Archivio del Tag ‘New York’
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Fiat-Chrysler, futuro all’estero. E dal governo, silenzio
La nuova Fiat Chrysler Automobiles avrà la sede sociale in Olanda. Quella fiscale nel Regno Unito, ma il gruppo continuerà a pagare le tasse nei paesi in cui gli utili saranno prodotti. La società sarà quotata alla borsa di New York, dove i titoli trattati sono migliaia e il loro valore si misura in trilioni di dollari, e in quella di Milano, dove i titoli e il loro valore totale sono grosso modo otto o dieci volte di meno. Ricerca, sviluppo, progettazione e adattamento evolutivo dei vari modelli saranno concentrati in Usa, poiché essi vanno per forza dove si realizza il grosso della produzione, ma forse un pezzo resterà a Torino per sostenere il cosiddetto polo del lusso. Gli stabilimenti principali sono sparsi tra Usa, Canada e Messico (Chrysler), ovvero tra Brasile, Polonia, Turchia e Italia (Fiat). La rete dei fornitori dei tre principali livelli (sistemi, sottosistemi e componenti minori) sarà distribuita in gran parte del mondo.Devono veramente amare molto le grandi scacchiere e le partite complicate Sergio Marchionne e John Elkann, per avere aperto quasi contemporaneamente tanti fronti di gioco, ed essere riusciti finora a condurre la partita piuttosto che farsela imporre dall’avversario. Essi sanno bene che dall’altra parte vi sono molti altri attori a progettare ed eseguire le prossime mosse, e alcuni di essi, oltre ad essere abili, non hanno accolto troppo bene l’acquisizione di Chrysler. In Usa, molti investitori e analisti hanno patito la mossa del cavallo consistente nell’acquisire la Chrysler in parte con i soldi del governo americano, e in maggior parte con i soldi della Chrysler e dei fondi dei suoi sindacati. Ma più di questa operazione, che ha costituito senza dubbio un successo strategico da parte del Lingotto sul piano finanziario, essi hanno scarsamente gradito che il rilancio della società americana sia avvenuto soprattutto mediante il rilancio di modelli stagionati e non proprio ecologicamente corretti come la Jeep Grand Cherokee, piuttosto che investire gli utili in nuovi modelli idonei a rinfrescare gli allori di Chrysler. Per tacere dei loro giudizi sulla difficile situazione dell’auto Fiat nel nostro paese, che ha portato molti a parlare di salvataggio del Lingotto da parte della casa di Auburn Hills.Non ci siamo solo noi a chiederci quanti nuovi posti di lavoro si creeranno in Italia grazie all’operazione Chrysler; ci sono anche tanti americani che si chiedono quanti posti saranno creati nel loro paese grazie all’operazione Fiat. Dall’altra parte della scacchiera ci sono ovviamente anche le agenzie di rating. Sono attori che non giocano in proprio, ma sono consiglieri assai ascoltati dagli investitori, in specie fondi di investimento e fondi pensione; proprietari, va ricordato, di metà dell’economia mondiale. Li ha resi potenti e influenti la finanziarizzazione delle imprese industriali, a partire proprio dal settore auto. Quando qualcuno, anni fa, definì le corporation del settore «istituti finanziari che producono anche auto», aveva sott’occhio la situazione della General Motors, la cui divisione finanziaria che contava forse trentamila persone produceva il 40% degli utili della società, che aveva allora 300.000 dipendenti.Da allora, il peso della finanza sulle corporation industriali è ancora cresciuto, donde segue che produrre buone automobili in giro per il mondo non basta per assicurare un successo duraturo al costruttore. Il fatto che Moody’s abbia messo sotto osservazione Fiat per una possibile riduzione del rating, che già non è alto (Ba3), a causa della sua situazione finanziaria, può essere soltanto una mossa intermedia in una partita particolarmente complessa. Ma Marchionne ed Elkann sono in due, mentre dall’altra gli attori che si assiepano attorno alla scacchiera suggerendosi a vicenda le mosse sono dozzine. Manca, ai lati della scacchiera, il governo italiano, che non solo non ha la minima idea o intenzione di entrare in partita, ma non si è nemmeno degnato di rivolgere alla ferrata coppia del Lingotto la madre di tutte le domande: mentre auguriamo al lieto evento le migliori fortune, in concreto, cifra su cifra, documento su documento, qui e ora e non nel decennio prossimo, che cosa ne viene al nostro paese, ai lavoratori italiani, al pubblico bilancio, dalla nascita della Fiat Chrysler Automobiles?(Luciano Gallino, “Fiat-Chrysler, il silenzio del governo”, intervento pubblicato su “Repubblica” il 30 gennaio 2014 e ripreso da “Micromega”).La nuova Fiat Chrysler Automobiles avrà la sede sociale in Olanda. Quella fiscale nel Regno Unito, ma il gruppo continuerà a pagare le tasse nei paesi in cui gli utili saranno prodotti. La società sarà quotata alla borsa di New York, dove i titoli trattati sono migliaia e il loro valore si misura in trilioni di dollari, e in quella di Milano, dove i titoli e il loro valore totale sono grosso modo otto o dieci volte di meno. Ricerca, sviluppo, progettazione e adattamento evolutivo dei vari modelli saranno concentrati in Usa, poiché essi vanno per forza dove si realizza il grosso della produzione, ma forse un pezzo resterà a Torino per sostenere il cosiddetto polo del lusso. Gli stabilimenti principali sono sparsi tra Usa, Canada e Messico (Chrysler), ovvero tra Brasile, Polonia, Turchia e Italia (Fiat). La rete dei fornitori dei tre principali livelli (sistemi, sottosistemi e componenti minori) sarà distribuita in gran parte del mondo.
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Un giorno il Giappone sgancerà l’atomica su New York
Caroline Kennedy, figlia di Jfk, nuova ambasciatrice americana a Tokyo, ha denunciato la mattanza di 40 delfini avvenuta nella baia di Taiji, nel distretto di Wakayama, dicendosi «profondamente preoccupata dalla disumanità della caccia e dell’uccisione dei delfini» e ricordando che «il governo degli Stati Uniti si oppone a questa pratica». La caccia ai delfini, specie non a rischio di estinzione, in Giappone comincia in autunno e finisce a marzo e «come la signora ambasciatrice deve sapere, noi viviamo di questa attività», ha detto il capo dei pescatori di Taiji. Sono curiosi questi americani, negli ultimi anni con i loro bombardamenti alla “chi cojo cojo”, con i loro dardo senza equipaggio, hanno ucciso, in Afghanistan e in Iraq, centinaia di migliaia di persone, uomini, donne, vecchi, bambini, ma poi si inumidiscono fino alle lacrime per 40 delfini.Il governatore di Wakayama, Yoshinobu Nisaka, ha replicato: «La cultura alimentare varia ed è saggio che le diverse civiltà si rispettino a vicenda. Ogni giorno vengono abbattuti maiali e vacche per la catena alimentare. Sarebbe crudele solo uccidere i delfini?». E il governo nipponico ha tenuto il punto: «Questa forma di caccia è una tradizione culturale». E’ il secondo incidente diplomatico che, in soli due mesi, la signora Kennedy provoca in Giappone. A dicembre si era detta «delusa» perché il primo ministro Shinzo Abe si era permesso di visitare il sacrario di Yasukuni dove sono onorati «anche 14 leader politici e militari giapponesi», condannati per crimini di guerra nel 1946 (nei processi di Tokyo, l’equivalente nipponico di quello di Norimberga; nel settembre 1986 il ministro dell’educazione giapponese, Masayuki Fuijno, sollevò un putiferio ponendo l’elementare domanda: «Chi ha dato ai vincitori il diritto di giudicare i vinti?»).In realtà dietro queste schermaglie c’è qualcosa di molto più profondo. Qualche anno fa mi recai in Giappone invitato dall’università di Kyoto (nemo propheta in patria) a tenere una conferenza su “americanismo e antiamericanismo, il ruolo dell’Europa”. In apparenza i rapporti fra Stati uniti e Giappone, che nel Pacifico è “la quarta sponda” degli Usa, erano ottimi, i rapporti commerciali intensissimi. Ma nell’animo dei giapponesi cova un sordo rancore, anche se, chiuso nel loro impenetrabile formalismo, non viene mai espresso. Lo si può notare solo da dei dettagli. Nel periodo in cui ero in Giappone c’era stata una partita di baseball fra americani e giapponesi, che in questo sport sono assai forti, vinta dai primi 4-3 con un punto contestatissimo. Ebbene, per giorni e giorni lo “Yumiuri Shimbun” e l’“Asahi Shimbun”, giornali serissimi, che parlano solo di economia e di politica internazionale, sono andati avanti a polemizzare su quel punto a loro dire “rubato”. La partita era solo un pretesto.I giapponesi non hanno mai digerito l’Atomica su Hiroshima e Nagasaki e, ancor meno, anche se a noi può sembrare strano, che gli americani, vinta la guerra, gli abbiano imposto di “dedivinizzare” l’Imperatore. L’Imperatore è la simbolica e intoccabile anima del Giappone, non è un uomo in carne e ossa (tanto che il mio giovane interprete, Ken, non ne sapeva nemmeno il nome, non per ignoranza, ma perché non ha importanza). In tanti secoli non c’è stato un solo tentativo di attentato all’Imperatore. Eppure le mura del palazzo imperiale di Kyoto, in legno, sono così basse che anche un ragazzino potrebbe saltarle agevolmente. Attraverso la “dedivinizzazione” dell’Imperatore gli americani, col consueto tatto da elefanti in un negozio di cristalli, hanno cercato di uccidere l’anima stessa del Giappone. I giapponesi non glielo hanno mai perdonato. E sono convinto che verrà il momento in cui getteranno una trentina di atomiche su New York.(Massimo Fini, “Un giorno i giapponesi getteranno 30 atomiche su New York”, intervento pubblicato da “Il Gazzettino” il 24 gennaio 2014 e ripreso da “Come Don Chisciotte”).Caroline Kennedy, figlia di Jfk, nuova ambasciatrice americana a Tokyo, ha denunciato la mattanza di 40 delfini avvenuta nella baia di Taiji, nel distretto di Wakayama, dicendosi «profondamente preoccupata dalla disumanità della caccia e dell’uccisione dei delfini» e ricordando che «il governo degli Stati Uniti si oppone a questa pratica». La caccia ai delfini, specie non a rischio di estinzione, in Giappone comincia in autunno e finisce a marzo e «come la signora ambasciatrice deve sapere, noi viviamo di questa attività», ha detto il capo dei pescatori di Taiji. Sono curiosi questi americani, negli ultimi anni con i loro bombardamenti alla “chi cojo cojo”, con i loro dardo senza equipaggio, hanno ucciso, in Afghanistan e in Iraq, centinaia di migliaia di persone, uomini, donne, vecchi, bambini, ma poi si inumidiscono fino alle lacrime per 40 delfini.
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Fusione Chrysler: ci guadagna solo la Fiat, non l’Italia
L’accordo tra il gruppo Fiat e il sindacato Usa ha suscitato l’entusiasmo nei media italiani, del resto «facili da accendersi per l’impresa piemontese, dati i legami abbastanza stretti che corrono da sempre tra di essa e i nostri quotidiani più importanti». Al coro si sono uniti i soliti sindacalisti Cisl e Uil, nonché “Il Sole 24 Ore”, che parla di «successo del sistema Italia». Successo «del tutto relativo», secondo Vincenzo Comito, vista la quasi-estinzione della decantata “italianità” della Fiat: da tempo, un colosso come Fiat Industrial (camion, trattori, ruspe) «veleggia da un paradiso fiscale all’altro e l’Italia appare l’ultima delle sue preoccupazioni». Ora tocca all’auto. «Quasi ovviamente, il quartier generale del raggruppamento Fiat-Chrysler sarà trasferito negli Stati Uniti e rischiamo quindi di perdere qualche migliaio di posti di lavoro a Torino». Del resto, le vendite e la produzione in Italia sono briciole, mentre il titolo sarà quotato principalmente alla borsa di New York.Per far digerire meglio la pillola all’opinione pubblica del nostro paese, scrive Comito sul “Manifesto” in una riflessione ripresa da “Micromega”, il management confermerà per l’Italia un po’ di investimenti per la produzione di alcuni modelli. Il governo ne approfitterà per chiedere almeno notizie sul destino di Mirafiori e Cassino, come degli altri stabilimenti italiani? A prima vista, i gestori delle “larghe intese” sembrano «occupati in ben più importanti faccende». In ogni caso, oltre a sviluppare singergie produttive, la fusione con Chrysler dovrebbe permettere alla Fiat di «mettere le mani sul tesoretto finanziario dell’azienda Usa», sperando che questo le consenta di investire anche in Italia. «Più che di un successo del sistema Italia – scrive Comito – si potrebbe parlare di un successo degli azionisti, guidati dal pirotecnico Lapo Elkann, clone di Marchionne; alla notizia della fusione i titoli del Lingotto sono subito saliti in misura rilevante. Anche l’amministratore delegato troverà il suo tornaconto nella faccenda, perché potrà consolidare da noi la fama di manager miracolo e vedere anche aumentati i suoi bonus di fine anno».Quanto alla presunta abilità negoziale di Marchionne, il sindacato statunitense aveva chiesto 5 miliardi di dollari per concludere l’affare, mentre il manager Fiat aveva dichiarato con sdegno che il prezzo giusto era di soli 2 miliardi. «Ora scopriamo che la Veba ha ottenuto 4,35 miliardi; si tratta di una cifra molto più vicina alle richieste statunitensi che all’offerta italiana». Di positivo per Torino c’è il fatto che la parte più importante dell’esborso per l’acquisto del 41,5% della Chrysler verrà sostenuto dalla stessa casa americana, mentre l’azienda torinese dovrà pagare soltanto 1,75 miliardi di dollari e non sarebbe obbligata, almeno nell’immediato, a dover ricorrere ad un aumento di capitale, scelta peraltro probabilmente ineludibile tra qualche tempo. Con la fusione si costituisce il settimo gruppo automobilistico mondiale, che avrà comunque molte difficoltà a lottare con i veri protagonisti del settore. «Lo stesso Marchionne aveva dichiarato alcuni anni fa che per stare adeguatamente sul mercato bisognava produrre almeno sei milioni di vetture, ma nel 2013 la Fiat-Chrysler ne avrà consegnate forse poco più di quattro milioni».Il gruppo resta forte in Brasile e resiste negli Usa, mentre è assente nel mercato più importante del mondo – l’Asia – e anche in Russia, area che diventerà la prima in Europa, scavalcando la Germania. La gamma di fascia alta include l’Alfa Romeo e soprattutto la Maserati, la cui proiezione parla di 50.000 vetture l’anno, mentre Mercedes, Bmw e Audi veleggiano ormai su milioni di unità. Nella fascia mediana reggono i pick-up della Crhysler (che però fatica sulle berline), mentre nella fascia bassa la Fiat presidia il mercato con pochissimi modelli, come la Panda e la Cinquecento. Per farcela, secondo Comito, Fiat-Chrysler dovrebbe cercare un alleato strategico in Asia, altrimenti «la stessa sopravvivenza del gruppo potrebbe essere messa in discussione nei prossimi anni», a partire dal 2014 che si annuncia «molto movimentato per i lavoratori del gruppo».L’accordo tra il gruppo Fiat e il sindacato Usa ha suscitato l’entusiasmo nei media italiani, del resto «facili da accendersi per l’impresa piemontese, dati i legami abbastanza stretti che corrono da sempre tra di essa e i nostri quotidiani più importanti». Al coro si sono uniti i soliti sindacalisti Cisl e Uil, nonché “Il Sole 24 Ore”, che parla di «successo del sistema Italia». Successo «del tutto relativo», secondo Vincenzo Comito, vista la quasi-estinzione della decantata “italianità” della Fiat: da tempo, un colosso come Fiat Industrial (camion, trattori, ruspe) «veleggia da un paradiso fiscale all’altro e l’Italia appare l’ultima delle sue preoccupazioni». Ora tocca all’auto. «Quasi ovviamente, il quartier generale del raggruppamento Fiat-Chrysler sarà trasferito negli Stati Uniti e rischiamo quindi di perdere qualche migliaio di posti di lavoro a Torino». Del resto, le vendite e la produzione in Italia sono briciole, mentre il titolo sarà quotato principalmente alla borsa di New York.
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Rampini: il grande ritorno dei Padroni dell’Universo
C’é un fondo d’investimento che si compra un’intera città della California in bancarotta, c’è quello che controlla da solo il 7% di tutta la ricchezza mondiale, 15.000 miliardi di dollari, e c’è il finanziere d’assalto che sfida Apple. I “Masters of the Universe” sono tornati, osserva Federico Rampini: i giganti della finanza americana rinascono più forti che mai. «Il crac sistemico del 2008, che sembrava averli spezzati, è ormai un ricordo lontano: se ne accorge anche Hollywood, con il duo Martin Scorsese-Leonardo Di Caprio» che proprio a loro dedica a “The Wolf, il Lupo di Wall Street”, alla fine di un 2013 che ha visto Wall Street polverizzare ogni record, con l’indice Standard & Poor’s in rialzo del 30%. rispetto al primo gennaio. L’“Economist” dedica una copertina a Blackrock, il fondo d’investimento più grande del mondo, il primo azionista in metà delle 30 maggiori multinazionali del pianeta. E lo raffigura come una roccia nera che incombe su sfondo di cielo azzurro, «un’immagine che evoca Magritte oppure il monolito di Stanley Kubrick».“Time Magazine” invece sulla copertina di dicembre mette Carl Icahn, un nome che rievoca le prime grandi scalate degli anni Ottanta: «L’epoca in cui il romanziere Tom Wolfe coniò, nel “Falò delle vanità”, quel termine arrogante e superbo, inquietante e gonfio di hubris: i Padroni dell’Universo, appunto», scrive Rampini su “Repubblica” in un’analisi ripresa da “Micromega”. Il fondo che possiede una città si chiama Marathon Asset Management, non è neppure uno dei maggiori colossi, amministra “solo” 11 miliardi di dollari. Ha rilevato l’intera Scotia, città californiana a 250 km a nord di San Francisco, dopo la bancarotta municipale. «È un precedente che potrebbe far scuola per metropoli ben più grandi come Detroit, dove il liquidatore dei beni comunali sta mettendo all’asta fallimentare anche i musei cittadini». Intanto, “Time” saluta il ritorno di Icahn, 77 anni e un patrimonio di 20 miliardi che lo colloca al 18esimo posto della classifica “Forbes” dei Paperoni d’America, con questa presentazione: «È il singolo investitore più ricco di Wall Street, e il più temuto raider di grandi imperi industriali».La sua carriera, ricorda Rampini, cominciò con la scalata alla compagnia aerea Twa nel 1985, un anno prima che i rivali di Kkr lo battessero nella conquista alla Nabisco (raccontata in un altro celebre romanzo-realtà sulla finanza Usa, “Barbari alle porte”). Oggi Icahn fa notizia soprattutto per il braccio di ferro che lo oppone a Tim Cook, il chief executive di Apple nel dopo-Steve Jobs. «E qui viene la sorpresa: invece di assalire Apple con una delle solite scorribande finanziarie mordi-e-fuggi, Icahn si fa il paladino di interessi generali», perché «Apple non è una banca». Icahn vuole che la regina degli iPhone e iPad la smetta di accumulare cash inutilizzato (ben 150 miliardi di dollari, una montagna di liquidità tanto impressionante quanto assurda) e lo distribuisca a tutti gli azionisti – lui incluso, ovviamente, che nel capitale di Apple ha investito due miliardi. Ma l’operazione che Icahn pretende da Apple distribuirebbe benefici anche ai piccoli risparmiatori. «I Padroni dell’Universo si sono convertiti come dei Robin Hood? Tutt’altro. Ma almeno il loro è un capitalismo vero, un’economia di mercato non ingessata».Blackrock è un campione che gioca in una categoria a parte: la sua. «È il King Kong dell’investimento moderno, nessun altro può competere per dimensioni». Fondata nel 1988, oggi Blackrock amministra direttamente 4.100 miliardi di dollari dei suoi clienti. Inoltre fornisce piattaforme tecnologiche e software per la gestione di altri 11.000 miliardi. E quei fondi sotto la sua influenza crescono al ritmo frenetico di 1.000 miliardi all’anno. «Naturalmente compra anche bond, materie prime, immobili. La sua vera specialità però resta l’investimento azionario. Ritrovi Blackrock come primo azionista delle tre regine hi-tech americane: Apple, Google, Microsoft. È il primo azionista anche di due colossi petroliferi (Exxon, Chevron), di due tra le maggiori banche Usa (Jp Morgan Chase, Wells Fargo), sempre primo azionista anche in conglomerati industriali come General Electric, Procter & Gamble». Una peculiarità di Blackrock la distingue da altri protagonisti di epoche precedenti nella storia di Wall Street: «Questo maxi-fondo investe soprattutto attraverso strumenti detti “passivi” come gli exchangetraded funds (Etf) che riproducono esattamente l’andamento di indici di Borsa». Soprattutto, Blackrock investe capitali che le vengono affidati anche dai piccoli risparmiatori, per esempio attraverso fondi pensione. «Dunque, a differenza della famigerata e defunta Lehman Brothers o di altre banche d’affari che si rivelarono fragilissime, un investitore istituzionale come Blackrock ha poco “rischio sistemico”».In un certo senso, continua Rampini, la Blackrock ha obbedito anticipatamente alla nuova regola varata solo da poche settimane dall’amministrazione Obama, quella Volcker Rule che vieta ai banchieri di fare speculazioni rischiose coi propri capitali. «È un altro caso di Padrone dell’Universo che può aiutare l’economia di mercato a evitare catastrofi come quella del 2008? Di certo l’universo capitalistico in cui si muove Blackrock dista anni-luce dalla realtà italiana. Per quanto sia un colosso, e grosso azionista di gruppi come Apple, Google, Shell e Nestlè, Toyota e Novartis, in nessuna di queste aziende la sua quota configura una “minoranza di blocco”. Né fa parte di patti di sindacato, che generalmente non esistono a Wall Street e nei mercati più evoluti. Blackrock può usare la frusta verso un management che giudica inefficiente, ma non ha poteri di veto né si può permettere di paralizzare una grande azienda».Il ritorno dei Padroni dell’Universo, aggiunge Rampini, è un fenomeno dalle molte facce. «L’aspetto negativo lo sottolinea chi teme che la crescita americana sia ripartita su basi vecchie, cioé con gli stessi squilibri che generarono la grande crisi del 2008», in particolare «la finanziarizzazione dell’economia e la dilatazione delle diseguaglianze sociali che le è strettamente legata». Larry Summers, ex consigliere economico di Obama, in un importante discorso al Fmi ha evocato il rischio di una «stagnazione secolare», tra i cui sintomi vi sarebbe la deflazione. Uno studio della Washington University lancia l’allarme sulle disparità nel risparmio: il 5% delle famiglie più ricche sta accumulando troppi risparmi e in questo modo deprime i consumi; mentre il 95% rimanente è costretto a dilapidare lentamente i propri patrimoni per contrastare il peggioramento del tenore di vita.Il “lato positivo” di Wall Street, se esiste, forse lo vedono meglio di tutti gli italiani: per contrasto con la loro realtà nazionale. Il ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni, in una recente visita a New York in cui ha incontrato proprio i dirigenti di Blackrock, oltre agli uomini di Citigroup e George Soros, ha potuto misurare i benefici della loro intraprendenza: «Diversi attori della finanza Usa si sono offerti di liquidare in fretta le sofferenze e i crediti incagliati delle banche italiane, un’operazione che consentirebbe alle aziende di credito di tornare a prestare fondi all’economia reale». Dietro un’economia americana che cresce del 3% e genera 200.000 nuovi posti di lavoro al mese, c’è anche questa finanza “flessibile”, che «ha liquidato in tempi record le scorie tossiche della crisi del 2008, ed è tornata a fare il suo mestiere». La storia di come le banche americane si sono rimesse in piedi, nel corso degli ultimi quattro anni, è lo specchio riflesso — all’incontrario — di tutto quel che non accade nel sistema bancario italiano. «Quando le banche Usa sembravano stremate, al tracollo, sul punto di affondare sotto il peso di investimenti sbagliati e crediti inesigibili, la prima mossa è stata la svendita a prezzi di liquidazione di tutta la “monnezza” che poteva impedire la riemersione».In seguito o in parallelo, ci sono state le grandi ricapitalizzazioni. Le banche hanno cercato capitali freschi sul mercato aperto. Una delle prime operazioni la fece un personaggio emblematico del capitalismo Usa, Warren Buffett, con il suo investimento “salvifico” in Goldman Sachs, fatto in un’epoca in cui sui mercati ancora regnava una sfiducia quasi disperata. Una volta ricapitalizzate, anche con l’intervento dei Padroni dell’Universo, le banche hanno riguadagnato la fiducia dei mercati, sono apparse sufficientemente solide da superare gli “stress test” degli organi di vigilanza. E hanno ripreso a fare credito all’economia reale, famiglie e imprese, alimentando la ripresa attuale. Niente blindature degli assetti azionari, niente “foreste pietrificate” dei soliti noti. Questo è il capitalismo americano, conclude Rampini: è la “macchina del mercato” che, negli Usa, «ha ripreso a girare a pieno ritmo».C’è un fondo d’investimento che si compra un’intera città della California in bancarotta, c’è quello che controlla da solo il 7% di tutta la ricchezza mondiale, 15.000 miliardi di dollari, e c’è il finanziere d’assalto che sfida Apple. I “Masters of the Universe” sono tornati, osserva Federico Rampini: i giganti della finanza americana rinascono più forti che mai. «Il crac sistemico del 2008, che sembrava averli spezzati, è ormai un ricordo lontano: se ne accorge anche Hollywood, con il duo Martin Scorsese-Leonardo Di Caprio» che proprio a loro dedica a “The Wolf, il Lupo di Wall Street”, alla fine di un 2013 che ha visto Wall Street polverizzare ogni record, con l’indice Standard & Poor’s in rialzo del 30%. rispetto al primo gennaio. L’“Economist” dedica una copertina a Blackrock, il fondo d’investimento più grande del mondo, il primo azionista in metà delle 30 maggiori multinazionali del pianeta. E lo raffigura come una roccia nera che incombe su sfondo di cielo azzurro, «un’immagine che evoca Magritte oppure il monolito di Stanley Kubrick».
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Al-Qaeda, il killer pagato della Nato: scandalo in Turchia
Il “banchiere” di Al-Qaeda, Yasin al-Qadi, ricercato dagli Stati Uniti dopo gli attentati contro le loro ambasciate in Kenya e Tanzania del 1998, era un amico personale sia dell’ex vicepresidente Usa Dick Cheney sia dell’attuale primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan, che ha visitato almeno quattro volte nel 2012 facendo scalo a Istanbul dove – grazie alle telecamere oscurate – ha aggirato i controlli doganali, sotto la protezione degli agenti sicurezza turchi. Secondo la polizia e i magistrati turchi che hanno rivelato queste informazioni e incarcerato i collaboratori di svariati ministri coinvolti nel caso, il 17 dicembre 2013 – prima di essere spogliati delle indagini o sollevati dal loro incarico dal primo ministro – Yasin al-Qadi e Erdoğan avevano sviluppato un vasto sistema di distrazione di fondi per finanziare Al-Qaeda in Siria, racconta Thierry Meyssan, secondo cui lo scandalo che sta scutendo la Turchia rivela che Al-Qaeda, in realtà, «ha sempre combattuto gli stessi nemici dell’Alleanza Atlantica», fin dalla sua nascita nel 1979 come struttura di guerriglia contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan.Nel momento in cui questo incredibile doppio gioco veniva portato alla luce ad Ankara, continua Meyssan in un post tradotto da “Megachip”, la polizia turca ha fermato vicino al confine siriano un camion che trasportava armi per Al-Qaeda. «Delle tre persone arrestate, una dichiarava di trasportare il carico per conto della Ihh, l’associazione “umanitaria” dei Fratelli Musulmani turchi, mentre un’altra affermava di essere un agente segreto turco in missione». In definitiva, il governo ha ostacolato la giustizia, confermando che «il trasporto era un’operazione segreta del Mit (i servizi segreti turchi)», e ha ordinato che il camion e il suo carico potessero riprendere il loro cammino. L’inchiesta mostra anche che il finanziamento turco di Al-Qaeda usava un’industria iraniana, sia per agire sotto copertura in Siria sia per condurre operazioni terroristiche in Iran. «La Nato disponeva già di complicità a Teheran durante l’operazione “Iran-Contras” presso i circoli vicini all’ex presidente Rafsanjani, come lo sceicco Rohani, divenuto poi l’attuale presidente».Questi fatti, aggiunge Meyssan, sono intervenuti nel momento in cui l’opposizione politica siriana in esilio lancia una nuova teoria alla vigilia della Conferenza di Ginevra: le milizie qaediste che hanno seminato strage in Siria sarebbero creature dei servizi di Assad, incaricate di terrorizzare la popolazione per indurla ad accettare la protezione del regime. «Saremmo dinque pregati di dimenticare tutto il bene che la stessa opposizione in esilio diceva di Al-Qaeda da tre anni, così come il silenzio degli Stati membri della Nato sulla diffusione del terrorismo in Siria». Pertanto, se si può ammettere che la maggior parte dei leader dell’Alleanza atlantica ignorasse del tutto il sostegno della loro organizzazione al terrorismo internazionale, per Meyssan «si dovrà anche ammettere che la Nato è il principale responsabile mondiale del terrorismo».Finora, le autorità Nato hanno sostenuto che il movimento jihadista internazionale, da esse sostenuto in occasione della sua formazione durante la guerra in Afghanistan contro i sovietici, si sarebbe ritorto contro di loro dopo la liberazione del Kuwait nel 1991. Gli Stati Uniti accusano Al-Qaeda di aver attaccato le ambasciate Usa in Kenya e in Somalia nel 1998 e di aver fomentato gli attentati dell’11 settembre 2001 a New York, ma ammettono che dopo la morte “ufficiale” di Osama Bin Laden, nel 2011, «certi elementi jihadisti hanno nuovamente collaborato con loro in Libia e in Siria». Tuttavia, Washington avrebbe messo fine a questo riavvicinamento tattico nel dicembre 2012. «In realtà, questa versione è contraddetta dai fatti», sottolinea Meyssan, perché Al-Qaeda ha sempre combattuto dalla parte della Nato, come ora viene confermato anche dallo scandalo turco.Il “banchiere” di Al-Qaeda, Yasin al-Qadi, ricercato dagli Stati Uniti dopo gli attentati contro le loro ambasciate in Kenya e Tanzania del 1998, era un amico personale sia dell’ex vicepresidente Usa Dick Cheney sia dell’attuale primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan, che ha visitato almeno quattro volte nel 2012 facendo scalo a Istanbul dove – grazie alle telecamere oscurate – ha aggirato i controlli doganali, sotto la protezione degli agenti sicurezza turchi. Secondo la polizia e i magistrati turchi che hanno rivelato queste informazioni e incarcerato i collaboratori di svariati ministri coinvolti nel caso, il 17 dicembre 2013 – prima di essere spogliati delle indagini o sollevati dal loro incarico dal primo ministro – Yasin al-Qadi e Erdoğan avevano sviluppato un vasto sistema di distrazione di fondi per finanziare Al-Qaeda in Siria, racconta Thierry Meyssan, secondo cui lo scandalo che sta scutendo la Turchia rivela che Al-Qaeda, in realtà, «ha sempre combattuto gli stessi nemici dell’Alleanza Atlantica», fin dalla sua nascita nel 1979 come struttura di guerriglia contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan.
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Jekyll Island: il golpe dei banchieri che crearono la Fed
Jekyll Island, 1910, ovvero l’isola dei pirati di lusso. Un gruppo di banchieri e politici sbarca nell’isola di Jekyll (Georgia) dopo un viaggio segreto in treno. Provengono dalla stazione di Hoboken, nel New Jersey, dove i giornalisti li avevano appena intravisti. Se li erano lasciati sfuggire, costernati, ma non potevano sapere che la “delegazione” era svicolata con un vagone ermeticamente chiuso, tendine abbassate, per una destinazione sconosciuta. Il senatore Nelson Aldrich guida la delegazione, in qualità di capo della Commissione Monetaria Nazionale. Tre anni prima, c’era stato un panico tragico per la crisi finanziaria e nel 1908, il presidente Theodor Roosevelt aveva creato una Commissione per stabilizzare il sistema monetario nella federazione, e Aldrich aveva condotto i membri della Commissione per una tournée in Europa di due anni: costo, 300.000 dollari dell’epoca, naturalmente a spese del contribuente americano. Dopo tanto tempo, nel 1910, Aldrich non aveva né redatto il rendiconto del viaggio né – meno che mai – abbozzato la riforma bancaria.Alla stazione di Hoboken, Aldrich era accompagnato da suo segretario particolare, Shelton, dal Segretario aggiunto al tesoro, Piatt Andrew, dal presidente della National City Bank, Frank Vanderlip, dall’associato della J.P Morgan, Henry Davison, dal presidente della First National Bank, Charles Norton, da un altro rappresentante della J.P. Morgan, Benjamin Strong, e da Paul Warburg, della banca Kuhn, Loeb &Co. di New York. Si imbarcarono su una vedetta misteriosa, diretta a Jekyll Island, e non tutti sapevano la portata né la durata del soggiorno laggiù. Il senatore Aldrich aveva confidato solo a Henry, Frank, Paul e Piatt che la delegazione sarebbe rimasta in clausura nell’isola sino a quando non avesse elaborato un sistema monetario “scientifico” per gli Stati Uniti.Il Club di Jekyll lsland lavorerà per due settimane. Nell’isola è già rappresentato un sesto dell’intera ricchezza mondiale. Non è gente che si accontenta. Ha bisogno di assicurarsi l’eternizzazione dell’immenso potere finanziario e politico acquisito. Vedremo in un prossimo articolo il percorso che farà il lavoro da cospiratori, sino al fatidico dicembre 1913, durante il primo anno del presidente Woodrow Wilson. Sono dunque passati cento anni dalla nascita del Federal reserve system, che non è né federale, né riserva, ma semplicemente un potere di alcuni oligarchi di creare moneta e credito per il proprio profitto.(Agostino Alciator, “Fed, centenario di un colpo di Stato”, da “Megachip” del 1° gennaio 2014. Già diplomatico, console italiano in Francia, Alciator è responsabile esteri di “Alternativa”, laboratorio politico fondato da Giulietto Chiesa).Jekyll Island, 1910, ovvero l’isola dei pirati di lusso. Un gruppo di banchieri e politici sbarca nell’isola di Jekyll (Georgia) dopo un viaggio segreto in treno. Provengono dalla stazione di Hoboken, nel New Jersey, dove i giornalisti li avevano appena intravisti. Se li erano lasciati sfuggire, costernati, ma non potevano sapere che la “delegazione” era svicolata con un vagone ermeticamente chiuso, tendine abbassate, per una destinazione sconosciuta. Il senatore Nelson Aldrich guida la delegazione, in qualità di capo della Commissione Monetaria Nazionale. Tre anni prima, c’era stato un panico tragico per la crisi finanziaria e nel 1908, il presidente Theodor Roosevelt aveva creato una Commissione per stabilizzare il sistema monetario nella federazione, e Aldrich aveva condotto i membri della Commissione per una tournée in Europa di due anni: costo, 300.000 dollari dell’epoca, naturalmente a spese del contribuente americano. Dopo tanto tempo, nel 1910, Aldrich non aveva né redatto il rendiconto del viaggio né – meno che mai – abbozzato la riforma bancaria.
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Mistero della Fed, il super-potere che domina il mondo
Le potenze del capitalismo finanziario avevano un piano chiarissimo, un obiettivo di lungo termine: «Creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, capace di dominare il sistema politico di ogni nazione e l’economia del mondo». Questo sistema «doveva essere controllato con modalità feudali delle banche centrali del mondo, attraverso accordi segreti». Cardine del sistema, la Banca per i regolamenti internazionali di Basilea, privata e controllata dalle banche centrali mondiali, a loro volta privatizzate. «Ogni banca centrale punta a dominare il suo governo attraverso la capacità di controllare i prestiti sui titoli di Stato, manipolare le valute estere, influenzare il livello di attività economica del paese e condizionare politici cooperativi e compiacenti attraverso ricompense economiche nel mondo del business». A scattare questa fotografia dello scenario attuale è il globalista Carroll Quigley, nel libro “Tragedia e speranza. Una storia del mondo nel nostro tempo”. L’aspetto sconvolgente, fa notare Mauro Bottarelli, è che quel libro uscì nel lontano 1966.Tutto chiaro: nuovo ordine mondiale. Ovvero: il capitalismo finanziario sfratta le sovranità nazionali, cioè l’economia pubblica e democratica, smantellando il potere degli Stati. Scomparso nel ’77, Quigley era un membro molto influente del “Council on Foreign Relations”, il super-salotto che detta l’agenda economica, finanziaria e geopolitica americana attraverso le sue sedi di Washington e New York. Tra i suoi 1.4000 membri, il vero super-potere mondiale, figurano militari e grandi banchieri, rettori universitari e direttori di giornali e televisioni, i vertici delle fondazioni Ford e Rockefeller, presidenti americani (Hoover, Eisenhower, Johnson e Nixon) e segretari di Stato come Edward Reilly Stettinius, Dean Acheson, John Foster Dulles, Christian Archibald Herter e Dean Rusk. Essendo la banca centrale più potente al mondo, la Federal Reserve – che ha appena compiuto cent’anni – era dunque destinata, fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, a un ruolo egemone per portare a termine il progetto globalista. Obiettivo: imporre la sua agenda ai governi, scavalcando la funzione pubblica.Murray Rothbard, economista americano di scuola austriaca, descrive così la banca centrale Usa: «L’operazione più segreta e meno riconducibile al governo federale non è, come ci si potrebbe aspettare, la Cia, la Dia, o qualche altra agenzia di intelligence super-segreta», perché tutte le strutture di intelligence sono comunque sottoposte al controllo democratico del Congresso. In segretezza, la Fed batte ogni altra struttura: «Il Federal Reserve System non è riconducibile a nessuno, non ha un budget, non è soggetto a nessun controllo e nessuna commissione del Congresso conosce le sue operazioni o le può davvero supervisionare». La Federal Reserve, che ha il controllo totale del sistema monetario statunitense, «non deve rendere conto a nessuno». Ecco perché per la Fed, come anche per le altre banche centrali, «è sempre stato importante investirsi di un’aura di solennità e di mistero». Infatti, «se la popolazione sapesse ciò che sta succedendo, se fosse in grado di strappare la tenda che copre l’imperscrutabile Mago di Oz, scoprirebbe ben presto che la Fed, lungi dall’essere la soluzione indispensabile al problema dell’inflazione, è essa stessa il cuore del problema».Nessuna sorpresa che un liberale puro con Rothbard abbia in odio la Fed, ammette Bottarelli su “Il Sussidiario”, ma il cuore del problema è: le banche centrali, Fed in testa, anche grazie a questa crisi sono oggi il potere principale a livello politico ed economico. «Cosa sarebbe oggi Wall Street senza la Fed e la sua liquidità? Dove sarebbero i tassi dei Treasuries e quindi il cuore stesso del sistema immobiliare dei mutui, già massacrato dai subprime? Cosa sarebbe l’America senza gli stop-and-go della Fed sul “taper”, capaci di livellare tassi e far sgonfiare e rigonfiare – evitando l’esplosione – la bolla di liquidità? Temo sarebbe un paese schiantato dalla più colossale crisi finanziaria dal 1929, superata – un eufemismo, vista l’economia reale e le sue grida di dolore – creando la più grossa bolla speculativa e di credito della storia. E, di fatto, rendendo il Congresso poco più che un’appendice, cui far recitare melodrammi a soggetto come quello dello “shutdown” o del “debt ceiling”, pantomime che tornano ciclicamente».La leva del comando è nelle mani della Fed, molto più che all’epoca di Alan Greenspan: «Lo sta diventando ora, grazie a questa crisi che ha reso tutti – finanza, economia, politica – dipendenti dalla Fed e dalle sue azioni. Se la Fed vuole crolla tutto, se non vuole gonfia bolle come bambini durante una festa e fa sfondare a Wall Street un record dopo l’altro, visto che comunque i suoi “azionisti di maggioranza” grazie a quei record e a quella liquidità fuori controllo, macinano soldi su soldi». E la stessa Bce? «Non è forse diventata il fulcro dell’intero sistema Europa, politico ed economico, grazie a questa crisi?». Unione bancaria, supervisione unica, regolamenti per i fallimenti e le nazionalizzazioni di istituti, tassi d’interesse, operazioni di finanziamento e rifinanziamento: «Quale Stato può andare contro la Bce? Nessuno, e l’Italia ne sa qualcosa. Chi ha creato, infatti, se non l’Eurotower, il cordone ombelicale tra debito sovrano e sistema bancario, con la liquidità offerta a costo zero alle banche affinché con quei soldi comprassero titoli di Stato dei paesi in crisi, abbassando artificialmente lo spread?».Quello che Bottarelli chiama «incesto» è oggi sotto gli occhi di tutti: «Solo le banche italiane hanno 450 miliardi di debito pubblico nei bilanci, quelle greche hanno ricomprato il 99% del debito ellenico detenuto da soggetti esteri, spalancando le porte al fallimento del paese senza conseguenze, quelle spagnole pure, quelle portoghesi anche». I governi di questi paesi possono forse fare qualcosa al riguardo? «No, devono sottostare alle regole della Bce, la quale può uccidere o lasciare in vita un governo come una banca con una semplice decisione sui tassi, visto che non esiste più alcuna leva di sovranità per le nazioni». La Bce di Trichet era così forte? «No, lo sta diventando sempre più e sempre più in fretta quella di Mario Draghi, uomo Goldman Sachs». Eccesso dietrologico? «Forse, ma rileggete le parole di Carroll Quigley, datate 1966». Nient’altro che un’unica, colossale “coincidenza”? Certo, ha il suo peso l’insaziabile avidità dei banchieri affaristi. Ma c’era soprattutto un duplice obiettivo da centrare: «Far purgare un sistema ormai marcio, tra derivati e altre porcherie, e contestualmente preparare il campo per l’ascesa della Fed e delle altre banche centrali a nuovi riferimenti politici».Perché chi ha visto nascere questa crisi è stato deriso e isolato? Evidente: rischiava di rivelare la vera natura dell’operazione. La verità è che il 15 settembre 2008 qualcuno ha deciso che la crisi doveva prendere un’altra piega e un’altra velocità, insiste Bottarelli. Chi ha deciso di far morire Lehman Brothers, salvando tutti gli altri? E’ stata proprio la Fed di Ben Bernanke, di concerto con l’ex segretario al Tesoro, Henry Paulson. Quel fallimento, aggiunge Bottarelli, aveva un scopo preciso: «Tramutare la Fed nel motore immobile del sistema economico-politico-finanziario Usa e mondiale». Inutili le proteste di Dick Fuld, già capo di Lehman Brothers: «Paulson ha fornito dati compromessi agli altri istituti di credito quando c’era bisogno di aiutarci, non avevamo problemi di liquidità». Il riferimento di Fuld è noto: nella notte del 14 settembre 2008, quindi il giorno prima della bancarotta, ci fu un meeting fra Paulson e i vertici delle principali banche di Wall Street. Erano presenti anche il presidente della Fed di New York, Timothy Geithner, il numero uno di Bank of America, Kenneth Lewis, e il capo della Sec, Christopher Cox. Per tenere in piedi la Lehman Brothers servivano 100 miliardi di dollari. Ma a porre il veto furono Paulson e la Merrill Lynch. Gli altri non mossero un dito e Lehman fallì.Attenzione: nella stessa settimana della bancarotta di Lehman Brothers, aggiunge Bottarelli, sono state salvate American International Group e la stessa Merrill Lynch, mentre fu concesso a Goldman Sachs e Morgan Stanley di diventare holding bancarie. Perché invece a Lehman Brothers fu impedito di cambiare statuto? La Lehman non era certo la sola a ottenere liquidità a breve termine “esternalizzando” le perdite, «ma la differenza è che affondando Lehman Brothers si affondava un simbolo e si rimetteva Wall Street, così come il Congresso, nelle mani della Fed, inviando anche uno scossone globale agli altri sistemi finanziari esposti verso l’ex gigante». All’epoca, un maxi-salvataggio pubblico non sarebbe ancora stato facilmente digeribile dagli americani, dalla politica e dai mercati. «Ma poi i tempi cambiano», e alla Casa Bianca arriva il primo presidente di colore, che «promette di far pagare il conto della crisi a Wall Street», e invece «la facilita con ogni mossa, lasciando campo sempre più libero allo strapotere della Fed». Un altro democratico, Bill Clinton, grande alfiere della globalizzazione, fu il primo «a creare le condizioni della crisi subprime con la sua politica di mutui a cani e porci con garanzie zero», facendo «pagare il conto dei fallimenti ai cittadini che compravano qualsiasi cartaccia gli venisse proposta come investimento». Tutte coincidenze?Le potenze del capitalismo finanziario avevano un piano chiarissimo, un obiettivo di lungo termine: «Creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, capace di dominare il sistema politico di ogni nazione e l’economia del mondo». Questo sistema «doveva essere controllato con modalità feudali delle banche centrali del mondo, attraverso accordi segreti». Cardine del sistema, la Banca per i regolamenti internazionali di Basilea, privata e controllata dalle banche centrali mondiali, a loro volta privatizzate. «Ogni banca centrale punta a dominare il suo governo attraverso la capacità di controllare i prestiti sui titoli di Stato, manipolare le valute estere, influenzare il livello di attività economica del paese e condizionare politici cooperativi e compiacenti attraverso ricompense economiche nel mondo del business». A scattare questa fotografia dello scenario attuale è il globalista Carroll Quigley, nel libro “Tragedia e speranza. Una storia del mondo nel nostro tempo”. L’aspetto sconvolgente, fa notare Mauro Bottarelli, è che quel libro uscì nel lontano 1966.
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Lo shopping che co-finanzia l’occupazione della Palestina
Il Medio Oriente sarà anche lontano, ma Israele è vicinissimo agli Stati Uniti: ogni anno, al momento di pagare le tasse, Tel Aviv “costa” ad ogni americano esattamente 21 dollari e 59 centesimi, secondo la “Us Campaign to End the Occupation”, organizzazione che si batte per la fine dell’occupazione della Palestina. Ma non è tutto: senza neppure rendersene conto, l’americano medio contribuisce in molti modi, ogni giorno, a “finanziare” indirettamente l’apartheid israeliano. Non è difficile: basta scendere al supermercato sotto casa e acquistare prodotti sfornati da stabilimenti installati in aree “abusive”, occupate in violazione di risoluzioni dell’Onu, in cui ai palestinesi si prelevano risorse vitali, mentre gli operai sono sottoposti a un regime di sfruttamento. Lo sostiene il newkorkese Alex Kane, editor mondiale di “AlterNet” e collaboratore di “Mondoweiss”. Le aziende contestate si chiamano Sodastream (acqua), Sabra Hummus (salse), Ahava (cosmetici), ma anche Hewlett Parckard e Motorola. Alcuni dei loro prodotti finiscono tra le scorte di reparti d’élite, responsabili di operazioni di sterminio come quella di Gaza.I consumatori statunitensi non lo sanno, scrive Kane in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, ma l’acquisto di prodotti come Sabra Hummus e Sodastream», salse tradizionali e macchine per produrre acqua gasata, «potenzia l’occupazione militare di Israele in Palestina», che dura da 46 anni. «Alcune aziende hanno stabilimenti situati in una delle 125 colonie ufficialmente note nella Palestina occupata, le quali in base al diritto internazionale sono illegali». Altre aziende «contribuiscono al mantenimento dell’occupazione attraverso la cooperazione con le Forze di Difesa Israeliane», anche se l’obiettivo principale dell’esercito di Tel Aviv «è quello di proteggere gli insediamenti illegali e di esercitare il dominio sulle vite di milioni di palestinesi». L’acquisto “innocente” di quei prodotti, di fatto, «dà profitti alle aziende che sfruttano le terre e le risorse palestinesi». Sodastream, che trasforma l’acqua del rubinetto in acqua gassata e in altre bevande aromatizzate, è un caso di successo negli Usa: secondo la Cnn, nel 2012 ha raddoppiato i profitti (quasi mezzo miliardo di dollari) dopo esser stata acquistata da una società israeliana, che l’ha poi ceduta a un fondo finanziario d’investimento.Nella pubblicità, l’azienda si dichiara “amica dell’ambiente”. «Ma il lato meno progressista di Sodastream – scrive Kane – si trova nella posizione della sua fabbrica», nell’insediamento di Mishor Adumim, alla periferia di Gerusalemme. La compagnia sostiene di non aver violato il diritto internazionale perché la fabbrica avvantaggia la popolazione palestinese, ma secondo la rivista “Who Profits?” gli operai palestinesi «soffrono condizioni di lavoro difficili». Forza lavoro a basso costo da sfruttare, e senza il diritto di protestare – pena il licenziamento. Rafforzando l’insediamento, Sodastream «contribuisce a uccidere ogni possibilità di uno Stato palestinese vitale e contiguo», dal momento che il distretto industriale «è stato strategicamente costruito per interrompere un facile accesso tra Ramallah e Betlemme, due importanti città della Cisgiordania».Discorso analogo per i produttori di “hummus”, tradizionale salsa a base di pasta di ceci e semi di sesamo, aromatizzata con essenze mediterranee. Gli americani ne vanno pazzi e, secondo l’“Huffington Post”, il produttore israeliano Sabra Hummus ha conquistato il 60% del mercato Usa. Problema: l’azienda «è in parte di proprietà di una società israeliana denominata Strauss Group, che ha “adottato” una unità di élite» dell’esercito. Si tratta della Brigata Golani, ritenuta responsabile di alcune operazioni di “macelleria” contro i civili di Gaza durante l’operazione “Piombo Fuso”. Oltre ad equipaggiare i soldati con kit alimentari e per la cura personale, il Gruppo Strauss – riferisce sempre Kane – ha inoltre ammesso di sostenere anche finanziariamente questa unità militare, per «attività assistenziali, culturali ed educative», ad esempio «aiuti economici per i soldati svantaggiati, attrezzature sportive e ricreative, pacchetti di assistenza, libri e giochi per il club dei soldati». L’analista statunitense accusa anche l’altro grande produttore di condimenti israeliani, Tribe Hummus: la società sarebbe, in parte, di proprietà di Osem, struttura che «collabora con il Fondo Nazionale Ebraico (Jnf)», gruppo che «ha giocato un ruolo chiave prima ancora della creazione dello Stato di Israele, partecipando a progetti con il fondatore dello Stato ebraico, David Ben Gurion». In pratica: «Operazioni di pulizia etnica», per strappare ai palestinesi le loro terre. Divenuto proprietario del 13% dei terreni in Israele, il Jnf collabora attivamente col governo per demolire villaggi palestinesi.Altro capitolo, la gamma di prodotti Ahava, che popolano le migliori vie dello shopping statunitense: «In ebraico, “Ahava” significa “amore”», ricorda Alex Kane, «ma ciò che non sarà mai scritto sui prodotti è che sono realizzati in un insediamento in Cisgiordania, di proprietà delle industrie che stanno illegalmente sfruttando le risorse naturali palestinesi», in primo luogo i rinomati fanghi del Mar Morto, che l’azienda «scava, in violazione del diritto internazionale per lo sfruttamento delle risorse di un territorio occupato». Da questa “sindrome” non è immune l’industria tecnologica: forse non tutti sanno che un colosso mondiale come Hewlett Packard (stampanti, fotocamere, computer e smartphone) possiede anche Eds Israele, la società che controlla – con la biometria – i lavoratori palestinesi. Dal 2009, Hp gestisce le informazioni per l’infrastruttura tecnologica della marina militare e dell’esercito israeliano, oltre a collaborare al progetto “Smart City” nella «colonia illegale» di Ariel in Cisgiordania. Quanto alla telefonia, tra le società “sussidiarie” della compagnia telefonica che si occupa dei militari israeliani figurerebbe anche un marchio come Motorola.Il Medio Oriente sarà anche lontano, ma Israele è vicinissimo agli Stati Uniti: ogni anno, al momento di pagare le tasse, Tel Aviv “costa” ad ogni americano esattamente 21 dollari e 59 centesimi, secondo la “Us Campaign to End the Occupation”, organizzazione che si batte per la fine dell’occupazione della Palestina. Ma non è tutto: senza neppure rendersene conto, l’americano medio contribuisce in molti modi, ogni giorno, a “finanziare” indirettamente l’apartheid israeliano. Non è difficile: basta scendere al supermercato sotto casa e acquistare prodotti sfornati da stabilimenti installati in aree “abusive”, occupate in violazione di risoluzioni dell’Onu, in cui ai palestinesi si prelevano risorse vitali, mentre gli operai sono sottoposti a un regime di sfruttamento. Lo sostiene il newkorkese Alex Kane, editor mondiale di “AlterNet” e collaboratore di “Mondoweiss”. Le aziende contestate si chiamano Sodastream (acqua), Sabra Hummus (salse), Ahava (cosmetici), ma anche Hewlett Parckard e Motorola. Alcuni dei loro prodotti finiscono tra le scorte di reparti d’élite, responsabili di operazioni di sterminio come quella di Gaza.
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Krugman: complotto contro Hollande, che sfida la Troika
Un piano per stroncare Hollande, che avrebbe osato tener testa alla Troika. Il killer incaricato: l’agenzia di rating “Standard & Poor’s”, pronta a declassare la Francia nonostante abbia i bilanci in ordine. Certo, il presidente socialista non si è spinto fino al punto da denunciare Bruxelles, contestando il Fiscal Compact e il meccanismo oligarchico del tritacarne europeo (tagli per tutti, tranne che per i super-ricchi). Ma a irritare gli eurocrati è bastato che Parigi scegliesse di “interpretare” il rigore in modo meno feroce, puntando a proteggere i francesi. Lo rivela un peso massimo dell’economia mondiale, Paul Krugman, sceso in campo dalle pagine del “New York Times” in favore del capo dell’Eliseo: proprio mentre i sondaggi bocciano Hollande e lanciano Marine Le Pen, che minaccia l’uscita dall’euro e addirittura dall’Ue, il Premio Nobel vicino ad Obama sostiene che il livello di intolleranza della Troika è tale da mettere al bando, ricorrendo addirittura a un complotto, l’unico governante europeo che abbia osato anche solo negoziare l’adozione dell’austerity.Per Krugman, il declassamento della solvibilità francese è una «manovra politica destabilizzante»: Wall Street punisce Hollande per aver “osato” salvaguardare il welfare francese. «E’ la prima volta che un economista di punta americano, nonché consulente della Casa Bianca, professore e maestro di colei che andrà a guidare la Federal Reserve Usa, sbugiarda i rating americani denunciandone l’uso politico», scrive Sergio Di Cori Modigliani nel suo blog. Per il “maestro” di Janet Yellen, erede di Benanke alla Fed, «la Repubblica di Francia e monsieur Hollande sono vittime di un complotto del mondo della finanza e delle oligarchie politiche europee perché la Francia è l’unica nazione d’Europa che sta diminuendo il proprio disavanzo pubblico, sta migliorando i propri conti, è perfettamente in linea con i parametri europei, ma ha un difetto grave che nessuno gli perdona: ha salvato, sta salvando e intende salvare lo Stato Sociale della sua nazione».Black out totale, in Italia, sulle enormi ripercussioni dello scontro: da noi, scrive Di Cori Modigliani, si è sorvolato sull’incontro tra Hollande e la Troika nel corso del quale il presidente francese ha chiesto (e ottenuto) il permesso di sforare il tetto del 3% della spesa pubblica «fino alla cifra che riterremo opportuna per gli interessi della Francia», rimandando il pareggio di bilancio al 2015. «L’ha fatto Hollande, lo potevano fare Mario Monti ed Enrico Letta: sarebbe stato sufficiente convocare la Troika, un mese fa – invece che farsi convocare – pretendere di rimandare la scadenza europea al 2015 avvalendosi del precedente francese e sostenere “o ci date una deroga e ci consentite quindi di investire 100 miliardi di euro per pagare i debiti alle piccole e medie imprese immediatamente oppure noi usciamo dall’euro domattina”». Per il blogger, «la Troika si sarebbe arresa». Ma, ovviamente, sarebbero stati necessari «attributi solidi, non quelli di plastica di cui è fornita la nostra classe dirigente», in realtà perfettamente organica (Bilderberg, Goldman Sachs) al “cerchio magico” del super-potere mondiale.In un incontro pubblico all’università di New York, lo stesso Krugman ha rivelato con dovizia di particolari i retroscena del «tragico incontro» che, circa due mesi fa, François Hollande ha avuto con Herman Van Rompuy e Olli Rehn, due sbiaditi politici europei (Belgio, Finlandia) trasformati in “serial killer politici” dal potere non-democratico di Bruxelles. La Francia aveva appena presentato i propri conti alla famigerata Commissione Europea: erano tutti a posto e in linea con le richieste. Ma sia Van Rompuy che Olli Rehn, rispettivamente presidente del Consiglio d’Europa e super-commissario all’economia Ue, contestarono le misure “per come erano state fatte”. Perché Hollande, dice Modigliani, «aveva alzato le tasse ai super-ricchi e quelle sulle rendite finanziarie, aveva dimezzato i costi della politica, aveva aggredito (decurtandoli) gli stipendi dei grossi manager pubblici». E il risparmio così ottenuto, «invece di investirlo per rifinanziare le proprie banche lo aveva dirottato nell’istruzione pubblica, nella ricerca scientifica, nella salvaguardia e cura del patrimonio artistico nazionale, avviando un piano di recupero del territorio e di sostegno per la disoccupazione intellettuale, quest’ultima (per la Francia) una priorità assoluta di cui occuparsi». Attenzione alla perversa sottigliezza della Troika: «Non vennero contestati i conti, che erano a posto, ma venne contestato il principio sulle modalità usate per ottenere il beneplacito della Commissione Europea».Per la Troika «non era accettabile l’idea che lo stato sociale venisse salvaguardato, addirittura implementato». Quindi, non c’entra lo stato di salute del bilancio: quello che davvero importa è che i conti siano a posto «solo e soltanto se contemporaneamente aumenta la disoccupazione e le risorse non vengono investite nei campi dell’istruzione pubblica, della sanità pubblica, della ricerca scientifica». In Italia il Movimento 5 Stelle spiega come e dove trovare in soldi per i 600 euro mensili del “reddito di cittadinanza”? Una proposta sicuramente indigesta, per figuri come Rehn e Van Rompuy: ecco perché Letta & colleghi non la prendono nemmeno in considerazione. «La vera guerra in corso – conclude Modigliani – è tra gli oligarchi del privilegio e la cittadinanza che lavora: il mondo ormai si divide tra chi fa la guerra contro i poveri e chi fa la guerra contro la povertà». Hollande sa che i francesi non accetterebbero di veder cancellato il proprio welfare? E allora la Troika lo fa “bastonare” dalle agenzie di rating. Ora lo difende Krugman, ben sapendo che in panchina si sta già scaldando madame Le Pen: in viste delle europee, il Front National annuncia che, di questo passo, per rimettere piede in Francia, personaggi come Rehn e Van Rompuy dovranno esibire i loro documenti alla polizia di frontiera.Un piano per stroncare Hollande, che avrebbe osato tener testa alla Troika. Il killer incaricato: l’agenzia di rating “Standard & Poor’s”, pronta a declassare la Francia nonostante abbia i bilanci in ordine. Certo, il presidente socialista non si è spinto fino al punto da denunciare Bruxelles, contestando il Fiscal Compact e il meccanismo oligarchico del tritacarne europeo (tagli per tutti, tranne che per i super-ricchi). Ma a irritare gli eurocrati è bastato che Parigi scegliesse di “interpretare” il rigore in modo meno feroce, puntando a proteggere i francesi. Lo rivela un peso massimo dell’economia mondiale, Paul Krugman, sceso in campo dalle pagine del “New York Times” in favore del capo dell’Eliseo: proprio mentre i sondaggi bocciano Hollande e lanciano Marine Le Pen, che minaccia l’uscita dall’euro e addirittura dall’Ue, il Premio Nobel vicino ad Obama sostiene che il livello di intolleranza della Troika è tale da mettere al bando, ricorrendo addirittura a un complotto, l’unico governante europeo che abbia osato anche solo negoziare l’adozione dell’austerity.
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Nato economica: giudici scavalcati, il business sarà legge
«Vi ricordate di quel referendum sulla creazione di un mercato unico con gli Stati Uniti? Sapete, quello in cui ci è stato chiesto se le multinazionali dovrebbero avere il potere di annullare le nostre leggi? No, nemmeno io». Geroge Monbiot, sul “Guardian”, avverte: è in arrivo l’ennesimo attacco letale a quel che resta della nostra sovranità: «Dopo tutta quella lunga e penosa discussione sul fatto se dobbiamo o meno restare nell’Unione Europea, il governo non cederà la nostra sovranità a qualche organismo-ombra antidemocratico senza consultarci. O no?». Lo scopo della Ttip, “Transatlantic Trade and Investment Partnership”, nota anche come “la Nato economica”, è quello di eliminare le differenze normative tra Usa e paesi europei. Dettaglio fatale: il nuovo potere «concederebbe al grande business di citare in giudizio i governi che cercano di difendere i propri cittadini». Ovvero, «consentirebbe a una giuria formata da giuristi d’impresa che operano a porte chiuse di non tener conto della volontà del Parlamento e annullare le nostre protezioni legali». E ovviamente, «i difensori della nostra sovranità» (politici, governi, partiti) «non ci dicono nulla».Il meccanismo attraverso cui si arriva a tutto ciò, scrive Monbiot in un servizio ripreso da “Megachip”, è noto come “investor-State dispute settlement”, cioè: risoluzione delle controversie tra Stati e investitori. «E’ già utilizzato in molte parti del mondo per togliere di mezzo le regolamentazioni a tutela delle persone e del pianeta vivente». Primo esempio, l’Australia: dopo un lungo dibattito dentro e fuori del Parlamento, il governo ha deciso che le sigarette avrebbero dovuto essere vendute in semplici pacchetti, contrassegnati solo con delle scioccanti avvertenze per la salute. Decisione convalidata dalla Corte Suprema australiana. «Ma, in seguito a un accordo commerciale tra l’Australia e Hong Kong, la società del tabacco Philip Morris ha agito presso un tribunale offshore per ottenere una ragguardevole somma a titolo di risarcimento per la perdita di quella che definisce una sua proprietà intellettuale». Altro caso, l’Argentina: durante la crisi, in risposta alla rabbia popolare, Buenos Aires aveva imposto il congelamento delle tariffe dell’energia e dell’acqua. Anche lì, però, il governo è stato citato in giudizio da quelle stesse società (internazionali) decise a lucrare sui servizi. Morale: «L’Argentina è stata costretta a pagare più di un miliardo di dollari di risarcimento».Stesso copione nel Salvador, dove le comunità locali hanno pagato un caro prezzo (tre attivisti uccisi) per convincere il governo a rifiutare la concessione per una grande miniera d’oro che minacciava di contaminare le riserve idriche. «Una vittoria per la democrazia? Non per molto, forse», annota Monbiot. «La società canadese che aveva chiesto la concessione ora sta citando El Salvador per 315 milioni di dollari – per la perdita dei suoi profitti futuri». Dal Salvador al Canada: un tribunale aveva revocato due brevetti di proprietà della società americana Eli Lilly, perché la società non aveva prodotto prove sufficienti sui presunti effetti benefici dei suoi prodotti. Eli Lilly ora sta facendo causa al governo canadese per 500 milioni di dollari, e chiede che le leggi sui brevetti del Canada siano cambiate. «Queste aziende (insieme a centinaia di altre) stanno utilizzando le regole sulla risoluzione delle controversie investitore-Stato incorporate nei trattati commerciali firmati dai paesi», scrive il giornalista del “Guardian”. «Le regole sono applicate da giurie che non offrono nessuna delle garanzie assicurate nei nostri tribunali».Le audizioni si svolgono a porte chiuse e i giudici sono avvocati aziendali, molti dei quali lavorano per le stesse società che agiscono in giudizio. I cittadini e le comunità colpite dalle loro decisioni non hanno più alcun valore legale: attraverso quei “giudici del business”, le aziende «possono rovesciare la sovranità dei Parlamenti» e perfino le sentenze delle corti supreme nazionali. Ammette uno dei giudici di questi tribunali: «A tre individui privati è affidato il potere di rivedere, senza alcun limite e senza possibilità di appello, tutte le azioni dei governi, tutte le decisioni dei tribunali, e tutte le leggi di regolamentazione emanate dal Parlamento. Non ci sono dei corrispondenti diritti dei cittadini, osserva Monbiot. «Non possiamo agire in questi tribunali per chiedere una migliore protezione dall’avidità delle società». Come dice il Democracy Centre, questo è «un sistema di giustizia privatizzata per società globali». Parlando delle regole introdotte dal North American Free Trade Agreement, un funzionario del governo canadese rivela: «Ho visto lettere in arrivo da New York e da studi legali con sede a Washington, praticamente su tutte le nuove normative e proposte a tutela dell’ambiente degli ultimi cinque anni. Riguardano prodotti chimici per lavaggio a secco, prodotti farmaceutici, pesticidi, diritti dei brevetti. Praticamente tutte le nuove iniziative sono state prese di mira e la maggior parte non ha mai visto la luce del giorno».Tecnicamente, è la fine della democrazia. E questo, aggiunge Monbiot, è esattamente «il sistema che ci governerà se il trattato transatlantico va avanti». Gli Usa e la Commissione Europea? Entrambi “catturati” dalle multinazionali. Per Bruxelles, i tribunali nazionali non offrono alle aziende una protezione adeguata perché «potrebbero essere prevenuti o non indipendenti». E’ vero il contrario, scrive il “Guardian”: «E’ proprio perché i nostri tribunali generalmente non hanno pregiudizi e sono indipendenti che le imprese vogliono bypassarli». Così, le nuove regole sulle controversie tra investitori e Stati «potrebbero essere utilizzate per distruggere ogni tentativo di salvare il sistema sanitario nazionale dal controllo societario, di regolamentare di nuovo le banche, di frenare l’avidità delle compagnie energetiche, di rinazionalizzare le ferrovie, di lasciare i combustibili fossili nel terreno». Queste regole, sintetizza Monbiot, «distruggono le alternative democratiche» e «mettono fuorilegge le politiche di sinistra», decretando la fine del welfare e della sicurezza sociale, storico pilastro dell’Europa nella quale siamo tutti cresciuti. “Riforme” clandestine, sostenute di soppiatto dai nostri attuali politici: «Questo è il motivo per cui non vi è stato alcun tentativo da parte del governo britannico di informarci su questa mostruosa aggressione alla democrazia, per non parlare poi di fare una consultazione popolare». A tacere sono i politici che «sbuffano a sentir parlare di sovranità», conclude Monbiot. «Svegliamoci, gente: ci stanno fregando».«Vi ricordate di quel referendum sulla creazione di un mercato unico con gli Stati Uniti? Sapete, quello in cui ci è stato chiesto se le multinazionali dovrebbero avere il potere di annullare le nostre leggi? No, nemmeno io». Geroge Monbiot, sul “Guardian”, avverte: è in arrivo l’ennesimo attacco letale a quel che resta della nostra sovranità: «Dopo tutta quella lunga e penosa discussione sul fatto se dobbiamo o meno restare nell’Unione Europea, il governo non cederà la nostra sovranità a qualche organismo-ombra antidemocratico senza consultarci. O no?». Lo scopo della Ttip, “Transatlantic Trade and Investment Partnership”, nota anche come “la Nato economica”, è quello di eliminare le differenze normative tra Usa e paesi europei. Dettaglio fatale: il nuovo potere «concederebbe al grande business di citare in giudizio i governi che cercano di difendere i propri cittadini». Ovvero, «consentirebbe a una giuria formata da giuristi d’impresa che operano a porte chiuse di non tener conto della volontà del Parlamento e annullare le nostre protezioni legali». E ovviamente, «i difensori della nostra sovranità» (politici, governi, partiti) «non ci dicono nulla».
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11/9, ora l’America sa che il governo le ha mentito
Hanno davvero assassinato tremila innocenti per poi avere l’alibi per invadere il mondo? I retroscena sull’11 Settembre, ancora giudicati “puro delirio cospirazionista” dal mainstream, stanno facendo passi da gigante: di fronte all’aggressione della Siria, l’ex deputato Dennis Kucinich ha detto che gli Stati Uniti «diventeranno ufficialmente l’aeronautica militare di Al-Qaeda», ma l’America ne ha avuto abbastanza: nove americani su dieci erano contrari all’invasione. E a proposito dell’11 Settembre, un incredibile 84% delle persone oggi dice che il governo sta mentendo. «Disponiamo di precedenti documentati storicamente che dimostrano come il governo sia pronto a commettere i peggiori crimini contro la propria stessa popolazione». Grazie a “Consensus 9/11”, il board di tecnici indipendenti che ha smontato la verità ufficiale, emerge in tutta la sua minacciosa potenza la tesi peggiore, quella della strategia della tensione: senza esplosivo, le Torri Gemelle non sarebbero mai crollate. Lo dicono ex funzionari dell’intelligence, ingegneri, vigili del fuoco.
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Pilger: il nostro grande nemico, di cui nessuno osa parlare
Attaccata al muro di fronte a me c’è la prima pagina del “Daily Express” del 5 settembre 1945 con le parole: «Scrivo questo come avvertimento per il mondo». Così cominciava il rapporto da Hiroshima di Wilfred Burchett. Fu lo scoop del secolo. Per quel suo solitario, pericoloso viaggio che sfidava le autorità di occupazione americane, Burchett fu messo alla gogna, anche dai colleghi che lavoravano con lui, ma fece sapere al mondo che un atto premeditato di omicidio di massa, su scala epica, aveva innescato una nuova era di terrore. Quasi ogni giorno, ora, ci si riconosce nelle sue parole. Tutta l’intrinseca criminalità dei bombardamenti atomici si è sprigionata, dagli archivi nazionali Usa, per decenni di militarismo camuffati da democrazia. Come si vede chiaramente oggi nello psicodramma della Siria. Ancora una volta, tengono il mondo in ostaggio per combattere un terrorismo, la cui natura e la cui storia è ormai negata anche dal più liberale dei critici. L’Innominato, che è il più grande e pericoloso nemico dell’umanità, abita a Washington.