ieri oscuri di fenomeni altrimenti incomprensibili, dai tentati golpe del dopoguerra fino alle stragi di mafia, inclusa la morte di morte di Falcone e quella di Paolo Borsellino, per la quale ora la magistratura parla di clamorosi depistaggi. «Ne parlerò nel prossimo volume della serie “Massoni”, intitolato “Globalizzazione e massoneria”, in uscita tra meno di un anno», annuncia Magaldi, che spiega: «Sicuramente, certi segmenti contro-iniziatici della massoneria hanno gestito gli eventi criminosi che hanno insanguinato l’Italia e che oggi, in modo scontato, ci viene detto che hanno visto anche apparati dello Stato lavorare contro l’accertamento della verità, per il suo depistaggio e la sua manipolazione. Nel volume verrà spiegato chiaramente chi ha fatto cosa, e perché, con le stragi del ‘92 e gli attentati del ‘93».L’ex dirigente della polizia Arnaldo La Barbera? «Luci e ombre: è piena la storia di personaggi che magari hanno fatto opere luminose e poi sono stati lambiti o costretti a cooperare con quelle che potremmo definire “tenebre”». Ma attenzione, avverte Magaldi: oggi sta letteralmente cambiando il mondo, perché la massoneria progressista internazionale – che dormiva – si sta letteralmente svegliando. Sul banco degli imputati, Magaldi mette in primo luogo i massoni che definisce contro-iniziati, ovvero: soggetti che hanno ricevuto un’iniziazione al sapere esoterico, che hanno poi utilizzato contro gli obiettivi di progresso dell’umanità ai quali si era votata storicamente la massoneria illuministica del ‘700. «Mi auguro che costoro vadano dritti verso la loro autodistruzione», dichiara Magaldi, fiducioso nel fatto che la storia sarebbe a una svolta: «In tanti tornanti del globo, i nodi stanno finalmente venendo al pettine». La narrativa a cui Magaldi ha ormai abituato il suo pubblico ha il pregio della coerenza: uomini come Kissinger, Breziznki e Rockefeller hanno plasmato il secondo ‘900 in senso neo-aristocratico, sdoganando il più feroce neoliberismo per liquidare la democrazia, svuotandola, fino a dare vita a una visione neo-feudale della società, diretta in modo esclusivo – e spesso occulto – da oligarchie privatizzatrici che si pretendono “illuminate”.Lo si è visto, dice Magaldi, anche con il tentativo di Sergio Mattarella di ostacolare il governo Conte con lo strano veto su Paolo Savona all’economia. Un “niet” sostanzialmente imposto da Mario Draghi per il tramite del suo “confratello” Ignazio Visco, governatore di Bankitalia. La visione magaldiana propone un elenco sterminato di cripto-massoni di segno reazionario, a cominciare da Napolitano e Monti, ispiratori della linea dell’euro-rigore proseguita da Letta, Renzi e Gentiloni, ora costata l’agonia elettorale del Pd. Tutto si tiene, sottolinea Magaldi: non è un caso che oggi la grande finanza Usa abbia “smontato” il fantasma dello spread per proteggere il governo Conte, né è casuale la tempistica con cui Trump – alla vigilia del G7, con l’Italia gialloverde osservata speciale – abbia fatto calare, sulla Germania della Merkel, la spada di Damocle dei dazi sull’acciaio. Trump, osserva Magaldi, è accreditato come conservatore, ma ha frequentato a lungo i democratici. E’ certamente un “cavallo pazzo”, capace comunque di cantare fuori dal coro: «In modo anche spregiudicato – dice Magaldi, ai microfoni di David Gramiccioli – la massoneria progressista lo ha appoggiato proprio perché rompesse gli schemi: e infatti sta rompendo le uova nel paniere di questa globalizzazione, a tanti livelli», anche appoggiando in modo evidente lo stesso governo Conte, individuato come leva fondamentale per abbattere l’ordoliberismo franco-tedesco che ha ridotto l’Europa a un “malato” in crisi perenne.«Gli aspetti apparentemente caotici di questa globalizzazione – spiega Magaldi – erano parte di un disegno: una globalizzazione post-democratica, lontana dal diffondere diritti sociali ed economici, oltre che civili». Di fronte a questo, «dopo tanti anni di egemonia di circuiti massonici neo-aristocratici, antidemocratici e post-democratici, c’è un contrattacco piuttosto gagliardo da parte di forze massoniche democratico-progressiste». La tesi di Magaldi è nota: di massoneria, in Italia, si parla solo in termini negativi per sanzionare (giustamente) gli abusi di piccole logge locali, mentre il mainstream – ipocrita e reticente – evita sempre di menzionare l’unica massoneria che conta, quella sovranazionale. Anche per questo, probabilmente, giornali e televisioni non riescono a “vedere” l’azione prospettica di Trump: «Naturalmente non è un campione di progressismo, ma è un prezioso elemento di rottura: da lui si potrà partire per la ricostruzione di un mondo più democratico, eliminando tutti i finti progressisti dell’Occidente, a cominciare da quelli di casa nostra, giustamente sconfitti dalla Lega di Salvini e dai 5 Stelle».Smontare l’ipocrisia finto-progressista: in questo, Trump e Salvini “funzionano” nello stesso modo. E non è un caso che siano bersagliati da «pretestuose campagne di odio, basate sulla disinformazione sistematica». Il governo gialloverde? «La massoneria progressista lo appoggia e si aspetta molto dall’esecutivo Conte, peraltro affollato di massoni progressisti», nonostante il divieto di facciata opposto ai “grembiulini” da Di Maio, «che prima delle elezioni aveva bussato ai circuiti massonici neo-aristocratici». Se non altro, vista l’identità di chi lo appoggia – in Italia e altrove – Magaldi si augura che Di Maio, nel caso, si rivolga in futuro a “circoli” di segno opposto, «quando avesse maturato una preparazione esoterica che oggi non ha». Quanto all’altro famoso “bussante”, Matteo Renzi, Magaldi lo definisce «un prodotto massonico, nella misura in cui ha rappresentato una continuità rispetto al “golpe bianco”, massonico, che ha insediato Mario Monti a Palazzo Chigi nel 2011». La verità è che da Monti a Letta, da Renzi a Gentiloni «non è cambiato nulla, nella gestione della politica e dell’economia italiana». Renzi? Messo alla porta dai massoni reazionari ai quali si era rivolto, «ha fatto “l’utile idiota” al servizio di una sceneggiatura che lui non aveva scritto, ma che ha interpretato, per poi uscirsene con la coda tra le gambe dopo aver fatto il suo compitino».Perché è stato scartato, l’ex leader del Pd, dal sancta sanctorum della destra finanziaria mondiale? «Per la sua impreparazione esoterica, per la sua enorme inaffidabilità e anche per la facile previsione che non sarebbe durato a lungo, un personaggio “transeunte” come lui». Ai dominus della supermassoneria neo-aristocratica, dice Magaldi, «è bastato dare uno sguardo ai suoi astri, che descrivono in fondo la panoramica della sua anima e del suo destino tendenziale (che l’iniziato, conoscendolo, può anche modificare)». Non è certo questione di fede: il fatto è che «in quegli ambienti si dà molta importanza all’astrologia, tant’è vero che gli stessi grandi manager delle maggiori multinazionali vengono scelti anche sulla base dei loro oroscopi, così come alcuni frontman della politica». Renzi? «La sua era solo spocchia, priva di un impegno reale sul piano esoterico». E gli aspiranti successori dell’ex rottamatore? «Rischiano di restare prigionieri dello stesso equivoco, se non avranno il coraggio di una rigenerazione sincera e non gattopardesca», sostiene Magaldi: «Devono prima ammettere, fino in fondo, di essere stati solo dei finti progressisti: per tutta la Seconda Repubblica hanno dimenticato i diritti sociali, abbandonando il popolo che aveva risposto fiducia in loro».«E speriamo che passi, all’Europarlamento, l’infame bavaglio del web promosso dal massone contro-iniziato Günther Oettinger: più forte sarà l’indignazione popolare contro questa oligarchia usurpatrice e più rovinoso e rapido sarà il suo crollo, dopo che tutti avranno finalmente aperto gli occhi». Parola del massone progressista Gioele Magaldi, pubblico smascheratore dell’élite neo-aristocratica cripto-massonica, subdola e occulta, che ha sequestrato la democrazia in Europa. «Se il Parlamento Europeo si macchierà di un simile misfatto avremo l’occasione, forse, per accelerare il processo di abbattimento di coloro che hanno fatto scempio del sogno europeo», dichiara Magaldi a “Colors Radio”, puntando l’indice contro le date, mai casuali, degli eventi-chiave dell’attualità europea. La “norma vergogna” contro la libertà delle Rete è attesa in aula per il 4 luglio, ricorrenza storica del celebre 1776, quando – con la dichiarazione d’indipendenza – le colonie americane si ribellarono al dispotismo della corona britannica. «Se venisse promulgata questa norma tutto sarebbe denudato e chiaro, l’attentato alla libertà di espressione sarebbe evidente e palese: con l’espediente della tutela del copyright, i provider potrebbero censurare preventivamente i contenuti web».