Archivio del Tag ‘Occidente’
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Non credete a Obama, è pronto a usare la bomba atomica
«E’ cambiata la dottrina di guerra degli Stati Uniti: le armi nucleari americane non sono più limitate alla controffensiva, ma sono state elevate al ruolo di attacco preventivo». Lo sostiene Paul Craig Roberts, editorialista e già viceministro di Reagan, citando un recente servizio di Eric Zuesse su “Op-Ed News”: Washington sta mettendo a punto i piani per un primo attacco nucleare contro la Russia di Putin, come se non sapesse che anche un attacco atomico “limitato”, secondo in maggiori esperti, porterebbe a sconvolgimenti planetari capaci di causare la morte di non meno di 2 miliardi di persone nel mondo. Craig Roberts accusa l’America di Obama: si è tirata fuori dai trattati anti-balistici e sta sviluppando il suo “scudo anti-missile” in Europa con l’obiettivo di intercettare l’eventuale reazione russa a un attacco contro Mosca. Attacco che non avverrebbe comunque a freddo: «Washington sta demonizzando la Russia e il suo presidente con una vergognosa propaganda diffamatoria, preparando la popolazione statunitense e i suoi Stati-sudditi alla guerra contro la Russia».Secondo Roberts, la Casa Bianca si è fatta convincere dai neo-conservatori che le forze nucleari russe sono ferme e impreparate, quindi un ottimo bersaglio per un attacco. «Questa falsa opinione – scrive l’analista, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – si basa su informazioni vecchie di dieci anni», prima cioè del poderoso riarmo difensivo promosso da Putin, che ha permesso alla Russia di giocare un ruolo-chiave per impedire che la Siria diventasse la scintilla della possibile Terza Guerra Mondiale. In ogni caso, «indipendentemente dalle reali condizioni delle forze nucleari russe, dal successo del “primo attacco” di Washington e dal livello di protezione dello “shield” americano», uno studioso come Steven Starr conferma che «il carattere letale delle armi nucleari» non è arginabile: un conflitto atomico non avrebbe vincitori, perché tutti soccomberebbero nella catastrofe.Lo ribadiscono autorevoli scienziati atmosferici, in studi come quello pubblicato già nel 2008 da “Physics Today”: nonostante la riduzione degli arsenali nucleari programmata con Gorbaciov nel lontano 1986 (ridurre a circa 2.000 entro il 2012 le 70.000 testate dell’epoca) non si è ancora ridotta la minaccia che una guerra nucleare rappresenta per la vita umana sulla Terra. E’ scontata la distruzione simultanea di centinaia di milioni di persone, mentre il fumo atomico emanato dalle esplosioni nella stratosfera «causerebbe l’inverno nucleare e il collasso dell’agricoltura». Sicché, «gli esseri umani scampati alla morte e alle radiazioni morirebbero comunque di fame». Reagan e Gorbaciov l’avevano ben compreso, ma «purtroppo non c’e’ stato un degno successore tra i governi americani che seguirono», sostiene Craig Roberts. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, i 9 paesi dotati di armi nucleari ancora possiedono un totale di 16.300 testate atomiche.E il maggior pericolo viene proprio dagli Usa: «E’ ormai appurato che a Washington ci siano dei politici che pensano, erroneamente, che la guerra nucleare sia una guerra che si può vincere, e che sia un valido strumento per arrestare l’ascesa di Russia e Cina che mette a repentaglio l’egemonia americana nel mondo». Il governo degli Stati Uniti, indipendentemente dal partito in carica, è «una grossa minaccia per la vita sulla Terra», accusa Roberts. E i governi europei, «che si reputano civilizzati», in realtà «non lo sono affatto, poiché permettono a Washington di perseverare nella sua sete di egemonia». E’ quello il problema: «L’ideologia che concede all’eccezionale e indispensabile America questa supremazia è un’enorme minaccia per il mondo».Iraq e Afghanistan, Libia e Siria, Yemen e Somalia, per non parlare della Jugoslavia. «La distruzione parziale o totale di sette paesi del mondo operata dall’Occidente nel 21° secolo, con l’appoggio di altre “civiltà e mezzi d’informazione occidentali”, è la prova lampante che la leadership del mondo occidentale è completamente svuotata di coscienza morale e di compassione per il genere umano», dichiara Craig Roberts. «Ora che Washington è armata della sua falsa dottrina di “supremazia nucleare”, si prospetta un triste futuro per l’umanità». Secondo l’ex consigliere di Reagan, infatti, «Washington ha dato il via alla preparazione di una Terza Guerra Mondiale, e gli europei sembrano ben disposti a prenderne parte». A fine 2012, il danese Rasmussen a capo dell’Alleanza Atlantica aveva detto che la Nato non considerava la Russia come un nemico, ma «ora che la folle Casa Bianca insieme ai suoi folli vassalli ha dimostrato alla Russia che l’Occidente è ancora un nemico», Rasmussen ha cambiato posizione, dichiarando: «Dobbiamo accettare il fatto che la Russia ci considera suoi avversari», per aver sostenuto militarmente l’Ucraina (golpista) insieme agli altri paesi dell’Europa orientale.L’escalation è ormai avviata: per Alexander Vershbow, ex ambasciatore statunitense in Russia e attuale vicesegretario Nato, la Russia è «un nemico». Pertanto, «i contribuenti americani ed europei devono sostenere l’ammodernamento degli armamenti, non solo per Ucraina ma anche per Moldova, Georgia, Armenia e Azerbaijan». L’apparato militare americano sta riesumando la guerra fredda, scrive Roberts, proprio perché ha appena perso la cosiddetta “guerra al terrore” in Iraq e Afghanistan. «Questo probabilmente è il punto di vista delle industrie di armamenti e di qualcuno a Washington». Ma i neocon sono ancora più ambiziosi: «Non perseguono solo il profitto nel sistema della sicurezza e degli armamenti, il loro scopo è l’egemonia degli Stati Uniti nel mondo, ovvero azioni sconsiderate come la minaccia strategica che il regime di Obama, con la complicità dei vassalli europei, ha lanciato contro la Russia in Ucraina».Dall’autunno scorso, continua Roberts, il governo americano «non ha fatto che mentire sull’Ucraina, dando la colpa alla Russia per le conseguenze delle azioni di Washington e demonizzando Putin nello stesso modo in cui Washington ha demonizzato Gheddafi, Saddam Hussein, Assad, i Talebani e l’Iran». Il governo conta su formidabili complici: «La stampa “prostituita” e le capitali dei paesi europei hanno assecondato queste menzogne e questa propaganda, ripetendole senza sosta». Così, l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti della Russia è diventato apertamente negativo. «Come pensate che vedano tutto questo Russia e Cina? La Russia ha visto la Nato spingersi fino ai suoi confini, una violazione degli accordi sottoscritti da Reagan e Gorbaciov». Peggio: Mosca «ha visto gli Stati Uniti violare gli accordi del trattato “Shield” e costituire un proprio “scudo” da guerre stellari». Se poi questo “shield” funzioni o meno «è del tutto irrilevante: il suo scopo è quello di convincere i politici e l’opinione pubblica che gli americani sono al sicuro».La notizia peggiore, continua Craig Roberts, è che i russi hanno visto gli Stati Uniti cambiare il ruolo delle armi nucleari, da mezzi deterrenti a strumenti di attacco preventivo. «E ora la Russia sente ogni giorno fiumi di menzogne ripetute in Occidente e assiste al massacro di civili nell’Ucraina russa da parte del vassallo ucraino degli Stati Uniti». Civili che Washington definisce “terroristi”, e che invece vengono sterminati «con armi come il fosforo bianco». E tutto questo «senza alcuna protesta da parte dei paesi dell’Occidente». E’ cronaca, benché oscurata dai media mainstream: «Attacchi massicci di artiglieria e aerei sulle case dell’Ucraina russa si sono compiuti nel giorno del 25° anniversario di Piazza Tienanmen, mentre Washington e i suoi paesi-marionetta hanno condannato la Cina per un evento che non è mai accaduto». La farsa della presunta “strage” di Pechino è infatti stata smascherata da fonti diplomatiche Usa: il governo cinese non ha mai sparato sulla folla degli studenti, ma ha contrattato con loro l’abbandono della piazza.«Come oggi sappiamo, non c’era stato alcun massacro in piazza Tienanmen», sottolinea Craig Roberts. «Era solo un’altra bugia di Washington, come quella del Golfo del Tonchino, come le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, come l’uso di armi chimiche di Assad, come le armi nucleari iraniane». Si stupisce, l’ex viceministro di Reagan: «E’ davvero sorprendente vedere come il mondo stia vivendo una falsa realtà creata dalle bugie di Washington. Il film “Matrix” è una fedele rappresentazione della vita in Occidente: la popolazione vive in una falsa realtà creata dai suoi governanti». L’opinione pubblica è così assuefatta da non riuscire a distaccarsene, come spiega – in quel film – Morfeo, il capo dei ribelli “risvegliati”: «La maggior parte della gente non è pronta a staccare la spina», molti di loro sono «così completamente schiavi del sistema che lotteranno per proteggerlo».Confessa Craig Roberts: «Vivo quest’esperienza ogni volta che scrivo un articolo: ecco che arrivano le proteste di quelli che non sono disposti a staccare la spina, attraverso e-mail o dai quei siti che nella sezione dei commenti accusano gli scrittori di calunnia verso i loro governi-troll». Se non altro, aggiunge l’analista, ad abboccare è l’Occidente, ma non le popolazioni russe e cinesi, quelle che vedono benissimo il cappio che si sta stringendo giorno per giorno. «Come pensate che reagirà la Cina quando Washington dichiarerà che il Mar Cinese Meridionale è una zona di interesse nazionale degli Stati Uniti, e invierà il 60% della sua flotta nel Pacifico e costruirà nuove basi aeree e navali americane dalle Filippine al Vietnam?». Finora, aggiunge Roberts, russi e cinesi «si sono comportati in modo ragionevole». Sergej Lavrov, il ministro degli esteri di Putin, è estremamente chiaro: «In questa fase, vogliamo dare ai nostri partner la possibilità di calmare gli animi. Vedremo cosa succederà in seguito. Se continueranno le accuse contro la Russia e i tentativi di pressione su di noi attraverso la leva economica, allora potremo rivalutare la situazione».«Se la folle Casa Bianca, le prostitute mediatiche di Washington e i vassalli d’Europa convinceranno la Russia che la guerra è inevitabile, la guerra diventerà davvero inevitabile», avverte Craig Roberts. «E poiché non esiste possibilità alcuna che la Nato sia in grado di montare un’offensiva convenzionale contro la Russia nemmeno lontanamente vicina alle dimensioni e alla potenza delle forze d’invasione tedesche del 1941, che poi incontrarono la distruzione, la guerra non potrà che essere nucleare, e questo significa la fine per tutti. Tenetelo bene a mente, mentre Washington e i suoi canali d’informazione continuano a far rullare i tamburi di guerra». La storia è lì a dimostrare che, oltre ogni dubbio, «tutto quello che Washington e le sue prostitute mediatiche hanno detto e dicono, non sono che bugie al servizio di un fine non dichiarato». E la cosa, purtroppo, «non si risolve votando democratico invece che repubblicano». Thomas Jefferson suggerì una soluzione: «L’albero della libertà di tanto in tanto si deve bagnare con il sangue dei patrioti e dei tiranni. E’ il suo concime naturale». Per Roberts, il guaio è che oggi «a Washington ci sono pochi patrioti e molti tiranni».«E’ cambiata la dottrina di guerra degli Stati Uniti: le armi nucleari americane non sono più limitate alla controffensiva, ma sono state elevate al ruolo di attacco preventivo». Lo sostiene Paul Craig Roberts, editorialista e già viceministro di Reagan, citando un recente servizio di Eric Zuesse su “Op-Ed News”: Washington sta mettendo a punto i piani per un primo attacco nucleare contro la Russia di Putin, come se non sapesse che anche un attacco atomico “limitato”, secondo in maggiori esperti, porterebbe a sconvolgimenti planetari capaci di causare la morte di non meno di 2 miliardi di persone nel mondo. Craig Roberts accusa l’America di Obama: si è tirata fuori dai trattati anti-balistici e sta sviluppando il suo “scudo anti-missile” in Europa con l’obiettivo di intercettare l’eventuale reazione russa a un attacco contro Mosca. Attacco che non avverrebbe comunque a freddo: «Washington sta demonizzando la Russia e il suo presidente con una vergognosa propaganda diffamatoria, preparando la popolazione statunitense e i suoi Stati-sudditi alla guerra contro la Russia».
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Pareggio di bilancio, tasse e crisi: Renzi si piega all’Ue
Più tasse, più crisi, meno lavoro: l’Italia dovrà affrontare nuovi “sacrifici umani” per piegarsi alla legge del pareggio di bilancio entro il 2015. Gli elettori che hanno votato il Pd di Renzi alle europee sono serviti: lo schermo della propaganda è crollato col verdetto dell’Ecofin, dopo l’inutile presenza del premier italiano all’ultimo vertice di Bruxelles. Almeno altri 2 miliardi di euro da trovare, a partire dalla finanziaria di ottobre. «Mentre il presidente del Consiglio era a Bruxelles per negoziare, a parole, maggiori margini di flessibilità all’interno del rispetto dei trattati esistenti – scrive “Libero” – contemporaneamente lo stesso vertice sanciva nero su bianco la bocciatura alla prima e unica richiesta formale fatta dal governo di deroga ai patti europei». Di fatto, sono state vanificate le richieste del ministro Padoan, che voleva far slittare dal 2015 al 2016 il pareggio di bilancio strutturale. Ora, con la bocciatura dell’Ue, l’Italia avrà un anno in meno per comprimere ulteriormente la spesa pubblica e mettere in croce famiglie e aziende.Per rispettare il trattato-capestro, continua il quotidiano milanese, servono coperture per il bonus Irpef, i famosi 80 euro. Soprattutto, al governo occorrono le risorse per rendere strutturale il bonus, ma all’appello mancano 20 miliardi. Il guaio è che il pareggio di bilancio, aberrazione tecnocratica che deprime l’economia devastando il tessuto produttivo del paese, è stato inserito nella Costituzione italiana già nel 2012 col voto unanime di Pd, Pdl e terzo polo: da quel momento, solo «eventi eccezionali» possono giustificare il «ricorso all’indebitamento», ricorda “Pagina 99”. La catastrofe discende dal Trattato di Maastricht, di impronta “feudale” e neoliberista, che mira ad azzerare la sovranità pubblica per sabotare la missione socio-economica dello Stato, storico garante del benessere diffuso, lasciando mano libera al super-potere dell’élite finanziaria e delle sue multinazionali. Determinante l’adozione della moneta unica, che sottrae allo Stato la capacità di far fronte alla spesa sociale e sostenere gli investimenti strategici – welfare, istruzione, sanità, infrastrutture – che hanno guidato lo sviluppo del dopoguerra in tutto l’Occidente grazie al ricorso al deficit positivo, la leva strategica e democratica del debito pubblico.A partire da Maastricht, l’oligarchia che condiziona i politici insediati a Bruxelles ha disposto la storica limitazione del 3% nel rapporto tra deficit e Pil. Cinque anni dopo, nel 1997, il tetto del 3% – che non corrisponde ad alcun criterio economico ma è solo un’indicazione politica per indebolire gli Stati, esponendoli allo strapotere delle corporation – è stato recepito nel Patto di Stabilità e Crescita. «Le cose sono cambiate con il grande crack del 2008», aggiunge “Pagina 99”. «Che la crisi dei debiti sovrani europea sia stata figlia di finanze pubbliche fuori controllo è una tesi più controversa di quanto possa sembrare ad un primo sguardo: può forse attagliarsi al caso della Grecia, ma assai meno – ad esempio – a quello dell’Irlanda, dove il debito pubblico è stato gonfiato proprio dagli interventi a soccorso del settore finanziario privato». In ogni caso, continua il giornale, i piani di salvataggio varati dall’Unione Europea per gli Stati maggiormente in difficoltà hanno determinato la richiesta di una contropartita da parte del paese che più ha contribuito, in termini finanziari, alla loro realizzazione: la Germania.Da qui, l’imposizione di regole sempre più stringenti sulla finanza pubblica: dal 13 dicembre 2011 è in vigore il cosiddetto Six-pack, un pacchetto di regolamenti ripresi successivamente anche dal Fiscal Compact, che punta ad azzerare il deficit. «Il disavanzo strutturale è differente dal semplice rapporto deficit-Pil», precisa “Pagina 99”, perché corretto dall’impatto del ciclo economico e delle misure una tantum e temporanee: «Ad esempio, nel caso dell’Italia, il Def appena approvato dal Parlamento riferisce che l’indebitamento netto strutturale sarà del -0,6% nel 2014, a fronte di un rapporto deficit-Pil del -2,6%». È la prima di queste due variabili che doveva essere azzerata entro il 2015, secondo quanto programmato dal governo Letta. Ed è a questo medesimo dato che ha fatto riferimento Padoan nella sua missiva indirizzata alla Commissione Europea, sonoramente bocciata. «Il Fiscal Compact ha ulteriormente irrigidito questo percorso, imponendo ai paesi sottoscrittori di inserire il pareggio di bilancio nei rispettivi ordinamenti nazionali, ad un livello costituzionale».Comunque, osserva Daniele Basciu sul blog “Economia Mmt”, era tutto già scritto nel Def varato da Renzi ad aprile 2014: nel documento, messo a punto da un ministro come Padoan (tecnocrate iper-liberista proveniente dall’Ocse, con alle spalle “ricette” per indebolire gli Stati a vantaggio dei colossi finanziari) il governo aveva già previsto, da qui al 2018, di aumentare le tasse e l’avanzo primario, «cioè preleverà più tasse di quanto spenderà». In presenza di risparmio sulla spesa pubblica, ricorda Basciu, è necessario che ci siano dei deficit a controbilanciare il risparmio stesso, perchè ci sia la piena occupazione. Viceversa, senza più deficit, la strada della disoccupazione è segnata. «Il governo Renzi aveva quindi già deciso di non fare deficit, cioè aveva deciso di impegnarsi ad aumentare i disoccupati e i fallimenti delle aziende, che chiuderanno per diminuzione di clienti in grado di spendere e fare acquisti». Con buona pace degli ingenui elettori di Renzi, che «sono completamente all’oscuro del funzionamento di un’economia moderna».Per Basciu, seguace della Modern Money Theory di Warren Mosler introdotta in Italia da Paolo Barnard, quella degli elettori Pd è «una specie di tribù convinta che, recitando certe litanie e formule su “Sky” e sul “Corriere della Sera”, l’economia magicamente si rimetta in moto: sono i flagellanti delle processioni sacre, che mentre il celebrante recita i riti si battono sulla schiena con dei giunchi per propiziarsi la divinità». Ma questa non è più economia, protesta il blogger: è antropologia. «Il Def è il testo sacro, subordinato a Trattato di Maastricht e al Fiscal Compact, testi sacri di ordine superiore in cui sono scritte le regole. Il ruolo dell’officiante è trovare le formule per rivolgersi alle masse». Così Renzi dichiara: «O l’Europa cambia direzione di marcia o non esiste possibilità di sviluppo e crescita», ma si contraddice nello stesso discorso, aggiungendo: «Noi non chiediamo di violare la regola del 3%». Ergo, «Renzi farà l’austerity, come i testi sacri prescrivono», e di fatto «promette meno deficit, quindi più disoccupati».Ma l’elettore di Renzi che ha in casa un figlio disoccupato o un parente artigiano che chiude perchè non ha più clienti? Niente paura, «assiste alla celebrazione del rito ed è felice, sta bene: “C’è qualcuno”, pensa, “che si prende cura di me”». Qualcuno della “scuola” di Padoan, beninteso, che tratta lo Stato come se fosse una famiglia o un’azienda, cioè un soggetto economico per il quale il risparmio è virtù, mentre il debito è un problema. Fingendo di non sapere che tra famiglie e aziende il denaro può solo passare di mano in mano, mentre lo Stato sovrano il denaro lo crea in quantità teoricamente illimitata, per far fronte ai bisogni della società, tenendo conto della salute del sistema produttivo. In teoria, la missione dello Stato democratico è la piena occupazione: quella che i neoliberisti vogliono cancellare dalla storia, inserendo anche nelle nostre Costituzioni il cancro del pareggio di bilancio, cui ora l’Unione Europea obbliga l’Italia di Renzi, senza sconti.Più tasse, più crisi, meno lavoro: l’Italia dovrà affrontare nuovi “sacrifici umani” per piegarsi alla legge del pareggio di bilancio entro il 2015. Gli elettori che hanno votato il Pd di Renzi alle europee sono serviti: lo schermo della propaganda è crollato col verdetto dell’Ecofin, dopo l’inutile presenza del premier italiano all’ultimo vertice di Bruxelles. Almeno altri 2 miliardi di euro da trovare, a partire dalla finanziaria di ottobre. «Mentre il presidente del Consiglio era a Bruxelles per negoziare, a parole, maggiori margini di flessibilità all’interno del rispetto dei trattati esistenti – scrive “Libero” – contemporaneamente lo stesso vertice sanciva nero su bianco la bocciatura alla prima e unica richiesta formale fatta dal governo di deroga ai patti europei». Di fatto, sono state vanificate le richieste del ministro Padoan, che voleva far slittare dal 2015 al 2016 il pareggio di bilancio strutturale. Ora, con la bocciatura dell’Ue, l’Italia avrà un anno in meno per comprimere ulteriormente la spesa pubblica e mettere in croce famiglie e aziende.
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Il futuro secondo Arrighi: dopo di noi la Cina o il caos
Sono tre i possibili esiti per la crisi terminale della “fase americana” nel sistema-mondo: un impero a guida occidentale, virando a dominio la strapotenza militare che i pur declinanti Stati Uniti continuano a mantenere; una società di mercato globale imperniata sull’Asia orientale; e infine l’orrore di un “caos sistemico” come liquidazione di qualsivoglia forma di governance. Giovanni Arrighi ne parla nel post-scriptum de “Il lungo XX secolo”, appena ripubblicato da “Il Saggiatore”, provando a delineare il futuro del pianeta. Fino alla sua morte, nel 2009, Arrighi aveva insegnato alla State University di New York e cooperato al Fernand Braudel Center, diretto da Immanuel Wallerstein. Obiettivo dell’autore, rileva Pierfranco Pellizzetti su “Micromega”, è quello di smontare la teorizzazione di un “eterno ritorno” che connoterebbe le dinamiche del capitalismo, con una fase di creazione di ricchezza (industria e scambi), una “crisi spia” (economia in recessione), un passaggio alla finanziarizzazione (accumulazione al posto della produzione) e la “crisi terminale”, con lo spostamento della centralità geoeconomica.Il valore di un’analisi, scrive Pellizzetti, scaturisce anche dai riflessi che induce, tenendo conto delle coordinate temporali: parole in controtendenza, nell’epoca in cui «un’intellighenzia embedded della restaurazione NeoLib propugnava le tesi pericolose quanto autolesionistiche del “Nuovo Secolo Americano”, poi insabbiate in Iraq e disperse tra le giogaie afgane. Il karakiri dell’Occidente». Il testo, ora tornato in libreria dopo la prima edizione del 1994, «fornisce strumenti particolarmente utili per posizionare in una giusta prospettiva la fine dell’unilaterialismo americano, che era emerso nel dopo Guerra Fredda; tra il crollo del muro di Berlino (1989) e quello delle Torri Gemelle (2001)». Per Pellizzetti, è la questione aperta – quindi attualissima – di un mondo ormai multipolare e senza più un centro. «Un mondo dove si sono determinate rotture sistemiche che reclamano nuove categorie di analisi; e che magari suonano campane a morto per lo stesso ordine capitalistico», quello che «ha egemonizzato i tempi del mondo per l’ultimo mezzo millennio e che potrebbe persino essere giunto a una fase terminale».“Il lungo XX secolo” rilegge la nostra storia recente in tre fasi distinte. La prima è quella dell’espansione finanziaria della fine del XIX e degli inizi del XX secolo, nel corso della quale «furono distrutte le strutture del ‘vecchio’ regime britannico e furono create quelle del ‘nuovo’ regime statunitense». La seconda è quella dell’espansione materiale degli anni ‘50 e ‘60, durante la quale «il dominio del ‘nuovo’ regime statunitense si tradusse in un’espansione del commercio e della produzione di dimensioni mondiali». Terza fase, l’attuale espansione finanziaria, in cui «vengono distrutte le strutture del ‘vecchio’ regime statunitense e vengono presumibilmente create quelle di un ‘nuovo’ regime». Esito finale: «L’arresto della ciclicità capitalistica, quasi come un auspicio», annota Pellizzetti. Un auspicio «lasciato sottinteso, eppure individuabile tra le pieghe della riflessione di Arrighi: il superamento di un ordine che si puntella – al tempo – sull’esclusione e sullo sfruttamento».Come lo stesso Arrighi scriveva sulla “New Left Review” del 1991, «i due processi sono distinti ma complementari», dal momento che «processi di sfruttamento forniscono agli Stati ricchi e ai loro agenti i mezzi per iniziare e mantenere processi di esclusione», che a loro volta «generano la povertà necessaria per indurre i governanti e i cittadini degli Stati relativamente poveri a cercare continuamente di rientrare in una divisione del lavoro mondiale strutturata secondo condizioni favorevoli agli Stati ricchi». Insieme all’importante trilogia di Wallerstein sul sistema-mondo (“Il sistema mondiale dell’economia moderna”, pubblicato da “Il Mulino”), il testo di Arrighi è il contributo più significativo della scuola nata sulle due sponde dell’Atlantico, conclude Pellizzetti. «Essenziale per una profonda ritaratura degli schemi concettuali che guidano la riflessione sulla crisi economica globale, a fronte della palese incapacità del pensiero dominante di interpretarne le cause, macroeconomiche e dunque sistemiche». “Il lungo XX secolo” ne mette a fuoco gli aspetti più significativi: in particolare, l’inarrestabile processo di finanziarizzazione (produzione di denaro a mezzo denaro) quale idealtipico sbocco di lungo periodo dell’economia “reale”, e le conseguenze che ne derivano per nuovi cicli di accumulazione capitalistica. Il finale è aperto: la fine del capitalismo potrebbe essere già in corso, ma il “regime” che verrà non sappiamo se sarà ancora guidato dall’Occidente o dalla Cina, a meno che il mondo non precipiti in un caos non più governabile.Sono tre i possibili esiti per la crisi terminale della “fase americana” nel sistema-mondo: un impero a guida occidentale, virando a dominio la strapotenza militare che i pur declinanti Stati Uniti continuano a mantenere; una società di mercato globale imperniata sull’Asia orientale; e infine l’orrore di un “caos sistemico” come liquidazione di qualsivoglia forma di governance. Giovanni Arrighi ne parla nel post-scriptum de “Il lungo XX secolo”, appena ripubblicato da “Il Saggiatore”, provando a delineare il futuro del pianeta. Fino alla sua morte, nel 2009, Arrighi aveva insegnato alla State University di New York e cooperato al Fernand Braudel Center, diretto da Immanuel Wallerstein. Obiettivo dell’autore, rileva Pierfranco Pellizzetti su “Micromega”, è quello di smontare la teorizzazione di un “eterno ritorno” che connoterebbe le dinamiche del capitalismo, con una fase di creazione di ricchezza (industria e scambi), una “crisi spia” (economia in recessione), un passaggio alla finanziarizzazione (accumulazione al posto della produzione) e la “crisi terminale”, con lo spostamento della centralità geoeconomica.
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Mosul, dalla Siria con furore: l’Isil-Cia e il fantasma Blair
Tony Blair, il Fantasma dell’Opera – una tragedia infinita chiamata Medio Oriente. Per Pepe Escobar, il Fantasma è tornato, ispirando la guerriglia in Iraq. Il fatto che Blair «continui a gironzolare con la sua sequela di intricate menzogne, invece di starsene a marcire in qualche hotel di lusso», secondo il giornalista di “Asia Times” «ci sbatte in faccia tutto ciò che dobbiamo sapere circa le cosiddette “élite” occidentali, delle quali è un fedele, e ragguardevolmente ricompensato, servo». Tutto, nella regione, è precipitato con l’operazione “shock and awe”, la guerra del 2003 per uccidere Saddam Hussein sulla base di invenzioni (le armi di distruzioni di massa, inesistenti). Guerra promossa da Blair insieme a “Dubya” Bush. «Il Fantasma aveva sempre desiderato che l’amministrazione Obama bombardasse la Siria, così come aveva spinto affinchè “Dubya” distruggesse l’Iraq». La logica del Fantasma, continua Escobar, non aveva previsto che lo stesso Isil creato a Damasco (Stato Islamico dell’Islam e del Levante) ora si sarebbe spinto verso Baghdad.Proprio l’influente Blair, lo statista più amato da Renzi, continua a elargire lo stesso sanguinoso regalo, «la Guerra al Terrore, eternamente riciclata e riconfezionata, della quale il Fantasma è stato il primo sostenitore, che si tira dietro l’ultima moda Usa che bolla l’Isil come la personificazione di un nuovo 11 Settembre». Dato che Blair «sperava in Damasco come ripetizione del 2003 di Baghdad», se la logica dei bombardamenti avesse avuto la meglio in Siria, oggi Aleppo sarebbe una replica di Mosul, continua Escobar in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «Più ci si addentra, più il Fantasma sembra l’erede degli – altrettanto spiazzati – comandanti britannici nell’Afghanistan degli anni ’90». Escobar ricorda le involontarie conseguenze dei bombardamenti Usa del 2001 in Afghanistan, con Hazaras (sciiti afghani) fianco a fianco con gli iraniani, insieme all’esercito siriano di Bashar al Assad, contro i “ribelli” siriani «sostenuti dal Fantasma». Nemmeno Peter Mandelson, “signore dell’oscurità”, e mente politica del “New Labour” di Blair, «avrebbe potuto giustificare una cosa del genere».In ogni caso, prosegue Escobar, «il Fantasma è sempre stato convinto della “malvagità” dell’Iran, “avvertendo” costantemente che Teheran era sul punto di assemblare un’arma nucleare (vecchie abitudini – come per la sindrome di Saddam – dure a morire)». Stupito come Dick Cheney, il vecchio Blair, quando Washington e Teheran erano sul punto di discutere a Vienna una sorta di fronte comune per combattere l’Isil in Iraq e addirittura “super-falchi” come il senatore repubblicano Lindsey Graham affermare le impensabili parole «avremo probabilmente bisogno dell’aiuto [dell’Iran] per tenere Baghdad». Secondo Escobar, nonostante la pericolosità di Blair «non c’è alcuna strategia di fondo, nessun piano anglo-statunitense a lungo termine di politica estera in quello che il Pentagono chiama ancora “arco di instabilità”». O con noi o con i terroristi, era il motto di Bush. Peccato che in Libia e in Siria l’Occidente era schierato proprio coi terroristi islamici, secondo la filosofia del “divite et impera”.Washington, continua Escobar, ha ammesso di star inviando “assistenza” letale ai ribelli “moderati” in Siria (come, in teoria, i sicari del Fronte Islamico, non l’Isil o Jabhat al Nusra), «come se gli asset holliwoodiani della Cia non sapessero che queste armi saranno sicuramente vendute ai jihadisti più estremi – o rubate da loro». L’Isil nel deserto senza confini tra Siria e Iraq è già un proto-califfato. Armare i cosiddetti “moderati”? «Non ci sono “moderati”, come non c’erano Talebani “moderati”». Lo scenario sarà quindi ulteriormente destabilizzato: «Delle vittime fanno parte i curdi in Siria, Iraq, Turchia e Iran, i turkmeni in Iraq (come sta già avvenendo questa settimana) e ovviamente i cristiani in ogni nazione (come è già successo in Siria)». Il Fantasma? «Ora sta pregando gli Stati Uniti per un “intervento” in Iraq: prima li affami, poi li bombardi fino a una devastazione che chiamerai “democrazia” e li occupi, poi infesti il tutto di jihadisti, che poi scacci, poi gli jihadisti scatenano l’inferno (425 milioni di dollari rubati da una cassaforte governativa a Mosul, oltre a un sacco di soldi presi ai Wahabiti del Golfo per comparsi tutte quelle Toyota e quegli Rpg), poi li rioccupi lentamente. Questo è il regalo che continua ad essere distribuito».Altro scialo di retorica bugiarda, diffusa da Blair e dai neocon statunitensi: l’Isil «una minaccia per la sicurezza dell’Occidente», parole di Kerry. Ridicolo: «E’ uno scherzo enorme quanto la massa di satelliti incapaci di tracciare una colonna di Toyota bianche che avanzano nel bel mezzo del deserto iracheno – dirette verso la distruzione di quattro divisioni dell’esercito. Le hanno viste, le hanno seguite e hanno fatto finta di nulla, come insegna il libro degli schemi dell’impero del caos. Perchè non spingere il “divide et impera” tra sunniti e sciiti? Lasciamoli mangiare i cadaveri – e uccidersi tra di loro, come nella guerra pluriennale tra Iran e Iraq». La spinta dell’Isil è un remix della guerra civile tra sunniti e sciiti nel 2006 e 2007, i cui effetti, prima dell’invasione Usa, Escobar ha documentato nel reportage “Red Zone Blues”. «Il Fantasma, tuttavia, ha ottenuto ciò che voleva; l’Iraq è a pezzi, irrimediabilmente frammentato», e i curdi hanno preso il controllo del petrolio di Kirkuk.Conclude Escobar: «Il “medio oriente” – di fatto il sudest asiatico – è una finzione occidentale imposta dal potere coloniale alle popolazioni locali. Quello che il Pentagono descrive fin dagli anni 2000 come l’“arco di instabilità” è un sistema anarchico che si autoalimenta, con alcuni scampoli di “pace” rappresentati dalle petro-monarchie meglio conosciute come Consigli di Cooperazione del Golfo (dopotutto abbiamo bisogno del “nostro” petrolio). A seguire c’è il lento e inevitabile processo di integrazione eurasiatico, lungo la miriade di nuove vie della seta che fanno riferimento alla Cina. Questa è una maledizione per l’impero del caos e i suoi leccapiedi, per cui il sudest asiatico in perenne caos è più che apprezzato». E dato che c’è sempre di mezzo anche il Fantasma di Tony Blair, «l’arrogante ectoplasma», aspettiamoci pure un bell’aumento dei carburanti da aggiungere «a questo mescolone occidentale già abbastanza delirante».Tony Blair, il Fantasma dell’Opera – una tragedia infinita chiamata Medio Oriente. Per Pepe Escobar, il Fantasma è tornato, ispirando la guerriglia in Iraq. Il fatto che Blair «continui a gironzolare con la sua sequela di intricate menzogne, invece di starsene a marcire in qualche hotel di lusso», secondo il giornalista di “Asia Times” «ci sbatte in faccia tutto ciò che dobbiamo sapere circa le cosiddette “élite” occidentali, delle quali è un fedele, e ragguardevolmente ricompensato, servo». Tutto, nella regione, è precipitato con l’operazione “shock and awe”, la guerra del 2003 per uccidere Saddam Hussein sulla base di invenzioni (le armi di distruzioni di massa, inesistenti). Guerra promossa da Blair insieme a “Dubya” Bush. «Il Fantasma aveva sempre desiderato che l’amministrazione Obama bombardasse la Siria, così come aveva spinto affinchè “Dubya” distruggesse l’Iraq». La logica del Fantasma, continua Escobar, non aveva previsto che lo stesso Isil creato a Damasco (Stato Islamico dell’Islam e del Levante) ora si sarebbe spinto verso Baghdad.
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Die Zeit: Obama non ci conviene, molto meglio la Russia
Non ci conviene seguire Obama nella sua sfida a Putin, molto meglio – per noi europei – cercare una partnership stabile con la Russia. Lo afferma, clamorosamente, il settimanale tedesco “Die Zeit”, di orientamento liberale. Il più autorevole giornale tedesco fa parlare Chris Luenen, direttore del programma geopolitico del “Global Policy Institute” di Londra, che propone all’Ue di smetterla di sottomettersi alla strategia Usa e imparare piuttosto a difendere i propri interessi, specialità nella quale «l’Europa è stata debole da sempre». Luenen constata che l’Unione Europea segue la strategia unilaterale di Washington, trascurando i propri bisogni, che raccomanderebbero a Bruxelles di allearsi più strettamente con la Russia. Il giornale cita la dottrina dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, che già nel ‘97 definiva l’Europa «irrinunicabile testa di ponte geopolitica» degli Usa, spiegando: con il controllo sull’Ucraina – i suoi 52 millioni di abitanti, importanti risorse naturali e l’accesso al Mar Nero – la Russia «otterrebbe automaticamente i mezzi per diventare un impero potente di estensione euro-asiatica».Per Chris Luenen, «sarebbe abbastanza facile assicurare gli interessi occidentali in fatto di energia e sicurezza tramite la costruzione di un partenariato con la Russia (e con l’Iran), pittosto che che continuare a mirare a sottomettere la Russia agli interessi e alle strutture occidentali». Come riferisce il newmagazine “Sinistra.Ch”, espressione della sinistra svizzera ticinese, sullo “Zeit” l’editorialista sostiene che «la decisione di allargare la zona di influsso occidentale verso Est, tramite una progressiva espansione dell’Ue e della Nato» è praticamente «il più grave errore strategico dell’Occidente sin dalla fine della guerra fredda». Solitamente, aggiunge la rivista elvetica, “Die Zeit” «difende concetti e posizioni che sono rappresentati anche nell’establishment della politica tedesca». Finora, nel conflitto dell’Ucrania, il settimane si era allineato nel giustificare «il regime golpista di Kiev», attaccando la Russia di Putin e i russi d’Ucraina, definiti “separatisti”. Se oggi invece quel giornale ribalta la sua posizione, significa che «siamo di fronte senza dubbio a qualcosa di sensazionale».Niente però di così inatteso, in fondo, secondo “Sinistra.Ch”: «Importanti settori dell’industria tedesca, infatti, si sono nettamente opposti alla tendenza di seguire ciecamente il diktat di Obama, relativo alle sanzioni economiche contro la Russia». E il recente affare di spionaggio da parte della Nsa «si rivolge non a caso in prima linea contro la Germania», colpendo anche la sfera privata della cancelliera Merkel. Inoltre, in Germania, «la tendenza fortemente anti-russa dei media tedeschi viene fortemente contestata dai lettori: da mesi, i blogger si rivoltano in massa contro le direttive informative delle maggiori redazioni». La maggior parte dei commenti dei lettori contestano la politica occidentale. Per moltissimi di loro, quindi, l’apertura dello “Zeit” è «un vero raggio di luce nell’oscurità». Per Massimiliano Ay, segretario del partito comunista della Svizzera italiana, la crisi ucraina «si è scatenata per la esplicita volontà degli Usa di bloccare il rifornimento energetico russo all’Europa, inchiodando così in modo ancora più vincolante il vecchio continente al petrolio e al gas nordamericano: un passo necessario per evitare lo sviluppo dell’asse Berlino-Mosca-Pechino che potrebbe accerchiare Washington». Che ora lo sostenga anche “Die Zeit”, lascia sperare che Berlino potrebbe tentare di frenare la pericolosa guerra fredda di Obama.Non ci conviene seguire Obama nella sua sfida a Putin, molto meglio – per noi europei – cercare una partnership stabile con la Russia. Lo afferma, clamorosamente, il settimanale tedesco “Die Zeit”, di orientamento liberale. Il più autorevole giornale tedesco fa parlare Chris Luenen, direttore del programma geopolitico del “Global Policy Institute” di Londra, che propone all’Ue di smetterla di sottomettersi alla strategia Usa e imparare piuttosto a difendere i propri interessi, specialità nella quale «l’Europa è stata debole da sempre». Luenen constata che l’Unione Europea segue la strategia unilaterale di Washington, trascurando i propri bisogni, che raccomanderebbero a Bruxelles di allearsi più strettamente con la Russia. Il giornale cita la dottrina dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, che già nel ‘97 definiva l’Europa «irrinunicabile testa di ponte geopolitica» degli Usa, spiegando: con il controllo sull’Ucraina – i suoi 52 millioni di abitanti, importanti risorse naturali e l’accesso al Mar Nero – la Russia «otterrebbe automaticamente i mezzi per diventare un impero potente di estensione euro-asiatica».
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Sangue e Pil: una guerra mondiale per salvare la crescita
ita – crescita di tutto, compresi i veleni, i disastri, gli sprechi criminali. Lungi anche solo dall’ipotizzare un’economia non più fondata sulla crescita illimitata (non solo “impossibile” ma anche letale per la Terra) il professor Cowen, docente ultra-liberista della George Mason University, sostiene che il mondo di oggi non sia più visitato, come in passato, dalla favolosa opportunità rappresentata dal genocidio bellico.«Alcuni dei recenti titoli di giornale sull’Iraq o il Sud Sudan fanno sembrare il nostro mondo un posto molto cruento – premette Cowen – ma le vittime di oggi impallidiscono alla luce delle decine di milioni di persone uccise nelle due guerre mondiali nella prima metà del XX secolo». La stessa Guerra del Vietnam, aggiunge, ha avuto molti più morti di qualsiasi guerra recente che coinvolga un paese ricco. Ecco il punto: «Il maggior pacificismo del mondo può rendere meno urgente, e quindi meno probabile, il raggiungimento di alti tassi di crescita economica». Nel suo intervento, ripreso da “Zero Hedge” e tradotto da “Come Don Chisciotte”, Cowen sostiene che la semplice possibilità del precipitare verso la guerra «focalizza l’attenzione dei governi su come prendere correttamente alcune decisioni fondamentali», per esempio su come «investire nella scienza o semplicemente liberalizzare l’economia». E questa “attenzione”, di fatto, «finisce per migliorare le prospettive a più lungo termine di una nazione».«Può sembrare ripugnante trovare un lato positivo alla guerra in questo senso», ammette ancora Cowen, deciso però a “rivalutare” fino in fondo la prospettiva del conflitto come volano economico, come fossimo ancora agli albori dell’era del carbone e del petrolio: «Uno sguardo alla storia americana suggerisce che non possiamo respingere l’idea così facilmente». E spiega: «Innovazioni fondamentali come l’energia nucleare, il computer e l’aviazione moderna sono state tutte spinte da un governo americano desideroso di sconfiggere le potenze dell’Asse o, più tardi, di vincere la Guerra Fredda». La stessa rete Internet è stata progettata a scopo militare-strategico, e la Silicon Valley «deve le sue origini alle forniture militari, non alle start-up imprenditoriali di oggi». Tutto merito del lancio del primo Sputnik, il satellite con cui l’Urss sfidò gli Usa mettendosi in pole position nella conquista dello spazio. Proprio lo Sputnik «ha stimolato l’interesse americano nel campo della scienza e della tecnologia, a beneficio della conseguente crescita economica». Piccolo particolare: questo succedeva mezzo secolo fa, quando eravamo 1 miliardo e mezzo anziché 7 e il “terzo mondo” era ancora una sconfinata cassaforte da saccheggiare.La guerra, insiste Cowen, «porta con sé un’urgenza a cui i governi altrimenti non riescono ad appellarsi». Lo conferma la storia del Progetto Manhattan per l’atomica, realizzata in soli sei anni «partendo praticamente dal niente» e coinvolgendo lo 0,4% della produzione economica americana: «In questi giorni è difficile immaginare un risultato così rapido e decisivo». Il dogmatico Cowen cerca alleati, nella sua visione economico-bellicista così consonante con gli Usa di Obama, che provocano la Russia accerchiando la Cina. Secondo Ian Morris, professore di letteratura e storia a Stanford e autore del saggio “Guerra! A che cosa serve?”, che esamina il rapporto tra conflitto e progresso “dai primati ai robot”, la guerra ha sempre aiutato la crescita: prima sotto l’Impero Romano, poi col Rinascimento e infine con la nascita degli Stati Uniti. «Ci sono prove che l’intenzione di prepararsi alla guerra abbia spinto l’invenzione tecnologica e portato anche un certo maggior grado di ordine sociale».Un altro libro, “Guerra e oro, una storia di 500 anni di imperi, avventure e debito”, scritto da un altro conservatore, il deputato britannico Kwasi Kwarteng, si sostiene che la necessità di finanziare le guerre abbia portato i governi a sviluppare le istituzioni monetarie e finanziarie, consentendo l’ascesa dell’Occidente. Una terza indagine sul tema, dossier firmato dagli economisti Chiu Yu Ko, Mark Koyama e Tuan-Hwee Sng, si afferma che l’Europa si è evoluta in modo più frammentario rispetto alla Cina, costretta al centralismo di Pechino per evitare invasioni da ovest. L’accentramento avrebbe fatto arretrare il paese, mentre gli europei avrebbero investito di più in tecnologia e modernizzazione «proprio perché avevano sempre paura di essere conquistati dai vicini loro rivali». Se non altro, concede Cowen, «vivere in un mondo pacifico con una crescita del Pil del 2% ha alcuni grandi vantaggi che non si ottengono con una crescita del 4% e molti più morti in guerra».Per contro, dice ancora l’economista di destra, i nostri antenati non hanno probabilmente mai conosciuto una stagnazione come l’attuale. Errore: fu spaventoso il crollo in cui sprofondò l’Europa, economia compresa, dopo la caduta dell’Impero Romano. Qualcosa del genere potrebbe accadere oggi, se dovesse collassare l’impero americano. Cowen però non è uno storico, ma un economista: e la sua ideologia neoliberale, smentita dai fatti ma più che mai al potere, vede solo un futuro lineare e progressivo, proprio come la leggenda della crescita infinita e l’atroce fiaba dell’austerity espansiva. In attesa di scoprire se l’ipotetico colossale business chiamato Terza Guerra Mondiale sia davvero alle porte – magari innescato a Kiev contro Mosca, o da Israele contro Teheran – Cowen si limita a domandarsi «se la recente diffusione della pace è una semplice bolla temporanea che aspetta solo di essere fatta scoppiare», naturalmente a beneficio di un Pil finanziario ormai controllato da pochissimi super-padroni, forse pronti a lasciare sul terreno i 2 miliardi di morti che un attacco nucleare contro la Russia provocherebbe.L’economia occidentale è in stagnazione da troppo tempo? Niente di meglio che una bella guerra, magari mondiale, per “far ripartire la crescita”. Lo afferma, senza troppi giri di parole, l’economista statunitense Tyler Cowen, allievo della “scuola austriaca” di Friedrick Von Hayek cui si ispirano i famigerati professori europei del rigore, a cominciare dal non rimpianto Mario Monti. Sul “New York Times”, Cowen spiega che solo la guerra è il potente motore dell’economia, anche se purtroppo «il conflitto porta morte e distruzione». Il problema, però, è che la pace non aiuta il Pil, cioè il grossolano indicatore convenzionale di crescita – crescita di tutto, compresi i veleni, i disastri, gli sprechi criminali. Lungi anche solo dall’ipotizzare un’economia non più fondata sulla crescita illimitata (non solo “impossibile” ma anche letale per la Terra) il professor Cowen, docente ultra-liberista della George Mason University, sostiene che il mondo di oggi non sia più visitato, come in passato, dalla favolosa opportunità rappresentata dal genocidio bellico.
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E’ la fine: si stanno comprando tutta l’acqua del mondo
Temete la morte per acqua, recitano i versi della “Terra desolata”. Ma certo Eliot non poteva immaginare di quale morte fosse ambasciatrice l’acqua del terzo millennio: morte dei diritti e della democrazia, fine dell’accesso universale alla risorsa più preziosa. E’ il capolavoro finale dell’élite mondiale: i nuovi oligarchi “rubano” l’acqua a intere popolazioni, confiscano terreni acquiferi, finanziarizzano l’oro blu per farne merce speculativa. E naturalmente ordinano ai politici di privatizzare l’acqua nazionale, facendo scomparire lo Stato come gestore dell’acqua pubblica. E’ una razzia colossale, mondiale, quella dell’acqua su cui allungano le grinfie le mega-banche di Wall Street e i baroni neo-feudali dell’economia. «L’acqua è il prossimo petrolio», ammette la Goldman Sachs, in buona compagnia: con lei Jp Morgan Chase, Citigroup, Ubs e Deutsche Bank, Barclays e Credit Suisse, Hsbc e Allianz. Tutti a caccia di acqua. Anche l’ex presidente Bush, il padre di George Walker, in Paraguay sta acquistando terreni che galleggiano sulle falde acquifere più grandi del mondo.Pochi ne parlano, ma lo scenario è sconvolgente, scrive Jo-Shing Yang in un lungo reportage su “Global Research”, il magazine geopolitico canadese. «Stanno comprando acqua in tutto il mondo, ad un ritmo senza precedenti». I boss della finanza planetaria, i maggiori gruppi d’investimento: ricchi magnati, da qualche anno “nuovi baroni dell’acqua”. Grazie alla “crisi” hanno accumulato immense fortune finanziarie, e ora le usano per dare la caccia a «falde acquifere, laghi, diritti di sfruttamento dell’acqua, servizi idrici, società d’ingegneria idraulica ed aziende tecnologiche in tutto il mondo». E mentre i “baroni” sono impegnati in questa inquietante “campagna acquisti”, «i governi stanno rapidamente muovendosi per limitare la capacità dei cittadini di diventare autosufficienti nell’approvvigionamento idrico», rileva Jo-Shing Yang. “Privatizzare” è il verbo neoliberista dell’Ue, così come degli Usa: lo Stato dell’Oregon è giunto a condannare un cittadino, Gary Harrington, per aver osato rendersi autonomo costruendo raccolte per l’acqua piovana.«Il miliardario T. Boone Pickens, ad esempio, può possedere più diritti di sfruttamento dell’acqua rispetto a qualsiasi altra persona in America (compreso il diritto a drenare 65 miliardi di galloni dalla falda acquifera di Ogallala), ma il cittadino Gary Harrington non può raccogliere le acque piovane sui 170 acri del suo terreno privato», protesta Yang, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. «E’ un Nuovo Ordine Mondiale veramente strano quello in cui i multimiliardari e le banche elitarie possono tranquillamente possedere falde acquifere e laghi, ma i cittadini comuni non possono nemmeno raccogliere l’acqua piovana nei propri cortili e nei propri terreni». Del resto, «l’acqua è il petrolio del 21° secolo», dichiara Andrew Liveris, ceo della Dow Chemical. «Wall Street – dichiara la Jp Morgan – appare ben consapevole delle opportunità d’investimento nelle infrastrutture per l’approvvigionamento idrico, nel trattamento delle acque reflue e nelle tecnologie per la gestione della domanda».«La vera storia del settore idrico globale è veramente contorta, e coinvolge il “capitale globalizzato interconnesso”», spiega l’analista di “Global Research”. «Wall Street e le società d’investimento globali, le banche e le altre imprese private – valicando i confini nazionali e collaborando fra loro, ma anche con le banche e gli hedge-funds, con le aziende tecnologiche e con i colossi assicurativi, con i fondi-pensione (pubblici e regionali) e con i fondi-sovrani – si stanno muovendo con molta rapidità non solo per acquistare i diritti di sfruttamento e le tecnologie di trattamento delle acque, ma anche per privatizzare i servizi idrici e le infrastrutture pubbliche». Ci siamo: nel corso del prossimo decennio, Wall Street si sta preparando a impossessarsi delle riserve idriche globali. A partire dal 2006, precisa Jo-Shing Yang, la sola Goldman Sachs ha accumulato più di 10 miliardi di dollari da investire nelle infrastrutture, comprese quelle idriche. Secondo il “New York Times”, i maggiori gruppi finanziari – dalla Morgan Stanley al Carlyle Group – hanno raccolto qualcosa come 250 miliardi di dollari da destinare a investimenti sulle infrastrutture-chiave.«Con il termine “acqua” – continua il ricercatore – intendo i diritti di sfruttamento (acque sotterranee, falde acquifere e fiumi), i terreni dotati di riserve d’acqua (ovvero laghi, stagni, sorgenti naturali o sotterranee), i progetti di desalinizzazione, le tecnologie per la depurazione e il trattamento delle acque, l’irrigazione e le tecnologie per la perforazione dei pozzi, i servizi idrici ed igienico-sanitari di pubblica utilità, la costruzione e la manutenzione delle infrastrutture idriche (condotti per il trasporto su grandi distanze e per la piccola distribuzione, impianti di depurazione per usi residenziali, commerciali, industriali e comunali), i servizi di ingegneria (progettazione e costruzione di impianti idrici), il settore della vendita al dettaglio (produzione e vendita di acqua in bottiglia, distributori automatici, trasporto di acqua in bottiglia e servizi di consegna, autobotti)». In pratica, tutta l’acqua del mondo (occidentale) sarà loro. Proprietà privata.Impressionante il primo dossier presentato già nel 2008 da “Global Research”. Per la Goldman Sachs, la merce-acqua vale 425 miliardi di dollari. Una penuria idrica sarebbe una minaccia molto più grave di una crisi energetica o alimentare. Quindi è venuto il momento di “investire” su un bene così prezioso, in vista di guadagni enormi: «La Goldman Sachs sta preparandosi a divorare aziende del servizio idrico, società d’ingegneria e risorse idriche in tutto il mondo». Veolia, Suez, Uk’s Southern Water: tutte le multi-utility dell’acqua sono nel mirino degli “investitori”, gli stessi che hanno fatto miliardi – inguaiando interi popoli – con i titoli-spazzatura della finanza-truffa. Fanno gola società come la China Water and Drinks, «da quando la Cina è diventata il paese asiatico coi più grossi problemi per le forniture d’acqua». A Reno, nel Nevada, la Goldman ha proposto di “privatizzare” per 50 anni l’acqua dello Stato, in difficoltà a causa del calo delle entrate fiscali. E’ il segno – apocalittico – della nuova éra: per Willem Buitler, capo-economista di Citigroup, «l’acqua (intesa come “asset”) diventerà la più importante commodity fisica, e farà impallidire petrolio, rame, materie prime agricole e metalli preziosi».La piovra dell’acqua non conosce limiti, include la fratturazione idraulica (il fracking), e si espande in tutto il mondo. Per Credit Suisse, l’acqua sta diventando «il principale mega-trend del nostro tempo». La Jp Morgan, controllata dalla famiglia Rockefeller e specializzata nell’allevare insider famosi (Tony Blair) per condizionare governanti (fino a Matteo Renzi) punta dritto all’acquisizione di infrastrutture pubbliche, mediante privatizzazioni. Risale al 2008 il report di 60 pagine intitolato “Watch Water: una guida per valutare i rischi aziendali in un mondo assetato”. Da Wall Street a Berlino: presente in 70 paesi, l’Allianz Group ritiene che l’acqua sia «sottovalutata e sottoprezzata». Per il Water Fund di Francoforte, l’acqua dovrà essere pagata molto di più, così da motivare “investimenti” anche in paesi come la Cina e l’India. Dalla Deusche Bank alla Merryll Lynch (poi Bank of America) sarà un affare d’oro anche l’acqua europea, una volta privatizzata in via definitiva.Fondi d’investimento, fondi pensione, fondi “sovrani”: tutti soci, per il business per secolo. Non mancano i grandi nomi di sempre, come Warren Buffett che s’è comprato la Nalco, società per il trattamento delle acque, e nuovi miliardari come Manuel Pangilinan, che dalle Filippine sta “prenotando” l’acqua del Vietnam. Dal canto suo, la famiglia Bush possiede terreni per quasi mezzo milione di acri in Paraguay, al confine con Brasile e Bolivia: terreni che sovrastano l’Acuifero Guaranì, cioè la più grande falda idrica del mondo, più grande del Texas e della California messi insieme, capace di rifornire tutto il mondo di acqua potabile per 200 anni. «La febbre per la privatizzazione dell’acqua e delle infrastrutture è inarrestabile», conclude Jo-Shing Yang: molti governi a corto di denaro stanno per cedere alle maxi-offerte milionarie della finanza. «Le élites multinazionali e le banche di Wall Street si sono preparate per anni in attesa di questo momento d’oro. Nel corso degli ultimi anni hanno accumulato imponenti war-chests per la privatizzazione dell’acqua, dei servizi comunali e delle “utilities” di tutto il mondo. Sarà estremamente difficile invertire questa tendenza».http://comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=13486Temete la morte per acqua, recitano i versi della “Terra desolata”. Ma certo Eliot non poteva immaginare di quale morte fosse ambasciatrice l’acqua del terzo millennio: morte dei diritti e della democrazia, fine dell’accesso universale alla risorsa più preziosa. E’ il capolavoro finale dell’élite mondiale: i nuovi oligarchi “rubano” l’acqua a intere popolazioni, confiscano terreni acquiferi, finanziarizzano l’oro blu per farne merce speculativa. E naturalmente ordinano ai politici di privatizzare l’acqua nazionale, facendo scomparire lo Stato come gestore dell’acqua pubblica. E’ una razzia colossale, mondiale, quella dell’acqua su cui allungano le grinfie le mega-banche di Wall Street e i baroni neo-feudali dell’economia. «L’acqua è il prossimo petrolio», ammette la Goldman Sachs, in buona compagnia: con lei Jp Morgan Chase, Citigroup, Ubs e Deutsche Bank, Barclays e Credit Suisse, Hsbc e Allianz. Tutti a caccia di acqua. Anche l’ex presidente Bush, il padre di George Walker, in Paraguay sta acquistando terreni che galleggiano sulle falde acquifere più grandi del mondo.
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Tribunale dei Popoli, la valle di Susa si appella al mondo
Sicuri che sia accettabile la legge imposta alla valle di Susa in nome dell’opaco business finanziario chiamato Tav? Sicuri che il trattamento inflitto alla popolazione sia conforme alle prescrizioni dei trattati internazionali? Nel silenzio delle autorità italiane – caduti nel vuoto tutti gli appelli alle istituzioni romane, da Palazzo Chigi al Quirinale – da oggi se ne occuperà il Tribunale Permanente dei Popoli, fondato nel 1979 su iniziativa del senatore Lelio Basso per tutelare i diritti delle genti calpestate dalla storia. L’appello degli amministratori valsusini, che si rivolge a questa prestigiosa tribuna internazionale di giuristi, è stato subito sottoscritto da personaggi mondiali di prima grandezza, da Dario Fo al brasiliano Leonardo Boff, fondatore della teologia della liberazione, dal profeta francese della decrescita Serge Latouche al regista cinematografico inglese Ken Loach, insieme a docenti universitari di tutto l’Occidente. Domanda: il mondo civile può accettare che una popolazione sia maltrattata per vent’anni e costretta a subire una maxi-opera completamente inutile, pericolosa e devastante per il territorio?A firmare l’esposto è Livio Pepino, già alto magistrato italiano, insieme a Sandro Plano, presidente della Comunità Montana, appena rieletto primo cittadino di Susa. Con loro i sindaci dei principali centri della valle, da Avigliana a Bussoleno. Tra i firmatari, celebrità internazionali come l’economista Riccardo Petrella e l’archeologo Salvatore Settis, combattenti per i diritti come Alex Zanotelli, grandi giornalisti del calibro di Paolo Rumiz. Insieme a nomi da sempre accanto alla battaglia civile della valle di Susa – dal professor Marco Revelli al climatologo Luca Mercalli – condividono l’appello al Tribunale dei Popoli la presidente di Emergency Cecilia Strada e popolari vignettisti come Ellekappa e Sergio Staino. Con la valle di Susa si schierano l’Associazione Nazionale Giuristi Democratici (avvocato Roberto Lamacchia), l’omologa International Association of Democratic Lawyers e la European Association of Lawyers for Democracy & World Human Rights. Aderiscono autorevolissimi magistrati: Domenico Gallo, consigliere presso la Corte di Cassazione, e Paolo Maddalena, vicepresidente emerito della Corte Costituzionale. Firma anche il giurista Giovanni Palombarini, già procuratore generale aggiunto della Cassazione.Mentre il movimento No-Tav è alla sbarra in seguito agli scontri con la polizia susseguitisi a partire dal 2011 a Chiomonte, sito dell’unico mini-cantiere finora attivato (solo una galleria esplorativa, nulla a che vedere con l’ipotetico traforo ferroviario), i media mainstream e la politica al potere evitano accuratamente, da vent’anni, di accettare la sfida democratica ingaggiata dai valsusini. I tecnici universitari scesi in campo accanto al movimento – centinaia di professori e ingegneri – dimostrano che la grande opera in progettazione è un attentato alla salute (rischio tumori, a causa delle polveri di amianto e uranio), una garanzia di devastazione del territorio (catastrofe abitativa e idrogeologica), un bagno di sangue per il debito pubblico italiano (almeno 20 miliardi di euro, mentre l’Ue ha appena dimezzato il già irrisorio contributo europeo). Sacrifici ritenuti intollerabili, soprattutto per una ragione: la linea Tav italo-francese, destinata alle merci, sarebbe completamente inutile.Il traffico lungo l’asse est-ovest è infatti crollato, e l’attuale linea internazionale valsusina che già collega Torino a Lione è praticamente deserta, nonostante l’Italia abbia recentemente speso 400 milioni di euro per migliorare la capacità del traforo del Fréjus. Il tunnel, tra Bardonecchia e Modane, oggi è in grado di accogliere treni con a bordo Tir e grandi container navali. Secondo la Svizzera, cui Bruxelles ha affidato il monitoraggio dei trasporti alpini, oggi la valle di Susa potrebbe incrementare del 900% il trasporto Italia-Francia. Perché costruire un inutile doppione, costosissimo e da vent’anni avversato dalla popolazione? A rendere particolarmente odiosa la grande opera più contestata d’Italia, il sospetto che l’ombra della mafia si allunghi sulle operazioni di cantiere: i No-Tav hanno inutilmente sottoposto al tribunale di Torino il corposo dossier del Ros inerente l’indagine “Minotauro” sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Piemonte. In base al lavoro antimafia dei carabinieri, i militanti denunciano collegamenti pericolosi tra le cosche del Canavese e alcune imprese coinvolte nei lavori di movimento terra in valle di Susa.Molti aspetti della crisi scoppiata attorno alla Torino-Lione vanno ben oltre la valle di Susa, sostengono i firmatari, che denunciano «questioni di evidente rilevanza generale»: dalle crescenti devastazioni ambientali, «lesive dei diritti fondamentali dei cittadini attuali e delle generazioni future», fino alla «drastica estromissione dalle relative scelte delle popolazioni», anche in violazione di trrattati internazionali come la Convenzione di Aarhus del 1998. Ecco il punto: la valle di Susa è «espressione e simbolo» del grande male odierno, cioè l’esproprio antidemocratico del futuro, sotto forma di «trasferimento a poteri economici e finanziari nazionali e internazionali di decisioni di primaria importanza per la vita di intere popolazioni». I firmatari segnalano «situazioni in cui la violazione dei diritti fondamentali di persone e popolazioni avviene in modo meno brutale di quanto accaduto in altre vicende prese in esame dal Tribunale», che si è occupato delle maggiori tragedie umanitarie, da Timor Est all’Afghanistan. Ma la valle di Susa segna «la nuova frontiera dei diritti a fronte di attacchi che mettono in pericolo lo stesso equilibrio (ecologico e democratico) del pianeta».Ne sono convinti attivisti internazionali di prima grandezza: dal boliviano Oscar Olivera, paladino dell’acqua di Cochabamba, premio Goldman per l’ambiente, alla canadese Laura Westra, presidente dell’Ecological Integrity Group. Con la valle di Susa anche l’olandese Rembrandt Zegers di Greepeace International, lo statunitense David Bollier (Commons Strategy Group per i beni comuni) e il messicano Gustavo Esteva, economista, fondatore dell’Universidad de la Tierra a Oaxaca. Imponente il parterre universitario italiano: Marco Aime (Genova), Gaetano Azzariti, Piero Bevilacqua e Gianni Ferrara (Roma), Luciano Gallino e Angelo Tartaglia (Torino), Tomaso Montanari (Napoli) e Danilo Zolo (Firenze). E poi universitari di mezzo mondo, uniti per la causa valsusina: Weston Burns (Iowa, Usa), Fritjof Capra e Herbert Walther (Vienna), Vito De Lucia (Norvegia), Ugo Mattei (California), Laura Nader (Berkeley), Simon Read (Londra) e Anna Grear (Waikato, Nuova Zelanda). Fortissima anche la presenza dei cattolici latinoamericani, che come Leonardo Boff si sono riavvicinati al Vaticano con il pontificato di Papa Francesco: firmano per la valle di Susa il domenicano brasiliano Frei Betto, il connazionale benedettino Marcelo Barros, celebre biblista e scrittore, e il teologo Waldemar Boff che in Brasile dirige “Água Doce Serviços Populares”.Sicuri che sia accettabile la legge imposta alla valle di Susa in nome dell’opaco business finanziario chiamato Tav? Sicuri che il trattamento inflitto alla popolazione sia conforme alle prescrizioni dei trattati internazionali? Nel silenzio delle autorità italiane – caduti nel vuoto tutti gli appelli alle istituzioni romane, da Palazzo Chigi al Quirinale – da oggi se ne occuperà il Tribunale Permanente dei Popoli, fondato nel 1979 su iniziativa del senatore Lelio Basso per tutelare i diritti delle genti calpestate dalla storia. L’appello degli amministratori valsusini, che si rivolge a questa prestigiosa tribuna internazionale di giuristi, è stato subito sottoscritto da personaggi mondiali di prima grandezza, da Dario Fo al brasiliano Leonardo Boff, fondatore della teologia della liberazione, dal profeta francese della decrescita Serge Latouche al regista cinematografico inglese Ken Loach, insieme a docenti universitari di tutto l’Occidente. Domanda: il mondo civile può accettare che una popolazione sia maltrattata per vent’anni e costretta a subire una maxi-opera completamente inutile, pericolosa e devastante per il territorio?
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Altre sanzioni, e addio dollaro: Mosca passa allo yuan
L’asse eurasiatico anti-dollaro sta rapidamente prendendo forma, accelerato dalla politica estera degli Usa in Ucraina: la crisi, osserva Tyler Durden, ha rapidamente spinto la Russia verso la Cina. Il “Financial Times” conferma che le imprese russe si stanno preparando a modificare i loro contratti per accettare pagamenti in renminbi e altre valute asiatiche, nel timore che le sanzioni occidentali possano congelare le loro spettanze una volta tagliate fuori dal mercato del dollaro. Lo conferma Pavel Teplukhin, capo della Deutsche Bank in Russia, mentre un altro super-banchiere come Andrej Kostin, ceo della banca di Stato russa Vtb, ammette che l’allargamento dell’uso di valute alternative al dollaro è uno dei loro «maggiori obiettivi», in vista del poderoso incremento dei volumi del commercio bilaterale con la Cina. Per i pagamenti, dunque, via libera al rublo e allo yuan. «Ci stiamo lavorando», conferma lo stesso Putin. E un altro banchiere europeo in Russia ammette: «Non c’è niente di sbagliato se la Russia vuol provare a ridurre la propria dipendenza dal dollaro».La notevole esposizione in dollari della Russia costringe Mosca ad un’estrema volatilità, pericolosa in tempi di crisi: «Non c’è ragione, per esempio, di pagare i conti in dollari se si commercia con il Giappone». L’amministratore delegato di una importante industria manufatturiera russa, che fattura le esportazioni per il 70% in dollari Usa, spiega che la sua azienda ha già fatto i passi opportuni per modificare la forma di pagamento dei suoi contratti anche in altre valute, nel caso di ulteriori sanzioni: «Se capitasse qualcosa, saremmo pronti ad accettare pagamenti anche in altre valute, per esempio in yuan o in dollari di Hong Kong e Singapore dalla Cina». Mentre i rapporti di Mosca con l’Unione Europea si vanno facendo sempre più tesi, scrive Durden in un post su “Come Don Chisciotte”, è evidente la svolta della Russia verso Pechino: non devono meravigliare gli attacchi improvvisi contro il valore del renmimbi, in vista del suo possibile futuro «come valuta di capitali russi».La domanda più importante: quanto peserà sulla tenuta della valuta cinese la maggiore domanda di yuan per pagare le importazioni russe? «Quello che non si vuol capire, ancora una volta – scrive Durden – è che la Russia sta servendo solamente l’aperitivo di quello che serviranno al G-20 gli altri paesi, molti dei quali sono veramente indispettiti per l’uso prepotente del potere di voto Usa al Fondo Monetario Internazionale». Questo, secondo l’analista, potrebbe portare ad accordi bilaterali che ogni paese potrebbe stipulare con la Cina: «Pratiche che comporterebbero una ulteriore de-dollarizzazione, permettendo al renminbi di diventare progressivamente ancora più importante sul palcoscenico mondiale». Secondo Teplukhin, le società russe sono già pronte ad affrontare il rischio di future sanzioni Usa con un semplice «cambio di clausola nei loro contratti, per permettere di cambiare la valuta di pagamento, ove necessario».Ma forse, continua Durden, è ancora più importante il prossimo passo accennato dal Cremlino: a Mosca c’è chi suggerisce a Putin di rispondere alle sanzioni occidentali con una «completa de-dollarizzazione» della propria economia. Per il momento, Putin valuta e prende tempo. «Fino a quando la Russia non sarà soggetta a sanzioni sistemiche, che potrebbero portare a dei limiti artificiali per la nostra economia nell’accesso al dollaro, non credo che faremo ulteriori passi per raggiungere una artificiosa de-dollarizzazione», dice Andrej Belousov, consigliere economico di Putin. In ogni caso, per Tyler Durden lo scenario è delineato: «Più l’Occidente insisterà con le sanzioni, più rapida sarà la caduta del dollaro americano». La Russia? Oggi «ha in mano la carta vincente», perché «se solo volesse mostrare al mondo che l’asse Russia-Cina non ha bisogno dei verdoni dello Zio Sam, le basterebbe essere appena più “aggressiva” in Ucraina e farsi appioppare altre sanzioni, in modo da essere “obbligata” a de-dollarizare un tantino di più. Poi la vedremmo risciacquarsi la bocca e sputare l’acqua sporca».L’asse eurasiatico anti-dollaro sta rapidamente prendendo forma, accelerato dalla politica estera degli Usa in Ucraina: la crisi, osserva Tyler Durden, ha rapidamente spinto la Russia verso la Cina. Il “Financial Times” conferma che le imprese russe si stanno preparando a modificare i loro contratti per accettare pagamenti in renminbi e altre valute asiatiche, nel timore che le sanzioni occidentali possano congelare le loro spettanze una volta tagliate fuori dal mercato del dollaro. Lo conferma Pavel Teplukhin, capo della Deutsche Bank in Russia, mentre un altro super-banchiere come Andrej Kostin, ceo della banca di Stato russa Vtb, ammette che l’allargamento dell’uso di valute alternative al dollaro è uno dei loro «maggiori obiettivi», in vista del poderoso incremento dei volumi del commercio bilaterale con la Cina. Per i pagamenti, dunque, via libera al rublo e allo yuan. «Ci stiamo lavorando», conferma lo stesso Putin. E un altro banchiere europeo in Russia ammette: «Non c’è niente di sbagliato se la Russia vuol provare a ridurre la propria dipendenza dal dollaro».
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L’Ue è un fallimento economico, l’Italia è ferma da 20 anni
Dopo mezzo secolo, il bilancio economico dell’Europa unita è fallimentare: solo un incremento del 5% dalla metà degli anni ‘50, secondo i dati raccolti da Andrea Boltho e Barry Eichengreen nel 2008, cioè prima dello scoppio della crisi finanziaria. Da allora al 2013, dopo cinque anni di recessione, il Pil dell’Eurozona non ha ancora recuperato il livello del 2007, segnala Perry Anderson. Quasi un quarto dei giovani europei sono disoccupati, in Spagna e in Grecia i dati sono catastrofici: 57 e 58%. E persino in Germania, il paese che spaccia come un successo l’aver accumulato surplus commerciale grazie al super-export, gli investimenti sono stati tra i più bassi delle economie del G7. Sempre in Germania, la percentuale di lavoratori a basso salario (quelli che guadagno meno di due terzi del reddito medio) è la più alta di ogni altro Stato dell’Europa occidentale. «Queste sono le più recenti letture dell’unione monetaria», sintetizza Anderson: «I medicastri dell’austerità hanno salassato il paziente, non l’hanno riportato alla salute».In questo scenario, il nostro paese è considerato il malato più grave. «Dall’introduzione della moneta unica – scrive Anderson su “Sinistra in rete” – l’Italia ha segnato il dato economico peggiore di ogni altro stato dell’Unione: vent’anni di stagnazione virtualmente ininterrotta a un tasso di crescita ben inferiore a quello di Grecia o Spagna». Il debito pubblico italiano è superiore al 130% del Pil. E l’Italia non è certo un paese periferico: è uno dei sei membri fondatori, negli anni ‘80 membro del G7 e quinta potenza industriale del mondo. Tuttora, l’Italia è seconda in Europa – dopo la Germania – per industria manifatturiera ed esportazioni. Le emissioni del Tesoro italiano costituiscono il terzo maggiore mercato di titoli sovrani del mondo. Attenzione: quasi metà del debito pubblico italiano è detenuto all’estero: il dato paragonabile del Giappone è inferiore al 10%. «Nella sua combinazione di peso e di fragilità, l’Italia è il vero anello debole della Ue, dove questa potrebbe teoricamente spezzarsi».Proprio per evitare il tracollo finale dell’Italia – che metterebbe fine alla stessa Unione Europea – secondo Anderson è possibile che Renzi abbia qualche chance: Bruxelles potrebbe concedere qualche sconto sul rapporto deficit-Pil in cambio delle “riforme” neoliberiste promesse, che – tra flessibilità sul lavoro, nuova legge elettorale e nuova ondata di privatizzazioni – assottigliano ulteriormente il già esile margine di residua sovranità nazionale. «L’Italia non è un membro ordinario dell’Unione – conclude Anderson – ma non è neppure deviante da qualsiasi standard cui potrebbe essere riferito. C’è un’espressione consacrata per descrivere la sua posizione, molto usata dentro e fuori dal paese, ma è sbagliata. L’Italia non è un’anomalia in Europa. E’ molto più prossima a esserne un concentrato».Dopo mezzo secolo, il bilancio economico dell’Europa unita è fallimentare: solo un incremento del 5% dalla metà degli anni ‘50, secondo i dati raccolti da Andrea Boltho e Barry Eichengreen nel 2008, cioè prima dello scoppio della crisi finanziaria. Da allora al 2013, dopo cinque anni di recessione, il Pil dell’Eurozona non ha ancora recuperato il livello del 2007, segnala Perry Anderson. Quasi un quarto dei giovani europei sono disoccupati, in Spagna e in Grecia i dati sono catastrofici: 57 e 58%. E persino in Germania, il paese che spaccia come un successo l’aver accumulato surplus commerciale grazie al super-export, gli investimenti sono stati tra i più bassi delle economie del G7. Sempre in Germania, la percentuale di lavoratori a basso salario (quelli che guadagno meno di due terzi del reddito medio) è la più alta di ogni altro Stato dell’Europa occidentale. «Queste sono le più recenti letture dell’unione monetaria», sintetizza Anderson: «I medicastri dell’austerità hanno salassato il paziente, non l’hanno riportato alla salute».
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Jp Morgan ringrazia Renzi e gli ingenui elettori italiani
In nessun altro paese europeo il ceto politico soffre di una particolare condizione di debolezza che invece registriamo in Italia, ossia la dipendenza strutturale dalle sorti di una sola persona: Matteo Renzi. «Se Renzi fosse risultato sconfitto alle urne – scrive Claudio Martini – il ceto politico sarebbe rimasto decapitato, diffondendo il caos nelle file della classe politica e minando alle fondamenta il complesso dell’euro». Si era aperta anche in Italia una finestra di opportunità per sbarazzarsi della casta politica, ma quella finestra ora si è bruscamente chiusa: «L’Europa si trovava ad un bivio, il 25 maggio: in Italia avrebbe trovato il proprio rilancio o la propria crisi. Sappiamo come è andata». I primi a festeggiare, manco a dirlo, sono gli analisti dell’ufficio studi della Jp Morgan, quelli secondo cui la nostra Costituzione antifascista che difende il lavoro è da buttare via. Ha vinto il loro uomo: dicono che il trionfo di Matteo renderà l’Italia più forte a livello europeo, e più stabile l’Unione nel suo complesso.«Il Pd di Renzi è stato il soggetto politico più votato in Europa, in termini assoluti», ricorda Martini in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”: il partito già di Veltroni, D’Alema e Bersani ha avuto 11 milioni e centomila suffragi contro i 10 milioni e trecentomila della portaerei di Angela Merkel, la Cdu-Csu. In termini percentuali è stato superato solo dall’ungherese “Fidesz” di Viktor Orbàn (51%), ultra-nazionalista e non certo europeista. In perfetta controtendenza rispetto al resto d’Europa, il Pd stravince pur essendo pro-Bruxelles e trovandosi al governo. «Le forze politiche “sistemiche”, in primo luogo quelle riconducibili alle famiglie del Pse e del Ppe, sono naufragate in molti importanti contesti nazionali», aggiunge Martini. Si ritrovano sotto shock in Grecia, in Francia, nel Regno Unito e in Spagna. Ovunque raccolgono consenso liste anti-euro o almeno euroscettiche.«Apparentemente si è trattato di una generale débacle dei partiti socialisti – e il desolante risultato elettorale del Ps di Hollande sembra eloquente in tal senso». Eppure, a ben vedere, il risultato europeo potrebbe rivelarsi una grande vittoria del programma politico della socialdemocrazia europeista, forte del nuovo asse tra la Spd tedesca e il nuovo Pd renziano. «Entrambi i soggetti avevano e hanno una reciproca convenienza a collaborare: Martin Schulz contava molto sul successo elettorale del Pd per ottenere un buon risultato del Pse all’Europarlamento; a Renzi serviva un alleato a Berlino per assicurarsi che la Germania avrebbe dato il proprio consenso ad un allentamento dei parametri europei. Tutti e due condividevano il medesimo progetto politico: salvare l’euro e l’Unione Europea mediante un progressivo smantellamento dell’austerità sul piano continentale, e proseguire lungo il percorso dell’accentramento di poteri e competenze presso le istituzioni europee (essenzialmente Commissione e Bce). E ora hanno vinto», per la gioia dei super-banchieri mondiali, tifosi delle grandi privatizzazioni.«Già nel corso del 2011-2012 – continua Martini – il ceto politico-tecnocratico italiano, con Draghi e Monti, riuscì nell’impresa di salvare l’Eurozona dalla dissoluzione. Facendo sudare sangue agli italiani, questo ceto riuscì a imporre una propria leadership nello scenario europeo. L’esito delle elezioni del 2013 mandò all’aria molti piani, e per circa un anno l’Italia non ha preso iniziative importanti in ambito Ue». Dopo le elezioni europee, «considerando che Londra ha già un piede fuori dall’Unione (e Hollande li ha entrambi nell’immondezzaio della storia)», c’è già chi parla di nuovo asse Roma-Berlino, mentre Draghi promette una svolta monetaria espansiva e anti-deflazione, suggellata dalla presidenza italiana del “semestre europeo”. Vecchia storia: «Il ceto politico italiano è intimamente convinto di non poter esercitare alcuna influenza, a livello globale, al di fuori del perimetro del progetto europeista. Questa è la grande differenza con gli establishment degli altri paesi dell’Europa Occidentale».In nessun altro paese europeo il ceto politico soffre di una particolare condizione di debolezza che invece registriamo in Italia, ossia la dipendenza strutturale dalle sorti di una sola persona: Matteo Renzi. «Se Renzi fosse risultato sconfitto alle urne – scrive Claudio Martini – il ceto politico sarebbe rimasto decapitato, diffondendo il caos nelle file della classe politica e minando alle fondamenta il complesso dell’euro». Si era aperta anche in Italia una finestra di opportunità per sbarazzarsi della casta politica, ma quella finestra ora si è bruscamente chiusa: «L’Europa si trovava ad un bivio, il 25 maggio: in Italia avrebbe trovato il proprio rilancio o la propria crisi. Sappiamo come è andata». I primi a festeggiare, manco a dirlo, sono gli analisti dell’ufficio studi della Jp Morgan, quelli secondo cui la nostra Costituzione antifascista che difende il lavoro è da buttare via. Ha vinto il loro uomo: dicono che il trionfo di Matteo renderà l’Italia più forte a livello europeo, e più stabile l’Unione nel suo complesso.
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I leader Ue sono marci: tangenti da 120 miliardi l’anno
L’Europa è malata. Quanto gravemente è questione non sempre facile da giudicare. Ma tra i sintomi ce ne sono tre di cospicui, e interrelati. Il primo, e più familiare, è la svolta degenerativa della democrazia in tutto il continente, di cui la struttura della Ue è a un tempo la causa e la conseguenza. Lo stampo oligarchico delle sue scelte costituzionali, a suo tempo concepite come impalcatura di una sovranità popolare a venire di scala sovranazionale, nel tempo si è costantemente rafforzato. I referendum sono regolarmente sovvertiti se intralciano la volontà dei governanti. Gli elettori le cui idee sono disdegnate dalle élite rigettano i governi che nominalmente li rappresentano, l’affluenza alle urne cala di elezione in elezione. Burocrati che non sono mai stati eletti controllano i bilanci dei parlamenti nazionali espropriati del potere di spesa. All’involuzione generalizzata si è accompagnata una corruzione pervasiva della classe politica, argomento su cui le scienze politiche, parecchio loquaci a proposito di quello che nel linguaggio dei contabili è definito il deficit democratico dell’Unione, solitamente tacciono.Le forme di tale corruzione devono ancora trovare una tassonomia sistematica. C’è la corruzione pre-elettorale: il finanziamento di persone e partiti da fonti illegali – o legali – contro la promessa, esplicita o tacita, di futuri favori. C’è la corruzione post-elettorale: l’uso delle cariche per ottenere fondi mediante malversazioni sulle entrate o mazzette sui contratti. C’è l’acquisto di voci o voti nei parlamenti. C’è il furto puro e semplice dalle casse pubbliche. C’è la falsificazione di credenziali per vantaggi politici. C’è l’arricchimento dalla carica pubblica dopo l’evento, così come durante o prima di esso. Il panorama di questa malavita è impressionante. Un affresco di esso potrebbe cominciare con Helmut Kohl, governante della Germania per sedici anni, che accumulò due milioni di marchi di fondi neri da donatori illegali i cui nomi, quando fu denunciato, rifiutò di rivelare per timore che venissero alla luce i favori che aveva fatto loro. Oltre il Reno, Jacques Chirac, presidente della Repubblica Francese per dodici anni, fu condannato per appropriazione di fondi pubblici, abuso di ufficio e conflitti d’interesse, una volta caduta l’immunità. Nessuno dei due ha subito pene. Questi erano due dei più potenti politici dell’epoca in Europa.In Germania il governo di Gerhard Schroeder garantì un prestito da un miliardo di euro alla Gazprom per la costruzione di un gasdotto sul baltico poche settimane prima che egli si dimettesse da cancelliere e andasse a libro paga della Gazprom con uno stipendio maggiore di quello che aveva ricevuto governando il paese. Dopo la sua partenza, Angela Merkel ha visto due presidenti della repubblica, uno dietro l’altro, costretti a dimettersi da screditati: Horst Koehler, ex capo del Fmi, per aver spiegato che il contingente della Bundeswehr in Afghanistan stava proteggendo interessi commerciali tedeschi; e Christian Wulff, ex capo cristiano-democratico della Bassa Sassonia, per un prestito discutibile ricevuto da un affarista amico per la sua casa. Due ministri eminenti, uno della difesa e l’altro dell’istruzione, hanno dovuto andarsene quando sono stati privati dei loro dottorati – una credenziale importante per una carriera politica nella Repubblica Federale – per violazione dei diritti di proprietà intellettuale. Quando il secondo, Annette Schavan, un’intima amica della Merkel (che aveva manifestato piena fiducia in lei) era ancora in carica, il “Bild Zeitung” ha osservato che avere un ministro dell’istruzione che aveva falsificato le sue ricerche era come avere un ministro delle finanze con un conto segreto in Svizzera.In Francia il ministro socialista del bilancio, il chirurgo plastico Jérôme Cahuzac, la cui direttiva era di difendere la probità e l’equità fiscale, è stato scoperto detenere qualcosa tra i 600.000 e i 15 milioni di euro in depositi segreti in Svizzera e a Singapore. Nicolas Sarkozy, nel frattempo, è accusato da testimoni concordi di aver ricevuto circa 20 milioni di dollari da Gheddafi per la campagna elettorale che lo portò alla presidenza. Christine Lagarde, il suo ministro delle finanze, che oggi dirige il Fmi, è sotto inchiesta per il suo ruolo nella concessione di 420 milioni di dollari di ‘risarcimento’ a Bernard Tapie, un ben noto truffatore con un passato in carcere, negli ultimi tempi amico di Sarkozy. Contiguità disinvolta con la criminalità è bipartisan. François Hollande, attuale presidente della repubblica, usava come pied-à-terre per gli incontri con la sua amante un appartamento della donna di un gangster corso, ucciso l’anno scorso in una sparatoria sull’isola.In Gran Bretagna, circa nello stesso periodo, l’ex premier Blair consigliava a Rebekah Brooks, che rischiava il carcere per cinque accuse di cospirazione criminale («Sii forte e prendi pastiglie per dormire. Passerà») e la sollecitava a «pubblicare un rapporto in stile Hutton», come aveva fatto lui per sterilizzare qualsiasi parte il suo governo potesse aver avuto nella morte di una fonte interna che aveva fatto rivelazioni sulla sua guerra in Iraq: un’invasione dalla quale ha poi proseguito a raccogliere – naturalmente per la sua Fondazione Faith – mance e contratti assortiti in giro per il mondo, considerevoli fondi in contanti da una compagnia petrolifera della Corea del Sud gestita da un delinquente condannato con interessi in Iraq e presso la dinastia feudale del Kuwait. Quali ricompense possa essersi guadagnato più a est resta da vedere («I progressi del Kazakistan sono splendidi. Comunque, signor Presidente, lei ha toccato nuovi vertici nel suo messaggio alla nazione». Alla lettera.).In patria, in uno scambio di favori a proposito dei quali ha mentito compuntamente al Parlamento, le sue mani sono state unte da un milione di sterline versate alle casse del partito dal magnate delle corse automobilistiche Bernie Ecclestone, attualmente sotto giudizio in Baviera per tangenti al ritmo di 33 milioni di euro. Nella cultura del New Labour, figure di spicco della cerchia di Blair, ministri di gabinetto un tempo – Byers, Hoon, Hewitt – non sono stati in grado di offrirsi in vendita al successore. Negli stessi anni, indipendentemente dal partito, la Camera dei Comuni è stata denunciata come un pozzo nero di meschine malversazioni di denaro dei contribuenti. In Irlanda, contemporaneamente, il leader del Fianna Fàil, Bertie Ahern, avendo canalizzato più di 400.000 euro di pagamenti non spiegati prima di diventare “taioseach”, si è votato lo stipendio più elevato di qualsiasi premier in Europa – 310.000 euro, più persino del presidente degli Stati Uniti – un anno prima di doversene andare con disonore per assoluta disonestà.In Spagna l’attuale primo ministro, Mariano Rajoy, alla guida di un governo di destra, è stato colto con le mani nel sacco mentre riceveva mazzette per contratti di costruzione e di altro genere per un totale di un quarto di milione di euro nel giro di un decennio, passategli da Luis Bàrcenas. Tesoriere del suo partito per vent’anni, Bàrcenas è oggi sotto arresto per aver accumulato un tesoro di 48 milioni di euro in conti svizzeri non dichiarati. I libri mastri, compilati a mano, contenenti i dettagli dei suoi versamenti a Rajoy e ad altri notabili del Partito del Popolo – tra cui Rodrigo Rato, altro ex capo del Fmi – sono apparsi in facsimile in abbondanza sulla stampa spagnola. Una volta scoppiato lo scandalo Rajoy ha inviato a Bàrcenas un messaggio con parole virtualmente identiche a quelle di Blair alla Brooks: «Luis, io capisco. Resta forte. Ti chiamerò domani. Un abbraccio». Pur con uno scandalo in cui l’85% del pubblico spagnolo ritiene che egli menta, resta incollato alla poltrona nel Palazzo della Moncloa.In Grecia, Akis Thochatzopoulos, del Pasok – ministro, in successione, dell’interno, della difesa e dello sviluppo – in un’occasione arrivato a un soffio dalla guida della socialdemocrazia greca, è stato meno fortunato: condannato l’autunno scorso a vent’anni di carcere per una formidabile carriera di estorsioni e di riciclaggi di denaro sporco. Oltre il mare Tayyip Erdogan, a lungo celebrato dai media e dall’establishment intellettuale dell’Europa come il più grande statista democratico della Turchia, la cui condotta ha virtualmente dato al paese il titolo di membro onorario della Ue ante diem, ha dimostrato di essere meritevole di essere incluso nei ranghi della dirigenza europea in un altro modo: in una conversazione registrata in cui dava al figlio istruzioni su dove nascondere decine di milioni in contanti, in un’altra in cui alzava il prezzo di una robusta tangente su un contratto di costruzioni. Tre ministri del governo sono caduti dopo scoperte analoghe, prima che Erdogan purgasse le forze della polizia e della magistratura per assicurarsi che non si spingessero oltre.Mentre egli faceva questo la Commissione Europea ha pubblicato il suo primo rapporto ufficiale sulla corruzione nell’Unione, la cui dimensione il commissario autore del rapporto l’ha descritta come “mozzafiato”: secondo una stima prudente, costa alla Ue quanto l’intero bilancio dell’Unione, circa 120 miliardi l’anno, ma la cifra reale è «probabilmente molto più alta». Prudentemente il rapporto si è occupato solo degli stati membri. La stessa Ue, la cui intera Commissione fu costretta in tempi non lontani a dimettersi screditata, è stata esclusa (la Commissione Santer fu costretta a dimettersi nel 1999 per accuse di corruzione contro alcuni suoi membri). Diffuso in un’Unione che si presenta come tutore morale del mondo, l’inquinamento del potere ad opera del denaro e della frode deriva dallo svuotamento di sostanza o dalla caduta del coinvolgimento nella democrazia. Le élite, liberate sia da una reale divisione in alto sia da un significativo dovere di rispondere in basso, possono permettersi di arricchirsi alla follia e impunite. La denuncia cessa di contare molto, poiché l’impunità diviene la regola. Come i banchieri, i politici di spicco non finiscono in carcere.Ma la corruzione non è solo una funzione del declino dell’ordine politico. E’ anche, ovviamente, un sintomo del regime economico che si è impossessato dell’Europa a partire dagli anni ’80. In un universo neoliberista dove i mercati sono il metro del valore, il denaro diventa, più platealmente che mai, la misura di tutte le cose. Se ospedali, scuole e carceri possono essere privatizzati a fini di profitto delle imprese, perché non anche le cariche politiche? Oltre alla ricaduta culturale del neoliberismo, tuttavia, vi è l’impatto del sistema socio-economico, la terza e, nell’esperienza del popolo, di gran lunga più acuta delle malarie che affliggono l’Europa. Che la crisi economica scatenate in occidente nel 2008 sia stata il risultato di decenni di liberalizzazioni nel settore finanziario e di espansione del credito lo ammettono, più o meno, i loro stessi architetti; si veda Alan Greenspan. Collegate oltre Atlantico, le banche e le attività immobiliari europee erano già coinvolte nel disastro tanto quanto le loro omologhe statunitensi. Nella Ue, tuttavia, questa crisi generale è stata aggravata da un altro fattore peculiare dell’Unione, le distorsioni create dalla moneta unica imposta a economie nazionali molto diverse tra loro, spingendo le più vulnerabili di esse sull’orlo della bancarotta quando sono state colpite dalla crisi generale.(Perry Anderson, estratto dall’intervento “Il disastro italiano”, pubblicato da “Sinistra in rete” il 29 maggio 2014).L’Europa è malata. Quanto gravemente è questione non sempre facile da giudicare. Ma tra i sintomi ce ne sono tre di cospicui, e interrelati. Il primo, e più familiare, è la svolta degenerativa della democrazia in tutto il continente, di cui la struttura della Ue è a un tempo la causa e la conseguenza. Lo stampo oligarchico delle sue scelte costituzionali, a suo tempo concepite come impalcatura di una sovranità popolare a venire di scala sovranazionale, nel tempo si è costantemente rafforzato. I referendum sono regolarmente sovvertiti se intralciano la volontà dei governanti. Gli elettori le cui idee sono disdegnate dalle élite rigettano i governi che nominalmente li rappresentano, l’affluenza alle urne cala di elezione in elezione. Burocrati che non sono mai stati eletti controllano i bilanci dei parlamenti nazionali espropriati del potere di spesa. All’involuzione generalizzata si è accompagnata una corruzione pervasiva della classe politica, argomento su cui le scienze politiche, parecchio loquaci a proposito di quello che nel linguaggio dei contabili è definito il deficit democratico dell’Unione, solitamente tacciono.