Archivio del Tag ‘New York’
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La droga gestita della Cia, uno strumento di politica globale
Sulla scia della Seconda Guerra mondiale, le élite politiche statunitensi e britanniche si ritrovarono ad affrontare la minaccia del socialismo su scala globale. Nonostante le incombenti perplessità circa il futuro, decisero di reagire mobilitando risorse – pubbliche e nascoste – al fine di implementare un programma di “Roll Back” atto a invertire l’avanzata comunista mondiale. Un vero e proprio blocco sulla strada della mobilitazione anti-comunista era rappresentato dal fatto che la maggior parte della popolazione statunitense era diffidente verso un progetto di politica estera di così ampia portata. Per lo statunitense medio il mondo era rappresentato unicamente dall’America del Nord e l’interesse per la politica estera era minimo. A causa di questo radicato isolazionismo, negli Stati Uniti, agli esordi della Guerra Fredda, spese governative ingenti nella politica estera erano fuori questione. Inoltre la Cia, principale fonte economica nel reame della politica estera americana, rappresentava, per la maggioranza degli americani nell’epoca post-bellica, un’agenzia come un’altra, mentre in realtà questa stava diventando un protagonista chiave. Pur perseguendo l’impegno di portare a termine massicce operazioni mondiali, la Cia chiese alla Casa Bianca una licenza per inserirsi in fonti di finanziamento alternativi.La droga figurava come il business più remunerativo tra quelli più noti. La natura criminale del business dettava quindi le regole del gioco. Mentre alcuni dei guadagni erano effettivamente utilizzati a supporto di operazioni sotto copertura, altri erano deviati verso l’arricchimento personale di agenti e dirigenti dell’agenzia, oppure rimanevano nelle mani di gruppi finanziari con potere di lobby nell’amministrazione statunitense. Di conseguenza, la complicità nel business della droga iniziò a diffondersi verso il livello più alto dell’establishment nordamericano… Il primo caso rappresentante le connessioni tra la Cia e il business della droga risalgono al 1947, anno in cui Washington, preoccupata dell’ascesa del movimento comunista nella Francia post-bellica, si associò con la nota e spietata mafia corsa nella lotta contro la sinistra. Dal momento che il denaro non poteva essere riversato nella sgradevole alleanza attraverso canali ufficiali, una grossa fabbrica di eroina venne istituita a Marsiglia con l’assistenza della Cia, che alimentava l’affare. L’iniziativa imprenditoriale impiegava abitanti del posto, mentre la Cia organizzava il ciclo degli approvvigionamenti, ed il terrore fisico e psicologico contro i comunisti in Francia alfine impedì loro di raggiungere il potere.Successivamente lo schema adottato è stato replicato nel mondo. All’inizio degli anni ’50 la Cia dirigeva un network di fabbriche di eroina nel Sud Est Asiatico e con parte dei guadagni sosteneva Chiang Kai-shek, che combatteva contro la Cina comunista. La Cia iniziò quindi a patrocinare il regime militare in Laos, rafforzando i propri legami nella regione del Triangolo d’Oro comprendente Laos, Thailandia e Birmania, paesi che hanno contribuito per il 70% della fornitura globale di oppio. La maggior parte della merce era diretta a Marsiglia e in Sicilia per il trattamento effettuato dalle fabbriche gestite dalla mafia corsa e siciliana. In Sicilia, l’associazione criminale che gestiva diverse fabbriche di droga era stata fondata da Lucky Luciano, un gangster americano nato in Italia e rideportatovi dopo la Seconda Guerra Mondiale. Le informazioni non classificate non lasciano alcun dubbio circa il lavoro che Luciano svolgeva per l’intelligence americana. L’uomo è stato, senza grosse motivazioni, rilasciato dalla prigione americana nel 1946 prima di aver scontato la sua condanna; l’associazione criminale italiana che operava sotto il controllo statunitense condivideva i guadagni con i patroni americani, i quali utilizzavano il denaro per portare avanti una guerra segreta contro il partito comunista italiano.La Cia continuò a prelevare denaro dal Triangolo d’Oro durante la Guerra del Vietnam. La droga proveniente da questa regione veniva trafficata illegalmente negli Stati Uniti e distribuita a basi militari americane all’estero. Ne deriva che molti dei veterani della Guerra del Vietnam sono rimasti segnati non solo dalla guerra, ma anche dall’uso di narcotici. Le attività legate al traffico della droga portate avanti dalla Cia dovevano rimanere segrete, ma evitare di venire a conoscenza di azioni così gravi era difficile. Uno scandalo enorme scoppiò infatti negli anni ’80 coinvolgendo la banca Nugan Hand di Sydney, con filiali registrate alle isole Cayman, e il precedente direttore della Cia William Colby avente funzione di consigliere legale. La Cia ha utilizzato la suddetta banca per operazioni di riciclaggio di denaro sporco nella gestione dei proventi derivanti dal traffico di droga e armi in Indocina. La geografia dei traffici di droga appoggiati dalla Cia si ampliò costantemente. Negli anni ’80, lo scambio “armi per droga” è stato replicato per finanziare i Contras del Nicaragua; ma dopo essere stato scoperto, il Comitato delle relazioni estere del Senato americano ha dovuto aprire un’inchiesta. Una frase del rapporto del Senato sul famoso accadimento affermava: «I decisori statunitensi non erano immuni all’idea che i soldi della droga fossero una soluzione ideale al problema del finanziamento del Contras».Questa dichiarazione, in linea generale, potrebbe dimostrare che le attività della Cia erano strettamente collegate alla politica estera americana. Il business della Cia nel narcotraffico si è diffuso senza precedenti quando gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica entrarono indirettamente in conflitto in Afghanistan. La comunità dell’intelligence americana finanziò generosamente i Mujahiddin, in parte con i soldi derivanti dal narcotraffico. Gli aerei statunitensi che consegnavano armi alla nazione rientravano carichi di eroina. Secondo giudizi indipendenti, all’epoca, circa il 50% del consumo di eroina negli Stati Uniti proveniva dall’Afghanistan. “La mafia, la Cia e George Bush” di Pete Brewton (New York: S.P.I. Books, 1992) offre una serie di dati concreti che provano i legami esistenti tra il direttore della Cia e il presidente americano Bush e la mafia. Lo stesso presidente, in certe fasi della sua carriera, combinò la propria funzione pubblica con la politica e il business della droga. L’establishment americano ha concluso che la droga, oltre ad essere stata impiegata per circostanze politiche, potrebbe tornare utile nel raggiungimento di obiettivi geopolitici di lungo termine.Quando Paul Brenner divenne capo di Baghdad con un’autorità che nemmeno Saddam Hussein si sognava, non fece alcun tentativo per innalzare una barriera contro l’ondata del narcotraffico che travolse l’Iraq. Inoltre è importate notare che il business della droga, durante il governo di Saddam, era un problema inesistente nel paese. «Questa è la panacea di ogni rivolta. Drogateli, rendeteli dipendenti come pesci affamati. In seguito, dopo aver preso il controllo della loro radio e televisione, storditeli con la propaganda». Baghdad, la città che non aveva mai visto l’eroina fino a marzo del 2003, ora è sommersa di stupefacenti, inclusa l’eroina. Secondo un rapporto pubblicato dal giornale “The Indipendent” di Londra, i cittadini di Baghdad si lamentavano che la droga, come l’eroina e la cocaina, erano smerciate per le strade delle metropoli irachene. «Alcune relazioni suggeriscono che il traffico di droga e armi era sostenuto dalla Cia, al fine di finanziare le sue operazioni segrete internazionali», scrive Brenda Stardom. Nel suo rapporto, un abitante di Baghdad spiegava: «Saresti stato impiccato, per il traffico di droga. Ma ora si può ottenere eroina, cocaina, qualsiasi cosa». I civili tossicodipendenti non hanno nessuna volontà di resistere, mentre la trionfante Washington, che ottenne le risorse del paese, è incurante del fatto che questa gente è condannata all’estinzione.L’operazione anti-terroristica lanciata immediatamente dopo il dramma dell’11 Settembre è giunta a conclusione in Afghanistan 11 anni dopo. Washington tratta la questione come un successo, ma evitare l’opinione pubblica genera gravi effetti collaterali. L’Afghanistan è stato abbandonato in uno stato di distruzione, con interi villaggi annientati, migliaia di persone decedute, prigionieri, campi di concentramento e rifugiati in tutto il paese. Sconfiggere il business della droga era l’obiettivo più pubblicizzato dell’intera “guerra al terrore” americana, ma il risultato e gli obiettivi della campagna erano completamente diversi. Nelle mani della coalizione occidentale, l’Afghanistan si è trasformato nel principale produttore mondiale di droga. Gli Usa e il business della droga si sono intrecciati sin dalla fine del secondo conflitto mondiale. Per Washington, la droga è stata a lungo un elemento strutturale della politica estera, oltre all’enorme mercato nero mondiale che alimenta l’economia “legittima” dell’Occidente… Un dollaro destinato al commercio della droga rende fino a 12.000 dollari, nella migliore delle ipotesi. Il costo dell’eroina afghana aumenta nettamente man mano che ci si sposta a nord del paese – in Pakistan ammonta a circa 650 dollari al chilo, 1.200 in Kyrgyzstan, raggiungendo i 70 dollari al grammo nella città di Mosca. Un chilo di eroina equivale a 200.000 dosi, e una dipendenza disperata inizia dopo 3 o 4 dosi.Il capitale “legittimo” sarebbe temporaneamente insostenibile senza il trascinante mercato nero globale. Entrambi i componenti dell’economia mondiale sono incentrati sugli Stati Uniti. Washington è consapevole che la produzione di droga può essere messa in atto solo dopo aver soddisfatto il requisito principale, cioè che gli utili finali non creino un effetto a cascata sul produttore. Diversamente, il mercato nero si sgretolerebbe all’istante. La mafia che gestisce il traffico di droga “in linea” riesce ad ottenere il 90% dei ricavi dall’eroina. Accanto ad altri soggetti coinvolti nel traffico, coloro che lavorano la materia prima ricevono il 2% del guadagno, gli agricoltori di papavero il 6% e i commercianti di oppio il 2%. La produttività del mercato nero utilizza anche aree coltivate a prezzi marginali. Promuovere un conflitto armato nella zona agricola è il modo più semplice per attenuare i costi richiesti dagli agricoltori, considerando che le armi sono la merce con più alto valore equivalente. La formula è che più sanguinoso è il conflitto e più alti sono i ricavi dalle vendite di armi e droga. L’instabilità, associata al controllo del disordine, rappresenta il motore del mercato nero. I due fattori armonizzano la domanda e l’offerta, tuttavia per assottigliare i costi e non avere difficoltà occorre diffondere aspirazioni separatiste. Il comandante della situazione dovrebbe impegnarsi con gruppi etnici, clan o fazioni religiose piuttosto che con enti statali.L’Afghanistan ha distribuito un totale di circa 50 tonnellate di oppio durante la metà degli anni ’80, ma la cifra è balzata a 600 tonnellate entro il 1990, un anno dopo il ritiro dei sovietici. Dopo aver sequestrato il 90% del territorio afgano e preso controllo della coltivazione di papavero locale, i Talebani si sono scrollati di dosso la presa della Cia e del Dipartimento di Stato americano, causando la perdita della quota statunitense dei circa 130 miliardi di dollari di profitto che la mafia poteva ottenere se le forniture venivano incanalate con successo in Asia centrale. Riprendere il controllo della produzione di eroina dal potere dei Talebani era l’obiettivo fondamentale dietro la campagna statunitense in Afghanistan. Al momento la missione è compiuta, gran parte dell’eroina viene acquistata e trasmessa dalla Cia e dal Pentagono ad altri paesi. Dopo aver costruito le basi militari in Kyrgyzstan, Uzbekistan e Tagikistan e insediato il governo di Hamid Karzai, Washington ha aperto nuove rotte di approvvigionamento, eliminando i concorrenti e facendo sì che la capacità degli stabilimenti di trasformazione dell’oppio in eroina non siano mai privi di lavoro. Al momento, l’Afghanistan rappresenta il 75% del mercato globale di eroina, l’80% del mercato europeo e il 35% del mercato statunitense. Circa il 65% del rifornimento di droga dell’Afghanistan attraversa l’Asia centrale post-sovietica, e anche se questa disposizione sarà leggermente modificata, il traffico persisterà anche dopo il ritiro della coalizione occidentale dall’Afghanistan.L’alleanza criminale tra la Cia e i Talebani è un fatto noto e non svanirà. Attualmente, i gruppi criminali albanesi del Kosovo possiedono un ruolo di primo piano nel commercio internazionale della droga. L’indipendenza del Kosovo dalla Serbia ha permesso agli Stati Uniti di pianificare un nuovo punto di appoggio per il business della droga, con particolare riguardo all’Europa. Oltre un milione di albanesi risiedono in Europa occidentale e la maggior parte di loro sopravvive grazie a diversi affari illegali, soprattutto quello della droga. Senza dubbio, gli Stati Uniti hanno deliberatamente presentato all’Europa un problema che d’ora in poi aumenterà. Secondo l’agenzia anti-narcotici russa, circa 100.000 persone in tutto il mondo – più di quante uccise dall’esplosione nucleare che distrusse Hiroshima – muoiono ogni anno a causa degli stupefacenti provenienti dall’Afghanistan. In questo contesto, in Russia, il bilancio è di circa 30.000 vittime. L’agenzia russa sul controllo della droga afferma che la produttività è raddoppiata negli ultimi dieci anni e ad oggi il 90% delle dosi di droga consumate globalmente – un totale di 7 miliardi – rappresentano eroina. La tossicodipendenza sta invadendo l’odierna Russia e nel mix con l’abuso di alcool sta mettendo in pericolo l’esistenza stessa della nazione.La Russia è molto attiva nell’incoraggiare la lotta internazionale contro la droga – il ministro degli esteri Sergej Lavrov, per esempio, ha ricordato al forum anti-droga 2010 che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite osserva il problema della droga come una minaccia alla pace e alla sicurezza globale. Il suo punto di vista era che il mandato della coalizione in Afghanistan dovrebbe essere aggiornato per includere delle misure ben più robuste, incluso lo sradicamento dei campi di oppio e lo smantellamento delle fabbriche di droga. I passi per contrastare la produzione di stupefacenti in Afghanistan dovrebbero essere altrettanto decisi di quelli scattati in America Latina contro il traffico di cocaina, afferma Lavrov, sottolineando anche che un coordinamento in tempo reale tra la Russia e la Nato, lungo il confine con l’Afghanistan, potrebbe essere di grande aiuto. Mosca ha mandato per anni segnali in merito, ma l’atteggiamento della Nato sembra essere impassibile. Il capo dell’agenzia russa del controllo della droga Viktor Ivanov ha affermato nel 2010 che la Russia ha fornito delle informazioni riservate agli Stati Uniti e all’amministrazione afghana riguardo 175 stabilimenti di droga in Afghanistan, eppure nessuno di questi è stato smantellato. I fondi continuano quindi ad accumularsi sui conti bancari di coloro che gestiscono questi traffici ed è chiaro che questa condizione richiede un fronte anti-narcotico molto più ampio. Mosca perderà solo tempo e vedrà sempre più russi morire se attende una mossa dell’Occidente per sottoscrivere tali iniziative. È giunto il momento di adottare misure drastiche contro coloro che diffondono la morte confezionata in dosi.(“La droga, uno strumento di politica globale”, da “La Crepa nel Muro” del 9 aprile 2019).Sulla scia della Seconda Guerra mondiale, le élite politiche statunitensi e britanniche si ritrovarono ad affrontare la minaccia del socialismo su scala globale. Nonostante le incombenti perplessità circa il futuro, decisero di reagire mobilitando risorse – pubbliche e nascoste – al fine di implementare un programma di “Roll Back” atto a invertire l’avanzata comunista mondiale. Un vero e proprio blocco sulla strada della mobilitazione anti-comunista era rappresentato dal fatto che la maggior parte della popolazione statunitense era diffidente verso un progetto di politica estera di così ampia portata. Per lo statunitense medio il mondo era rappresentato unicamente dall’America del Nord e l’interesse per la politica estera era minimo. A causa di questo radicato isolazionismo, negli Stati Uniti, agli esordi della Guerra Fredda, spese governative ingenti nella politica estera erano fuori questione. Inoltre la Cia, principale fonte economica nel reame della politica estera americana, rappresentava, per la maggioranza degli americani nell’epoca post-bellica, un’agenzia come un’altra, mentre in realtà questa stava diventando un protagonista chiave. Pur perseguendo l’impegno di portare a termine massicce operazioni mondiali, la Cia chiese alla Casa Bianca una licenza per inserirsi in fonti di finanziamento alternativi.
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Notre-Dame è l’11 Settembre europeo. Magaldi: farò i nomi
«Ringrazio il “fratello” Ken Follett per aver alzato un’eccellente palla, che non mancherò di schiacciare». Così Gioele Magaldi commenta le clamorose dichiarazioni dell’autore de “I pilastri della Terra”, che alla televisione inglese – ospite del programma “Good Morning Britain” – ha lanciato il pesante sospetto che il rogo di Notre-Dame sia stato di origine dolosa. «Qui sta succedendo qualcosa d’altro», ha detto Follett, mentre l’incendio era ancora in corso. «Sono inorridito», ha aggiunto, di fronte allo spettacolo della guglia gotica avvolta dalle fiamme: «È come se qualcuno fosse morto». Chiaro il riferimento simbolico al rogo del 18 marzo 1314, a Parigi, in cui fu arso vivo Jacques de Molay, ultimo gran maestro dei Templari. «Forse il grosso pubblico non sa che Notre-Dame è un simbolo per la massoneria, per il cristianesimo e anche per il neo-templarismo cristiano», afferma Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt ed esponente del circuito massonico progressista internazionale, di cui – spiega – fa parte lo stesso Ken Follett. «Tanti neo-templari sono indignati, per quello che si ritiene un clamoroso atto, spregevole e cinico, rispetto a questo luogo così importante per la sensibilità spirituale di molti».Magaldi annuncia rivelazioni esplosive: si prepara a fare nomi e cognomi di quelli che, a suo parere, sono gli ispiratori della distruzione della cattedrale parigina: «Una vicenda davvero vergognosa, che potremmo definire l’11 Settembre franco-europeo». Naturalmente – aggiunge Magaldi, in web-streaming su YouTube il 22 aprile con Fabio Frabetti di “Border Nights” – «oggi, un 11 Settembre non poteva più presentarsi con le caratteristiche dell’11 Settembre newyorchese del 2001, né con le caratteristiche degli attentati (che obbediscono alla stessa logica) avvenuti sempre a Parigi, uno dei quali a pochi passi dall’allora presidente François Hollande». Oggi, sempre secondo Magaldi, «mostrare ulteriormente la vulnerabilità degli apparati di sicurezza e di intelligence francesi sarebbe stato un boomerang». Ma non è detto che questa storia di Notre-Dame «non si trasformi in un autogoal per i suoi ideatori». Per Magaldi, il rogo della cattedrale parigina «è una strana vicenda, che avviene con una stranissima coincidenza: era in corso in Libia l’attacco di forze notoriamente supportate da ambienti che fanno capo al governo francese, e c’è senz’altro anche un collegamento di senso tra quello che è accaduto nello Sri Lanka: non per caso vengono colpiti alcuni tipi di strutture».In Italia, il primo a mettere in relazione il rogo di Notre-Dame con i Templari è stato l’avvocato Paolo Franceschetti, autore di indagini importanti sui misteri italiani e sui delitti rituali contornati da simbologie massoniche. «Notre-Dame – ha spiegato, sempre a “Border Nights” – è il più importante santuario del templarismo, dedicato al divino femminile». Nella sua ricostruzione, Franceschetti sottolinea la vocazione anche inevitabilmente politica del templarismo: i cavalieri del Tempio erano il cuore di un network internazionale che voleva unire i popoli europei, abbattendo le frontiere. Dare fuoco oggi a Notre-Dame, richiamando il tragico rogo di Jacques de Molay, equivale a una dichiarazione di guerra contro chi sognò gli Stati Uniti d’Europa? Spiegazioni che probabilmente non tarderanno ad arrivare da Gioele Magaldi, che è l’autore del bestseller “Massoni”, pubblicato da Chiarelettere nel 2014: il saggio svela il ruolo occulto, nella gestione del potere mondiale, di 36 superlogge sovranazionali, alcune delle quali – di segno neoaristocratico e reazionario – avrebbero orchestrato la strategia della tensione condotta a livello mondiale a partire proprio dall’attentato alle Torri Gemelle.Dopo New York, Parigi? In Europa, sostiene Magaldi, «i governi sono subordinati a gruppi di potere privati, oligarchici, che utilizzano i loro frontman, nelle cancellerie e nelle presidenze, per seguire delle politiche che non rappresentano nemmeno i rispettivi interessi nazionali». In altre parole «c’è una regia sovranazionale che sfrutta i governi nazionali per perseguire fini inconfessabili e opachi». Una logica alla quale non sfugge l’Eliseo: Magaldi definisce “massone reazionario” lo stesso Emmanuel Macron, già dirigente finanziario dei Rothschild. Un finto progressista, in realtà “cavallo di Troia” della peggiore oligarchia post-democratica: ormai la pensano così anche i francesi, come dimostra la rivolta dei Gilet Gialli contro le misure di austerity. Ma perché bruciare la cattedrale “templare”? «All’amministrazione Macron e ai suoi danti causa (apolidi e sovranazionali, oltre che francesi) serviva come il pane un evento come quello accaduto a Notre-Dame», afferma Magaldi. Che annuncia: «Nelle prossime ore chiarirò per bene – con nomi, cognomi e circostanze – quello che so o credo di sapere, sulla base di fonti precise e autorevoli».«Ringrazio il “fratello” Ken Follett per aver alzato un’eccellente palla, che non mancherò di schiacciare». Così Gioele Magaldi commenta le clamorose dichiarazioni dell’autore de “I pilastri della Terra”, che alla televisione inglese – ospite del programma “Good Morning Britain” – ha lanciato il pesante sospetto che il rogo di Notre-Dame sia stato di origine dolosa. «Qui sta succedendo qualcosa d’altro», ha detto Follett, mentre l’incendio era ancora in corso. «Sono inorridito», ha aggiunto, di fronte allo spettacolo della guglia gotica avvolta dalle fiamme: «È come se qualcuno fosse morto». Chiaro il riferimento simbolico al rogo del 18 marzo 1314, a Parigi, in cui fu arso vivo Jacques de Molay, ultimo gran maestro dei Templari. «Forse il grosso pubblico non sa che Notre-Dame è un simbolo per la massoneria, per il cristianesimo e anche per il neo-templarismo cristiano», afferma Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt ed esponente del circuito massonico progressista internazionale, di cui – spiega – fa parte lo stesso Ken Follett. «Tanti neo-templari sono indignati, per quello che si ritiene un clamoroso atto, spregevole e cinico, rispetto a questo luogo così importante per la sensibilità spirituale di molti».
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Notte della sinistra? Troppo americana la verità di Rampini
Da troppo tempo il capitale mondiale si è affidato ai servigi d’una sinistra che, ripudiato il classico ruolo di tutela degli interessi delle classi subalterne, si è schierata dalla parte dei potenti. Ora è il momento di sbarazzarsi di questi servi sciocchi che, per voler strafare, si sono sputtanati al punto da non poter più garantire legittimità al regime neoliberista. Allertate dal dilagare del populismo («uno spettro che si aggira per l’Europa» lo ha definito il “New York Times”, parafrasando un detto di Marx) le élite dominanti sguinzagliano i migliori cervelli per escogitare alternative. Costoro suggeriscono due possibili soluzioni: da un lato, la cooptazione dei populismi di destra per investirli del ruolo di garanti della continuità del sistema, dall’altro, la ricostruzione di una sinistra social-liberale capace di riottenere il consenso popolare. L’ultimo libro di Federico Rampini, noto corrispondente di “Repubblica” da New York (“La notte della sinistra”, Mondadori), inscrive l’autore fra i promotori della seconda soluzione.Il libro contiene una serie di feroci critiche nei confronti delle sinistre “fighette”, tali da far impallidire quelle che il sottoscritto ha rivolto contro lo stesso bersaglio (Vedi “Il socialismo è morto. Viva il socialismo”, Meltemi): la sinistra che ha abbandonato al loro destino i deboli, si salva l’anima impegnandosi a proteggere gli ultimi solo se e quando sono immigrati stranieri (regalando alle destre la rappresentanza della rabbia degli autoctoni poveri); la sinistra “cosmopolita” esalta l’apertura dei mercati finanziari, rinunciando a proteggere l’economia nazionale dalla colonizzazione straniera (spalancando ponti d’oro alla propaganda “sovranista”); la sinistra “politicamente corretta”, relegati in soffitta Gramsci e Pasolini, elegge a propri eroi intellettuali star hollywoodiane e boss della canzone e dello spettacolo, gente che esibisce sgargianti divise femministe e antirazziste confezionate dai loro consulenti di marketing; la sinistra “ecologista”, che viaggia su auto elettriche da centomila euro, pretende che gli sfigati che circolano su sgangherate utilitarie finanzino le politiche ambientaliste pagando tasse sul carburante “sporco” (innescando la rabbia dei gilet gialli contro Parigi).Rampini è passato dalla parte del popolo e chiama alla rivoluzione? Non proprio, come vedremo. La sua indignazione nei confronti del “buonismo” dei militanti no border, per esempio, è compatibile con un atteggiamento apologetico nei confronti di vecchi e nuovi colonialismi. La sinistra recita il mea culpa per i crimini occidentali che provocano la miseria degli altri popoli, costringendoli a migrare? Così rimuove colpe e responsabilità delle presunte “vittime”, sentenzia Rampini, che poi aggiunge: bene e male sono equamente distribuiti e noi non siamo l’ombelico del mondo. Curiosa critica dell’eurocentrismo, visto che non contesta la missione “civilizzatrice” dell’Occidente, purché affidata al comando imperiale americano, orientato – beninteso – in senso progressista, “di sinistra”. La polemica di Rampini contro le sinistre radical chic, si accompagna infatti al sogno di rilanciare la vecchia, cara sinistra del trentennio glorioso, quella sinistra keynesiana/kennediana che gestiva il compromesso fra capitale e lavoro, assicurava welfare, occupazione e salari decenti e cooptava le classi subalterne nella lotta contro la minaccia sovietica.Nostalgia delle sinistre socialdemocratiche al tempo della guerra fredda, che mai si sarebbero sognate di mettere in discussione l’egemonia americana, né avrebbero imboccato la via dell’austerità, suscitando la reazione populista. Nostalgia di politiche che solo la guerra fredda, evocando lo spettro di un’alternativa globale al sistema capitalista, aveva reso possibili. Ecco perché Rampini fa di tutto per resuscitare quello spettro, coltivando un’ideologia che potremmo definire “anticomunismo senza comunisti”. Così la Russia di Putin e la Cina di Xi Jinping vengono arruolati per evocare l’immagine di un nuovo “Impero del male”, sorvolando sul fatto che a giocare il ruolo di aggressore e provocatore, in questa nuova sfida planetaria, sono gli Stati Uniti assai più di questi paesi. Così il tentato golpe contro Maduro, ispirato da Washington e affidato a una figura priva di ogni legittimazione democratica, viene presentato come un intervento “umanitario” per restaurare la democrazia, e non come l’ennesima interferenza in un Paese latinoamericano per mantenere il controllo sul “cortile di casa” senza sottilizzare sui mezzi (do you remember Allende?). Così Snowden e Assange, da eroi della lotta per la trasparenza dell’informazione (come venivano descritti fino a qualche anno fa anche dalla maggior parte dei media occidentali), diventano infami spie russe.Concludo osservando che il libro di Rampini è stato fin troppo profetico in merito all’ultimo punto, tanto che – a costo di apparire “complottista” – mi sorge il dubbio che disponesse di informazioni riservate sull’imminenza del blitz nell’ambasciata ecuadoriana di Londra per catturare Assange. In ogni caso, il libro ha anticipato la campagna denigratoria che i media hanno scatenato contro i “traditori” dell’Occidente, con toni da propaganda prebellica. Vedi quanto scrive Beppe Severgnini sul “Corriere della Sera”: «È vero: gli Stati Uniti hanno abusato della propria supremazia tecnologica per infiltrarsi nella vita di troppe persone, negli Usa e all’estero. Ma è lecito istigare una fonte a commettere un reato, come ha fatto Assange con Chelsea Manning, che sottrasse migliaia di documenti segreti? È giusto che tutto sia sempre noto a tutti?». Traduco: è giusto che i cittadini sappiano cosa succede nel segreto dei comandi militari? Non è meglio tenerli all’oscuro sui crimini commessi dal proprio campo, in modo che continuino a credere che il male sta tutto dall’altra parte?(Carlo Formenti, “Rampini, Assange e la notte della sinistra”, da “Micromega” del 15 aprile 2019).Da troppo tempo il capitale mondiale si è affidato ai servigi d’una sinistra che, ripudiato il classico ruolo di tutela degli interessi delle classi subalterne, si è schierata dalla parte dei potenti. Ora è il momento di sbarazzarsi di questi servi sciocchi che, per voler strafare, si sono sputtanati al punto da non poter più garantire legittimità al regime neoliberista. Allertate dal dilagare del populismo («uno spettro che si aggira per l’Europa» lo ha definito il “New York Times”, parafrasando un detto di Marx) le élite dominanti sguinzagliano i migliori cervelli per escogitare alternative. Costoro suggeriscono due possibili soluzioni: da un lato, la cooptazione dei populismi di destra per investirli del ruolo di garanti della continuità del sistema, dall’altro, la ricostruzione di una sinistra social-liberale capace di riottenere il consenso popolare. L’ultimo libro di Federico Rampini, noto corrispondente di “Repubblica” da New York (“La notte della sinistra”, Mondadori), inscrive l’autore fra i promotori della seconda soluzione.
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L’antisionismo non è antisemitismo, follia proibirlo per legge
I vecchi tabù di carattere sessuale e morale, nelle società occidentali, sono caduti e ne sono sorti di nuovi, il più inviolabile dei quali riguarda la questione israelo-palestinese. Il solo chiedere di parlarne, viene visto dai grandi media come una provocazione e quelli che conducono programmi di informazione politica, alla proposta di affrontarlo, reagiscono con un misto di timore e di costernazione di fronte a una richiesta tanto osé, similmente a come avrebbero reagito, al tempo della televisione di Bernabei, all’idea di un programma sui piaceri della pornografia. La parola d’ordine è “evitate l’argomento”. Non si tratta di censura, piuttosto di elusione. Quando poi in rarissime occasioni, per distrazione, se ne parla, si evita accuratamente di far sentire le opinioni e le argomentazioni di coloro che criticano aspramente la politica del governo israeliano e la definiscono colonialismo, oppressione di un intero popolo, segregazionismo e razzismo. Gli oppositori di tale politica, se si esprimono con schiettezza, vengono immediatamente apostrofati e classificati con l’insultante epiteto di antisemita (!). I sedicenti amici di Israele hanno accolto l’equazione “critico del governo di Israele uguale antisionista, uguale antisemita”. Altrettali sono definiti quelli che chiedono piena dignità e diritti per il popolo palestinese.I meno accaniti di questa eletta schiera di sostenitori del sionismo e amici di Israele accusano i sostenitori delle legittime rivendicazioni palestinesi di diffondere l’antisemitismo perché le critiche allo Stato ebraico portano la pandemia antisemita. Falso! Il climax del veleno antisemita si manifestò quando Israele non esisteva e gli ebrei vivevano in diaspora. In Israele, peraltro, alcuni giornalisti coraggiosi e di altissimo profilo si esprimono senza alcun timore, apertis verbis et ore rotundo. Gideon Levy su “Haaretz” (quotidiano israeliano pubblicato in Israele, da un editore israeliano, letto da lettori israeliani) in un suo articolo dal titolo palmare, “In U.S. Media, Israelis Untouchable”, scrive: «You can attack the Palestinians in America uninterrupted, call to expel them and deny their existence. Just don’t dare say a bad word about Israel, the holy of holies». E a proposito della proliferazione dei sentimenti antisemiti nota: «Jews are not as hated as Israel would like: only 10 percent said they had any negative feelings about them». La mia opinione, come quella di autorevoli esponenti della società israeliana, è che le classi dirigenti e il governo Netanyahu utilizzino strumentalmente l’accusa di antisemitismo al solo scopo di ricattare i paesi dell’Occidente per legittimare l’occupazione e la colonizzazione delle terre palestinesi e per annettere terre che la legalità internazionale assegna al popolo palestinese.Così, a proposito dell’equiparazione di antisionismo e antisemitismo, scrive lo storico israeliano Shlomo Sand: «Il tentativo del presidente francese Emmanuel Macron e del suo partito di criminalizzare oggi l’antisionismo come una forma di antisemitismo mostra di essere una manovra cinica e manipolatoria. Se l’antisionismo diventa un crimine, mi sento di raccomandare a Macron di far condannare, con effetto retroattivo, il bundista Marek Edelman, che fu uno dei leader del ghetto di Varsavia e totalmente antisionista. Si potrebbe anche inviare a processo i comunisti antisionisti che, piuttosto che emigrare in Palestina, scelsero di combattere, armi in pugno, contro il nazismo. Se intende essere coerente nella condanna retroattiva di tutti i critici del sionismo, Macron dovrà aggiungere la mia insegnante Madeleine Rebérioux, che ha presieduto la Lega dei diritti umani, l’altro mio insegnante e amico Pierre Vidal-Naquet e, naturalmente, anche Eric Hobsbawm, Edward Said e molte altre eminenti figure, ora scomparse, ma i cui scritti sono ancora autorevoli».«Se Macron desidera attenersi a una legge che reprime gli antisionisti ancora viventi, la cosiddetta futura legge dovrà applicarsi anche agli ebrei ortodossi di Parigi e New York che rifiutano il sionismo, a Naomi Klein, Judith Butler, Noam Chomsky e molti altri umanisti universalisti, in Francia e in Europa, che si autoidentificano come ebrei pur dichiarandosi antisionisti. Si troveranno, naturalmente, molti idioti antisionisti e giudeofobi, come non mancano pro-sionisti imbecilli, pure giudeofobi, ad augurare che gli ebrei lascino la Francia ed emigrino in Israele. Li includerà in questa grande impennata giudiziaria? Stia attento, signor presidente, a non lasciarsi trascinare in questo ciclo infernale, proprio quando la popolarità è in declino!». Personalmente ritengo che debbano cessare retoriche, propagande, calunnie insensate e strumentalizzazioni, che non sia più tollerabile tacere sulla crudele oppressione del popolo palestinese. E’ ora che i paesi occidentali affrontino la questione con coraggio e onestà intellettuale.(Moni Ovadia, “L’antisionismo non è antisemitismo”, dal “Fatto Quotidiano” del 29 marzo 2019; articolo ripreso da “Come Don Chisciotte”).I vecchi tabù di carattere sessuale e morale, nelle società occidentali, sono caduti e ne sono sorti di nuovi, il più inviolabile dei quali riguarda la questione israelo-palestinese. Il solo chiedere di parlarne, viene visto dai grandi media come una provocazione e quelli che conducono programmi di informazione politica, alla proposta di affrontarlo, reagiscono con un misto di timore e di costernazione di fronte a una richiesta tanto osé, similmente a come avrebbero reagito, al tempo della televisione di Bernabei, all’idea di un programma sui piaceri della pornografia. La parola d’ordine è “evitate l’argomento”. Non si tratta di censura, piuttosto di elusione. Quando poi in rarissime occasioni, per distrazione, se ne parla, si evita accuratamente di far sentire le opinioni e le argomentazioni di coloro che criticano aspramente la politica del governo israeliano e la definiscono colonialismo, oppressione di un intero popolo, segregazionismo e razzismo. Gli oppositori di tale politica, se si esprimono con schiettezza, vengono immediatamente apostrofati e classificati con l’insultante epiteto di antisemita (!). I sedicenti amici di Israele hanno accolto l’equazione “critico del governo di Israele uguale antisionista, uguale antisemita”. Altrettali sono definiti quelli che chiedono piena dignità e diritti per il popolo palestinese.
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Twin Towers, 15.000 morti. Stop ai sussidi per i moribondi
Se vi chiedessero “quante persone sono morte nell’attacco alle Torri Gemelle?”, la maggioranza di voi risponderebbe: circa 3.000. Invece la cifra è di almeno 5 volte superiore, spiega Massimo Mazzucco. «Sono già oltre 15.000 le persone morte in seguito all’attacco delle Torri Gemelle, se si contano anche tutte quelle morte di cancro negli anni successivi, per aver respirato l’amianto che era contenuto nella struttura dei due grattacieli». Per tutte queste persone – soccorritori, pompieri, poliziotti, normali cittadini – il governo americano aveva stanziato circa 7 miliardi di dollari, che avrebbero dovuto ricompensare le vittime e i loro parenti nel corso degli anni. «Ma ora – vergogna dentro la vergogna – il fondo ha comunicato che i soldi stanno per finire, e che da oggi i rimborsi verranno dimezzati per tutti i nuovi malati», scrive Mazzucco, sul blog “Luogo Comune”. In due accurati documentari, “Inganno globale” (trasmesso anche da Canale 5) e “La nuova Pearl Harbor”, Mazzucco ha sbriciolato la versione ufficiale sull’attentato: le Twin Towers non possono essere crollate per l’impatto degli aerei, sono state sicuramente “demolite” in modo deliberato. Una verità tuttora inaccettabile, per moltissimi: come potrebbero mai, gli Stati Uniti, procurarsi da soli una devastazione del genere?La risposta è che i mandanti della strage del secolo – che ha aperto il terzo millennio – non sarebbero stati gli Usa, ma una struttura-ombra annidata nei gangli del Deep State e capeggiata dall’allora vicepresidente Dick Cheney. Una struttura super-segreta, capace di produrre indagini-farsa dopo aver allontanato funzionari Fbi che si erano insospettiti. E in grado di “accecare” la difesa aerea della superpotenza inserendo un videogame negli schermi radar, quella mattina, in cui – per la prima e unica volta nella storia – c’erano solo due intercettori a difendere il cielo della East Coast: oltre 700 caccia erano tutti impegnati in esercitazioni concomitanti, lontanissimo da New York. Nel saggio “La guerra infinita”, Giulietto Chiesa punta il dito contro l’élite neocon firmataria del Pnac: tre anni prima della strage, il Piano per il Nuovo Secolo Americano prevedeva – nero su bianco – l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan, all’indomani del provvidenziale casus belli. In un altro saggio, “Massoni”, Gioele Magaldi è ancora più preciso: a progettare il maxi-attentato di Manhattan sarebbe stata la superloggia segreta “Hathor Pentalpha”, creata da Bush senior nel 1980 dopo la sconfitta inflittagli da Reagan alle primarie repubblicane. Obiettivo della “Hathor”: procedere “manu militari” alla globalizzazione neoliberista, anche ricorrendo al terrorismo “false flag” targato prima Al-Qaeda e poi Isis.A quasi 18 anni dalla catastrofe, una quota rilevante dell’opinione pubblica mondiale ha registrato che, come minimo, la versione ufficiale sull’11 Settembre fa acqua da tutte le parti. Certo, ai più sfugge il dato – enorme – su cui ora richiama l’attenzione Mazzucco: le vittime non sono tremila (2.996 morti, più 6.000 feriti) ma addirittura 15.000. Colpa dell’amianto disperso nell’aria durante gli incendi, senza contare le macerie di Ground Zero che continuarono a bruciare – stranamente – per settimane, esalando sostanze altamente tossiche. Triste epilogo, più che beffardo: stanno finendo i soldi stanziati per indennizzare i malati. «Più di 5 miliardi sono già stati spesi fino ad oggi per rimborsare i morti e i danneggiati da malattie respiratorie, e ne restano soltando un paio prima che il fondo si esaurisca», scrive Mazzucco. «Purtroppo – aggiunge – il mesotelioma si rivela a volte solo dopo molti anni, per cui non è possibile sapere quanti ancora si presentaranno agli sportelli governativi per reclamare il compenso per la malattia». Ma la Casa Bianca, così pronta a inviare “aiuti umanitari” nelle nazioni di cui vorrebbe far cadere il governo, «non riesce a trovar dei soldi aggiuntivi per i morti e i malati delle Torri Gemelle», vittime – tecnicamente – della peggior “strage di Stato” della storia.Se vi chiedessero “quante persone sono morte nell’attacco alle Torri Gemelle?”, la maggioranza di voi risponderebbe: circa 3.000. Invece la cifra è di almeno 5 volte superiore, spiega Massimo Mazzucco. «Sono già oltre 15.000 le persone morte in seguito all’attacco delle Torri Gemelle, se si contano anche tutte quelle morte di cancro negli anni successivi, per aver respirato l’amianto che era contenuto nella struttura dei due grattacieli». Per tutte queste persone – soccorritori, pompieri, poliziotti, normali cittadini – il governo americano aveva stanziato circa 7 miliardi di dollari, che avrebbero dovuto ricompensare le vittime e i loro parenti nel corso degli anni. «Ma ora – vergogna dentro la vergogna – il fondo ha comunicato che i soldi stanno per finire, e che da oggi i rimborsi verranno dimezzati per tutti i nuovi malati», scrive Mazzucco, sul blog “Luogo Comune”. In due accurati documentari, “Inganno globale” (trasmesso anche da Canale 5) e “La nuova Pearl Harbor”, Mazzucco ha sbriciolato la versione ufficiale sull’attentato: le Twin Towers non possono essere crollate per l’impatto degli aerei, sono state sicuramente “demolite” in modo deliberato. Una verità tuttora inaccettabile, per moltissimi: come potrebbero mai, gli Stati Uniti, procurarsi da soli una devastazione del genere?
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Arlacchi: Venezuela nella trappola Usa, sui media solo bugie
Ho appena terminato uno studio della crisi del Venezuela basato su documenti Onu e di centri di ricerca indipendenti. Mi è stato difficile mantenere la calma mentre davanti ai miei occhi si componeva una narrativa opposta a quella corrente. Il caso del Venezuela si configura nei termini di una gigantesca truffa informativa che ci oltraggia ogni giorno con notizie false, omissive e distorte su ciò che accade in quel paese. Sono le barbare sanzioni americane inflitte dal 2015 in poi approfittando del crollo del prezzo del petrolio, e cioè della maggiore fonte di entrate pubbliche del Venezuela, e non le politiche sbagliate dei governi Chavez-Maduro a detenere la massima colpa del dramma odierno sofferto da 32 milioni di persone. L’economia del Venezuela è crollata a causa del blocco delle importazioni dovuto all’impossibilità di usare il dollaro per pagarle dopo l’imposizione delle sanzioni da parte prima di Obama e poi di Trump. Gli ospedali del Venezuela sono rimasti senza medicine perché le banche internazionali si rifiutano di accettare i relativi pagamenti in dollari da parte del governo Maduro. E così sta accadendo per il cibo e per le risorse necessarie a far funzionare la macchina produttiva.L’opera viene completata dall’accaparramento di beni e dal mercato nero dominati dai gruppi mafiosi locali protetti e incoraggiati dall’ opposizione e dalla longa manus del governo Usa. C’è poi una mafia valutaria che ha distrutto la moneta locale, il bolivar, alimentando un’iperinflazione senza riscontro nei fondamentali dell’economia. Mafia protetta anch’essa da chi vuole far crollare il governo legittimo e consegnare uno dei paesi più ricchi di risorse naturali del mondo nelle mani degli Stati Uniti. Come? Tramite la solita ricetta neoliberista di privatizzazioni, liberalizzazioni e tagli della spesa sociale promessa da Guaidò ed altri pupazzi manovrati dal governo Usa e dalle sue estensioni internazionali. Questa è una prima sintesi dei risultati della mia ricerca. In un post successivo approfondirò ancora e vi indicherò le fonti cui ricorrere per contrastare questa industria della menzogna globale.(Pino Arlacchi, “Il grande imbroglio sul Venezuela”, dalla pagina Facebook di Arlacchi del 23 febbraio 2019; post ripreso da “Megachip” il 26 febbraio 2019. Sociologo e criminologo, docente anche alla Columbia University di New York, Arlacchi è stato tra gli ideatori della strategia antimafia, insieme a Falcone e Borsellino, firmando il progetto della Dia, Direzione Investigativa Antimafia. Attivo anche a livello internazionale contro la criminalità organizzata, dal 1997 al 2002 ha ricoperto l’incarico di sottosegretario generale delle Nazioni Unite, direttore dell’Undccp (antidroga e prevenzione del crimine), dirigendo anche l’ufficio delle Nazioni Unite a Vienna. Nel 2000 ha promosso a Palermo la Convenzione Onu contro la criminalità internazionale, firmata da 124 paesi. Nel campo della lotta al riciclaggio del denaro sporco, Arlacchi ha promosso la firma nel 2001 da parte di 34 paradisi fiscali di un accordo che li ha impegnati a lavorare con l’Onu per adeguare le loro legislazioni agli standard internazionali di trasparenza finanziaria. E’ stato impegnato con successo in Tagikistan, Kosovo, Cina. Analista geopolitico, è considerato un esperto internazionale in materia di sicurezza).Ho appena terminato uno studio della crisi del Venezuela basato su documenti Onu e di centri di ricerca indipendenti. Mi è stato difficile mantenere la calma mentre davanti ai miei occhi si componeva una narrativa opposta a quella corrente. Il caso del Venezuela si configura nei termini di una gigantesca truffa informativa che ci oltraggia ogni giorno con notizie false, omissive e distorte su ciò che accade in quel paese. Sono le barbare sanzioni americane inflitte dal 2015 in poi approfittando del crollo del prezzo del petrolio, e cioè della maggiore fonte di entrate pubbliche del Venezuela, e non le politiche sbagliate dei governi Chavez-Maduro a detenere la massima colpa del dramma odierno sofferto da 32 milioni di persone. L’economia del Venezuela è crollata a causa del blocco delle importazioni dovuto all’impossibilità di usare il dollaro per pagarle dopo l’imposizione delle sanzioni da parte prima di Obama e poi di Trump. Gli ospedali del Venezuela sono rimasti senza medicine perché le banche internazionali si rifiutano di accettare i relativi pagamenti in dollari da parte del governo Maduro. E così sta accadendo per il cibo e per le risorse necessarie a far funzionare la macchina produttiva.
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A chi giovano le sconcertanti minacce rivolte a Mentana?
Tutto si può imputare, a Enrico Mentana, tranne che la mancanza di cordialità e di umana empatia. E’ un affabile surfer, il direttore del telegiornale de La7, nel mare tempestoso delle fake news ufficiali: magari dribbla le verità più scomode e sta ben attento a non uscire mai dalla cornice disegnata dagli spin doctor dell’establishment, ma almeno non partecipa alle crocifissioni rituali che il sistema infligge, con acrimonia, a questo e a quello, attraverso propagandisti con la bava alla bocca, travestiti da giornalisti. Di tutto si sentiva la mancanza, oggi in Italia, fuorché di un bel costume da martire, tagliato su misura per l’Enrico nazionale. Alla bisogna ha prontamente provveduto la mano (anonima, ovviamente) che gli ha indirizzato minacce mafiose, evocando l’oscura escatologia della forca che attenderebbe, un giorno, i malfattori della disinformazione. La minaccia è stata accolta così seriamente da mobilitare nientemeno che il primo ministro, dichiaratosi preoccupato per l’incolumità della libera informazione – che evidentemente nel nostro paese esiste ancora, secondo Giuseppe Conte.Par di sentire l’eco di antiche, orrende canzoni. Del tipo: negli anni di piombo, giornalisti come Indro Montanelli finirono all’ospedale “gambizzati” (mentre altri, come Walter Tobagi e Carlo Casalegno, non ebbero altrettanta fortuna). Nel saggio “Gli stregoni della notizia”, Marcello Foa – ora presidente della Rai – accusa frontalmente la categoria a cui appartiene: l’autocensura quotidiana, praticata in ossequio al potere, mina il giornalismo. Gli toglie prestigio e credibilità, e alla fine indebolisce il sistema democratico stesso, privandolo delle verità indispensabili alla buona salute dell’opinione pubblica. Oggi ci si mette a ridere, al solo ricordo della fialetta agitata da Colin Powell alle Nazioni Unite, per sembrare più convincente nel vendere la bufala delle armi di sterminio di Saddam. Ma il sorriso sparisce subito, se solo si prova a far presente – anche a Mentana – che architetti e ingegneri americani hanno dimostrato, in modo ormai incontrovertibile, che le Torri Gemelle non possono essere crollate in quel modo solo per l’impatto di aerei dirottati.Con Enrico Mentana ha ingaggiato una sorta di leale duello a distanza, a viso aperto, un personaggio come il regista e video-reporter Massimo Mazzucco, autore del primo documentario d’inchiesta sull’11 Settembre, “Inganno globale”, trasmesso proprio da Mentana nel 2006 in prima serata, su Canale 5. Bei tempi, dice Mazzucco, quando l’Enrico faceva ancora il giornalista, e quindi dava spazio anche all’altra campana, la versione non ufficiale dei fatti. Col tempo, non ha solo silenziato le indagini indipendenti sull’11 Settembre. Si è allineato all’establishment su tutto: dalla politica all’economia, sposando in modo acritico la teologia dell’austerity. Vale anche per il cosiddetto complottismo declassato a gossip. Invece di indagare giornalisticamente sulle scie che stranamente imbrattano i cieli da alcuni anni, suscitando interrogativi nella popolazione (e persino interrogazioni in Parlamento), si preferisce ridere di “quelli che credono alle scie chimiche”. Le famiglie italiane sono state terremotate dall’obbligo vaccinale per bambini e neonati? E certo, lo vuole “la scienza”. E la sanità della Regione Puglia, che ha scoperto che il 40% dei bimbi vaccinati ha subito reazioni avverse? E non è “scienza” l’ordine dei biologi, che ha scoperto vaccini “sporchi” e inefficaci, perché privi degli agenti immunizzanti?Mazzucco si occupa anche di vaccinazioni – come tanti, sul web – cercando di mettere insieme notizie e ragionamenti logici. Consultando i maggiori fotografi internazionali, nel documentario “American Moon” ha dimostrato che le immagini del mitico allunaggio del 1969 furono girate in studio. Si è occupato anche di cannabis, Mazzucco, scoprendo che c’era la lobby del petrolio dietro la storica decisione di criminalizzare di punto in bianco l’uso della canapa, oggi rivalutata in campo oncologico. E sempre a proposito di salute, lo stesso Mazzucco si è occupato anche di cancro, rivelando che – da cent’anni – i medici che avrebbero imparato a guarire i pazienti colpiti da tumori vengono semplicemente ignorati e silenziati, quando non messi all’indice. Milanese come Mentana, Mazzucco è nato come fotografo, assistente di Oliviero Toscani. Poi è passato al cinema, lavorando per anni – da regista e sceneggiatore – negli studios della De Laurentiis, a Hollywood. Fino a quel maledetto lunedì 11 settembre 2001, quando ha visto il seguente spettacolo: due aerei hanno potuto centrare le Torri Gemelle senza che nessun F-16 si fosse levato il volo, quantomeno nell’eternità di tempo trascorsa tra il primo e il secondo impatto.Quella mattina, a proteggere la superpotenza più armata del mondo c’erano solo due velivoli pronti a decollare, muniti di missili, più altri due di riserva. Tutti gli altri – centinaia – erano stati trasferiti per esercitazioni concomitanti, lontanissimo da New York. Una circostanza più che anomala: mai prima verificatasi, nella storia degli Usa (né mai più ripetutasi, infatti). Nel saggio “La guerra infinita”, uscito nel 2003, Giulietto Chiesa ricorda che l’ordine di attacco per l’Afghanistan era sulla scrivania di George W. Bush già il 9 settembre 2001, lo stesso giorno in cui i terroristi del “signore della guerra” Gulbuddin Hekmatyar uccisero l’unico legittimo leader agfhano, Ahman Shah Massoud. Troppo ingombrante, Massoud: campione della resistenza nazionale, prima contro l’Urss e poi contro i Talebani, sarebbe stato facilmente acclamato come nuovo presidente, una volta riconquistata Kabul. Gli assassini di Massoud – disse Benazir Bhutto – erano protetti dall’Isi, l’intelligence militare del Pakistan, succursale della Cia. «Mi candido alle elezioni», annuciò la Bhutto, «per ristabilire la verità». Saltò in aria in piena campagna elettorale, il 27 dicembre 2007, dilaniata da una bomba.Spesso, Enrico Mentana ha espresso nostalgia per il suo primo amore, la politica estera. Che fine ha fatto, dopo tanti anni, la voglia di scavare dietro la verità ufficiale della geopoltica? Mentana ha fatto la storia del giornalismo televisivo italiano: giovane esponente del Psi approdato in Rai grazie a Bettino Craxi, nel 1991 – a soli 37 anni – accettò la grande scommessa prospettatagli da Berlusconi: creando l’allora rivoluzionario Tg5, mandò in pensione il letargico e paludato Tg1, imponendo un nuovo tipo di informazione, brillante e fulminea, che già anticipava la velocità attuale del web, l’immediatezza istantanea dei social. Una volta approdato a La7, Mazzucco gli rinfaccia di essersi sprofondato nella nuova poltrona: poteva essere “il primo degli ultimi”, la maggiore delle voci indipendenti (in piena coerenza con la sua storia professionale) e invece si è rassegnato a essere “l’ultimo dei primi”, mestamente allineato al coro.Le residue illusioni sono cadute dando uno sguardo allo strombazzatissimo giornale online che Mentana ha aperto, in proprio, con il lodevole intento di dare spazio ai giovani giornalisti. Sulla nuova testata, “Open”, le notizie di apertura sono però di questo tenore: “Suoni e visioni: Google lancia l’Interpreter Mode, è l’inizio della fine degli interpreti umani?”. Ora, Mentre Mazzucco e gli altri ex estimatori augurano la buonanotte al fu Enrico Mentana, c’è però chi gli augura tutt’altro: “Presto vi puniremo, sappiamo tutto di voi, punirvi è un dovere”. Questo il messaggio che Mentana ha ricevuto, firmato “Boia chi molla”, con tanto di svastica. L’Italia ribolle di risentimenti, in parte fuori controllo: il governo gialloverde ha provato a metterci una pezza, ma con risultati deludenti. La stessa Europa sta franando, dai Gilet Gialli alle convulsioni post-Brexit. La tensione è in aumento ovunque, dopo gli opachi attentati domestici di marca Isis. Si avvicinano le europee, insieme alla temuta recessione. Cresce il caos? Manca solo il fantasma peggiore: quello del terrorismo. Qualcuno – non si sa chi – lo rianima prontamente, riuscendo a trasformare in quasi-eroe persino lo sbiadito, reticente Enrico Mentana.Mala tempora currunt: su pressione dell’oligarca tedesco Günther Oettinger, commissario Ue, il Parlamento di Strasburgo ha gettato le basi per un vero e proprio bavaglio del web, che impone il filtro dei contenuti sulle maggiori piattaforme (Google, Facebook, YouTube) e mette virtualmente fine alla libera circolazione dei link. E’ di questo che ha paura, il mainstream, dopo le ultime sconfitte subite: il referendum di Renzi e l’euro-diserzione del Regno Unito, la vittoria di Trump e quella dei gialloverdi. Comunque vada a finire, se mai dovesse sciaguratamente prendere corpo una reale minaccia di tipo terroristico contro la cosiddetta libera informazione, ci ritroveremmo di fronte a un copione già scritto: ancora più potere ai media mainstream, e un’ulteriore emarginazione dei media indipendenti, comodamente criminalizzabili in blocco. Come ha da poco ricordato lo stesso Mazzucco, l’imbecille di turno non manca mai. Il problema non è lui, ma chi poi lo manipolerà. Storia: le prime Br erano un fenomeno spontaneo. Quelle che uccisero Moro, non più.Di tutte le guerre striscianti in corso oggi, quella per l’informazione è la più cruciale: senza l’appoggio “militare” del mainstream, uno come Monti sarebbe stato preso a pesci in faccia, nel 2011. I vari Cottarelli e Moscovici possono sfilare tranquillamente in passerella davanti alle telecamere: nessun grande giornale e nessun telegiornale prenderà mai in seria considerazione le voci, anche molto autorevoli, che smontano ogni giorno le loro tesi. E’ una vera e propria emergenza democratica, quella dell’informazione manipolata. Lo dimostra, ogni giorno di più, il deficit di credibilità che oggi colpisce i giornalisti, una categoria di cui ormai la maggioranza della popolazione non si fida più. Attaccarli in modo sgangherato e proditorio non può che rafforzarli, puntellandone la pericolante attendibilità. Saranno ancora loro a scendere nell’arena delle prossime europee, ciascuno scrupolosamente “embedded”, precisamente istruito dai club come l’Aspen, il Bilderberg e la Trilaterale, sempre così premurosi nel fabbricare il consenso quotidiano attorno all’oligarchia neoliberista che ha silenziosamente svuotato le nostre democrazie, appaltate a politici di cartone trasformati in star da ex giornalisti che di tutto si occupano, tranne che delle vere ragioni della grande crisi.(Giorgio Cattaneo, “A chi giovano le sconcertanti minacce rivolte a Enrico Mentana?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 17 gennaio 2019).Tutto si può imputare, a Enrico Mentana, tranne che la mancanza di cordialità e di umana empatia. E’ un affabile surfer, il direttore del telegiornale de La7, nel mare tempestoso delle fake news ufficiali: magari dribbla le verità più scomode e sta ben attento a non uscire mai dalla cornice disegnata dagli spin doctor dell’establishment, ma almeno non partecipa alle crocifissioni rituali che il sistema infligge, con acrimonia, a questo e a quello, attraverso propagandisti con la bava alla bocca, travestiti da giornalisti. Di tutto si sentiva la mancanza, oggi in Italia, fuorché di un bel costume da martire, tagliato su misura per l’Enrico nazionale. Alla bisogna ha prontamente provveduto la mano (anonima, ovviamente) che gli ha indirizzato minacce mafiose, evocando l’oscura escatologia della forca che attenderebbe, un giorno, i malfattori della disinformazione. La minaccia è stata accolta così seriamente da mobilitare nientemeno che il primo ministro, dichiaratosi preoccupato per l’incolumità della libera informazione – che evidentemente nel nostro paese esiste ancora, secondo Giuseppe Conte.
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Il Dio di Einstein non è quello (imbarazzante) della Bibbia
Christie’s ha venduto all’asta a New York per 2 milioni e 892.500 dollari una lettera che Albert Einstein scrisse a Eric Gutkind nel 1954, a 74 anni, mezzo secolo dopo aver preso il Nobel per la Fisica. Ma più fortunati del ricco Epulone che l’ha acquistata siamo noi che possiamo leggere gratuitamente questa straordinaria lettera di questo straordinario scienziato e di quest’uomo straordinario i cui pensieri continuano ad abitarci, come quelli di tutti i grandi, da Eraclito a Leonardo a Dante a Shakespeare a Milton a Nietzsche a Leopardi, anche se i loro corpi “dormono, dormono” sulla collina o altrove, e le loro menti non hanno più coscienza di sé e tantomeno di ciò che hanno suscitato. La lettera di Einstein ruota intorno alla questione eterna dei rapporti fra scienza, religione, spiritualità e il mito di Dio. Einstein, da scienziato, è un ‘non credente’: «Sono un religioso, non un credente… Per me la parola ‘Dio’ non è altro che l’espressione e il risultato della debolezza umana». E liquida la Bibbia («un libro raccapricciante che suscita orrore», secondo l’interpretazione del laico Sergio Quinzio), il Vangelo e tutte le altre cosmogonie come raccolte di «leggende venerabili ma piuttosto primitive».«Non c’è un’interpretazione, per quanto sottile possa essere (e qui si riferisce precipuamente alla Bibbia, ndr) che mi faccia cambiare idea…Per me la religione ebraica nella sua versione originale è, come tutte le altre religioni, un’incarnazione di superstizioni primitive». Insomma sono miti fondativi, ma senza nessun riscontro storico e tantomeno scientifico. Ma Einstein non è un ‘non credente’ integralista, ‘freddo’ alla Rita Levi-Montalcini, se in questa stessa lettera riprende un passaggio di Spinoza che concepiva la figura di Dio come un essere senza forma, impersonale: l’artefice dell’ordine e della bellezza visibili nell’universo. In Einstein sembra quindi esserci comunque e nonostante tutto una tensione verso il trascendente e in questo credo consista la sua ‘spiritualità’. La presenza/assenza di Dio lo turba se nella famosa polemica col collega danese Niels Bohr, che aveva descritto per primo la struttura dell’atomo, gli replica: «Dio non gioca a dadi con l’universo».Einstein è ebreo e si riconosce nella cultura ebraica sia pur senza integralismi («con piacere») e scrive: «E la comunità ebraica, di cui faccio parte con piacere e alla cui mentalità sono profondamente ancorato, per me non ha alcun tipo di dignità differente dalle altre comunità. Sulla base della mia esperienza posso dire che gli ebrei non sono meglio degli altri gruppi umani, anche se la mancanza di potere evita loro di commettere le azioni peggiori». E qui Einstein centra una questione molto attuale, che non ha a che vedere con la scienza ma con l’essenza dell’umano, e che risponde a quella legge storica per cui i vinti di ieri una volta diventati vincitori non si comportano molto diversamente dai loro antichi sopraffattori. Altrimenti sarebbe incomprensibile come lo Stato di Israele tenga a Gaza un enorme lager a cielo aperto, quando proprio dei lager gli ebrei sono stati vittime nei modi atroci che ci vengono sempre ricordati.La lettera venduta l’altro giorno da Christie’s ci riporta anche alla famosa polemica fra Niels Bohr e lo stesso Einstein. In estrema sintesi: Bohr sostiene il “principio di indeterminazione” e cioè che la scienza non può arrivare a scoprire la legge ultima dell’universo; Einstein al contrario non riuscirà mai a convincersi che non sia possibile, per l’uomo, arrivare alla Verità assoluta. E qui noi, pur nella consapevolezza di inserirci da nani in un confronto fra giganti, stiamo con Bohr che doveva aver ben presente il profondo insegnamento di Eraclito: «Tu non troverai i confini dell’anima (e qui per anima va intesa la Verità, ndr) per quanto vada innanzi, tanto profonda è la sua ragione». E aggiunge: la legge autenticamente ultima ci sfugge, è perennemente al di là, e man mano che cerchiamo di avvicinarla appare a una profondità che si fa sempre più lontana. Infine in un’altra nota Einstein, nella sua saggezza umana, molto umana e nient’affatto troppo umana, ci dà un consiglio, che con la fisica ha poco a che vedere, ma che dovrebbe far rizzare le orecchie ai cantori molto attuali, inesausti e dilaganti delle “sorti meravigliose e progressive”, delle crescite esponenziali e del mito del successo: «Una vita tranquilla e umile porta più felicità che l’inseguimento del successo e l’affanno senza tregue che ne è connesso».(Massimo Fini, “La religione laica di Einstein, maestro di vita”, dal “Fatto Quotidiano” del 12 dicembre 2018, articolo ripreso da “Come Don Chisciotte”).Christie’s ha venduto all’asta a New York per 2 milioni e 892.500 dollari una lettera che Albert Einstein scrisse a Eric Gutkind nel 1954, a 74 anni, mezzo secolo dopo aver preso il Nobel per la Fisica. Ma più fortunati del ricco Epulone che l’ha acquistata siamo noi che possiamo leggere gratuitamente questa straordinaria lettera di questo straordinario scienziato e di quest’uomo straordinario i cui pensieri continuano ad abitarci, come quelli di tutti i grandi, da Eraclito a Leonardo a Dante a Shakespeare a Milton a Nietzsche a Leopardi, anche se i loro corpi “dormono, dormono” sulla collina o altrove, e le loro menti non hanno più coscienza di sé e tantomeno di ciò che hanno suscitato. La lettera di Einstein ruota intorno alla questione eterna dei rapporti fra scienza, religione, spiritualità e il mito di Dio. Einstein, da scienziato, è un ‘non credente’: «Sono un religioso, non un credente… Per me la parola ‘Dio’ non è altro che l’espressione e il risultato della debolezza umana». E liquida la Bibbia («un libro raccapricciante che suscita orrore», secondo l’interpretazione del laico Sergio Quinzio), il Vangelo e tutte le altre cosmogonie come raccolte di «leggende venerabili ma piuttosto primitive».
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Tutta la verità, sempre. Grazie a Mazzucco, giornalista vero
«Ragazzi, ricordarvi di dare fastidio, sempre, a chi comanda». Furono le ultime parole che lo scrittore Nuto Revelli rivolse agli studenti delle scuole che spesso visitava. Autore di memorabili libri-denuncia come “La guerra del poveri” sulla ritirata di Russia e “Il mondo del vinti” sull’agonia delle valli alpini spopolate dall’era industriale, Revelli rappresentò una voce importante (e scomoda, quindi isolata) nella coscienza italiana del dopoguerra. Il suo lascito: cercare la verità, ad ogni costo. Quello che, in teoria, dovrebbe fare ogni giornalista degno di questo nome. Quanti ce ne sono, oggi, in circolazione? Pochissimi, secondo il Premio Pulitzer americano Seymour Hersh: «Se i reporter avessero fatto il loro dovere, in questi decenni, avremmo avuto meno guerre e meno stragi, perché il potere non avrebbe osato mentire così spudoratamente all’opinione pubblica». La madre di tutte le stragi, quella dell’11 settembre 2001, colse il milanese Massimo Mazzucco nella sua abitazione di Los Angeles, dove lavorava come sceneggiatore per la Dino De Laurentiis, dopo aver fatto la sua brava gavetta in Italia in qualità di fotografo, assistente di Oliviero Toscani. Quel giorno, Massimo vide – come tutto il resto del mondo – l’impatto del primo aereo. E vide che trascorse un intervallo interminabile prima che avvenisse l’urto del secondo velivolo, senza che nel frattempo si fosse levato in volo un solo caccia a presidiare i cieli.Quella mattina, infatti, l’intera difesa aerea degli Stati Uniti sulla costa orientale era affidata a due soli intercettori armati di missili e pronti a decollare, più altri due di riserva. Tutti gli altri – centinaia – erano impegnati in esercitazioni concomitanti in Canada, Alaska e California: fatto fino ad allora mai verificatosi, nella storia degli Usa, né più ripetutosi in seguito. Il cielo della superpotenza mondiale era più sguarnito di quello del Burkina Faso. Questo (e molto altro) ha messo insieme, Massimo Mazzucco, dopo anni di impegno ininiterrotto alla ricerca della verità. A partire dal primo documentario, “Inganno globale”, mandato in onda da Mentana a “Matrix” su Canale 5 in prima serata, nel 2006, di fronte a milioni di attoniti telespettatori, il video-reporter più scomodo d’Italia ha dedicato alla truffa dell’11 Settembre anche il maxi-documentario del 2013, “11 Settembre, la nuova Pearl Harbor”, raccogliendo prove e testimonianze che smentiscono la versione ufficiale sull’attentato alle Torri Gemelle. Tante le teorie: le Twin Towers abbattute da armi speciali ad energia, demolite con la nano-termite, incenerite con mini-atomiche? Mazzucco non sposa nessuna tesi: «Non spetta a me stabilire cosa sia stato usato per far crollare le Torri, a me basta dimostrare che non possono esser stati quegli aerei», ha ripetuto, anche in web-streaming su YouTube il sabato mattina con Fabio Frabetti di “Border Nights”.Anzi, aggiunge: «Il parteggiare per una tesi o per l’altra finisce per produrre contraddizioni tecniche utili solo a chi vuol farla dimenticare, quella storia, squalificando di fronte all’opinione pubblica chi ricerca la verità con serietà e impegno, come i tremila architetti e ingegneri americani che, mettendo a repentaglio il proprio posto di lavoro, sono riusciti a dimostrare in modo definitivo la “demolizione controllata” delle Torri Gemelle». Cercare la verità, appunto, senza trarre conclusioni affrettate: nel suo ultimo lavoro, “American Moon”, Mazzucco si avvale dei maggiori fotografi internazionali per dimostrare che le immagini del mitico allunaggio del ‘69 non sono state realizzate sulla Luna, ma in studio. «Il che non significa che non siamo mai stati sulla Luna: significa che le immagini mostrate al mondo erano false». Il potere statunitense è finito nel mirino di Mazzucco in svariate occasioni: nel 2007 ha firmato il documentario “L’altra Dallas – Chi ha ucciso Robert Kennedy?”. Un giallo tutt’altro che chiuso, quello che circonda la morte del fratello di Jfk, assassinato il 6 giugno 1968 nelle cucine dell’Hotel Ambassador di Los Angeles per fermare la sua corsa alla Casa Bianca: «Nonostante vi siano almeno venti persone che hanno visto Sirhan Sirhan sparare a Kennedy, sono emersi nel corso del tempo svariati elementi che tendono decisamente a scagionarlo».Lo chiamano Deep State, ed è qualcosa che affonda le sue radici nella nebulosa che tiene insieme esponenti della supermassoneria sovranazionale neo-oligarchica messa a nudo da Gioele Magaldi nel bestseller “Massoni”, con propaggini nella Cia e nell’Fbi, al Pentagono, alla Casa Bianca, in centri di comando assoluti come il Council on Foreign Relations. Da quegli ambienti scaturì il Pnac, Piano per il Nuovo Secolo Americano, attraverso cui i neocon – i Bush e Cheney, Wolfowitz, la Rice, Donald Rumsfeld – pianificarono apertamente la “guerra infinita” a cui il maxi-attentato dell’11 Settembre avrebbe spianato la strada. Massimo Maazzucco ne parla nel documentario “Il nuovo secolo americano”, uscito nel 2008 per illuminare «tutti i retroscena storici, politici, economici e filosofici che avrebbero portato agli attentati dell’11 Settembre per vie ben diverse da quelle che ci sono state raccontate». Non è possibile, infatti, comprendere gli attacchi alle Torri «se non si conosce la storia che c’è alle loro spalle». Ma lo sguardo di Mazzucco – giornalista vero – si estende anche oltre l’agenda geopolitica: nel video “I padroni del mondo”, uscito sempre nel 2008, esplora il territorio misteriosamente ibrido che comprende avvistamenti Ufo, ruolo dei militari e pericolo atomico.“I padroni del mondo”, spiega, non è un classico film sugli Ufo, ma «un film che cerca di comprendere il motivo per cui tutte le informazioni raccolte fino ad oggi sugli Ufo ci vengano tenute nascoste dai militari del Pentagono». E’ forse trovando questa risposta, ipotizza il video-reporter milanese, che si può scoprire qualcosa anche sull’esistenza di «esseri provenienti da altri pianeti, e sulle loro eventuali intenzioni». Tanto per essere espliciti: l’ufologo Roberto Pinotti, da decenni in contatto l’aeronautica militare italiana, ricorda che i gesuiti hanno speso milioni di dollari per allestire sul Mount Graham, in Arizona, un potente osservatorio astronomico dedicato allo studio dell’esobiologia, cioè la vita aliena. “L’extraterrestre è mio fratello”, titolò clamorosamente “L’Osservatore Romano” intervistando padre José Gabriel Funes, astronomo e gesuita, direttore della Specola Vaticana: un centro «che possiede anche un telescopio ad alta tecnologia e vanta un team di scienziati che fa invidia a quello della Nasa», ricorda Agnese Pellegrini su “Famiglia Cristiana”. Ma se padre Funes scruta il cielo in attesa dello sbarco dei “fratelli dello spazio”, Massimo Mazzucco – al solito – scava dietro le verità ufficiali, prendendo per le corna il toro del potere: perché i militari non ci raccontano tutto quello che sanno?Inutile sperare che sui giornali si riscontri altrettanto impegno, nella ricerca delle notizie che contano, anche – per dire – in un settore delicatissimo come quello della salute. E’ del 2009 la dirompente indagine sulle cure alternative per il tumore (“Cancro, le cure proibite”), nel quale Mazzucco mette a nudo il silenzio assordante che copre i clamorosi risultati già ottenuti da decine di medici, in tutto il mondo, per i quali il cancro non è più una malattia incurabile. Negli ultimi 100 anni, riassume il trailer del documentario, dozzine di scienziati, medici e ricercatori hanno trovato diverse cure valide per il cancro, spesso supportate anche da migliaia di testimonianze di pazienti guariti – ma noi non lo abbiamo mai saputo: perché? Statistiche: cent’anni fa si ammalava di cancro solo una persona su 20, oggi invece una su 3 (e negli Usa, un individuo su 4 muore di cancro). Chi sopravvive, viene semi-distrutto dalla chemio: dolori, gonfiore, febbre, nausea, vomito e svenimenti, senza contare l’abbattimento delle difese immunitarie e quindi il rischio elevatissimo di contrarre altri tumori, di cui l’organismo ormai indifeso diviene facile preda. Quando mai se ne parla, sui giornali, di cure di successo contro lo stramaledetto cancro?«Da cent’anni – dichiara Mazzucco – la medicina ufficiale nega che esista una cura risolutiva». Il video mostra sanitari come Max Gerson, che guarisce pazienti considerati “terminali”, così come il collega Harry Hoxsey. Medici per i quali il cancro non è più invincibile: da Tullio Simoncini a René Caisse. Racconta un anziano paziente: «Mi avevano detto che sarei morto in 24 ore, e invece eccomi qua». L’elenco di medici anti-cancro è lungo quasi quanto il Novecento: Chas Ozina e Josef Issels, Emanuel Revici, Royal Rife. E poi Gaston Naessens e Linus Pauling, senza contare Wilhelm Reich e Ryke Hamer. «Perché tutti coloro che hanno proposto una nuova cura, negli ultimi cento anni, sono stati sistematicamente ignorati, derisi, combattuti e spesso anche messi in prigione?». Nel video, rispondono operatori della sanità: «Il cancro è un grosso affare, uno dei più grandi che ci siano». Nel solo 2004, Big Pharma ha fatturato oltre mezzo “biliardo” (“550 billion”, cioè 550 miliardi di dollari). I medici intervistati da Mazzucco parlano di «inviti a pranzo, cene gratis, Champagne». Scandisce il norvegese Per Lonning, dell’Haukeland Hospital di Bergen: «Arriveremo a trovare la cura? La questione non è “se”, ma “quando”». Solo questione di volontà politica, in altre parole. E di soldi, tanto per cambiare.Dice Mark Abadi, psicologo: «La farmaceutica è l’industria di maggior successo nel mondo. Quello che non vogliono è che tu guarisca». Chiosa un’anziana, fissando la telecamera: «Se i medici sanno che c’è una cura, eppure mandano i pazienti a casa a morire, quella è un’atrocità peggiore dell’Olocausto». Tra i rimedi anti-cancro recentemente ammessi c’è anche la marijuana, le cui infiorescenze sono ricchissime di Tch, un principio attivo (già usato da Big Pharma in modo non dichiarato) che in molti casi distrugge le cellule tumorali, oltre ad alleviare le sofferenze dei pazienti. Mazzucco ne parla nel documentario “La vera storia della marijuana”, uscito nel 2010. Domanda: «Che cosa si nasconde dietro alla ossessiva, incessante e terrificante guerra alla droga?». La realtà che si cela sotto la proibizione di questa pianta è «qualcosa di assolutamente impressionante e sconvolgente, con una portata storica che condiziona in modo determinante la vita quotidiana di tutti noi, compreso chi non ha mai visto da vicino nemmeno uno spinello». Tanto per dire, in tutte le civiltà, la marijuana è stata la pianta più utile per l’intera umanità: se ne ricavano carta e tessuti per abiti, olio, corde, medicine. Dalla canapa è possibile produrre anche un’ottima plastica naturale. Ecco il punto: il boom della cannabis avrebbe tagliato le gambe all’industria (sanguinosa) del petrolio.La cannabis, aggiunge Mazzucco nel suo video, è stata usata fin dall’antichità per combattere malaria, reumatismi e dolori mestruali, epilessia, coliche e anche gastriti, anoressia e tifo. Non ci credete? Il medico personale della regina Vittoria, Sir John Russell Reynolds, nel 1890 la definì «una delle medicine più importanti a disposizione dell’uomo». Poi, da un giorno all’altro, questa pianta miracolosa è diventata il frutto proibito, la radice di ogni male: fonte di peccato, perversione e immoralità. Una pericolosa scorciatoia verso la devianza e la follia. Una demonizzazione devastante, improvvisa e sospetta, proprio in prossimità del boom del petrolio. Mazzucco ricorda che Harry Anslinger, del Federal Bureau of Narcotics, fece proibire la marijuana in tutto il mondo: chi lo finanziava? Lo spiega il suo filmato, ora proposto anche come strenna – in cofanetto – insieme a tutti gli altri: un’ottima occasione per fare scorta di informazioni serie, comprovate da documentazioni a prova di bomba.A Mazzucco, naturalmente, il mainstream dà del complottista: un modo facilotto per tentare di sbarazzarsene. Se c’è una dote nella quale l’autore eccelle è proprio la prudenza. Regola numero uno: verificare le notizie in modo da avere sempre almeno 3-4 conferme incrociate. Cosa che i giornalisti hanno smesso di fare da secoli, limitandosi per lo più a passare veline governative. A lettori e telespettatori rifilano quasi solo robaccia, semplice gossip politico, guardandosi bene dall’impensierire il potere. Mazzucco rimpiange il Mentana dei bei tempi, che a suo modo era coraggioso. «Poi, col tempo, si è integrato nel sistema. Arrivato a La7, poteva diventare “il primo degli ultimi”. Invece, si è accontentato di essere “l’ultimo dei primi”». A chi ha fame di notizie vere, naturalmente, resta il web: «Oggi sulla Rete troviamo informazioni impensabili, dieci anni fa, grazie al lavoro tenace e paziente di migliaia di attivisti». Lavoro che “dà fastidio”, come auspicava l’anziano Nuto Revelli, tant’è vero che la politica – italiana, europea – continua a tentare di imbavagliare i blog. E i giornalisti? Silenti, su tutta la linea. Si consolino: se vogliono scoprire come sono andate davvero le cose, in molti tornanti dell’attualità, possono sempre guardarsi i dvd di Massimo Mazzucco. Vere e proprie miniere di notizie.(Tutti i dvd ideati, prodotti e diretti da Massimo Mazzucco sono acquistabili singolarmente, on-line, attraverso il sito “Luogo Comune”. Per il Natale 2018, è anche possibile acquistarli in un’unica soluzione – versione cofanetto – al prezzo scontato di 49 euro).«Ragazzi, ricordatevi di dare fastidio, sempre, a chi comanda». Furono le ultime parole che lo scrittore Nuto Revelli rivolse agli studenti delle scuole che spesso visitava. Autore di memorabili libri-denuncia come “La guerra del poveri” sulla ritirata di Russia e “Il mondo del vinti” sull’agonia delle valli alpine spopolate dall’era industriale, Revelli rappresentò una voce importante (e scomoda, quindi isolata) nella coscienza italiana del dopoguerra. Il suo lascito: cercare la verità, ad ogni costo. Quello che, in teoria, dovrebbe fare ogni giornalista degno di questo nome. Quanti ce ne sono, oggi, in circolazione? Pochissimi, secondo il Premio Pulitzer americano Seymour Hersh: «Se i reporter avessero fatto il loro dovere, in questi decenni, avremmo avuto meno guerre e meno stragi, perché il potere non avrebbe osato mentire così spudoratamente all’opinione pubblica». La madre di tutte le stragi, quella dell’11 settembre 2001, colse il milanese Massimo Mazzucco nella sua abitazione di Los Angeles, dove lavorava come sceneggiatore per la Dino De Laurentiis, dopo aver fatto la sua brava gavetta in Italia in qualità di fotografo, assistente di Oliviero Toscani. Quel giorno, Massimo vide – come tutto il resto del mondo – l’impatto del primo aereo. E vide che trascorse un intervallo interminabile prima che avvenisse l’urto del secondo velivolo, senza che nel frattempo si fosse levato in volo un solo caccia a presidiare i cieli.
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A Strasburgo l’attentato salva-Macron, nei guai in Francia
«Ci risiamo. Puntuale come un orologio svizzero arriva l’attentato che distoglie dai veri problemi politici e sposta l’attenzione sul “terrorismo internazionale”». Massimo Mazzucco non ha dubbi: è davvero micidiale la “sincronicità” con la quale l’11 dicembre il giovane Cherif Chekatt, lasciato circolare liberamente in Francia nonostante le 27 condanne già rimediate in tre diversi paesi, avrebbe aperto il fuoco sulla folla a Strasburgo uccidendo 3 persone e ferendone 16, tra cui il giornalista italiano Antonio Megalizzi (gravissimo, in coma forse irreversibile). «Ormai – scrive Mazzucco, su “Luogo Comune” – la dinamica è talmente prevedibile che bisognerebbe quasi farne una regola: se un certo governo attraversa un periodo particolarmente difficile, state alla larga dai mercatini e dai luoghi affollati di quella nazione». Motivo: «La “cellula dormiente” di turno sarà pronta a risvegliarsi proprio in quelle occasioni». Pensate solo alla coincidenza, aggiunge Mazzucco: fino alla sera prima, tutti i telegiornali e le testate giornalistiche francesi parlavano solo di Macron, di come il suo discorso non fosse riuscito a placare i Gilet Gialli, e di come ormai la fine del suo governo apparisse scontata. Ma dall’indomani «tutto questo passa in secondo piano, perché ora ci dobbiamo occupare di Cherif Chekatt, l’uomo sospettato di aver sparato a Strasburgo e prontamente dato in pasto alla stampa mondiale dall’efficientissimo “Site” di Rita Katz, l’ex consulente del Mossad divenuta il megafono dell’Isis. «Davvero dobbiamo aggiungere altro?».Sembra un copione già scritto, aggiunge “Informare per Resistere”, eppure anche questa volta viene recitato come le altre. E una volta di più – come dopo Charlie Hebdo, Bataclan e tutti gli altri attentati firmati Isis in Europa – a reti unificate «sentiamo ripetere il mantra del terrorista islamico che dopo l’attentato si dà alla fuga». Non un terrorista qualunque, peraltro, ma il “solito” giovane islamista “radicalizzatosi” e ovviamente “attenzionato” dalla polizia. «Ci uniamo al dolore delle famiglie», aggiunge “Informare per Resistere”, che però rileva come siano «davvero strane» le tempistiche e la modalità dell’attentato, «che arriva puntualmente quando in Francia i Gilet Gialli incalzano il presidente Macron». I fatti sono sotto gli occhi di tutti: «Lo schema è sempre lo stesso, come quello di molti altri attentati: un presunto estremista islamico che poi sparisce nel nulla». Sul versante anti-complottista, “Fanpage” esibisce sconcerto per lo scetticismo degli stessi Gilet Gialli: «Secondo gli esponenti del movimento che da settimane sta inscenando proteste e manifestazioni in tutta la Francia, dietro all’attentato di Strasburgo ci sarebbe la regia del governo e del presidente Macron per distogliere lo sguardo dell’opinione pubblica francese dai disordini sociali delle ultime settimane».Su Facebook e Twitter, un saggio di quelle che “Fanpage” definisce «le folli teorie dei Gilet Gialli», di cui il sito pubblica estratti esemplari. Esempio: «Ecco, un piccolo attentato per mettere fine ai Gilet Gialli; molto forte questo Macron». Oppure: «Che caso, appena qualche giorno prima del quinto atto per calmare le pecore». E ancora: «E’ strano, non si sentiva più parlare di attentati, ma solo di noi Gilet Gialli e ora c’è stato un attentato a Strasburgo». Morale: «Non ci facciamo impressionare da questo attentato costruito dai servizi segreti». “Follie” dei Gilet Gialli o esaperazione dei francesi sopravvissuti alle mattanze degli anni scorsi, compiute da terroristi inutilmente “attenzionati dalla polizia” che si premuravano di lasciare sul posto il passaporto, prima di essere regolarmente freddati dai cecchini? Nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, il simbologo Gianfranco Carpeoro svela la regia supermassonica – non islamica – del “neoterrorismo” Isis in Europa, puntando il dito contro precisi settori dell’intelligence Nato. Schema classico: strategia della tensione. Tradotto: si “coltivano” potenziali kamikaze, a cui non necessariamente si racconta che fine faranno. Tecniche collaudate di terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, infarcite di “fake news” diffuse dai grandi media per depistare l’opinione pubblica.Di recente, in morte di Bush padre, Gioele Magaldi (autore del bestseller “Massoni”, che illumina il potere occulto di 36 Ur-Lodges sovranazionali) ha ricordato il ruolo nefasto della superloggia “Hathor Pentalpha”, ritenuta coinvolta nell’incubazione dell’11 Settembre. Ipotesi: terrorismo di Stato condotto da frange illegali, le stesse che avrebbero “fabbricato” prima Al-Qaeda e poi l’Isis. Alla “Hathor”, sempre secondo Magaldi, era legato l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy. Lo stesso Magaldi non ha dubbi sulla cifra supermassonica di Macron, già banchiere Rothschild e pupillo del supermassone reazionario Jacques Attali, a suo tempo braccio destro di Mitterrand e ispiratore della conversione anti-progressista dell’Eliseo. Il giorno dell’ultimo attentato – martedì 11 – suona sinistro, nella simbologia massonica (l’11 può essere interpretato come “numero della morte”, come fu per l’11 Settembre a New York, data probabilmente non casuale – l’11 settembre del 1973 il massone Pinochet, in Cile, rovesciò con un golpe il massone progressista Allende). Inquietante la scelta della località dell’attentato – Strasburgo, sede francese del Parlamento Europeo – proprio mentre Macron, nel tentativo di sedare la rivolta dei Gilet Gialli, annuncia un deficit che potrebbe sforare il mitico 3% fissato, come limite invalicabile, dall’Unione Europea.«Ci risiamo. Puntuale come un orologio svizzero arriva l’attentato che distoglie dai veri problemi politici e sposta l’attenzione sul “terrorismo internazionale”». Massimo Mazzucco non ha dubbi: è davvero micidiale la “sincronicità” con la quale l’11 dicembre il giovane Cherif Chekatt, lasciato circolare liberamente in Francia nonostante le 27 condanne già rimediate in tre diversi paesi, avrebbe aperto il fuoco sulla folla a Strasburgo uccidendo 3 persone e ferendone 16, tra cui il giornalista italiano Antonio Megalizzi (gravissimo, in coma forse irreversibile). «Ormai – scrive Mazzucco, su “Luogo Comune” – la dinamica è talmente prevedibile che bisognerebbe quasi farne una regola: se un certo governo attraversa un periodo particolarmente difficile, state alla larga dai mercatini e dai luoghi affollati di quella nazione». Motivo: «La “cellula dormiente” di turno sarà pronta a risvegliarsi proprio in quelle occasioni». Pensate solo alla coincidenza, aggiunge Mazzucco: fino alla sera prima, tutti i telegiornali e le testate giornalistiche francesi parlavano solo di Macron, di come il suo discorso non fosse riuscito a placare i Gilet Gialli, e di come ormai la fine del suo governo apparisse scontata. Ma dall’indomani «tutto questo passa in secondo piano, perché ora ci dobbiamo occupare di Cherif Chekatt, l’uomo sospettato di aver sparato a Strasburgo e prontamente dato in pasto alla stampa mondiale dall’efficientissimo “Site” di Rita Katz», l’ex consulente del Mossad divenuta il megafono dell’Isis. «Davvero dobbiamo aggiungere altro?».
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Hitler, Kennedy, 11 Settembre: è nera la storia dei Bush
Se c’è un motivo per cui si insiste sull’importanza dell’omicidio Kennedy, dopo oltre 50 anni dall’evento, non è certo per “cospirazionismo congenito”, ma per un fatto molto più semplice e tangibile: la stessa persona che era a Dallas il 22 novembre 1963 dormì alla Casa Bianca il 10 settembre 2001. E ciò per sua stessa ammissione, in ambedue i casi. Anzi, nel primo George Herbert Bush, padre-padrone del Nuovo Ordine Mondiale – oltre che del futuro presidente, George Walker Bush – si premurò di informare direttamente l’Fbi della sua presenza a Dallas quel giorno, proprio nelle ore in cui il corteo di Kennedy si presentava all’appuntamento con la storia in Dealey Plaza. Nelle stesse ore Richard Nixon, presente a Dallas da tre giorni per «motivi personali» – peraltro mai accertati – ripartiva alla volta di New York, dove avrebbe appreso dell’avvenuto omicidio di John Kennedy. Sarebbe diventato l’unico uomo al mondo a non ricordarsi del momento esatto in cui apprese la notizia, fornendone negli anni ben tre versioni differenti: all’aeroporto, durante il tragitto in taxi, sotto il portone di casa. «Diventano così tre, contando anche Johnson che lo sarebbe diventato quel pomeriggio, i futuri presidenti che erano a Dallas quel giorno. Un curioso crocevia della storia, se non altro».Lo afferma Massimo Mazzucco, riproponendo su “Luogo Comune” una scheda sulla dinastia dei Bush all’indomani della scomparsa di “Bush padre”, George H., spentosi a Houston il 30 novembre all’età di 94 anni. Dei Bush “segreti” parla diffusamente Gioele Magaldi nel bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014), svelando che – dopo la sconfitta subita da Reagan alle primarie repubblicane nel 1980 – Bush senior fondò la Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, detta anche “loggia del sangue e della vendetta”. Alla “Hathor”, nella sua ricostruzione fondata su un archivio massonico di 6.000 pagine, Magaldi attribuisce l’attentato a Reagan (cui seguì in modo simmetrico l’attentato a Papa Wojtyla), quindi l’incubazione della strage dell’11 Settembre e infine – ancora nel campo del terrorismo “false flag” – la fabbricazione dell’Isis, ultima incarnazione del “demonio” islamista partorito dallo schema (interamente occidentale) del cosiddetto “scontro di civiltà”, grazie al quale il gruppo di potere capeggiato dalla superloggia dei Bush decise di completare “a mano armata” la globalizzazione violenta del pianeta, attraverso guerre in Medio Oriente innescate da “fake news” come le inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.Dal canto suo, Mazzucco si concentra invece su “nonno Bush”, ovvero Prescott, il padre di George H. Lo definisce «la persona più importante di tutte, in questa vicenda», dati i clamorosi legami della famiglia col nazismo. Retroscena imbarazzanti, in grado di illuminare le origini del gruppo di potere che – con l’11 Settembre – ha cambiato la storia del pianeta. Tanto per cominciare, Prescott Bush era a Dallas il giorno dell’attentato a Kennedy. E oltre che ad aver avuto un ruolo determinante, dietro le quinte, in tutta la politica americana del dopoguerra, lo stesso Prescott è risultato esser stato implicato nei pesanti finanziamenti illeciti che contribuirono all’ascesa di Hitler al potere. La vicenda, aggiunge Mazzucco, merita di essere conosciuta per meglio inquadrare la potenza di una dinastia così determinante, nella storia degli Usa e del resto del mondo. Fin dall’inizio, la saga dei Bush è fondata sul fatale intreccio di politica e affari. Il nonno materno di Prescott, George Herbert Walker, aveva fondato a St.Louis, nel 1900, la società finanziaria G. H. Walker and Company. Tale fu il suo successo, che nel 1920 la società si trasferiva con tutti gli onori nella prestigiosa Wall Street di New York. Di lì a poco, il contatto con la Germania: nel 1924 George Walker conobbe l’industriale tedesco Fritz Tyssen, uno dei maggiori finanziatori del nascente partito nazista. «In poco tempo Walker divenne a sua volta il tramite di finanziamenti sempre più voluminosi che dall’America finivano direttamente nelle casse di Hitler».Un’altra compagnia che investiva denaro americano in Germania era la Sullivan & Cromwell di un certo Allen Dulles, che ritroveremo trent’anni dopo alla guida della Cia. Una terza società, la più importante di tutte, era la Harriman & Associates, di un certo Averill Harriman: «Un personaggio con forti legami col paritito nazista tedesco, che in seguito sarebbe divenuto ambasciatore Usa a Mosca, e poi ministro del commenrcio, sotto Truman». Nel 1931, prosegue Mazzucco, Harriman scelse George Walker alla guida della Union Banking Corporation, la banca che gli serviva da tramite per i suoi traffici monetari con la Germania. A sua volta, nel 1934, George Walker fece assumere il nipote Prescott come vicepresidente della Harriman & Associates, accanto al suo boss. Nel 1936 Harriman fondò la Brown Brothers Harriman, ne assunse alla guida legale Allen Dulles, del quale assorbiva nel frattempo la Sullivan & Cromwell. Nel 1937 Harriman entrò in società con i Rockefeller, dando origine alla Brown Brothers Harriman-Schroeder Rock. Già a quel tempo, Rockefeller significava Standard Oil.Come delfino di Harriman, Prescott Bush si era intanto venuto a trovare, prima della guerra, anche nel consiglio di amministazione della Union Banking. Ma nel 1942 – a guerra scoppiata – la banca si vide congelare dall’Fbi di Edgar J. Hoover tutti i beni, in seguito ad una legge che imponeva di interrompere ogni possibile relazione finanziaria con in paesi nemici. «Ma Prescott, con l’aiuto di Dulles, seppe congegnare un meccanismo finanziario che permise alla maggior parte dei capitali di sfuggire al congelamento, dirottandoli semplicemente in operazioni molto meno vistose, ma altrettanto lucrative. Per Prescott fu il trionfo, e per Dulles la garanzia di un futuro senza più limiti alle sue ambizioni». Naturalmente, aggiunge Mazzucco, «Hoover non era stato troppo rigoroso nell’indagare sulla Union Bank di Harriman, e molto probabilmente nacque proprio in quei giorni una reciproca simpatia fra i tre “ragazzi”, che avrebbe poi condizionato la storia per molti decenni a venire». Se Allen Dulles e Edgar Hoover si legano ai Bush già durante il secondo conflitto mondiale, l’uomo-chiave dell’ancoraggio della famiglia Bush nella politica americana del dopoguerra sarà Richard Nixon, «divenuto il pupillo di Prescott – altri direbbero il suo pupazzo». Bush ne aveva finanziato l’elezione al Parlamento, dopo averlo prelevato dai ranghi dell’Fbi.Risale a quegli anni, sostiene Mazzucco, un possibile collegamento fra Nixon e Jack Ruby, l’assassino di Oswald a Dallas. Sempre “nonno Bush” aveva poi piazzato Nixon accanto ad Eisenhower, alla vicepresidenza, facendogli sposare la nipotina dell’ex-generale. «Nixon era quindi diventato il candidato naturale alla presidenza, nel 1960, allo scadere del mandato di Eisenhower, ma aveva perso a sorpresa contro lo sconosciuto Kennedy». Con l’assassinio di Dealey Plaza, tre anni dopo, si riapriva per Nixon (e quindi per Prescott Bush) la strada della Casa Bianca. Il giorno seguente, infatti – come poi raccontò uno dei suoi più stretti collaboratori – si svolse a casa di Nixon una riunione segreta, nella quale vennero discusse le strategie per rientrare sulla scena politica, dopo la bruciante sconfitta del 1960. «Cuba era diventata nel frattempo una dolorosa spina nel fianco, dopo il fallimento dell’invasione della “Baia dei Porci”, che i repubblicani imputavano interamente a Kennedy. Ma il progetto originale, del ‘59, era dello stesso Nixon, il quale evidentemente “se lo era preparato” per ritrovarselo fresco sul tavolo, una volta divenuto presidente».Lo aveva elaborato subito dopo la rivoluzione castrista, collaborando con un certo Howard Hunt della Cia, uomo di Allen Dulles (il direttore Cia in quel periodo) sin dagli anni ‘30. La differenza era che il piano Hunt-Nixon-Dulles prevedeva che al momento giusto l’America avrebbe concesso il supporto militare richiesto dagli “invasori” di Cuba, mentre Kennedy “al momento giusto” si rifiutò di concederlo. Questo causò una crisi insanabile all’interno dell’amministrazione, con la frattura definitiva fra la Cia e Kennedy, che si permise addirittura di licenziare Dulles. «Meno di due anni dopo, Allen Dulles sedeva accanto al giudice Warren, nella famigerata commissione che prendeva il suo nome, e che riusciva in qualche modo ad insabbiare le indagini sull’omicidio più famoso della storia». Curiosamente, annota Mazzucco, anche Howard Hunt si trovava a Dallas il giorno dell’attentato: «Nonostante in seguito abbia tentato di negarlo, fu inchiodato in proposito dalla testimonianza dei suoi stessi figli». E così, «il crocevia texano si fa sempre più fitto». Nel ‘64 però Nixon scelse, saggiamente, di non candidarsi, poichè la popolarità di Johnson – succeduto a Kennedy dopo Dallas – in quel momento era alle stelle. Johnson infatti stracciò letteralmente il candidato repubblicano Barry Goldwater.Nixon sarebbe rientrato alla Casa Bianca solo nel ‘68, dopo la morte del nuovo candidato democratico, Robert Kennedy, anch’egli assassinato in circostanze mai chiarite, «ma di certo non da Shiran Shiran solamente». Una volta che Nixon fu presidente, Howard Hunt fece uno strepitoso balzo di carriera, passando da semplice agente Cia a capo dei servizi segreti della Casa Bianca. Contemporaneamente George H. Bush (“Bush padre”, il figlio di Prescott) veniva nominato da Nixon ambasciatore alle Nazioni Unite. «Ormai le redini del comando, in famiglia, erano passate a George H. Bush». Prescott però moriva, nel 1972, e non potè vedere il figlio diventare direttore della Cia nel 1976, poi vicepresidente sotto Reagan (1980-1988), ed infine presidente egli stesso, dal 1988 al 1992. Non vide nemmeno, peraltro, la sconfitta del figlio nel 1992, che perdeva inaspettatamente la sua rielezione contro uno sconosciuto Bill Clinton. La storia sembrava ripetersi, e fu questa volta George H. Bush a dover attendere la controversa decisione della Corte Suprema, nel 2000, per poter piazzare il figlio – George W. – fra le mura tanto amate. «Talmente amate, parrebbe, che il 10 di settembre del 2001, nonostante il figlio si trovasse in Florida, decise di fermarsi a dormire alla Casa Bianca, sulla via del ritorno da New York al Texas».Lo ha raccontato egli stesso in televisione, più di una volta. Sarebbe ripartito molto presto all’alba, venendo così a trovarsi già vicino a casa, al momento del blocco completo dei voli che seguì gli attentati dell’11 Settembre. «La sera del 10, a fare gli onori di casa c’era Dick Cheney, l’uomo che lo stesso Bush aveva messo accanto al figlio, come vicepresidente, un anno prima. Cheney era anche l’uomo che, in assenza del presidente in carica, avrebbe saldamente preso in mano la situazione durante gli attacchi terroristici, arrivando anche a far deviare, tramite i servizi segreti, i due caccia che si stavano finalmente dirigendo verso l’aereo diretto sul Pentagono, e mandandoli invece su un bersaglio fasullo». Aggiunge Mazzucco: «Che cosa abbia fatto George H. Bush a Dallas nel lontano 1963, e che cosa abbia fatto – o di cosa abbia parlato con Cheney – la notte del 10 settembre 2001, alla Casa Bianca, non lo sapremo probabilmente mai».Stranissima, poi, la telefonata che George H. Bush fece, il 22 novembre 1963, a un agente Fbi, Graham Kitchel. Nel suo report, Kitchel riporta due notizie. La prima: Bush senior gli ha segnalato il nome di un giovane, James Parrott, «forse studente dell’università di Houston». Naturalmente «in via confidenziale», Bush parla di «una voce» che «ha sentito girare» nelle settimane precedenti, secondo cui l’ipotetico Parrott «andava parlando di uccidere il Presidente», quando fosse arrivato a Houston. Sempre all’agente Fbi, Bush fornì indicazioni su come approfondire: due donne della direzione del partito repubbicano della contea di Harris avrebbero potuto fornire maggiori informazioni sull’identità di Parrott. Infine, lo stesso Kitchel scrive: «Bush ha dichiarato di essere in partenza per Dallas, Texas, dove avrebbe alloggiato allo Sheraton-Dallas, per tornare a casa sua il 23 novembre 1963», cioè il giorno seguente. Curioso, segnala Mazzucco: «Mentre Kennedy sta morendo all’ospedale di Dallas, Bush – allora privato cittadino, e presidente di una delle tante compagnie petrolifere di proprietà di famiglia – parte per la stessa città, e si premura di farlo sapere all’Fbi». Sembra proprio di leggere fra le righe «una strana voglia da parte sua di “farsi trovare” a tutti costi dalla stessa Fbi, a Dallas, quella sera».Ancora più curioso, dice Mazzucco, è che Bush utilizzi, come scusa per rendere nota la sua presenza in città, proprio la “voce di possibile attentato al presidente Kennedy, quando verrà a Huston”, visto che a Houston Kennedy c’era già stato. «Di certo si può supporre una cosa: se Bush quella sera è stato contattato dall’Fbi – come appare probabile – avrà sicuramente avuto da loro più informazioni sull’attentato appena avvenuto, di quante ne possa mai aver date sul suo fantomatico “James Parrott”». Curioso infine che l’ora in cui fu ricevuta la telefonata (13.45) corrisponda al momento in cui la notizia della morte di Kennedy, avvenuta intorno alle 13, iniziava a rimbalzare in tutte le agenzie del mondo. «Giusto per assicurarsi un “alibi” fuori città, nel caso estremo, ma anche giusto in tempo per saltare in macchina e raggiungere lo Sheraton di Dallas, dove potersi “rendere reperibile in serata”». Tutte coincidenze? «Può darsi. Ma che dire allora di questo documento, dal quale risulta che Jack Ruby – l’uomo su cui fece perno l’intera organizzazione dell’omicidio di Dallas, e che pensò poi a liberarsi fisicamente di Oswald, prima che potesse parlare – lavorava per Nixon già dal lontano 1947?».Si tratta di un documento dell’Fbi, desecretato qualche anno fa. «Giuro con questa dichiarazione che un certo Jacob Rubinstein di Chicago, potenziale testimone davanti al Comitato per le Attività Antiamericane [Commissione McCarthy], lavora come informatore per l’ufficio del deputato repubblicano della California, Richard M. Nixon. Si richiede di non interrogarlo pubblicamente nelle udienze sopra menzionate». La data: 14 novembre 1947. «E’ noto che in quel periodo Ruby lavorasse per la mafia di Chicago», osserva Mazzucco, «e il documento sembra quindi fornire l’anello mancante per il collegamento fra mondo “pulito” e mondo “sporco”, che fu assolutamente necessario per organizzare a Dallas un attentato che desse le massime garanzie di riuscita». Prescott Bush e la Germania di Hitler, la Cia di Allen Dulles, l’Fbi di Edgar Hoover, quindi Richard Nixon e infine George Herbert e George Walker, padre e figlio, direttamente alla Casa Bianca – l’ultimo sotto la tutela del potente Dick Cheney, emblema del Deep State. Le Torri Gemelle, l’Iraq, l’Afghanistan, l’incendio permanente in Medio Oriente. Potere, attentati, guerra e terrorismo: una dinastia in chiaroscuro, con ombre più che inquietanti attraverso svariati decenni, a tracciare una vera e propria storia parallela, accanto a quella ufficiale.Se c’è un motivo per cui si insiste sull’importanza dell’omicidio Kennedy, dopo oltre 50 anni dall’evento, non è certo per “cospirazionismo congenito”, ma per un fatto molto più semplice e tangibile: la stessa persona che era a Dallas il 22 novembre 1963 dormì alla Casa Bianca il 10 settembre 2001. E ciò per sua stessa ammissione, in ambedue i casi. Anzi, nel primo George Herbert Bush, padre-padrone del Nuovo Ordine Mondiale – oltre che del futuro presidente, George Walker Bush – si premurò di informare direttamente l’Fbi della sua presenza a Dallas quel giorno, proprio nelle ore in cui il corteo di Kennedy si presentava all’appuntamento con la storia in Dealey Plaza. Nelle stesse ore Richard Nixon, presente a Dallas da tre giorni per «motivi personali» – peraltro mai accertati – ripartiva alla volta di New York, dove avrebbe appreso dell’avvenuto omicidio di John Kennedy. Sarebbe diventato l’unico uomo al mondo a non ricordarsi del momento esatto in cui apprese la notizia, fornendone negli anni ben tre versioni differenti: all’aeroporto, durante il tragitto in taxi, sotto il portone di casa. «Diventano così tre, contando anche Johnson che lo sarebbe diventato quel pomeriggio, i futuri presidenti che erano a Dallas quel giorno. Un curioso crocevia della storia, se non altro».
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Paradiso Pontevedra: 80.000 abitanti, e neppure un’auto
«Immaginate per un attimo di uscire di casa e non dover sentire il rumore delle auto, dei clacson, e di potere respirare un aria leggera, pulita. Così, ogni giorno. Se per alcuni potrebbe sembrare un sogno, stare lontano dai rumori e dall’inquinamento, per altri è la quotidianità», scrive Michele Cocchiarella su “Wired”, pensando a Pontevedra, in Galizia, nell’estremo nord-ovest della Spagna, soprannominata “la città senza auto”, grazie a una massiccia politica di pedonalizzazione portata avanti dalle amministrazioni fin dal 1999. Gli effetti di questa scelta, conferma Massimiliano Zocchi su “Coscienze in Rete”, oggi si traducono in benessere di vita per gli abitanti, turismo fiorente, attività commerciali che crescono, così come è in aumento anche la popolazione. Ormai, a Pontevedra, spostarsi in automobile è quasi del tutto proibito. Non si tratta di un piccolo paesino, dove potrebbe sembrare un provvedimento semplice, ma invece è un centro da oltre 80.000 abitanti. La pedonalizzazione è partita dal centro storico, per poi estendersi anche ad aree periferiche, con solo pochi tratti aperti alle auto, dove però il limite di velocità è fissato a 30 chilometri orari. Primo risultato evidente: incidenti stradali calati in modo drastico e zero vittime della strada.«Il piccolo commercio, che spesso si dice soffra nel caso di aree pedonali, invece qui fiorisce, grazie al continuo passaggio di persone che possono guardare le vetrine senza paura di essere investite, o frastornate dal continuo rumore dei veicoli a motore», aggiunge Zocchi. Anche la popolazione sembra apprezzare il modello, deciso dal sindaco Miguel Anxo Fernandez. «Mentre diverse città della Galizia perdono abitanti, Pontevedra ne riceve, con oltre 10.000 cittadini che hanno deciso di trasferirsi nella città car-free». Tranquillità e aria pulia, resa molto più respirabile dall’assenza delle auto. L’inquinamento derivante dal traffico è sceso del 95%, per un totale di emissioni di CO2 diminuite del 70%, grazie agli spostamenti che avvengono perlopiù in bici o a piedi. «Le dimensioni del centro abitato sicuramente hanno facilitato questo cambiamento, ma ci sarebbero tante città, anche italiane, dove sarebbe possibile attuare politiche simili. Ma si sa, troppo comodo parcheggiare l’auto davanti al negozio che dobbiamo visitare».Il sindaco Miguel Anxo Fernandez Lores, eletto nel 1999 è giunto al suo quinto mandato, riporta Cocchiarella su “Wired”: non sono mancati i riconoscimenti alla città come l’ultimo nel 2015, il premio internazionale di eccellenza urbana del Center for Active Design a New York. «Il primo cittadino Lores ha guidato una rivoluzione contro le 27.000 auto che percorrevano le strade del centro», riducendo il traffico del 90%. «Solo questo basterebbe per rendersi conto di quanto importanti siano gli effetti di una politica di questo tipo». Ma andando oltre, aggiunge “Wired”, il numero degli incidenti è passato dai 1.203 del 2000 agli appea 484 nel 2014, e il 70% degli spostamenti avviene in bicicletta o a piedi. Non è tutto: ad aiutare turisti e cittadini ci pensano anche due app, “Metrominuto” (che permette di calcolare i tempi di percorrenza a piedi da un posto all’altro) e “Pasominuto”, in cui sono presenti venti itinerari e dove per le distanze percorse vengono calcolati anche il numero di passi e le calorie bruciate.L’effetto di questo cambiamento ha colpito anche il commercio locale che non conosce crisi, e c’è stato un incremento degli spazi verdi e delle aree da gioco per bambini. «Vista così, paragonata ad altre molto meno sostenibili, sembra quasi una città lontana dai tempi odierni», aggiunge Cocchiarella. «Certo forse non sarebbe facile pensare a misure simili nelle città con maggiori criticità su determinati profili, ma di sicuro si potrebbe puntare su altre soluzioni in linea con ogni tipo di territorio». Quello che colpisce è che a Pontevedra questo percorso è iniziato quindici anni fa, e oggi ha prodotto risultati che fanno invidia a tanti. «Quando si parla di problemi legati all’inquinamento, sostenibilità, traffico, in alcune città sembra sempre di essere lontani secoli da una svolta», scrive “Wired”. «La differenza è nella volontà di mettere in atto una serie di misure che migliorino la vita di ogni giorno». Da noi, traffico e smog a molti sembrano un’abitudine, un problema di cui si parla solo quando determinati parametri sono oltre la media e quindi scattano le misure immediate. «Troppo spesso si percepisce questo e non gli effetti di una politica lungimirante», osserva ancora “Wired”. «Le idee non mancano, gli esempi pure. Chi vive in posti dove i polmoni sono messi a dure prova, sa cosa significa. E pensare che a Pontavedra tutto è iniziato quindici anni fa: noi a cosa pensavamo?».«Immaginate per un attimo di uscire di casa e non dover sentire il rumore delle auto, dei clacson, e di potere respirare un aria leggera, pulita. Così, ogni giorno. Se per alcuni potrebbe sembrare un sogno, stare lontano dai rumori e dall’inquinamento, per altri è la quotidianità», scrive Michele Cocchiarella su “Wired”, pensando a Pontevedra, in Galizia, nell’estremo nord-ovest della Spagna, soprannominata “la città senza auto”, grazie a una massiccia politica di pedonalizzazione portata avanti dalle amministrazioni fin dal 1999. Gli effetti di questa scelta, conferma Massimiliano Zocchi su “Coscienze in Rete”, oggi si traducono in benessere di vita per gli abitanti, turismo fiorente, attività commerciali che crescono, così come è in aumento anche la popolazione. Ormai, a Pontevedra, spostarsi in automobile è quasi del tutto proibito. Non si tratta di un piccolo paesino, dove potrebbe sembrare un provvedimento semplice, ma invece è un centro da oltre 80.000 abitanti. La pedonalizzazione è partita dal centro storico, per poi estendersi anche ad aree periferiche, con solo pochi tratti aperti alle auto, dove però il limite di velocità è fissato a 30 chilometri orari. Primo risultato evidente: incidenti stradali calati in modo drastico e zero vittime della strada.