Archivio del Tag ‘New York’
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Cia e sauditi, la premiata ditta dei tagliatori di teste
Non fanatici, ma mercenari. Traslocati in mezzo mondo – Afghanistan, Balcani, Medio Oriente – per scatenare il terrore, fornendo l’alibi per la “guerra infinita” degli Usa. Al-Qaeda e Isis sono due maschere dello stesso network, organizzato dai sauditi sotto la regia di Washington. «Dalle viscere del carcere di massima sicurezza statunitense di Florence (Colorado), il componente di Al-Qaeda Zacarias Moussaui, condannato all’ergastolo, fa luce su quello che certamente è il segreto più sporco della “guerra al terrore”», scrive Pepe Escobar. «In più di 100 pagine di testimonianze rese nei giorni scorsi in una corte federale di New York, Moussaui fa “esplodere” delle autentiche bombe legate alla “Casa di Saud”». Tra i più importanti finanziatori di Al-Qaeda prima dell’11 Settembre compaiono i principali esponenti del potere saudita, alleato di Washington. Le prime avvisaglie dello scandalo esplodono adesso, spiega Escobar, perché gli Usa ricattano l’Arabia Saudita: guai se Riyadh si sfilasse dall’alleanza, cessando di sostenere sottobanco il network del terrore, che oggi si chiama Califfato, o a scelta Isis, Isil o semplicemente Daesh. E guai se smettono di pompare petrolio, facendone crollare il prezzo per colpire Putin.Nelle rivelazioni dell’ergastolano Moussaui, scrive Escobar in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, troviamo nientemeno che l’ex capo dell’intelligence saudita, il principe Turki al-Faisal, già grande amico di Osama Bin Laden, insieme un personaggio come il principe Bandar Bin Sultan, detto “Bandar Bush”, già ambasciatore saudita negli Stati Uniti «e mancato sponsorizzatore di jihadisti in Siria». Turki e Bandar sono in compagnia «di un caro amico dei mercati occidentali (e di Rupert Murdoch)», cioè il principe Al-Waleed Bin Talal, e con lui «tutti i maggiori “chierici” wahhabiti dell’Arabia Saudita». In altre parole, «nessuno di loro è nuovo a chi segue fin dai tempi dell’Afghanistan degli anni ’80 le sporche vicende degli jihadisti finanziati dai wahhabiti sauditi». Le informazioni, aggiunge Escobar, assumono maggiore importanza se messe in relazione al prossimo libro di Michael Springmann, ex capo della sezione visti a Jeddah, in Arabia Saudita. In “Visto per al-Qaeda”, svelando «tutti gli sdoganamenti della Cia che hanno sconvolto il mondo», Springmann descrive in dettaglio le mosse dell’armata del terrore messa in piedi dagli Usa.Negli anni ’80, la Cia reclutò e addestrò «agenti musulmani» per contrastare l’invasione sovietica in Afganistan. «Più tardi, la Cia avrebbe spostato questi agenti dall’Afganistan ai Balcani, poi in Iraq, in Libia e in Siria, facendoli viaggiare con visti statunitensi illegali». Questi guerriglieri addestrati dagli Usa «si sarebbero poi riuniti in un’ organizzazione che è sinonimo di terrorismo jihadista: Al-Qaeda». Lo scopo politico di queste rivelazioni, dal punto di vista di Washington, secondo Springmann «è di esercitare pressioni sulla Casa di Saud per continuare a pompare le loro eccedenze petrolifere: i recenti rimbalzi petroliferi stanno provocando l’isterismo a Washington, poiché potrebbero essere il segnale di un ripensamento dei sauditi sulla loro guerra dei prezzi del petrolio contro, prima fra tutti, la Russia». Dunque, verso la metà degli anni ’80, “Al-Qaeda” era solo un database in un computer collegato al dipartimento delle comunicazioni del segretariato della Conferenza Islamica, scrive Escobar. «A quel tempo, quando Osama Bin Laden non era che un agente “delegato” Usa che operava a Peshawar, l’intranet di Al-Qaeda era un ottimo sistema di comunicazione per lo scambio di messaggi in codice tra i guerriglieri».“Al-Qaeda” non era un’organizzazione terrorista – ovvero un esercito islamico – e neanche proprietà privata di Osama Bin Laden. «In seguito, verso la metà degli anni 2000 in Iraq, Abu Musab al-Zarqawi – il precursore giordano di Isis/Isil/Daesh – stava reclutando giovani militanti-fanatici-arrabbiati, senza un diretto input da parte di Bin Laden. La sua copertura era Aqi (Al-Qaeda in Iraq)». Quindi, continua Escobar, Al-Qaeda era e resta un marchio di successo. «Non è mai stata un’organizzazione; piuttosto era un elemento operativo essenziale di un’agenzia di intelligence. Da qui l’imperativo categorico: Al-Qaeda è essenzialmente una derivazione dell’intelligence saudita». La miglior prova è il ruolo oscuro, fin dall’inizio, del principe Turki, ex direttore generale per lungo tempo del Mukhabarat, l’intelligence della Casa di Saud («ma Turki non parla, e mai lo farà»). L’intelligence turca, per parte sua, «non ha mai creduto al mito dell’“organizzazione” Al-Qaeda». Le rivelazioni di Moussaui, aggiunge Escobar, «diventano davvero esplosive quando si collegano tutti i punti tra l’ideologia politica della Casa di Saud, la piattaforma politica di Al-Qaeda e l’abbozzo ideologico del falso Califfato di Isis/Isil/Daesh. La matrice di tutti questi è il wahhabismo del 19° secolo – e la sua interpretazione/appropriazione medievale dell’Islam. Tutti usano metodi diversi, alcuni più rumorosi di altri, ma tutti hanno lo stesso fine: il proselitismo wahhabita».La differenza fondamentale, secondo Escobar, è che Al-Qaeda e Isis/Isil/Daesh «sono dei rinnegati wahhabiti che intendono, alla fine, prendere il posto della Casa di Saud – fantoccio comandato dall’Occidente – instaurando in modo ancora più intollerante il potere salafita e/o del Califfato». Per cui, «quando questa “bomba” ancora segreta verrà fuori dal vaso di pandora arabico, crolleranno i presupposti che reggono quel dono che viene continuamente elargito dagli Usa, la “Guerra al Terrore” (guerra infinita)». Non è rassicurante nemmeno il nuovo capo della Casa di Saud, il principe Salman, che «negli anni ’90 era uno strenuo sostenitore del salafismo e del Jihad», inclusa la pratica Bin Laden. Più tardi, come governatore di Riyadh, «si distinse nell’avversione più totale verso gli sciiti, che poi si espandeva nell’odio verso l’Iran nel suo complesso – per non parlare poi del suo odio per qualsiasi cosa che lontanamente ricordasse la democrazia all’interno dell’Arabia Saudita». Assurdo aspettarsi che Salman sia un “riformatore”, «come è assurdo aspettarsi che l’amministrazione Obama interrompa una volta per tutte la sua storia d’amore con i suoi “bastardi preferiti” del Golfo Persico».Ma ora, aggiunge Escobar, c’e’ un nuovo elemento chiave: «La Casa di Saud è disperata. Non è un segreto a Riyadh e in tutto il Golfo che il nuovo Re e i suoi consiglieri ammaestrati dall’Occidente stiano letteralmente perdendo la testa. Si ritrovano circondati dall’Iran – che, per giunta, è sul punto di concludere un accordo nucleare con il Grande Satana l’estate prossima». La situazione non è allegra: i sauditi «vedono il falso Califfato di Isis/Isil/Daesh che controlla gran parte del “Siraq” – e con gli occhi già puntati verso la Mecca e Medina. Vedono gli sciiti Houthi pro-Iran che controllano lo Yemen. Vedono gli sciiti della maggioranza in Bahrein repressi con grandi difficoltà dalle forze mercenarie. Vedono disordini sciiti diffusi nelle province orientali dell’Arabia Saudita, dove c’è il petrolio. Sono sparsi in tutto il Medio Oriente ancora in preda alla psicosi “Assad deve andarsene” (mentre lui non va da nessuna parte). Hanno bisogno di finanziare la “junta” militare al potere in Egitto con miliardi di dollari (l’Egitto è al verde). E oltre a tutto questo, si sono bevuti la storia America-contro-Russia, impegnandosi in una guerra dei prezzi del petrolio che sta consumando il loro budget».Non ci sono prove che Salman sia deciso a compiere lo sforzo di cooperare con il governo di maggioranza sciita a Baghdad, né che tenterà di raggiungere un compromesso con Teheran: «Al contrario, regna la paranoia, poiché nel momento in cui l’Iran riaffermasse la sua supremazia nucleare, una volta concluso l’accordo atteso per l’estate prossima, i sauditi si ritroveranno emarginati ideologicamente e politicamente». Soprattutto, conclude Escobar, non ci sono prove che l’amministrazione Obama abbia la capacità di riconsiderare le relazioni coi sauditi. «Ciò che è certo è che il più sporco segreto della “guerra al terrore” resterà off-limits. Tutto il “terrore” che stiamo vivendo, sia quello reale sia quello costruito a tavolino, proviene da un’unica fonte: non è “l’Islam”, ma l’intollerante e demente wahhabismo», irresponsabilmente incoraggiato, organizzato e finanziato con la piena collaborazione della Cia. Stesso film: dalla strage di americani innocenti l’11 Settembre alla ricomparsa dei “tagliatori di teste” in Siria, in Iraq e ora in Libia.Non fanatici, ma mercenari. Dirottati in mezzo mondo – Afghanistan, Balcani, Medio Oriente – per scatenare il terrore, fornendo l’alibi per la “guerra infinita” degli Usa. Al-Qaeda e Isis sono due maschere dello stesso network, organizzato dai sauditi sotto la regia di Washington. «Dalle viscere del carcere di massima sicurezza statunitense di Florence (Colorado), il componente di Al-Qaeda Zacarias Moussaui, condannato all’ergastolo, fa luce su quello che certamente è il segreto più sporco della “guerra al terrore”», scrive Pepe Escobar. «In più di 100 pagine di testimonianze rese nei giorni scorsi in una corte federale di New York, Moussaui fa “esplodere” delle autentiche bombe legate alla “Casa di Saud”». Tra i più importanti finanziatori di Al-Qaeda prima dell’11 Settembre compaiono i principali esponenti del potere saudita, alleato di Washington. Le prime avvisaglie dello scandalo esplodono adesso, spiega Escobar, perché gli Usa ricattano l’Arabia Saudita: guai se Riyadh si sfilasse dall’alleanza, cessando di sostenere sottobanco il network del terrore, che oggi si chiama Califfato, o a scelta Isis, Isil o semplicemente Daesh. E guai se smettono di pompare petrolio, facendone crollare il prezzo per colpire Putin.
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Guerra civile internazionale, contro le città. Il bersaglio? Noi
Con la caduta dell’Unione Sovietica e la fine dell’equilibrio tra potenze, è scomparsa anche la nozione classica di guerra, sostituita da conflitti locali permanenti che hanno l’obiettivo di seminare il panico nelle grandi città. La dissuasione, ricorda Paul Virilio, si poneva ancora sul piano strettamente militare: gli Stati praticavano una dissuasione reciproca, favorendo l’equilibrio del terrore. Venticinque anni dopo, sono costretti ad ammettere che la corsa agli armamenti tipica della “guerra pura” ha cancellato non soltanto l’Unione Sovietica, che è implosa, ma anche l’idea stessa della “grande guerra classica”, la guerra clausewitziana, prolungamento della politica con altri mezzi. «Questa dissoluzione ha condotto il nostro mondo direttamente tra le braccia del terrore, del disequilibrio terrorista e della proliferazione nucleare che, purtroppo, impariamo a conoscere ogni giorno di più». La copertura antimissilistica globale degli americani, quella sorta di ombrello o parafulmine che Bush andava proponendo a tutti nel mondo, esemplifica bene «il grado di squilibrio e il delirio geostrategico di cui siamo vittime».Surreale, aggiunge Virilio in un post su “Tysm”, anche la risposta che diede Putin a Bush: benissimo, il vostro scudo anti-missile potete installarlo in Russia e in Azerbaigian. «Così, dopo la “grande guerra classica” e politica ci ritroviamo adesso alle prese con una guerra asimmetrica e transpolitica». Sostenere che una guerra è asimmetrica e transpolitica al tempo stesso, secondo Virilio «significa affermare che esiste una condizione di totale disequilibrio fra gli eserciti nazionali, quello internazionale, l’esercito della guerra mondiale e i gruppuscoli di tutti gli ordini e gradi che praticano la guerra asimmetrica, dalle semplici gang di quartiere ai paramilitari». Ed esiste «un parallelismo fra la decomposizione degli Stati avvenuta in Africa e quello che sta succedendo ora nell’America del Sud – in Colombia, tanto per fare un esempio – dove nessun esercito nazionale può nulla contro la proliferazione di gang, mafie locali, paramilitari e guerriglieri alla “Sendero Luminoso”». Persino un esercito potentissimo come quello di Israele fu costretto a impantanarsi, in Libano, contro le milizie “artigianali” e inafferrabili di Hezbollah.Non esistono più “guerre pure”, insiste Virilio, ma c’è ormai una guerra totale e “impura”, nata dalle diverse esigenze e dalla diversa struttura della dissuasione armata: «Questa dissuasione non ha più di mira i soli militari, anzi direi che si indirizza essenzialmente ai civili». Vengono proprio da questo «salto di paradigma nella natura della dissuasione» i recenti fenomeni «inconcepibili, solo venti o venticinque anni fa, quali il “Patriot Act” o le prigioni di Guantanamo». Un fatto da non sottovalutare è il disequilibrio imposto dall’emergere di un nuovo terrorismo. «Nell’era della “guerra impura” ci si sforzava di resistere riportando il sistema al suo punto di equilibrio. Ma tutto questo è diventato impossibile, con la continua proliferazione di “nemici asimmetrici”. Siamo di fronte a una enorme minaccia che incombe sulla democrazia di ogni paese, non soltanto sulla testa dei regimi dell’est, del sud, del nord, di dove vi pare, ma anche sui paesi ritenuti “democratici”, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti. Esiste una dissuasione civile – il “Patriot Act” ne rappresenta il segno più tangibile, ma ce ne sono molti altri, pensiamo a certe leggi contro gli immigrati che rischiano di passare in Europa – che rende la situazione molto più incerta».Virilio denuncia l’esistenza di «una strategia contro le città». Certo, gli esperti sostengono che si debba “ristabilire l’ordine”, «ma ristabilire l’ordine nella società civile è come aprire una finestra sul caos, è una minaccia assoluta, una sfida lanciata vis-à-vis nei confronti di qualsiasi democrazia: su questo punto ci si accorge di avere a che fare con i sintomi di un vero e proprio delirio». La strategia militare, continua Virilio, sembra essersi dislocata nel cuore stesso delle città: «Si potrebbe parlare di un proseguimento della strategia anti-città iniziata durante la Seconda Guerra Mondiale, con i bombardamenti di Guernica, Oradour, Berlino, Dresda, Hiroshima, Nagasaki. La strategia anti-città è stata una delle innovazioni introdotte durante la Seconda Guerra Mondiale, guerra che ha però introdotto anche un equilibrio del terrore: ricordiamoci che le testate nucleari, a est come a occidente, erano puntate direttamente sul cuore delle città. Oggigiorno, assistiamo però a un dislocamento di questa strategia. Siamo passati dall’equilibrio del terrore all’iperterrorismo». Attenzione: «L’iperterrorismo ha un solo campo di battaglia, e questo campo di battaglia è, appunto, la città». Motivo? «Nelle moderne città si concentra il maximum della popolazione e, con un minimo di armi, può essere raggiunto il massimo risultato, il massimo disastro possibile. Non importa con quali armi si può raggiungere questo risultato: niente più bisogno di panzer, nessuna necessità di portaerei, sottomarini imponenti e via discorrendo».La guerra asimmetrica, oramai sinonimo del disequilibrio terrorista, «cancella il teatro delle operazioni esterne a tutto vantaggio della concentrazione metropolitana». Così, «il luogo della guerra diventa, appunto, la città: l’affollamento urbano trascina guerra e terrorismo nel solco di una geostrategia territoriale, portandolo direttamente sulla linea del fronte». Nella Seconda Guerra Mondiale, «la geopolitica si giocava sui campi di battaglia, a Verdun, attorno a Stalingrado, sulle spiagge della Normandia». Ora, nel mirino sono essenzialmente le metropoli. Quando Putin invita Bush a installare in Russia i super-radar, mette a nudo il problema: contro chi dovremmo difenderci? «Oggi, quasi senza accorgercene, ci ritroviamo preda di ciò che i fisici chiamano principio di indeterminazione: i nostri piedi poggiano su terreni incerti, scossi dalla globalizzazione economica e dalla guerra globale eppure “locale”. Questo apparente paradosso è determinato dal fatto che l’estensione del campo e del fronte non contano più in rapporto all’immediatezza della minaccia».«Quando si arriva a collocare un ordigno nucleare direttamente nella metropolitana di New York, di Parigi o Londra – continua Virilio – allora dobbiamo comprendere che non siamo più nella logica totale, ma in quella locale. L’obiettivo è una città, preferibilmente una grande città, per ottenere il massimo disastro». La “guerra impura” nasce dal globalismo inteso come cambiamento di scala: «Il globalismo riduce tutto al più piccolo fra i comuni denominatori possibili: è così che anche un singolo individuo può significare una guerra totale – e quando dico uno, possono ovviamente essere due, tre, dieci. Quando si pensa al World Trade Center, sono stati undici uomini a fare duemila e ottocento vittime, quasi quante a Pearl Harbor. Stesso risultato. Quanto meno il rapporto tra costi ed efficacia è stato straordinario! Le grandi divisioni, le macchine, la portaerei “Eisenhower” restano lì in attesa di una disfatta che non è determinata dal conflitto di un campo contro l’altro, ma dalla dissoluzione del campo stesso che alimentava la guerra “politica”».La guerra politica, conclude Virilio, aveva di mira un territorio o uno Stato delimitato, che da par suo rispondeva arroccandosi attorno alle proprie frontiere. Ora assistiamo a una confusione babelica tra la guerra civile terrorista e la guerra internazionale. A partire dall’11 Settembre la si potrebbe chiamare “guerra civile internazionale”, propone Virilio. «Fino a quel momento, c’erano state guerre civili nazionali, ma quella era la prima vera guerra civile mondiale». Certo, è ancora possibile premere un bottone e far partire dei missili – la Corea e l’Iran possono farlo – ma in realtà, «con la grande dislocazione della strategia, con la fusione fra guerra civile iperterrorista e guerra internazionale, non è più possibile fare troppe distinzioni», perché «non c’è più alcun equilibrio da ristabilire, solo caos da creare», anche grazie alla crisi degli Stati-nazione esplosa in Europa e ai trattati commerciali “dettati” dalle multinazionali, dal Nafta al Ttip. «La guerra legata alla mera territorialità non è più possibile». Avanza un’altra guerra: sporca, asimmetrica, impura, basata sul terrorismo contro le città e i loro abitanti. «Ne va della nostra esistenza, proprio mentre un enorme punto di domanda leva la sua ombra sulla Storia».Con la caduta dell’Unione Sovietica e la fine dell’equilibrio tra potenze, è scomparsa anche la nozione classica di guerra, sostituita da conflitti locali permanenti che hanno l’obiettivo di seminare il panico nelle grandi città. La dissuasione, ricorda Paul Virilio, si poneva ancora sul piano strettamente militare: gli Stati praticavano una dissuasione reciproca, favorendo l’equilibrio del terrore. Venticinque anni dopo, sono costretti ad ammettere che la corsa agli armamenti tipica della “guerra pura” ha cancellato non soltanto l’Unione Sovietica, che è implosa, ma anche l’idea stessa della “grande guerra classica”, la guerra clausewitziana, prolungamento della politica con altri mezzi. «Questa dissoluzione ha condotto il nostro mondo direttamente tra le braccia del terrore, del disequilibrio terrorista e della proliferazione nucleare che, purtroppo, impariamo a conoscere ogni giorno di più». La copertura antimissilistica globale degli americani, quella sorta di ombrello o parafulmine che Bush andava proponendo a tutti nel mondo, esemplifica bene «il grado di squilibrio e il delirio geostrategico di cui siamo vittime».
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Tsipras nelle mani della Lazard, la piovra del regime Ue
Mentre i media tallonano Yanis Varoufakis e Alexis Tsipras, in realtà «uomini di facciata ad uso del pubblico», il vero cervello dell’evoluzione tecnocratica europea è un super-banchiere francese, che risiede a Parigi in Boulevard Hausmann. Si chiama Matthieu Pigasse, si definisce “un socialista pro-mercato” nonché un fan dello “scontro frontale”. Secondo il “Wall Street Journal”, disegnerà «il futuro finanziario dell’Europa». Ha 46 anni ed è a capo dei consulenti del governo greco, in quota alla famigerata Lazard, banca d’investimenti internazionali già implicata nella maxi-speculazione contro il popolo greco. Pigasse «è stato coinvolto in alcune delle più importanti ristrutturazioni del debito sovrano in questi ultimi dieci anni», rivela Deborah Zandstra, socia di un team di avvocati che lavorano al dipartimento del debito sovrano della “Clifford Chance Llp”. La Lazard è una società di consulenza e gestione patrimoniale di New York, nata nel 2005. Il suo business: consulenze ai governi. Lazard è stata anche molto attiva in Africa, dove ha dato consulenze a Egitto, Mauritania, Congo, Gabon e Costa d’Avorio. L’anno scorso ha “aiutato” l’Etiopia ad emettere il suo primo miliardo di dollari di prestito in obbligazioni sovrane: un cappio attorno al collo del paese africano.Un business da capogiro, scrive “Zero Hedge” in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”: già nel 2012, la Grecia ha versato a Lazard 28,5 milioni dollari per la consulenza degli ultimi due anni. Perché scegliere proprio Lazard anziché una delle altre boutique delle ristrutturazioni del debito? «La risposta: molti paesi non dispongono di elementi sufficienti per prendere le decisioni necessarie a negoziare il proprio debito basandosi solo sulle informazioni interne». In altre parole, anche il governo Tsipras sarebbe “ostaggio” dei tecno-bankster. Francis Fitzherbert-Brockholes, un esperto di ristrutturazioni del debito presso lo studio legale “White & Case”, dice che alcuni governi – loro clienti – potrebbero preferire Lazard «perché non negozia debito pubblico» e lascia trapelare «una percezione di assenza di conflitto di interessi». Tecnici che sembrano neutrali, ma in realtà lavorano per la speculazione internazionale a scapito degli Stati. Lazard ha quindi un’immagine diversa da quella della Rothschild, altra super-banca “indipendente”, che però ha lavorato per Cipro durante la sua crisi del debito e ha “aiutato” il Portogallo a ricapitalizzare il suo sistema bancario.«Mentre il background accademico di Pigasse non è niente di speciale – scrive “Zero Hedge” – è invece notevole che uno dei suoi colleghi di lavoro non sia altro che l’ex capo del Fmi ed ex candidato alle presidenziali francesi, caduto in disgrazia: Dsk», Dominique Strauss-Kahn. «Pigasse si è laureato in Francia alla Ena, una prestigiosa scuola per l’amministrazione che ha formato molti dei migliori funzionari del paese». Alla fine del 1990, ha lavorato al ministero delle finanze francese proprio sotto la direzione di Strauss-Kahn. «E’ entrato nella Lazard nel 2002 e si è guadagnato una reputazione di forte negoziatore dopo aver lavorato su una serie di affari molto grossi, compresa la fusione da 38 miliardi di dollari tra i giganti delle “utilities” Suez e Gaz de France». Curiosamente, aggiunge “Zero Hedge”, in questo ultimo specifico incarico greco, «non solo sarà in sintonia monetaria con il suo cliente», ma Pigasse condividerà – per così dire – anche «i legami ideologici», visto che «il banchiere è un socialista devoto», cioè aderisce al gruppo che più di ogni altro ha lavorato per costruire il regime oligarchico di Bruxelles e dell’Eurozona. Per inciso, Pigasse è anche comproprietario di “Le Monde”, che “Zero Hedge” definisce «quotidiano di sinistra».Mentre i media tallonano Yanis Varoufakis e Alexis Tsipras, in realtà «uomini di facciata ad uso del pubblico», il vero cervello dell’evoluzione tecnocratica europea è un super-banchiere francese, che risiede a Parigi in Boulevard Hausmann. Si chiama Matthieu Pigasse, si definisce “un socialista pro-mercato” nonché un fan dello “scontro frontale”. Secondo il “Wall Street Journal”, disegnerà «il futuro finanziario dell’Europa». Ha 46 anni ed è a capo dei consulenti del governo greco, in quota alla famigerata Lazard, banca d’investimenti internazionali già implicata nella maxi-speculazione contro il popolo greco. Pigasse «è stato coinvolto in alcune delle più importanti ristrutturazioni del debito sovrano in questi ultimi dieci anni», rivela Deborah Zandstra, socia di un team di avvocati che lavorano al dipartimento del debito sovrano della “Clifford Chance Llp”. La Lazard è una società di consulenza e gestione patrimoniale di New York, nata nel 2005. Il suo business: consulenze ai governi. Lazard è stata anche molto attiva in Africa, dove ha dato consulenze a Egitto, Mauritania, Congo, Gabon e Costa d’Avorio. L’anno scorso ha “aiutato” l’Etiopia ad emettere il suo primo miliardo di dollari di prestito in obbligazioni sovrane: un cappio attorno al collo del paese africano.
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Putin: 11 Settembre organizzato dagli Usa, eccovi le prove
L’attacco alle Torri Gemelle «è stato pianificato dal governo degli Stati Uniti, ma è stato eseguito per procura, in modo tale che l’attacco contro l’America e il popolo degli Stati Uniti sembrasse un’aggressione effettuata da organizzazioni terroristiche internazionali». Attenzione: «Le prove fornite sarebbero a tal punto convincenti, da smontare completamente la versione ufficiale dell’11 Settembre sostenuta dal governo degli Stati Uniti». Quali prove? Quelle che starebbero per essere pubblicate a Mosca, controfirmate nientemeno che da Vladimir Putin. Ultima mossa, clamorosa, per tentare di fermare la macchina da guerra che – dalla Siria all’Ucraina – sta assediando i non-allienati allo strapotere di Washington, Russia e Cina in primis, tenendo sotto ricatto anche i paesi del petrolio e la stessa Europa, costretta a varare sanzioni autolesioniste contro l’impero del gas e usare la Nato come minaccia contro Mosca. Il presidente russo, annuncia la “Pravda”, si prepara dunque al colpo del ko: l’esibizione di «prove schiaccianti», satellitari, che inchioderebbero l’intelligence di Bush al crimine dell’11 Settembre, spaventoso massacro ai danni dei cittadini americani, da terrorizzare al punto da indurli a sostenere le guerre a venire, cominciando da Iraq e Afghanistan.La notizia trapela dal newsmagazine “Veterans Today”: un collaboratore, Gordon Duff, segnala che sulla “Pravda” del 7 gennaio 2015 si parla dell’imminente, clamorosa iniziativa dei russi: smascherare definitivamente l’imbroglio mondiale dell’11 Settembre, quello degli arei dirottati sulle Torri “all’insaputa della Cia e dell’Fbi”, senza alcuna reazione da parte della difesa aerea americana. «Le evidenze satellitari russe che provano la demolizione controllata del World Trade Center con “armi speciali” – scrive “Come Don Chisciotte” – sono state recensite da un redattore di “Veterans Today”, mentre si trovava a Mosca». Gli analisti ritengono che l’attuale situazione di “guerra fredda” tra Washingon e Mosca rappresenti la quiete prima della tempesta: «Putin colpirà una sola volta, ma ha intenzione di farlo con notevole durezza», annuncia “Veterans Today”. «L’elenco delle prove include delle immagini satellitari», aggiunge il newsmagazine, e il materiale in via di pubblicazione «dimostrerebbe la complicità del governo degli Stati Uniti negli attacchi del 9/11 e la successiva manipolazione dell’opinione pubblica».«Le ragioni dell’inganno e dell’assassinio dei propri cittadini – continua Duff – avrebbero servito gli interessi petroliferi degli Stati Uniti e delle corporazioni statali del Medio Oriente». La Russia si preparebbe quindi a dimostrare, in modo clamoroso, che «l’America ha utilizzato il terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, contro i suoi stessi cittadini, per creare il pretesto per un intervento militare in paesi stranieri». Se così dovesse essere, aggiunge Duff, «la conseguenza diretta della tattica di Putin sarebbe quella di rendere note le politiche terroristiche segretamente adottate dal governo degli Stati Uniti: secondo gli analisti americani, la credibilità del governo statunitense ne risulterebbe compromessa e ci sarebbero, di conseguenza, delle proteste di massa nelle città e infine una rivolta generalizzata». A quel punto, si domanda Duff, gli Usa come potranno rapportarsi ancora sulla scena politica mondiale? «La leadership americana nella lotta contro il terrorismo internazionale ne risulterebbe totalmente compromessa, dando un immediato vantaggio agli Stati-canaglia e ai terroristi islamici».Lo stesso Barack Obama non è immune da accuse: tutti ricordano la scandalosa gestione dell’ultimo capitolo dell’affare Bin Laden, dichiarato morto in Pakistan senza uno straccio di prova, il presunto cadavere inabissato nell’Oceano Indiano. Morti anche i soldati del commando che avrebbe ucciso il capo di Al-Qaeda ad Abbottabad: fulminati “per errore” da fuoco amico, a Kabul, poche settimane dopo il misterioso blitz. Tutte le voci più importanti della dissidenza, negli Usa, hanno denunciato come palesemente falsa la versione ufficiale sulla strage dell’11 Settembre, mentre il Senato degli Stati Uniti ha concluso, di recente, che l’Fbi era perfettamente al corrente delle mosse dei futuri dirottatori-kamikaze. Finora, il manistream ha avuto buon gioco nel rifiutare i sospetti, avvalorando la verità ufficiale sulla base di una semplice tesi: il crimine evocato – strategia della tensione, con numeri smisuratamente stragistici – è troppo mostruoso per essere accettato. Impossibile digerire l’idea che qualcuno, al Pentagono, abbia organizzato l’attentato del secolo, arrivando addirittura ad “accecare” l’aviazione Usa per molte ore e a “sequestrare” il presidente Bush, fatto letteralmente scomparire “per proteggerlo”, e anche per impedirgli di reagire. “Complottismo”, è stata finora la formula liquidatoria per seppellire le scomode verità sull’11 Settembre, illuminate da prestigiose contro-inchieste: le Torri sarebbero crollate secondo le procedure della “demolizione controllata”, grazie all’impiego di esplosivi speciali come la nano-termite, di origine militare. E se ora Putin riuscisse davvero a confermare questa versione con evidenze esclusive?Gioele Magaldi, autore del dirompente libro “Massoni”, sulla scorta di documentazione top secret di origine massonica (che l’autore si dichiara pronto a esibire in caso di contestazioni) rivela che Osama Bin Laden non fu soltanto reclutato dalla Cia in Afghanistan ai tempi dell’invasione sovietica, ma fu “affiliato” nientemeno che da Zbigniew Brzezinski e inserito nel potentissimo club ultra-segreto delle superlogge internazionali. Una di queste, denominata “Hathor Pentalpha”, sarebbe stata creata da Bush padre con intenti palesemente eversivi: usare il terrorismo per manipolare l’opinione pubblica e trascinare l’Occidente nella “guerra infinita”, a beneficio delle super-lobby del petrolio e delle armi. Nella “Hathor Pentalpha” sarebbe arruolato anche Tony Blair, che più di ogni altro si spese per costruire la suprema menzogna delle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. Oggi, l’erede di Bin Laden è il “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi, misteriosamente scarcerato nel 2009 dal centro di detenzione di Camp Bucca in Iraq, perché potesse combattere nel sedicente “Esercito Siriano Libero” e poi fondare l’Isis, il cui nome coincide con quello della divinità egizia Iside, vedova di Osiride, nei testi antichi chiamata anche “Hathor”. Solito schema: creare l’armata del terrore per poi scatenare una guerra. E, prima ancora, una campagna elettorale: quella di Jeb Bush, ultimo rampollo della dinastia presidenziale del fondatore della “Hathor Pentalpha”, definita «superloggia del sangue e della vendetta» perché nata quando Bush – affiliato a superlogge reazionarie – fu battuto nella corsa alla Casa Bianca da Ronald Reagan, sostenuto da clan massonici concorrenti.Sempre secondo Magaldi, lo stesso Putin è “affiliato” a una superloggia latomistica internazionale. L’autore di “Massoni” sostiene inoltre che da qualche anno sia in atto una sorta di guerra inframassonica: le “Ur-Lodges” progressiste starebbero preparando una controffensiva, dopo gli ultimi decenni in cui il mondo è caduto letteralmente nelle mani dell’élite finanziaria che ha pilotato la globalizzazione più selvaggia, calpestando i diritti dei popoli e gettando anche l’Occidente in una crisi senza precedenti, il cui punto più critico è l’Europa, dove le classi medie sono state rapidamente impoverite a beneficio dell’oligarchia neo-feudale che domina Bruxelles con il dogma neoliberista del rigore. In parallelo, si muovono scenari geopolitici: come previsto da tutti gli analisti, il gigante cinese è cresciuto in modo esponenziale, minacciando la supremazia americana. La Russia di Putin, prima provocata in Siria e ora assediata in Ucraina a due passi da casa, rappresenta la prima linea del fronte, mentre i Brics lavorano nelle retrovie per preparare un’alternativa multipolare, anche finanziaria, alla “dittatura” del petrodollaro. Quella che Papa Francesco chiama Terza Guerra Mondiale si sta avvicinando. Nel tentativo di scongiurarla, Putin giocherà davvero la sconvolgente carta delle “prove definitive” per accusare il governo Usa per l’11 Settembre?L’attacco alle Torri Gemelle «è stato pianificato dal governo degli Stati Uniti, ma è stato eseguito per procura, in modo tale che l’attacco contro l’America e il popolo degli Stati Uniti sembrasse un’aggressione effettuata da organizzazioni terroristiche internazionali». Attenzione: «Le prove fornite sarebbero a tal punto convincenti, da smontare completamente la versione ufficiale dell’11 Settembre sostenuta dal governo degli Stati Uniti». Quali prove? Quelle che starebbero per essere pubblicate a Mosca, controfirmate nientemeno che da Vladimir Putin. Ultima mossa, clamorosa, per tentare di fermare la macchina da guerra che – dalla Siria all’Ucraina – sta assediando i non-allienati allo strapotere di Washington, Russia e Cina in primis, tenendo sotto ricatto anche i paesi del petrolio e la stessa Europa, costretta a varare sanzioni autolesioniste contro l’impero del gas e usare la Nato come minaccia contro Mosca. Il presidente russo, annuncia la “Pravda”, si prepara dunque al colpo del ko: l’esibizione di «prove schiaccianti», satellitari, che inchioderebbero l’intelligence di Bush al crimine dell’11 Settembre, spaventoso massacro ai danni dei cittadini americani, da terrorizzare al punto da indurli a sostenere le guerre a venire, cominciando da Iraq e Afghanistan.
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Varoufakis, puoi salvare la Grecia: impara da Miles Davis
Cosa fai quando una gabbia costruita in decenni e considerata sacra, intoccabile, ti inizia a soffocare? Cosa fai? E’ il 1959, New York City. Lui, lui e poteva essere solo lui, Miles Davis, si sveglia quasi senza più respiro, fradicio di sudore. Rimane seduto al margine del letto per mezz’ora e capisce: «Just make it sound like it’s floating», sono le parole che gli sfilano davanti agli occhi, cioè “suonalo come se galleggiasse”, il jazz, questo mostro sacro divenuto una prigione di accordi, sessioni, ritmi chiamati Bibop. No, basta, basta per Dio! “Suonalo come se galleggiasse”, nessuno mai prima aveva pensato a suonare il jazz in quei termini. Poco dopo Miles raccoglie cinque musicisti nel suo studio a Old Church della 30st, sotto l’Empire State Building. C’è, fra loro, John Coltrane, una divinità del jazz, e un altro mito, Jimmy Cobb, batterista. Sono tutti ignari di cosa accadrà quella mattina. E quel giorno verrà registrato il più celebre disco di jazz della storia. Ma come! Come! è il punto che ci interessa qui. Miles arriva con dei fogli… uno spartito? No, appunti. E la musica dov’è? C’è silenzio, quasi si sente in bruciacchìo dei tiri alle sigarette.Ricorda Jimmy Cobb, unico superstite di quell’evento: «La cosa che sentivamo era nessuna pressione. Ci si guardava in faccia, Miles ci guardava. Bè, sai, quello era un gruppo di musicisti che… gli potevi tirare qualsiasi cosa e uscivano note… qual’era il problema?». E infatti quando Miles Davis gli parlò, fece proprio questo, gli tirò una qualsiasi cosa, e quella cosa fu proprio: «Just make it sound like it’s floating». Null’altro. Non c’erano spartiti. Ne uscì un’invenzione dopo l’altra, e a ogni curva, a ogni sguardo fra loro, un colossale pezzo di jazz saltava in aria, calcinacci da dimenticare, finché l’album che ne usci, “Kind of Blue”, non ebbe trasformato il jazz per sempre. Demolito, e ritornato in vita in una giornata. New York City, 1959.Yanis Varoufakis, non è scopiazzando le note ingabbiate di Galbraith o, peggio, di Lazard, che salverai la Grecia. Devi inventarti qualcosa ad ogni angolo, devi “Just make it sound like it’s floating”, far galleggiare idee incredibili, inaudite, senza gli spartiti dei Trattati e della paura. E il tuo Miles Davis oggi si chiama Warren Mosler. Io l’ho visto al Ministero del Tesoro a Roma appiattire al muro gli ‘esperti’ italiani “just like everythig was floating”, come se tutto stesse galleggiando. Quei poveretti non sapevano dove aggrapparsi. Cambiare la storia, Yanis, richiede questo. Poveri greci. Yes, “Kind of Blue”, e Blue in americano significa anche triste, mesto, come il loro destino. Chiama Mosler, Yanis. “Just make it sound like it’s floating”.(Paolo Barnard, “Varoufakis, salva la Grecia: Miles Davis ti dice come”, dal blog di Barnard del 12 febbraio 2015).Cosa fai quando una gabbia costruita in decenni e considerata sacra, intoccabile, ti inizia a soffocare? Cosa fai? E’ il 1959, New York City. Lui, lui e poteva essere solo lui, Miles Davis, si sveglia quasi senza più respiro, fradicio di sudore. Rimane seduto al margine del letto per mezz’ora e capisce: «Just make it sound like it’s floating», sono le parole che gli sfilano davanti agli occhi, cioè “suonalo come se galleggiasse”, il jazz, questo mostro sacro divenuto una prigione di accordi, sessioni, ritmi chiamati Bibop. No, basta, basta per Dio! “Suonalo come se galleggiasse”, nessuno mai prima aveva pensato a suonare il jazz in quei termini. Poco dopo Miles raccoglie cinque musicisti nel suo studio a Old Church della 30st, sotto l’Empire State Building. C’è, fra loro, John Coltrane, una divinità del jazz, e un altro mito, Jimmy Cobb, batterista. Sono tutti ignari di cosa accadrà quella mattina. E quel giorno verrà registrato il più celebre disco di jazz della storia. Ma come! Come! è il punto che ci interessa qui. Miles arriva con dei fogli… uno spartito? No, appunti. E la musica dov’è? C’è silenzio, quasi si sente in bruciacchìo dei tiri alle sigarette.
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Barnard: cosa sono gli speculatori e quanto male ci fanno
«Welcome to the crazed world of “The Masters of the Universe”». Benvenuti nel mondo allucinante dei “Padroni dell’Universo”. E’ un’espressione coniata a Wall Street dai collaboratori del super-speculatore John Meriwether, padrone dell’hedge fund Ltcm, una macchina per fare soldi fittizi truffando con numeri fittizi per miliardi di dollari l’intero mondo. Lavoravano, questi avvoltoi, con una tale feroce maniacalità che all’apice del successo e delle piramidi di coca che gli passarono nel sangue, una notte stapparono un rosso da 7.000 dollari a bottiglia e gridarono: «Siamo i Padroni dell’Universo!». Ltcm collassò nell’orgia finanziaria suicida nel 1998, e si rischiò il collasso della finanza mondiale. Dopo di loro, l’America e l’Europa si accorsero del pericolo nucleare che ’sta gente rappresentava, e corsero ai ripari: ne crearono di peggio.
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Anche Tsipras da Draghi per negoziare la fine della Grecia
Non è difficile comprendere ciò che accadrà in Grecia il 25 gennaio, allorché si voterà per eleggere il nuovo Parlamento dopo i tre scrutini non conclusivi in merito all’elezione del presidente della Repubblica, che si sono consumati in un lampo per la pervicace volontà del leader di “Nuova Democrazia”, Antonis Samaras, di portare il paese alle elezioni anticipate e vincerle dopo aver imposto alla nazione un funzionario dell’Ue come presidente, rassicurando così non tanto i fantomatici mercati, ma la Germania e la tecnocrazia europea sul fatto che nulla sarebbe mutato nel progetto di distruzione pressoché completa della società greca. Essa dovrebbe e potrebbe essere in tal modo consegnata (in ciò che di essa rimane) nelle mani del capitale finanziario internazionale che ne farebbe un’isola (sì!, il paradosso dell’isola delle tremila isole) per ricchi turisti e un’area di transito per le merci che dall’heartland passano per i Dardanelli e l’Egeo, pieno di petrolio e di gas.Mario Draghi in questi mesi ha ricevuto più e più volte Samaras, come ha più e più volte ricevuto il principale protagonista dell’opposizione a questo progetto: il leader di “Syriza”, ossia il buon Alexis Tsipras, che propone un programma in generale assai moderato e tutto “nazionale”, ossia fondato non sul rifiuto dell’euro (così come dicono coloro che vogliono speculare sui ribassi da quasi-panico e lucrare poi guadagni nei rialzi che ne seguono inevitabilmente nelle borse), ma su una schedulazione del debito, ossia una sua gestione condivisa che certamente non può provocare contagio alcuno per la sua piccolezza: 300 miliardi circa di euro sono una bazzecola rispetto alla potenza di fuoco dell’oligopolio finanziario mondiale e dei bilanci degli attori del citato oligopolio, oltreché dell’indimenticabile dispensatrice di sogni mediatici, ossia la Bce con il suo presidente, fascinoso come un attor giovane settecentesco.Ciò che è interessante, tuttavia, non è discettare sull’esito delle elezioni; infatti due cose sono certe: la vittoria di “Syriza” e l’impossibilità che essa avrà di formare un nuovo governo. Il che costringerà a una rinegoziazione del debito sub specie democratica in regime di emergenza. Questo se la Germania non si deciderà a scambiare condivisione di sovranità, e quindi di debito, con esistenza dell’euro. Nessuno vuole uscire dall’euro, ma l’unico modo per rimanervi è trattare e schedulare il debito. L’alternativa sarebbe l’occupazione militare del suolo greco, ma essa è impossibile. La soluzione sarà il congelamento della Grecia in un regime speciale di sorveglianza fiscale e finanziaria, com’è successo già diverse volte alla nazione greca, si ricorra o meno alle elezioni. Questo sarà possibile per ciò ch’io chiamo il paradigma greco. Paradigma analitico di cui mi sono convinto rileggendo il mio vecchio libro edito da Longam nel 1994 (“Southern Europe Since 1945: Tradition and Modernity in Portugal, Spain, Italy, Greece and Turkey”).Occorre riflettere sulla storia greca e sulla dinamica della macchina partitica che già il mio vecchio amico Keith R. Legg, in “Politics in Modern Greece”, aveva magistralmente descritto ben prima di me, per comprendere ciò che succederà. Esiste tuttavia anche un’altra nazione greca, attiva sin dalle guerre civili che segnarono il decennio che va dal 1821 al 1830 e su cui Lord Byron scrisse pagine memorabili. È la nazione dell’altra diaspora, ossia dei milioni di poveri greci emigrati in tutto il mondo e quella che, invece, non emigra e che fonda la tradizione democratica e socialista e comunista greca che attraverserà una tribolata esistenza anch’essa plurisecolare. Alcune famiglie (i Papandreou ne sono l’esempio più eclatante e preclaro) anche in questo caso ne rappresentano il gruppo dirigente, sino a condividere con la diaspora plutocratica usi e costumi, mantenendo tuttavia nella nazione le fonti essenziali della costruzione del potere, a differenza dell’altra nazione diasporico-plutocratica.Dalla dittatura di Metaxas negli anni Trenta del Novecento a quella dei colonnelli nel decennio Sessanta è tutto uno sgranarsi di conflitti in cui la Grecia è eterodiretta oppure fa immensi sforzi per liberarsi dall’eterodirezione. Come? Con politiche di ogni sorta, anche clientelari e assistenziali. Ma fa ciò anche il gruppo plutocratico estero, come ha dimostrato negli anni Novanta “Nuova Democrazia”, dominata allora dall’altra famiglia simbolo, i Karamanlis, con i brillanti risultati raggiunti truccando i conti e falsificando i bilanci dello Stato pur di entrare nell’euro. L’euro e la tecnocrazia antinazionale, del resto, è il regime più idoneo per l’ala plutocratica greca che si trova in tal modo a governare nel modo più consono alla sua storia che, come ho cercato di dimostrare, non è l’intera storia greca. Per questo le elezioni del gennaio 2015 sono così importanti nella storia europea. Perché lo sono in forma culturalmente cogente per l’intera storia greca e per i rapporti tra nazione e internazionalizzazione che sovradeterminano anche la storia di questa dimidiata “patria byroniana”.Una vicenda del resto non dissimile in molti punti dalla storia italiana e che quindi noi dovremmo seguire con grande partecipazione intellettuale. Il paradigma è quello di una nazione a precocissima parlamentarizzazione e ad altrettanto precoce larghissimo suffragio che si crea dal basso con forti radici popolari e un’immensa eco culturale in tutto il mondo civilizzato dell’epoca Il popolo greco, contadini e intellettuali déraciné in primis, insorge contro i turchi nel 1821 e nel 1829 raggiunge l’autonomia dall’Impero ottomano per ottenere, dopo intestine lotte civili, l’indipendenza nel 1830. Certo, Francia, Regno Unito (a Londra si firmò la dichiarazione d’indipendenza, del resto) e Russia appoggiano questa lotta in funzione anti-ottomana, ma immediatamente il prezzo che la nazione paga è l’imposizione di un re bavarese, Ottone I. La lotta tra le opposte fazioni facilita questa sottomissione. Ottone rappresenta quel settore cosmopolita della società e della cultura greca: la sua plutocrazia oligarchica e diasporica. Ancora oggi gli armatori greci godono dalla clausola costituzionale – costituzionale, si badi bene! – per cui essi non pagano tasse e possono legalmente battere bandiere straniere pur considerandosi cittadini greci.Ecco il mio paradigma. Il paradigma greco è quello di una nazione spaccata in due. L’oligarchia dominante che da più di due secoli esercita il potere di fatto è diasporica: ossia in Grecia, paradossalmente, laddove (se si appartiene alle classi alte) si studia, ci si forma e si domina la nazione è l’estero e non ciò che in altri contesti culturali è “la patria”. Si governa da più di due secoli la nazione, in primis, dai centri del capitale finanziario internazionale, non da Atene o da Salonicco. Un tempo solo da Londra, oggi anche da New York. Giova ricordare che la più interessante, libera e colta rivista greca, indispensabile per studiare e conoscere la Grecia, è edita a New York e il suo titolo è tutto un programma e un destino insieme, “Journal of Hellenic Diaspora”, una rivista di cui non si può far a meno, non solo per conoscere e seguire i problemi della Grecia, ma anche della regione turco-balcanica.Non ci sono problemi reali di default europeo e, se ce ne fossero, per i greci sarebbe meglio di questa lenta agonia somministrata come brevi permanenze nei lager. Anche se l’arroganza di persone come il povero Wolfgang Schaeuble, le quali avvertono i greci che qualsivoglia sia la loro decisione di voto nulla cambierà rispetto ai dettati europei, ossia della Troika, è veramente da commiserare ed esprime in forma plastica e icastica che ciò che l’ordoliberalismus invera è la fine della democrazia e la sua trasformazione in un’oligarchia dei ricchi e dei potenti, ovvero una plutocrazia: quella forma di governo, insomma, tanto osteggiata dal grande Tocqueville, il quale, guarda caso, è uno dei pensatori meno citati di questi tempi. Con Schaeuble è quasi impossibile prendersela, ma con l’ordoliberalismus sì, e verrà il giorno in cui la miseria dei dioscuri della distruzione della società salterà agli occhi di tutti.(Giulio Sapelli, “Il futuro dell’Italia è in Grecia”, da “Il Sussidiario” del 1° gennaio 2015).Non è difficile comprendere ciò che accadrà in Grecia il 25 gennaio, allorché si voterà per eleggere il nuovo Parlamento dopo i tre scrutini non conclusivi in merito all’elezione del presidente della Repubblica, che si sono consumati in un lampo per la pervicace volontà del leader di “Nuova Democrazia”, Antonis Samaras, di portare il paese alle elezioni anticipate e vincerle dopo aver imposto alla nazione un funzionario dell’Ue come presidente, rassicurando così non tanto i fantomatici mercati, ma la Germania e la tecnocrazia europea sul fatto che nulla sarebbe mutato nel progetto di distruzione pressoché completa della società greca. Essa dovrebbe e potrebbe essere in tal modo consegnata (in ciò che di essa rimane) nelle mani del capitale finanziario internazionale che ne farebbe un’isola (sì!, il paradosso dell’isola delle tremila isole) per ricchi turisti e un’area di transito per le merci che dall’heartland passano per i Dardanelli e l’Egeo, pieno di petrolio e di gas.
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Walking Dead, zombie cannibali: siamo carne da macello
Conosco molte persone che non hanno nessun interesse a guardare la televisione perché il 99% dei programmi è spazzatura o propaganda politica da parte del governo. Solo l’1% propone le tematiche più profonde e gli stati d’animo presenti nella nostra società. Gli show televisivi come “Breaking Bad”, “Game of Thrones” e “The Walking Dead” riflettono lo stato d’animo deprimente dell’incalzante “Fourth Turning”. In aprile ho scritto uno dei miei articoli più pessimisti, intitolato “Welcome to Terminus”, benvenuti a Terminus, riguardo alla fine della quarta serie di “Walking Dead”. In sintesi argomentavo che ci stiamo avvicinando alla fine del mondo e che il mondo stesso diventerà odioso. Nei sei brevi mesi da quando ho scritto questo deprimente articolo, abbiamo visto nei video di YouTube uomini decapitati da parte di terroristi di cui non si sapeva nemmeno l’esistenza a inizio anno. È stata messa in piedi alla buona una banda di 30.000 terroristi musulmani che usa le armi militari americane fornite per combattere Assad in Siria e sottratte dalle forze armate irachene quando hanno tagliato la corda e sono scappate via; sono stati in grado di sconfiggere 600.000 combattenti iracheni e curdi che avevano l’appoggio da parte della grandiosa forza aerea americana.La Siria, l’Iraq, la Libia e l’Afghanistan crollano verso una guerra religiosa senza fine. Abbiamo addirittura passeggeri aerei che spariscono misteriosamente in Asia senza lasciare traccia. La Crimea si è staccata dall’Ucraina per appartenere alla Russia ed è stato messo in moto un piano da parte delle potenze occidentali per punire la Russia. L’America supporta e pianifica un rovesciamento da parte di un governo eletto democraticamente in Ucraina. Abbiamo assistito al “false flag” dell’abbattimento di un aereo di linea sopra l’Ucraina da parte del governo ucraino, del quale vengono accusati la Russia e Putin da Obama e dai suoi complici europei. Le agenzie di media portavoce americane hanno ignorato l’occultamento delle trasmissioni di controllo mancanti, le registrazioni della scatola nera e gli indizi evidenti della morte di centinaia di persone innocenti per mano di politici europei. Israele e Hamas hanno ripreso la loro infinita guerra religiosa a Gaza causando migliaia di vittime e distruzione.L’Inghilterra intimorita dalla guerra e dalle minacce finanziare a stento si accorge della secessione della Scozia. La Catalogna continua a premere per un voto di secessione per lasciare la Spagna. Proteste violente sono scoppiate in Spagna, Italia, Francia e anche in Svezia. Turbolenze, proteste e rivolte in Brasile, Venezuela, Argentina e in Messico sono germogliate a causa della rabbia per la corruzione politica, per l’inflazione e per un generale malfunzionamento dell’economia. Si è alzato un polverone tra Cina e Giappone e i giovani di Hong Kong sono scesi in piazza a protestare per la scarsa democrazia concessa dalla Cina nelle elezioni. L’economia mondiale, che subisce il venir meno dello stimolo da parte della banca centrale, sta tornando in una fase di recessione con Germania, Cina e Stati Uniti che si uniscono al declino economico del resto del mondo. E ora, in Africa occidentale scoppia l’Ebola che si è già sparsa in tutto il mondo con la previsione di un’epidemia che potrebbe portare il pianeta in un caos completo.Quello che sta succedendo nel mondo reale rende lo zombie distopico di “Walking Dead” un essere quasi bizzarro. Con un uso brillante del simbolismo e dell’arte figurativa, gli autori di questo show catturano il mondo nella sua essenza violenta, caotica, inumana, deprimente e brutale come il periodo di crisi “Fourth Turning” nel quale siamo entrati nel 2008 e che si intensifica di giorno in giorno. C’è una buona ragione per cui il primo episodio della quinta stagione ha stabilito il record di ascolti nella storia della Tv via cavo. La serie sta chiaramente prendendo a piene mani dallo stato d’animo che pervade la massa. Prima, nell’ultimo episodio della serie precedente, ci si rende conto che Terminus è diventato un centro di produzione gestito dai cannibali. La linea di confine tra vittime e criminali, tra preda e cacciatore, tra male e bene, tra follia e sanità mentale, tra morale e immorale ha contorni sfumati e indefiniti. Tutto diventa relativo, nel mondo post-apocalittico di “Walking Dead”.Vedere i cannibali di Wall Street andarsene indenni dopo aver divorato il sistema economico mondiale nel 2008 con i loro calcoli finanziari fraudolenti, vedere i politici corrotti arricchitisi buttando coloro-che-pagano-le-tasse sotto un autobus, le forze di polizia calpestare il Quarto Emendamento, la Nsa sorvegliare ogni cittadino americano, una banca centrale privata arricchire i suoi azionisti facendo transitare migliaia di miliardi nelle loro camere blindate, un presidente calpestare la Costituzione emanando ordini che scavalcano gli altri rami del governo e ancora miliardi di frodi, fiscali e del welfare, dai ghetti urbani fino alle suite-attico di New York; tutto ciò ha convinto gran parte degli americani che tutto sia relativo e che niente importi davvero nel nostro mondo distopico e corrotto. Giusto e sbagliato non contano più. La morale è un concetto antico. La fedeltà alla Costituzione è una consuetudine fuori moda. La nostra società inneggia e accetta il paradigma dell’homo homini lupus. O lo zombie che mangia qualsiasi cosa, nel caso di “Walking Dead”.La comunità Terminus ricorda il campo di concentramento nel film Shindler’s List. Ci sono addirittura vagoni per i prigionieri, cancelli con filo spinato, guardie armate e un numero infinito di attrezzature per “processare” i prigionieri. Un fitto fumo nero impregna l’aria. C’è una stanza piena della refurtiva ben impilata, orsacchiotti, orologi, vestiti di tutto tranne le otturazioni d’oro. La precisione e l’attenzione al dettaglio tanto cara ai nazi si riflettono nel metodo professionale con cui gli amministratori di Terminus stanno per divorare le loro prede. La raccapricciante efficienza e l’ambiente antisettico dell’impianto di preparazione evocano il ricordo delle camere a gas dell’Olocausto. La scena iniziale quando Rick, Daryl, Glenn e Bob sono in mezzo a un gruppo di uomini in fila pronti per essere sventrati come maiali, attorno a una mangiatoia in attesa che venga raccolto il loro sangue, può essere a buon diritto una delle scene più terribili mai messa in onda sulla Tv via cavo.Il modo freddo e spietato in cui i prigionieri (la carne da macello) sono allineati di fronte a un’inossidabile mangiatoia d’acciaio è sconcertante e agghiacciante. Le vittime sono colpite con una mazza da baseball e le loro gole vengono squarciate da uomini con tute protettive. Non sono diventati altro che carne pronta per essere macellata e consumata dai cannibali di Terminus. In un’ altra parte dell’impianto di “macellazione” si vedono essere umani appesi a dei ganci esattamente come pezzi di carne. Gareth, il leader di Terminus, supervisiona l’operazione come un perfetto amministratore delegato, rimproverando i macellai per non essere arrivati alla quota stabilita e per non aver seguito le procedure standard. Situazione non molto diversa da come vengono gestite le grandi aziende oggigiorno. L’altra affascinante similitudine tra il distopico “incubo del volere” rappresentato in Terminus e il nostro moderno distopico “regno dell’eccesso” è l’uso di una pubblicità falsa e una propaganda che induce i consumatori in trappola.La loro versione dei cartelloni pubblicitari era compensata da messaggi scritti a mano della serie “Un rifugio per tutti”, “Una comunità per tutti” e “Coloro che arrivano sopravvivono”. I cannibali di Terminus si sarebbero trovati benissimo in Madison Avenue con gli artisti Spinart meglio pagati, i divulgatori e le puttane per gli oligarchi delle banche. I cartelli lungo le rotaie e le trasmissioni radio da parte di un call center mostrano la business efficiency con cui i cannibali conducono le loro vittime al macello. È la stessa tecnica utilizzata dagli apostoli di Edward Bernays per manipolare in maniera consapevole e intelligente le abitudini, le opinioni, i gusti, le idee e le azioni delle masse per poterle controllare in ciò che comprano e nelle decisioni di voto e per sostenere le loro regole. Gli uomini invisibili che costituiscono il “governo invisibile” prediligono la tecnica di mantenere il bestiame docile, fedele e ignorante dato che lo porteranno al macello.Il governo e l’assenza di governo sono il torbido retroscena di come e perché gli Stati Uniti siano finiti nel mondo infetto di “Walking Dead”. Questo episodio fornisce alcuni indizi su come i laboratori del governo producano virus come armi da usare contro non meglio definiti nemici. L’insinuazione che traspare nel racconto è che il governo abbia in qualche modo perso il controllo del virus e che la conseguente pandemia abbia distrutto il mondo moderno lasciando i sopravvissuti a combattere contro gli zombie per il poco che è rimasto. Il governo federale ha causato il collasso della società ed è assente ed introvabile nel momento in cui bisogna ricostruire la nazione. Non è chiaro come l’apocalisse finisca, ma si può immaginare che inizi con paura, la quale porta al panico, al caos, al crollo economico, a uno sconvolgimento violento, alla guerra, a un totale collasso dell’autorità e del controllo da parte del governo. Si può leggere dell’ironia nel fatto che la paura che l’Ebola diventi un’epidemia pandemica coincide con un’inevitabile implosione economica, con le guerre che risuonano in Medio Oriente, con le violente proteste in tutto il mondo, e con la fiducia nell’autorità dei governi che crolla in un solo momento.“Walking Dead” ha intenzionalmente o meno catturato l’essenza della nostra epoca turbolenta. Quando si affrontano circostanze disperate, o si fa tutto il possibile per sopravvivere o si accetta sommessamente il proprio destino e si muore. Gareth e la sua schiera di cannibali sono nella stessa situazione, così come Rick e i suoi, ma sono riusciti in qualche modo a cambiare la situazione dei loro carcerieri. Nella comunità di Gareth la sopravvivenza del più forte era secondo il motto “o sei il macellaio o sei carne da macello”. L’essere umano reagisce in modi diversi a una forte pressione e alle situazioni di minaccia che capitano nella vita. Alcune persone vengono annientate e diventano dei mostri, come Gareth. Alcuni vengono annientati e perdono la testa. Altre, come Rick e Carol, mettono insieme una grande forza interiore per fare tutto il possibile per sopravvivere cercando di mantenere il loro buon senso. Altri si convertono in ciechi sostenitori di un leader forte senza mettere in discussione la morale, la legalità e il buon senso di quello che sono chiamati a fare. La linea tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra ciò che è necessario e non necessario, tra la vendetta e la giustizia, tra il macellaio e la carne da macello appare sfumato in un mondo senza regole, governo e norme accettate.Credo che l’analogia del macellaio e della carne da macello sia purtroppo un valido memo del mondo nel quale stiamo vivendo. Nel mondo di “Walking Dead” gli individui devono scegliere tra il macellaio o la carne da macello. È un mondo darwiniano costituito da coloro che uccidono e da coloro che vengono uccisi. Gli individui solidali con valori e obiettivi comuni formano una comunità e cercano di portare un ordine nel mondo caotico in cui vivono. La comunità di Westbury, presieduta dal governatore e la comunità di Terminus, diretta da Gareth, sono fondate sul male e alla fine sono distrutte. La comunità di Rick è costituita da guerrieri liberi che fanno il necessario per sopravvivere, ma controllano la loro umanità, dignità e il loro desiderio di creare un mondo migliore. Il mondo nel quale viviamo oggi potrebbe non essere brutale come quello di “Walking Dead”; e anche se il confine tra la realtà e la finzione è spesso indefinibile quando si sfogliano i giornali, quello tra macellaio e carne da macello è chiaro.I governanti eletti e non eletti dello Stato sono i macellai, sono coloro che spediscono fuori dal paese i giovani a morire per compagnie di petrolio e trafficanti d’armi, coloro che impoveriscono il popolo attraverso l’inflazione e il controllo sulla moneta e allo stesso tempo si arricchiscono attraverso il completo controllo della politica, della finanza, della giustizia e dei sistemi economici. Questa classe dirigente, o governo invisibile come lo descrive Bernays, è dedito al proprio arricchimento e alla perpetuazione. Il suo scopo, le risorse finanziarie, e la ricchezza globale lo pongono di per sé dalla parte dei predatori. La gente comune rappresenta la carne da macello. Ci stanno tenendo buoni con un’incessante propaganda da parte dei media principali; i messaggi pubblicitari su Madison Avenue; siamo nutriti con dati economici filtrati, aggiustati, manipolati da parte delle agenzie statali; un infinito rifornimento di iGadgets e altre distrazioni elettroniche; l’educazione statale organizzata per mantenerci ignoranti; 24 ore al giorno, 7 giorni su 7 di reality show su seicento canali diversi per tenerci occupati; cibo tossico e industriale per tenerci obesi e mansueti; e una scorta infinita sull’indebitamento di Wall Street per tenerci intrappolati nelle nostre stesse ali senza speranza di scappare. Lo Stato macellaio ha mantenuto il controllo per decadi, ma stiamo entrando in una nuova era.Il libro “The Fourth Turning” fa capire che i ruoli sono cambiati e questa volta tocca ai macellai. Un po’ di bestiame da macello si sta svegliando dallo stupore. Riescono a vedere il sangue delle scritte nelle mura del macello. Chiunque non stia vedendo un cambiamento drammatico nel proprio stato o è uno zombie senza coscienza o un funzionario dello Stato. Le bravate finanziarie della classe alta non si stanno rivelando altro che un schema Ponzi costruito sulle fondamenta del debito e sostenuto da delusione e ignoranza. Quando the House of Cards crollerà in futuro, il gioco cambierà. Quando le persone non avranno più niente da perdere, andranno fuori di testa. I macellai diventeranno la carne da macello. Non ci sarà riparo per questi uomini del male. Il loro regno del male verrà spazzato via in un turbinio di castigo morte e distruzione. Ciò potrebbe anche rendere “The Walking Dead” una passeggiata nel parco, a confronto.(“Benvenuti a Terminus”, intervento pubblicato il 16 ottobre 2014 da “The Burning Platform”, blog gestito da Jim Quinn, e tradotto da “Come Don Chisciotte”; ripetuti i riferimenti al libro “The Fourth Turning”, dei sociologi William Strauss e Neil Howe).Conosco molte persone che non hanno nessun interesse a guardare la televisione perché il 99% dei programmi è spazzatura o propaganda politica da parte del governo. Solo l’1% propone le tematiche più profonde e gli stati d’animo presenti nella nostra società. Gli show televisivi come “Breaking Bad”, “Game of Thrones” e “The Walking Dead” riflettono lo stato d’animo deprimente dell’incalzante “Fourth Turning”. In aprile ho scritto uno dei miei articoli più pessimisti, intitolato “Welcome to Terminus”, benvenuti a Terminus, riguardo alla fine della quarta serie di “Walking Dead”. In sintesi argomentavo che ci stiamo avvicinando alla fine del mondo e che il mondo stesso diventerà odioso. Nei sei brevi mesi da quando ho scritto questo deprimente articolo, abbiamo visto nei video di YouTube uomini decapitati da parte di terroristi di cui non si sapeva nemmeno l’esistenza a inizio anno. È stata messa in piedi alla buona una banda di 30.000 terroristi musulmani che usa le armi militari americane fornite per combattere Assad in Siria e sottratte dalle forze armate irachene quando hanno tagliato la corda e sono scappate via; sono stati in grado di sconfiggere 600.000 combattenti iracheni e curdi che avevano l’appoggio da parte della grandiosa forza aerea americana.
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Strage di Parigi, polizia ridicola. Chi ha depistato gli agenti?
«Com’era facilmente prevedibile, i due fratelli Kouachi sono stati entrambi uccisi durante un blitz delle teste di cuoio, portandosi nella tomba le risposte a molti interrogativi sull’attentato a “Charlie Hebdo”, che ha tutte le fattezze del terrorismo ascrivibile alla “strategia della tensione”». Un attentato falsa bandiera in stile New York 9/11? No, risponde Federico Dezzani su “Come Don Chisciotte”: «A ragion veduta è un’operazione di infiltrazione e sovversione in stile anni ’70, dove i fratelli franco-algerini rappresentano i brigatisti di basso rango che premono il grilletto», mentre «chi si occupa dalla pianificazione, organizzazione e logistica, il Br Mario Moretti del caso, probabilmente non sarà mai preso perché legato ai servizi». L’intelligence francese? Ne esce «sconfitta secondo i media che leggono il copione», ma invece «vincente in base agli obbiettivi programmati, e marcia fino al midollo per chi analizzi a fondo la vicenda in divenire». Il politologo Aldo Giannuli, storico dei servizi segreti, è più cauto: salvo restando l’idea di una strage di matrice islamica, «è possibile che ci siano stati inserimenti di altri, in una eterogenesi dei fini». Un’ipotesi, non ancora una verità.Said e Cherif Kouachi, franco-algerini di 32 e 34 anni, per Dezzani sono invece «terroristi talmente perfetti che sembravano coltivati in vitro: nati e cresciuti a Gennevilliers, banlieue a Nord di Parigi, rimangono orfani, poi sono dati in affidamento e suonano un po’ di rap crescendo nel mondo della piccola criminalità; il maggiore è arrestato nel 2008 in quanto affiliato alla rete Buttes-Chaumont che recluta volontari da spedire in Iraq. Sono perciò da almeno cinque anni nei radar delle forze di sicurezza». Dopodiché, in base alle informazioni che piovono a catinelle già a poche ore dall’attacco, sarebbero passati nei campi di addestramenti di Al-Qaeda in Yemen e avrebbero partecipato alla guerra in Siria. «Il primo grande quesito da porsi è: com’è possibile che non fossero pedinati a vista? Le informazioni in possesso dei giornali dopo un giorno dall’attentato non erano negli archivi dell’intelligence? Sembra assurdo, anche perché i due fratelli erano nella lista nera compilata dal “Terrorist Screening Center” statunitense». Il 7 gennaio, continua Dezzani, i due fratelli fanno irruzione della sede di “Charlie Hebdo” e uccidono 12 persone, urlando i nomi dei vignettisti. L’assalto avviene durante la riunione di redazione del giornale: quindi è altamente probabile che l’attentato sia stato accuratamente pianificato, gli orari della redazione studiati, memorizzati i nomi e il viso delle vittime.«Forse per dare un tono di dilettantismo all’operazione, è diffusa la notizia che gli attentatori non conoscessero il numero civico della redazione. Ma è possibile che chi conosce il nome dei vignettisti e gli orari della riunione settimanale della redazione non sappia dov’è la sede dell’attentato? Nessuno dei fratelli ha mai fatto un sopralluogo?». Altra incredibile leggerezza, per un efficiente commando che si sarebbe formato nei campi Al-Qaeda: “dimenticare” la carta d’identità nell’auto, abbandonata dopo l’attentato. «I due fratelli franco-algerini non sanno che la regola base per qualsiasi rapinatore o terrorista è di liberarsi di documenti, telefoni, orecchini o qualsiasi mezzo di riconoscimento per non essere identificati? Perché indossare i passamontagna per poi dimenticare il documento in auto?». Probabilmente, continua Dezzani, «il documento è stato aggiunto sulla scena del crimine dall’intelligence su soffiata della mente dell’operazione, il Br Mario Moretti del caso, che conosce il nome e il piano degli attentatori, perché è stato lui a progettarlo».Con il ritrovamento della carta si desiderava quindi instradare rapidamente la polizia sui colpevoli per liquidarli in poche ore? «Tutta la vicenda ha un triste e fresco precedente, che stranamente pochi ricordano: nel marzo del 2012 il franco-algerino Mohamed Merah uccide sette persone, sparando da uno scooter, prima di asserragliarsi in un appartamento dove è ucciso durante il blitz delle teste di cuoio. Si scoprirà che anche lui era nei radar dell’intelligence francese da tempo, essendo stato un collaboratore della Dgse per cui si era recato in Afghanistan raccogliendo informazioni sugli islamisti francesi». L’insuccesso della polizia dipende da errori e incapacità oppure da non volontà di prendere i responsabili? «La polizia e i servizi francesi sono ad un elevato livello di professionalità», ammette Aldo Giannuli: «I servizi francesi, per chi non lo sapesse, hanno sofisticate teorie di intelligence riflesse in una corposa produzione pubblicistica». Vero, «non sempre a un elevato livello teorico corrisponde altrettanta capacità operativa». Però «non appare probabile una serie di errori, lacune, incertezze di questo genere».Certo, non è da escludere «l’ipotesi della cattiva volontà e magari di una “manina” poliziesca nella vicenda, sul modello della strategia della tensione: la “sicurezza” ci sta facendo una tale figura che un comportamento del genere sarebbe masochistico». Ma strategia della tensione per cosa? «Qui ad avvantaggiarsene sarebbe l’opposizione lepenista, non il governo», ragiona Giannuli. Che aggiunge: «In via subordinata si può pensare anche a un settore di polizia che lo stia facendo per far cadere l’attuale gruppo dirigente della stessa polizia o favorire una sconfitta elettorale di Hollande». Anche qui «ipotesi possibile, ma molto poco probabile: soprattutto in assenza di elementi concreti, resta una congettura come un’altra». Dezzani però insiste sulle stranezze della vicenda: la fuga dei fratelli Kouachi, barricatisi insieme a un ostaggio in una tipografia di Dammartin-en-Goële, a nord-est di Parigi, dopo un inconcludente peregrinare nelle campagne del dipartimento Senna e Marna. «Perché uscire in fretta da Parigi nelle ore successive all’attentato per poi trascorre 36 ore da latitanti nella campagna francese e finire asserragliati in una piccola azienda?».Domande senza risposta: «Era previsto un punto di raccolta dove avrebbero dovuto essere prelevati e portarti in salvo, mentre sono stati ingannati e all’appuntamento non c’era nessuno?». Di certo, «eliminandoli si è persa ogni traccia per risalire ai vertici dell’organizzazione, dove si annida probabilmente il collegamento con i servizi d’informazione», ipotizza Dezzani. Nel frattempo un altro presunto terrorista, Amedy Coulibaly, è stato liquidato dopo aver preso in ostaggio cinque persone in un negozio kosher di Porte de Vincennes: sarebbe l’assassino della vigilessa uccisa l’8 gennaio. «Una rete quindi di tre o più terroristi, molti dei quali noti da anni alle forze dell’ordine, avrebbe tenuto in scacco Parigi per tre giorni quando i servizi algerini avrebbero allertato il 6 gennaio le autorità francesi che era in preparazione un attentato. Perché nessuno ha agito? A chi fa comodo quanto sta avvenendo?». Particolarmente inquietante, infine, la notizia della morte di uno degli investigatori, che si sarebbe suicidato nel suo ufficio di Limoges sparandosi con l’arma di servizio. Secondo il quotidiano “Le Populaire du Centre”, stava lavorando all’indagine della polizia giudiziaria sul caso “Charlie Hebdo”.Aldo Giannuli invita a riflettere con calma, evitando conclusioni poco lucide. Spesso, ricorda, nei delitti opachi e “mediatici” «c’è una catena di comando che va dal vertice politico a quello operativo, passa per i livelli dell’organizzazione, per arrivare agli esecutori che, spesso, sono assistiti nella fuga da uomini di copertura e poi nascosti in covi dell’organizzazione». Tanti passaggi, «durante i quali è possibile che ci siano infiltrazioni e intromissioni», in cui un “soggetto terzo”, con «interessi diversi da quelli degli attentatori», può «intervenire facilitando l’azione oppure forzando e deviando la mano agli esecutori o anche, dopo l’attentato, indirizzare gli investigatori verso una direzione piuttosto che un’altra». Attenzione: «Più sono le persone coinvolte e i gradi di passaggio, più è alta la probabilità che ci possano essere state interferenze». Per Giannuli, l’ipotesi più credibile è che «la polizia e i servizi siano caduti vittime di un colossale depistaggio», a cui fa pensare la strana faccenda della carta d’identità fatta ritrovare sul posto. «Una “intossicazione ambientale” partita sin da prima dell’attentato», per infilare gli inquirenti in un tunnel di errori. «Risultato che si può ottenere inquinando le fonti, producendo false prove, alimentando voci». Questo ovviamente «presuppone che non di una micro-cellula si tratti, ma di una organizzazione capace di agire a livelli professionali piuttosto alti».«Com’era facilmente prevedibile, i due fratelli Kouachi sono stati entrambi uccisi durante un blitz delle teste di cuoio, portandosi nella tomba le risposte a molti interrogativi sull’attentato a “Charlie Hebdo”, che ha tutte le fattezze del terrorismo ascrivibile alla “strategia della tensione”». Un attentato falsa bandiera in stile New York 9/11? No, risponde Federico Dezzani su “Come Don Chisciotte”: «A ragion veduta è un’operazione di infiltrazione e sovversione in stile anni ’70, dove i fratelli franco-algerini rappresentano i brigatisti di basso rango che premono il grilletto», mentre «chi si occupa dalla pianificazione, organizzazione e logistica, il Br Mario Moretti del caso, probabilmente non sarà mai preso perché legato ai servizi». L’intelligence francese? Ne esce «sconfitta secondo i media che leggono il copione», ma invece «vincente in base agli obbiettivi programmati, e marcia fino al midollo per chi analizzi a fondo la vicenda in divenire». Il politologo Aldo Giannuli, storico dei servizi segreti, è più cauto: salvo restando l’idea di una strage di matrice islamica, «è possibile che ci siano stati inserimenti di altri, in una eterogenesi dei fini». Un’ipotesi, non ancora una verità.
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Verità proibita in Europa, la vergogna dell’arresto di Chiesa
Sbattuto in cella e tenuto in arresto per sette ore, rilasciato solo grazie al tempestivo intervento dell’ambasciatore italiano a Tallinn e del ministero degli esteri di Roma, che ha convocato alla Farnesina l’ambasciatore estone chiedendo spiegazioni: com’è possibile che un cittadino europeo – per giunta giornalista ed ex europarlamentare – venga improvvisamente arrestato nella capitale dell’Estonia senza che abbia commesso alcun reato? Le autorità di Tallinn – imbeccate dai loro “custodi” atlantici o convinte di render loro un servizio? – hanno balbettato dichiarazioni che non spiegano nulla, citando un decreto che considera Giulietto Chiesa “persona non gradita”, documento di cui però non c’è traccia. Il provvedimento sarebbe datato 13 dicembre 2014, cioè il giorno dopo il meeting internazionale organizzato a Roma proprio da Chiesa, con grandi giornalisti e autorevoli politologi russi e americani, tra cui Paul Craig Roberts, già viceministro di Regan, tutti critici con la gestione Usa della crisi ucraina. Chiesa è stato arrestato a Tallinn, dov’era invitato per un convegno, poco dopo aver rilasciato un’intervista a una televisione estone.E’ abbastanza evidente, dice, il maldestro tentativo di impedire a un cittadino europeo di esprimere le proprie idee e raccontare le verità che conosce. «Questa – aggiunge Giulietto Chiesa dopo il rilascio – non è certo l’Europa che sognava Altiero Spinelli». Il “decreto di espulsione” dall’Estonia, scrive Pino Cabras su “Megachip”, il newsmagazine web fondato da Chiesa, sarebbe stato «emanato ad personam» dal governo di un paese membro dell’Unione Europea, «senza nessuna accusa formulata in nome di una qualche fattispecie di reato». Quindi, «si è voluto colpire un cittadino di quella stessa Unione Europea, una personalità pubblica nel pieno dei suoi diritti politici e di parola, da sempre proclamati come il miglior primato dell’Europa». In teoria, aggiunge Cabras, tutti hanno quei diritti, «ma vengono usati poco e sempre meno», anche perché «per i diritti funziona al contrario dei vestiti: meno li usi più si sgualciscono». Giulietto? «Indossa invece tutte le sfumature del diritto di parola e perciò mostra la veste integra della libertà, che spicca in mezzo a un sistema dell’informazione ormai agli stracci».Vent’anni prima che diventasse popolare la denuncia della disinformazione di massa organizzata in modo sistematico del mainstream, Giulietto Chiesa ne ha fatto una ragione di vita: «Non sappiamo nulla di quanto avviene attorno a noi, perché non ce lo dicono, e se non sappiamo nulla potrebbe accadere di tutto, al riparo dalla verità». Durissime le denunce sulla Guerra del Golfo, costruita con le false accuse contro Saddam, e sui crimini di Israele verso i palestinesi. E poi la mattanza nei Balcani, i bombardamenti “umanitari” per il Kosovo, le atrocità della guerra in Cecenia: tra i pochissimi, Giulietto Chiesa, a denunciare la Russia per la guerra nel Caucaso, “organizzata” direttamente dal Cremlino per creare un fronte interno in grado di fabbricare consenso a beneficio del pericolante “zar” privatizzatore Boris Eltsin. In contatto con Gino Strada e la struttura di “Emergency”, Giulietto Chiesa è stato il primo giornalista italiano – tra i primi al mondo – a entrare a Kabul nella primavera 2002, durante la “liberazione” dai Talebani, nel corso dell’offensiva dell’Alleanza del Nord scatenata per “punire” Al-Qaeda all’indomani del super-attentato dell’11 settembre 2001, rispetto al quale – oggi è accertato – il network terroristico di Bin Laden non ebbe alcuna responsabilità.«Giulietto Chiesa mente», scrisse l’agenzia sovietica “Tass” ai tempi dell’Urss, sperando di liberarsi dell’allora corrispondente de “L’Unità”, ritenuto scomodo perché sincero, non allineato al potere. Fu Berlinguer in persona, ricorda Chiesa, a chiarire al Cremlino che il giornale non lo avrebbe sostituito. Un’autorevolezza, quella di Chiesa, che gli ha consentito di collaborare per lunghi anni coi maggiori organi d’informazione italiani, da “La Stampa” ai telegiornali Rai e Mediaset. Stretto collaboratore di Mikhail Gorbaciov a partire dagli anni ‘90, Chiesa ha condiviso l’impegno del “padre della perestrojka” per sviluppare una visione multipolare del mondo, archiviata la guerra fredda. Ma la storia s’è rimessa a correre in direzione contraria: la “guerra infinita”, innescata proprio dall’11 Settembre, ci ha regalato un conflitto dopo l’altro. «La peggiore arma di distruzione di massa è la menzogna», dice Chiesa. «Proprio sulla manipolazione della verità si basa la preparazione di ogni guerra di aggressione: tutte guerre asimmetriche, ormai, particolarmente sanguinose, non più tra eserciti contrapposti ma tra milizie e popolazioni civili». In crisi, Giulietto Chiesa, anche con la sinistra, da cui pure proviene: «La sinistra – dice – non ha “visto” il rivolgimento epocale in corso, l’affermarsi delle grandi oligarchie finanziarie che hanno piegato la politica al loro volere. E se la politica democratica sparisce, non abbiamo più difese».Le ultime grandi battaglie civili l’hanno condotto, ancora una volta, nell’ex Unione Sovietica. Prima nell’Ossezia del Sud, aggredita dalla Georgia armata dalla Nato su ordine di Bush. E poi nell’Ucraina sfigurata dal golpe di Kiev, orchestrato da Washington e affidato alla manovalanza neonazista che ha sparato sulla folla di piazza Maidan e assassinato più di cento inermi alla “casa dei sindacati” di Odessa, provocando la secessione della Crimea. Poi, a seguire, i bombardamenti indiscriminati sulla popolazione civile del Donbass “ribelle”. Tutti episodi documentati e filmati, ma oscurati dal mainstream occidentale secondo cui l’aggressore è il vecchio nemico, l’Orso russo, incarnato oggi da quel Putin a cui non si perdona di non volersi “arrendere” al dominio occidentale. «Il mondo sta cambiando e cambierà sempre più in fretta», ha avvertito Pepe Escobar di “Asia Times” al simposio organizzato a Roma da Giulietto Chiesa il 12 dicembre. «Il problema – ha aggiunto Marcello Foa, opinionista del “Giornale” e a allievo di Indro Montanelli – è che l’opinione pubblica occidentale non se rende conto, perché i media non la informano».L’attività più recente di Giulietto Chiesa, la direzione della web-tv “Pandora Tv”, impegnata a svelare i torbidi retroscena della crisi ucraina, gli è probabilmente costata l’inaudito arresto a Tallinn, in quel Baltico dove il risentimento contro l’ex “padrone imperiale” sovietico è ancora così forte da armare violente discriminazioni contro le minoranze russe, fino al punto da applaudire i “rivoluzionari” di Kiev che sfilano sotto bandiere con la svastica. Non è un caso, osserva Pino Cabras, che nel punire con metodi squadristici gli scomodi portatori di verità «si cominci da uno dei paesi baltici, quelli in cui, assieme alla Polonia e all’Ucraina, con la benedizione della Nato, si sta formando un cuore nero dell’Occidente: lì, in piena Europa, si sta “normalizzando” un modo di concepire l’Occidente alla maniera dell’America Latina degli anni Settanta». Per essere chiari: «È un sistema in cui le strategie militari e finanziarie le decide Washington, gli apparati repressivi sono in mano a manovalanza di ispirazione nazista, i simboli storici sono manipolati con ogni mezzo, si rimuove con la forza ogni memoria antifascista e si recuperano segni, monumenti, cimeli legati al peggiore nazionalismo. Per le idee diverse c’è la repressione».Anche in questo caso, Giulietto Chiesa aveva fiutato il pericolo con largo anticipo: si era candidato al Parlamento Europeo in una lista creata per tutelare la minoranza russa della Lettonia. E nel 2009, nel libro “Il candidato lettone”, scriveva: «Mi rendevo conto, nonostante fossi lontano, che si stava preparando un focolaio, che avrebbe presto potuto trasformarsi in un incendio. E avvertivo anche che l’informazione che arrivava da Tallinn era – per usare un eufemismo – incompleta, inadeguata, e che, per capirci qualche cosa, si doveva integrarla con le notizie che venivano da Mosca. L’esperienza mi diceva che le crisi non nascono per caso. Anche se appaiono all’improvviso, hanno sempre una gestazione lunga ed è quella che bisogna scandagliare. Sono come corsi d’acqua, che escono dagli argini all’ultimo momento. Ma è evidente che la questione non è soltanto se gli argini siano sufficientemente alti; bisogna capire perché tanta acqua sia scesa dai monti». L’acqua baltica dell’ultimo decennio, aggiunge Cabras, è quella del recupero della memoria delle SS, della persecuzione dei russi, delle ondate repressive in stile G8 di Genova, tutte raccontate nel libro, «che ancora non poteva descrivere gli sviluppi che invece nel 2014 ha poi raccontato “Pandora Tv”: la guerra ucraina, la veloce e drammatica militarizzazione Nato dell’Est europeo; l’oltranzismo dei leader di quell’area, sempre più organici ai loro burattinai d’Oltreoceano, al punto che cedono platealmente i ministeri chiave e la finanza a ministri stranieri, come in Ucraina; le stragi naziste e i villaggi bombardati dall’artiglieria, le centinaia di migliaia di profughi, l’Europa delle sanzioni autolesioniste».Su questo fiume di eventi, conclude Cabras, c’è l’alba cupa dell’Europa che va incontro alla guerra da Est, non trattenuta dall’altra Europa più a Ovest, a sua volta devastata dall’austerity del regime europeo. «Solo in un contesto simile potevano eleggere il polacco Donald Tusk come presidente del Consiglio Europeo: ai piani alti vogliono quanta più russofobia possibile». L’incredibile arresto intimidatorio e illegale cui è stato sottoposto Giulietto Chiesa a Tallinn «ci dice che il regime europeo non solo emargina le voci dissidenti ma non vuole più tollerarne l’esistenza». Per Pino Cabras, evidentemente, «il silenzio mediatico su notizie importanti non basta più alle correnti atlantiste che dominano il continente. Vedono che c’è chi non si rassegna al silenzio, mentre avverte – qui e lì per l’Europa – che bisogna fare molto chiasso, e urlare che la guerra non sarà in nostro nome». Per Giulietto Chiesa, l’arresto è anche «una lezione da imparare», perché «ci aiuta a capire che razza di Europa è quella che ci troviamo davanti ora, e che battaglia dovremo fare per cambiarla, per rovesciarla come un calzino, se non vogliamo che questa gente rovesci noi».Sbattuto in cella e tenuto in arresto per sette ore, rilasciato solo grazie al tempestivo intervento dell’ambasciatore italiano a Tallinn e del ministero degli esteri di Roma, che ha convocato alla Farnesina l’ambasciatore estone chiedendo spiegazioni: com’è possibile che un cittadino europeo – per giunta giornalista ed ex europarlamentare – venga improvvisamente arrestato nella capitale dell’Estonia senza che abbia commesso alcun reato? Le autorità di Tallinn – imbeccate dai loro “custodi” atlantici o convinte di render loro un servizio? – hanno balbettato dichiarazioni che non spiegano nulla, citando un decreto che considera Giulietto Chiesa “persona non gradita”, documento di cui però non c’è traccia. Il provvedimento sarebbe datato 13 dicembre 2014, cioè il giorno dopo il meeting internazionale organizzato a Roma proprio da Chiesa, con grandi giornalisti e autorevoli politologi russi e americani, tra cui Paul Craig Roberts, già viceministro di Regan, tutti critici con la gestione Usa della crisi ucraina. Chiesa è stato arrestato a Tallinn, dov’era invitato per un convegno, poco dopo aver rilasciato un’intervista a una televisione estone.
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L’Estonia non tollera la verità e arresta Giulietto Chiesa
Nella nuova Europa senza politica estera e interamente dominata dalla Nato non ci si fa scrupolo di espellere da uno dei paesi membri un giornalista di fama internazionale come Giulietto Chiesa, il primo ad affrontare – in mondovisione – i golpisti di Mosca che nel ‘91 avevano tentato di rovesciare Mikhail Gorbaciov, padre della “perestrojka” e Premio Nobel per la Pace. Sconcerto, sulla stampa italiana, per il fermo subito da Chiesa il 15 dicembre a Tallinn, capitale dell’Estonia, dove era invitato a un dibattito internazionale sul tema “la Russia è nemica dell’Europa?”. Evidente l’irritazione delle autorità estoni per l’attività del giornalista, già corrispondente da Mosca per i principali media italiani. Martellante la campagna d’informazione condotta da Chiesa su “Pandora Tv”, per denunciare il “golpe” con il quale l’Occidente ha rovesciato il governo Yanukovich per insediare un governo filo-Usa, dominato dall’estrema destra neonazista, responsabile di atrocità contro la popolazione ucraina di etnia russa, fino alla carneficina della “casa dei sindacati” di Odessa.Giulietto Chiesa è stato arrestato dalla polizia di Tallinn per essere poi espulso come “persona non gradita”: «Un fatto molto grave», per il suo avvocato, Francesco Paola: «Una violazione dei diritti politici». Già europarlamentare, eletto nel 2004 con la lista “Di Pietro – Occhetto” e poi passato come indipendente al gruppo socialista europeo, Chiesa si è ricandidato al Parlamento Europeo nel 2009 in Lettonia, rappresentando la minoranza russa del paese baltico. Uomo di vaste relazioni internazionali, promotore del “World Political Forum” presiduto dallo stesso Gorbaciov, Giulietto Chiesa ha anche insegnato negli Stati Uniti, al Woodrow Wilson International Center di Washington ed è stato inserito nel “panel” internazionale di New York per la verità sull’11 Settembre, dopo il bestseller “La guerra infinita” (Feltrinelli, 2002) e il documentario “Zero”, opere che contestano la verità ufficiale sui drammatici attentati alle Torri Gemelle.Un uomo scomodo, Giulietto Chiesa: al punto da essere impunemente espulso da un paese membro dell’Ue, solo per aver espresso le sue idee? Forte la sua denuncia sulle mistificazioni attorno alla crisi ucraina, completamente manipolata dai media mainstream a partire dal suo sanguinoso esordio, la strage di civili in piazza Maidan a Kiev. A “tradirsi”, rivelando la vera identità degli stragisti, fu proprio un politico estone, il ministro degli esteri Urmas Paet, al telefono con l’allora responsabile europea della politica estera, Catherine Ashton. Paet le disse di aver scoperto che a sparare sulla folla non erano stati gli agenti del regime di Yanukovich, ma cecchini addestrati dall’Occidente. Obiettivo: massacrare innocenti, per poi incolpare la polizia ucraina e scatenare una campagna di odio contro il regime di Yanukovich, non ostile a Mosca. Brutalità e cinismo denunciati con la massima fermezza da Giulietto Chiesa, chiarissimo anche nel rimarcare l’emergere di gruppi neonazisti e la pericolosa intolleranza, in Est Europa, verso chiunque si opponga al “pensiero unico” imposto dagli Usa. Al punto da finire arrestato, dopo aver messo piede in un paese che certo guarda con simpatia ai “golpisti” di Kiev?Nella nuova Europa senza politica estera e interamente dominata dalla Nato non ci si fa scrupolo di espellere da uno dei paesi membri un giornalista di fama internazionale come Giulietto Chiesa, il primo ad affrontare – in mondovisione – i golpisti di Mosca che nel ‘91 avevano tentato di rovesciare Mikhail Gorbaciov, padre della “perestrojka” e Premio Nobel per la Pace. Sconcerto, sulla stampa italiana, per il fermo subito da Chiesa il 15 dicembre a Tallinn, capitale dell’Estonia, dove era invitato a un dibattito internazionale sul tema “la Russia è nemica dell’Europa?”. Evidente l’irritazione delle autorità estoni per l’attività del giornalista, già corrispondente da Mosca per i principali media italiani. Martellante la campagna d’informazione condotta da Chiesa su “Pandora Tv”, per denunciare il “golpe” con il quale l’Occidente ha rovesciato il governo Yanukovich per insediare un governo filo-Usa, dominato dall’estrema destra neonazista, responsabile di atrocità contro la popolazione ucraina di etnia russa, fino alla carneficina della “casa dei sindacati” di Odessa.
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Israele, guerra e Pil: e i palestinesi diventano schiavi inutili
Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.A sdoganare un linguaggio più che esplicito sono alcuni esponenti dell’establishment di Tel Aviv, come la parlamentare Ayelet Shaked, quella che durante l’ultimo assedio di Gaza esortò a colpire «tutto il popolo palestinese, inclusi gli anziani e le donne, le loro città e i loro villaggi, i loro beni e infrattutture». Anche le donne, colpevoli di allevare «serpenti». Su “The Times of Israel”, Yonahan Gordan spiega «quando si approva un genocidio», e argomenta: «Che altro modo c’è allora per affrontare un nemico di questa natura che non sia lo sterminio completo?». Il vicepresidente del Parlamento israeliano, Moshe Feiglin, membro del partito Likud di Netanyahu, sollecita l’esercito israeliano a uccidere indiscriminatamente i palestinesi di Gaza e a utilizzare ogni possibile mezzo per farli andar via: «Il Sinai non è lontano da Gaza e possono andarsene, questo sarà il limite dello sforzo umanitario di Israele». Questi appelli alla pulizia etnica e al genocidio stanno crescendo di frequenza, scrive Robinson nella sua analisi, ripresa da “Come Don Chisciotte”.Il clima politico in Israele ha continuato a spostarsi a destra: «Quasi la metà della popolazione ebrea di Israele appoggia una politica di pulizia etnica dei palestinesi», scrive Robinson. Secondo un sondaggio del 2012, «la maggioranza della popolazione appoggia la completa annessione dei Territori Occupati e l’istituzione di uno stato di apartheid». Il timore di una crescita del fascismo in Israele ha portato 327 sopravissuti, discendenti di sopravissuti e vittime del genocidio ebreo perpetrato dai nazisti, a pubblicare una lettera aperta sul “New York Times” del 25 agosto che esprimeva allarme per «la estrema disumanizzazione razzista dei palestinesi nella società israeliana, che ha raggiunto un picco febbrile». La carta continuava: «Dobbiamo alzare la nostra voce collettiva e usare il nostro potere collettivo per porre fine a tutte le forme di razzismo, incluso il genocidio in corso del popolo palestinese». Il problema, aggiunge Robinson, è che lo stesso progetto sionista può essere letto come basato sul genocidio della pulizia etnica: testualmente, l’articolo 2 della convenzione dell’Onu del 1948 definisce il genocidio come “azioni commesse con l’intenzione di distruggere totalmente o parzialmente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.La drammatica escalation degli ultimi anni, rivela Robinson, ha origini economiche: è la globalizzazione a rendere ormai “superflui” i lavoratori palestinesi, ridotti allo status di “umanità eccedente”. «La rapida globalizzazione di Israele a partire dalla fine degli anni ‘80 coincise con le due Intifada (proteste) palestinesi e con gli accordi di Oslo, negoziati dal 1991 al ‘93 e che naufragarono negli anni seguenti». A premere per gli accordi di pace, i poteri forti finanziari: i focolai geopolitici della guerra fredda avevano ostacolato l’accumulazione di capitali e occorreva “stabilizzare” il Medio Oriente. «Il processo di Oslo – spiega Robinson – si può vedere come un pezzo chiave nel puzzle politico provocato dall’integrazione del Medio Oriente nel sistema capitalista globale emergente», il contesto nel quale poi si inserirà la stessa “primavera araba”. Gli accordi di Oslo, naturalmente, rimasero lettera morta: avevano promesso ai palestinesi una soluzione definitiva entro 5 anni, con uno statuto per i rifugiati e il loro diritto al ritorno in Palestina, una definizione delle frontiere e della gestione dell’acqua, nonché la ritirata di Israele dai Territori Occupati. Durante il periodo di Oslo, cioè tra il 1991 e il 2003, «l’occupazione israeliana della Cisgiordania e Gaza si intensificò smisuratamente».Perché fallì il processo di pace? Prima di tutto, perché «non era destinato a risolvere la difficile situazione dei palestinesi espropriati, ma a integrare una dirigenza emergente palestinese nel nuovo ordine mondiale e a dare a questa dirigenza una partecipazione nella difesa di quest’ordine, in modo che assumesse un ruolo nella vigilanza interna delle masse palestinesi nei Territori Occupati». C’è anche un profilo finanziario: l’Anp creata a Oslo doveva servire a integrare il capitale palestinese con quello dell’area del Golfo. E si sperava che l’Anp «servisse per mediare nell’accumulazione di capitali transnazionali nei Territori Occupati, mantenendo il controllo sociale sulla popolazione inquieta». Nel frattempo, la nuova economia israeliana – il complesso militare e di sicurezza, altamente tecnologico – si andava integrando col capitale corporativo transnazionale di Usa, Europa e Asia, proiettando l’economia israeliana anche nelle reti economiche regionali (Egitto, Turchia e Giordania). Infine, in quel periodo Israele «visse un episodio di grande immigrazione transnazionale, tra cui l’afflusso di circa un milione di immigrati ebrei, che indebolì la necessità di Israele di manodopera palestinese durante gli anni ‘90».«Fino a che la globalizzazione non prese vita, verso la metà degli anni ‘80, la relazione di Israele coi palestinesi rifletteva il classico colonialismo, nel quale il potere coloniale aveva usurpato la terra e le risorse dei colonizzati per poi farli lavorare, sfruttandoli», scrive il professor Robinson. «Però l’integrazione del Medio Oriente nell’economia globale e la società basata sulla ristrutturazione economica neoliberale, inclusa la ben conosciuta litania di misure quali la privatizzazione, la liberalizzazione del commercio, la supervisione del Fondo Monetario Internazionale sull’austerità e i prestiti della Banca Mondiale, aiutò a provocare la propagazione di pressioni da parte delle masse di lavoratori e dei movimenti sociali e la democratizzazione delle basi, che si riflette nelle Intifada palestinesi, il movimento operaio attraverso il Nordafrica e il malessere sociale, che si resero più visibili nelle rivolte arabe del 2011. Questa onda di resistenza forzò una reazione da parte dei governanti israeliani e dei loro alleati statunitensi».Integrandosi nel capitalismo globale, continua Robinson, l’economia israeliana visse due grandi ondate di ristrutturazione. La prima, negli anni ‘80 e ‘90, fu una transizione dall’economia tradizionale (agricoltura e industria) verso un nuovo modello basato sull’informatica: Tel Aviv e Haifa divennero le Silicon Valley del Medio Oriente, e nel 2000 il 15% del Pil di Israele e il 50% dell’export avevano origine dal settore dell’alta tecnologia. «Poi, dal 2001 in poi, e soprattutto sulla scia del disastro delle dot-com del 2000, che coinvolse imprese che commerciavano in Internet, e della recessione a livello globale, secondariamente per gli accadimenti del 11 Settembre 2001 e la rapida militarizzazione della politica mondiale, si produsse in Israele un altro spasmo volto a supportare un “complesso globale di tecnologie militari, di sicurezza, di spionaggio e di vigilanza contro il terrorismo”». Israele è divenuto la patria di imprese tecnologiche, pioniere della cosiddetta “industria della sicurezza”. «Di fatto, l’economia di Israele si è globalizzata specificamente attraverso l’alta tecnologia militare: gli istituti di esportazione israeliani stimano che nel 2007 c’erano circa 350 imprese transnazionali israeliane dedite ai sistemi di sicurezza, di spionaggio e controllo sociale, che si situarono nel centro della nuova politica economica israeliana».Le esportazioni israeliane di prodotti e servizi collegati alla “lotta al terrorismo” aumentarono del 15% nel 2006 e si prevedeva che sarebbero cresciute del 20% nel 2007, per un valore di 1,2 miliardi di dollari all’anno, secondo Naomi Klein. Questa crescita esplosiva «fa di Israele il quarto trafficante d’armi del mondo, davanti al Regno Unito». Numeri: Israele ha più azioni tecnologiche quotate al Nasdaq (molte collegate all’industria della sicurezza) che ogni altro paese straniero, e ha più brevetti hi-tech registrati negli Usa di quanti ne abbiano Cina e India messe insieme. Oggi, il 60% delle esportazioni israeliane è collegato alla tecnologia, specie nell’industria della sicurezza. In altre parole, sintetizza Robinson, «l’economia israeliana si è alimentata della violenza locale, regionale e mondiale, dei conflitti e delle disuguaglianze». Le sue principali imprese? «Hanno finito per dipendere dal conflitto». La guerra in Palestina, nel Medio Oriente e in tutto il mondo, è ormai un business che influenza l’intero sistema politico dello Stato israeliano.«Questa accumulazione militare è caratteristica anche degli Usa e di tutta l’economia mondiale globalizzata», annotra Robinson. «Viviamo sempre più in un’economia da guerra mondiale e certi stati, come Usa e Israele, sono ingranaggi chiave di questa macchina. L’accumulazione militarista per controllare e contenere gli oppressi e gli emarginati e per sostenere l’accumulazione nella crisi si prestano a tendenze politiche fasciste o a quello che noi abbiamo definito “il fascismo del XXI secolo”». Questo cambia (in peggio) la sorte della popolazione palestinese, che fino agli anni ‘90 era «una forza lavoro a basso costo per Israele». E’ stata soppiantata innanzitutto dal milione di nuovi arrivi dall’Est Europa, dopo il collasso dell’Urss, che hanno incrementato gli insediamenti coloniali: ebrei sovietici, a loro volta «resi profughi dalla ristrutturazione neoliberale post-sovietica». In più, l’economia israeliana cominciò ad attirare manodopera dall’Africa e dall’Asia, «dato che il neoliberismo produsse crisi con milioni di profughi dalle vecchie regioni del Terzo Mondo».Insieme alla recessione, la nuova mobilità lavorativa transnazionale ha permesso all’élite finanziaria mondiale «la riorganizzazione dei mercati del lavoro e il reclutamento di forze lavoro transitorie, private dei loro diritti e facili da controllare». Un’opzione «particolarmente attraente per Israele, dato che elimina la necessità di manodopera palestinese politicamente problematica». Oltre 300.000 lavoratori immigrati – provenienti da Thailandia, Cina, Nepal e Sri Lanka – ora costituiscono la forza lavoro predominante nell’agroalimentare di Israele, così come la manodopera messicana e centroamericana lo è nell’agroalimentare statunitense, nella stessa condizione precaria di super-sfruttamento e discriminazione. «Il razzismo che molti israeliani hanno mostrato nei confronti dei palestinesi (esso stesso prodotto del sistema di relazioni coloniale) ora si è tramutato in una crescente ostilità verso gli immigrati in generale», osserva Robison, «man mano che il paese si tramuta in una società totalmente razzista».E dato che l’immigrazione globale ha eliminato la necessità di Israele di avere manodopera a basso costo palestinese, quest’ultima si è convertita in una popolazione marginale eccedente. «Prima dell’arrivo dei rifugiati sovietici – scrive Naomi Klein – Israele non poteva neanche per un momento prescindere dalla popolazione palestinese di Gaza o della Cisgiordania; la sua economia non avrebbe potuto sopravvivere senza la mano d’opera palestinese». All’epoca, «circa 130.000 palestinesi abbandonavano le loro case a Gaza e in Cisgiordania ogni giorno e andavano in Israele per pulire le vie e costruire le strade, mentre gli agricoltori e i commercianti palestinesi riempivano camion di mercanzia e le vendevano in Israele e in altre parti dei Territori». Poi, in vista della grande trasformazione strutturale dell’economia israeliana, già nel ‘93 – anno della firma degli accordi Oslo – Tel Aviv inaugurò la politica di chiusura: palestinesi confinati dei Territori Occupati, pulizia etnica e forte aumento degli insediamenti ebraici. Istantaneo il crollo del reddito palestinese, di almeno il 30%, fino al bilancio del 2007, con disoccupazione e povertà al 70%.«Dal ‘93 al 2000, che si pensava dovessero essere gli anni nei quali veniva realizzato l’accordo di “pace” che esigeva la fine dell’occupazione israeliana e lo stabilirsi di uno Stato palestinese – scrive Robinson – i coloni israeliani in Cisgiordania raddoppiarono, arrivando a 400.000, poi a 500.000 nel 2009 e continuarono aumentando. La denutrizione a Gaza è agli stessi livelli di alcune delle nazioni più povere del mondo, con più della metà delle famiglie palestinesi che assumono un solo pasto al giorno. Mano a mano che i palestinesi venivano espulsi dall’economia di Israele, le politiche di chiusura e l’incremento dell’occupazione distrussero a loro volta l’economia palestinese». Il collasso degli accordi di Oslo, insieme a quella che Robinson chiama «la farsa delle negoziazioni di “pace” in corso, nel mezzo di un’occupazione israeliana sempre maggiore», può rappresentare un dilemma politico per i poteri forti transnazionali, che oggi vorrebbero «trovare meccanismi per lo sviluppo e l’assoggettamento dei ricchi palestinesi e dei gruppi capitalisti».In base alla logica perversa dell’élite, quella «del capitale militarizzato, incrostato nell’economia israeliana e internazionale», l’attuale situazione è eccellente: «E’ un’opportunità d’oro per espandere l’accumulazione di capitale per lo sviluppo e la commercializzazione di armi e di sistemi di sicurezza in tutto il mondo, attraverso l’uso dell’occupazione e della popolazione palestinese in cattività come obiettivi d’attacco e prova sul terreno». E’ questa élite affaristica e tecnologico-militare a condizionare oggi la politica di Israele. «La rapida espansione economica per l’alta tecnologia della sicurezza creò un forte desiderio nei settori ricchi e potenti di Israele di abbandonare la pace a favore di una lotta per la continua espansione della “guerra al terrore”», ricorda la Klein. Comodissimo, quindi, il conflitto coi palestinesi: non già come «battaglia contro un movimento nazionalista con mete specifiche al riguardo della terra e dei diritti», ma come «parte della guerra globale al terrorismo, come se fosse una guerra contro forze fanatiche e illogiche basate esclusivamente su obiettivi di distruzione».Israele sa che la pace non rende, scrisse su “Haaretz” nel 2009 Amira Hass, una delle poche voci critiche coraggiose nei media israeliani. L’industria della sicurezza? Fondamentale, per l’export: armi e munizioni si provano tutti i giorni a Gaza e in Cisgiordania. La protezione degli insediamenti? «Richiede uno sviluppo costante della sicurezza, la vigilanza e la dissuasione con strumenti come barriere, fili spinati, videocamere di vigilanza elettroniche e robot». Questi dispositivi «sono l’avanguardia della sicurezza nel mondo sviluppato e servono per le banche, le imprese e i quartieri di lusso a lato dei quartieri malfamati e delle enclavi etniche dove bisogna reprimere le ribellioni». Oggi, i palestinesi “rendono” ancora in un solo modo: come cavie, come bersagli. E se “la pace non rende”, si può immaginare chi investa sulla guerra, il grande business dell’Occidente sfinito dalla crisi e dominato dall’oligarchia globalista, di cui fa parte pienamente anche l’élite israeliana. Quella che ha strappato ai palestinesi le loro terra, ne ha fatto strage (pulizia etnica), ha sfruttato a lungo i superstiti, ma ora li considera “umanità eccedente”, sgradevole, da eliminare in ogni modo. Non c’è più posto, per loro: si accomodino pure sul Sinai, nel deserto.Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.