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Clima impazzito: c’è il rischio di mezzo miliardo di profughi
Succede in Louisiana, Brasile, New York, Australia, Thailandia, Filippine, Alaska. Succede un po’ dappertutto per le comunità di mare. Gente che vive sulle coste e che deve abbandonare le proprie case per colpa di erosione, innalzamento dei livelli del mare, tempeste violente, perdita di terreno. Secondo un recente articolo pubblicato su “Nature Climate Change”, sono circa 1 milione le persone che hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni. Per la precisione 1 milione e 300mila. E mentre fino a pochi anni fa si cercava di proteggere quello che c’era, adesso l’atteggiamento prevalente è di andare via. Cosa fare infatti con l’arrivo di mareggiate senza precedenti, allagamenti e continuo innalzarsi del mare? Si possono alzare le strade e le case, cercare di proteggere le lagune, migliorare i codici con cui si costruisce. Ma si può anche decidere di lasciare perdere, visto che i costi sono elevati, ed è certo che il clima e l’ambiente non torneranno quelli di prima. È questo il dilemma delle comunità costiere.Storicamente, migrazioni di massa collegate alle condizioni climatiche sono molto ben documentate, e quello che viviamo adesso – appunto il milione e trecentomila anime che hanno dovuto lasciare le proprie case – è la manifestazione dei nostri tempi del problema. Durante il secolo 1900-2000 i livelli del mare si sono innalzati di ben dodici centimetri. Le previsioni sono di varie decine di centimetri in questo secolo. Secondo alcuni studi circa 470 milioni di persone perderanno la casa. Alcuni ricorderanno l’uragano Sandy che colpì le coste del New Jersey nel 2012: molte delle case sono state rasate al suolo e mai piu ricostruite. Dopo il tifone Haiyan del 2013 le Filippine hanno messo il divieto di costruire a cinquanta metri dalla costa e hanno forzato l’evacuazione di 80.000 persone. Dopo lo tsunami del 2004, almeno 22.000 case sono state perse e non più ricostruite in zone costiere. A volte la gente via via in modo preventivo, e cioè prima che ci siano i disastri: le città vengono evacuate perché i cambiamenti climatici stanno piano piano portando via coste e case e non si vuole aspettare “il grande evento”.In Louisiana accade lo stesso: qui l’erosione dovuta alle estrazioni di petrolio e di gas ha fatto perdere case, terreni e coste. Il caso più eclatante è quello di Shishmaref in Alaska, città costruita sul ghiaccio e che è destinata a morire. Siamo a 160 miglia dalla Russia, il ghiaccio scompare. Nevica sempre di meno, e sempre più tardi e il ghiaccio si scioglie prima o neanche si forma. L’erosione monta. L’assenza di ghiaccio fa sì che durante le tempeste pezzi interi di costa vengono triturati e finiscono in mare, senza protezione. Una delle case è già crollata in mare nel 2006. Norman era un ragazzino che nel 2007 cadde risucchiato dal ghiaccio di Shishmaref che si scioglieva e morì. Ogni secondo pompiamo in atmosfera 1.200 metri cubi di CO2. Il pianeta si è surriscaldato, in media di un grado centigrado dalla rivoluzione industriale ad oggi, una enormità. L’Artico ha avuto livelli di aumento di temperatura doppi che il resto del pianeta. In Alaska ci sono almeno trentuno villaggi a rischio di scomparire, come Shishmaref: dodici di questi villaggi stanno cercando di capire dove e come evacuare, perché sanno che non c’è speranza.Siamo noi a causare tutto ciò, bruciando fonti fossili a ritmi allarmanti. Se l’obiettivo è di contenere l’aumento della temperatura a due gradi centigradi, una sola cosa si deve fare: non pompare mai più petrolio. Dall’altra parte del mondo, le isole Kiribati, le isole Marshall, le isole Fiji. Lontanissme dall’Alaska ma tutte che rischiano di scomparire. Isle di Jean Charles in Louisiana che pure sprofonda a causa dei cambiamenti climatici. A Miami Beach, Florida, hanno dovuto installare pompe speciali per evitare allagamenti, collegati all’erosione. Non tutte le comunità hanno i soldi per programmare l’evacuazione e la risistemazione delle persone. È costoso, la gente è vulnerabile, è una strada a senso unico.A Shishmaref sanno che non hanno scelta, e cosi la città ha deciso di evacuare prima che il mare porti via tutto. Ma non hanno i soldi. E dove evacueranno? Non si sa, forse verso l’interno. Ma questo significa perdita di identità: la maggior parte delle persone qui vive di pesca e di caccia e di tradizioni Inupiat collegate al mare. Saranno lo stesso popolo? Perché devono evacuare loro, se il loro stile di vita, di indigeni, è molto meno impattante di quello di centinaia di milioni di persone che sprecano, bruciano, e generano molto più inquinamento e emettono molta più CO2 di loro?(Maria Rita D’Orsogna, “Un milione di profughi del clima”, da “Comune-info” del 10 aprile 2017. Fisica e docente all’Università statale della California, la professoressa D’Orsogna cura diversi blog, consapevole dell’importanza dell’informazione indipendente).Succede in Louisiana, Brasile, New York, Australia, Thailandia, Filippine, Alaska. Succede un po’ dappertutto per le comunità di mare. Gente che vive sulle coste e che deve abbandonare le proprie case per colpa di erosione, innalzamento dei livelli del mare, tempeste violente, perdita di terreno. Secondo un recente articolo pubblicato su “Nature Climate Change”, sono circa 1 milione le persone che hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni. Per la precisione 1 milione e 300mila. E mentre fino a pochi anni fa si cercava di proteggere quello che c’era, adesso l’atteggiamento prevalente è di andare via. Cosa fare infatti con l’arrivo di mareggiate senza precedenti, allagamenti e continuo innalzarsi del mare? Si possono alzare le strade e le case, cercare di proteggere le lagune, migliorare i codici con cui si costruisce. Ma si può anche decidere di lasciare perdere, visto che i costi sono elevati, ed è certo che il clima e l’ambiente non torneranno quelli di prima. È questo il dilemma delle comunità costiere.
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La Cina è sovrana nella moneta: per questo vincerà sempre
Canton, Shanghai, guardatele, fanno sembrare Ny e Chicago robetta da Sant’Arcangelo di Romagna o Urbino. Si tratta di città che, si badi bene, solo pochi anni or sono erano accumuli di baracche e qualche palazzaccio di cemento. Poi tutti sapete che la Cina nel tempo in cui Usain Bolt corre i 100 metri è diventata la seconda economia del pianeta. Come ho detto e scritto fino ad annoiare me stesso, nulla, neppure un granello di libero mercato che gli idioti come Boldrin, Giannino e Padoan predicano ancora qui – tipo patetici manichini zombie dimenticati sul set di “Thriller” di Michael Jackson nel 1982 – nulla, dicevo, di libero mercato ha sostenuto un’esplosione, inimmaginabile nella storia dell’economia, come quella cinese. Dietro c’è, chiaro e semplice, uno Stato sovrano nella moneta che ha detto ai mercati: “Hey, siamo qui, abbiamo Renminbi con cui ripagarvi all’infinito, li stampiamo noi! Pagheremo poco i lavoratori ma fino a un certo punto, perché poi Pechino li proteggerà sempre (e poi hanno 3.000 miliardi di dollari in valuta estera, se proprio volete stare tranquilli, ma anche se no, non importerebbe)”.Tutto andava bene, per forza. Ma poi ci fu un crollo, in Cina. E indovinate, ma indovinate! quando il crollo è avvenuto? Quando il cosiddetto libero mercato ha infettato la Cina dalla porta di servizio. Ecco la storia. I soliti speculatori privati, cinesi e stranieri, attirati dal Tesoro di Atlantide cinese, si sono messi a prendere in prestito somme immense da finanziatori illegali chiamati “underground margin lenders” su cui Pechino non poteva avere controllo. Tutti ’sti soldi sporchi sono finiti a gonfiare le solite “bolle di Borsa o immobiliari” (stessa storia degli Usa 2000-2007, del Portogallo, dell’Irlanda, della Spagna, dell’Islanda…), e nel 2015 Pechino e tutto l’apparato comunista fino alla Banca Centrale della Cina (Boc) si ritrovano con uno tsunami che non avevano previsto. Crolla la Borsa, nel nord-est del paese sono comparse intere città grandi come Milano con milioni di palazzi costruiti dai privati speculatori e totalmente deserti, banche con insegne grandi come cartelloni di Bruce Springsteen ma dove mai si sedette un singolo impiegato, aeroporti con 14 piste di decollo e intere divisioni dei vigili del fuoco ma dove mai è decollato o decollerà un singolo aereo.Vi chiederete, ma se un governo centrale con moneta sovrana ha potere di fuoco infinito, allora perché Pechino non è intervenuto a finanziare questa Hiroshima creata da ’sti investitori illegali? E non li ha arrestati e ficcati nelle notoriamente non carine carceri cinesi? La risposta è che il governo cinese non è scemo, fa la Mmt. Lui, Pechino, non spreca valuta e tempo per rimediare alla disoccupazione causata dai ladroni del libero mercato. Ha preso la gran parte dei cittadini allora turlupinati dal libero mercato e li ha messi a lavorare nei lavori di Stato. Cioè immense imprese statali che producono e vendono, eccome se vendono. Naturalmente se andate a vedere cosa scrivevano “Bloomberg”, la “Bbc”, il “Wall Street Journal”, o “Reuters”, fra il 2015 e il 2016, ohhh!, ecco: “Il debito pubblico cinese che finanzia la disoccupazione è esploso e porterà Armageddon alla Cina!”. E’ successo per caso? No, no, no. Dai, non perdiamo tempo, la Mmt in questi dettagli non sbaglia mai, la Cina non sbaglia, non sono Giuliano Amato (conato). Non è successo un cazzo. La Cina è ancora lì e anzi…Pechino ha sniffato l’aria al volo, e nel giro di pochi mesi l’immenso apparato comunista ha saputo decidere ciò che per il pollitalici polli di Palazzo Chigi avrebbe richiesto forse un secolo? O due? Pechino in poche settimane ha di nuovo aperto le borse della Boc e ha rifinanziato, attenti, quello che è il più massiccio spostamento d’investimenti della storia umana, cioè dalla fabbrica o dal cantiere che furono la prima ondata di salvezza statale, li ha spostati nella high tech, nella Ai, nei semiconduttori, nei materiali come gli Oleds e i Cobots. E, indovinate? Gli stipendi reali in Cina nel 2106-2017 sono cresciuti del 7% e l’inflazione è allo 0,8%. In Italia sono cresciuti dello 0,3% e l’inflazione è all’1,40%, quasi il doppio della Cina. Certo, la Cina non è il paradiso del lavoro. Interi settori industriali cinesi hanno dovuto chiudere quando l’Europa è collassata sotto il peso dell’economicidio dell’euro, trascinandosi dietro tutto l’Est europeo, che anch’esso come la Ue comprava dalla Cina. Ma un interessante studio della “Bbc” ci dimostra che anche nei casi peggiori, dove i lavoratori cinesi furono costretti dalle crisi occidentali a tornare alle campagne perché licenziati, essi hanno avuto una sopravvivenza familiare degna, inimmaginabile in Italia o in Germania. E sapete perché? Di nuovo: le aziende cinesi arrivano anche nelle province più sperdute, e con prestiti garantiti dalla Boc statale, investono anche sui piccolissimi contadini.Ecco come. Essendo le province più arretrate della Cina, ehm, arretrate, i lavoratori che vi ritornano perché licenziati dalle mega-industrie delle mega-città, possono fiorire semplicemente portando il loro ‘know how’ fra le campagne e in villaggi di mondi sperduti. Creano mini-aziende, esportano mini-tecnologia in edilizia o manifatturiero, ma sono pagati con soldi stampati dalla Boc, mica da Fata Turchina (ditelo a un licenziato delle ceramiche di Faenza se questo gli è possibile, fare mattonelle a Conselice da solo). Ora vi dico una cosa, che non so quanti di voi possano capire, perché bisogna aver girato gli slums del Centro America, dell’Africa, della Siria, come feci io quando potevo, per capirlo. Uno dei fenomeni più abietti della povertà umana è proprio la migrazione dalle campagne alle città, sempre finita appunto in immensi slums di atroce degrado. In Cina il fenomeno è esattamente l’opposto. La migrazione campagnola cinese nelle città, dati della Fao e di Oxfam, ha prodotto in maggioranza (non tutta, ovvio) la più grande esplosione di ricchezza sia per le aziende che per i lavoratori mai vista al mondo. Invece i 130 milioni di pakistani, gli 80 milioni di etiopi, i 901 milioni di indiani ed eserciti di contadini siriani, hanno solo trovato miserie inimmaginabili nella loro città. Perché?La risposta: perché nessuno dei governi sopraccitati – Pakistan, Etiopia, India, Siria – ha mai capito la Mmt, e nessuno di loro ha mai, come la Cina, abbracciato il fantasma (sbraitato in Occidente) del deficit di bilancio per aiutare il loro poveri. La Cina, e la Boc, sì, invece lo hanno fatto. Poi, per carità, Pechino non è retta da Gesù Bambino, per nulla, ma almeno sull’economia sta manovrando da Dio in terra, poche balle, e ora ancora meglio… Siamo sempre con uno Stato a moneta sovrana, la Cina, ok? Può stamparla e investire dove gli pare. Questo Stato – ovvio, sempre la Cina – ha propri esportatori privati, e in genere questi hanno sempre bussato alle porte di Usa e Ue. L’Ue oggi è putrefatta, e gli Usa fanno la retorica Trump del “basta comprare cinese”. Xi-Jinping, leader supremo di Pechino, lo aveva capito da anni, e cosa ha fatto? Ecco: ha sborsato moneta di Stato sovrana e riserve in dollari per rendere sufficientemente ricche le nazioni attorno alla Cina – Laos, Thailandia, Cambogia, Birmania e Australia – affinché queste poi divenissero mercati che comprano cose cinesi. Semplice. Lo Stato usa la sua moneta, che crea dal nulla, per favorire il suo settore privato, di cittadini e aziende (Barnard lo diceva a “La Gabbia”, sul sito, in conferenze, eccetera).Lo hanno per caso fatto quei nazi-tonti della Merkel con la Grecia, col Portogallo o con altri paesi? No, hanno fatto il contrario e ora l’economia tedesca si contrae così, leggete Eurostat: «Il rischio di finire in miseria è aumentato per i lavoratori in 7 Stati Ue su 10. Peggio dell’Italia fa solo la Germania. Tra i lavoratori tedeschi il medesimo rischio è aumentato di oltre 5 punti percentuali». Ma di più! Il Premio Nobel della Pace Aung San Suu Kyi, birmana dissidente e detenuta per decenni, oggi guida il suo paese come ministro nella transizione alla democrazia, e con chi colloquia? Con la moneta sovrana della Cina (be’, magari, Aung, un’occhiata ai diritti umani in Cina, una come te poteva darla…). Ma sapete, i diritti umani senza investimenti e salari sono aria fritta. Credo che Aung faccia bene. Poi la Cina di Mr. Xi “con lo Stato non si scherza un cazzo” Jinping, l’altro giorno ha beccato uno speculatore cinese, un Soros con occhi a mandorla, e ha visto che lucrava troppo. Si chiama Yao Zhenhua, era il padrone di un gigante assicurativo privato cinese chiamato Baoneng. Lo ha preso per il colletto e gli ha letteralmente detto: “Ciccio, tu lucri troppo sui nostri cittadini, ora per 10 anni tu non lavori più. Passi lunghi e ben distesi, ciccio”. E Yao, coda fra le gambe, è in ferie per 10 anni e sta muto. Fine. Ecco cosa può fare una moneta sovrana anche in una zona geoglobale che fino a ieri era letteralmente alla fame, a mangiare radici, ma oggi è la seconda economia del mondo. Domani sarà la prima, con moneta sovrana. Noi Ue? Dai… rileggete tutto.(Paolo Barnard, “La Cina, magari”, dal blog di Barnard del 9 aprile 2017).Canton, Shanghai, guardatele, fanno sembrare Ny e Chicago robetta da Sant’Arcangelo di Romagna o Urbino. Si tratta di città che, si badi bene, solo pochi anni or sono erano accumuli di baracche e qualche palazzaccio di cemento. Poi tutti sapete che la Cina nel tempo in cui Usain Bolt corre i 100 metri è diventata la seconda economia del pianeta. Come ho detto e scritto fino ad annoiare me stesso, nulla, neppure un granello di libero mercato che gli idioti come Boldrin, Giannino e Padoan predicano ancora qui – tipo patetici manichini zombie dimenticati sul set di “Thriller” di Michael Jackson nel 1982 – nulla, dicevo, di libero mercato ha sostenuto un’esplosione, inimmaginabile nella storia dell’economia, come quella cinese. Dietro c’è, chiaro e semplice, uno Stato sovrano nella moneta che ha detto ai mercati: “Hey, siamo qui, abbiamo Renminbi con cui ripagarvi all’infinito, li stampiamo noi! Pagheremo poco i lavoratori ma fino a un certo punto, perché poi Pechino li proteggerà sempre (e poi hanno 3.000 miliardi di dollari in valuta estera, se proprio volete stare tranquilli, ma anche se no, non importerebbe)”.
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5 Stelle (e strisce), come la Lega: oggi Grillo, ieri Bossi
Ogni fase politica della Repubblica italiana è stata scandita da un partito “di protesta”, funzionale agli interessi dell’establishment atlantico: si comincia con L’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini per terminare col Movimento 5 Stelle di Gianroberto Casaleggio, passando per il Partito Radicale di Marco Pannella e la Lega Nord di Umberto Bossi. Fino alla recente svolta nazionalista, filorussa e anti-euro, il Carroccio è infatti stato uno dei tanti prodotti di Washington e Londra, schierato su posizioni “thatcheriane” ed europeiste. E’ la tesi di Federico Dezzani, analista geopolitico, impegnato in una ricostruzione “non convenzionale” della storia recente del nostro paese. Nei primi anni ‘90, ricorda, la Lega Nord avrebbe dovuto essere lo strumento per attuare un ambizioso disegno geopolitico: la frantumazione dello Stato unitario e la nascita di una confederazione di tre “macroregioni”, così da cancellare l’Italia come attore del Mar Mediterraneo. Questo, secondo Dezzani, il vero ruolo della Lega Nord durante Tangentopoli, a cominciare dalla figura, allora determinante, del suo ideologo, il professor Gianfranco Miglio.«Non si muove foglia che Washington non voglia: anche in Padania». In politica, sostiene Dezzani nel suo blog, ogni segmento della domanda deve essere coperto, come in ogni altro settore di mercato: l’offerta deve essere costantemente rinnovata e nuovi prodotti possono essere lanciati grazie a un’adeguata campagna pubblicitaria. Basta considerare i partiti alla stregua di ogni altro prodotto di consumo. «L’abilità di chi tira i fili della democrazia consiste nel rifornire gli scaffali dalla politica dei partiti giusti, al momento giusto: ad ogni tornata elettorale, i votanti acquisteranno i loro prodotti preferiti, con grande soddisfazione di chi controlla il grande supermercato della democrazia». Negli ultimi anni, va crescendo la “specialità” dei partiti di protesta. Ma la loro origine non è recente, ricorda Dezzani: «Risale agli albori della Repubblica Italiana, quando Washington e Londra foggiarono per l’Italia una singolare democrazia, dove la seconda forza politica del paese, il Pci, era esclusa “de iure” dal governo», ovviamente per ragioni geopolitiche (la sua contiguità con l’Urss, avversaria della Nato).«Per ovviare a questo opprimente immobilismo, che un po’ stona con le logiche del mercato», in 70 anni sono state immesse diverse sigle per intercettare il malcontento dell’elettorato e la domanda di cambiamento: «Si comincia, prima delle elezioni del 1948, con l’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini e si termina oggi con il Movimento 5 Stelle di Davide Casaleggio». Annota Dezzani: «Sia Giannini che Casaleggio sono, incidentalmente, inglesi da parte materna». Tra i due estremi, l’analista annovera anche il Partito Radicale di Marco Pannella, «che prestò non pochi servigi all’establishment atlantico: la campagna per le dimissioni del presidente Giovanni Leone, quella per l’aborto e il divorzio, i referendum del 1993 contro “la partitocrazia” e “lo Stato-Padrone”». E poi c’è anche il caso della Lega Nord, nata e cresciuta nei travagliati primi anni ‘90, nutrendosi dei voti in uscita dal Psi e soprattutto dalla Dc. Ma come? Anche il folkloristico Carroccio, i raduni di Pontida, il “dio Po” e il leggendario Alberto da Giussano, sarebbero un prodotto dell’establishment atlantico? Ebbene sì, scrive Dezzani: «È una verità che probabilmente spiazzerà molti leghisti della prima ora», ma è indispensabile per capire, ad esempio, «perché Umberto Bossi, padre-padrone della primigenia Lega Nord, contesti la recente svolta nazionalista, anti-euro e filorussa di Matteo Salvini».Salvini appare deciso a trasformare (con esiti incerti) il Carroccio nella versione italiana del Front National? Non a caso, il redivivo Bossi oggi gli si oppone, chiedendo un congresso. «Bruxelles è sempre stata ed è tuttora il faro di Umberto Bossi, sebbene il suo obiettivo fosse agganciarsi all’Unione Europea non attraverso l’Italia, ma tramite la “Padania”, in ossequio a quella “Europa della macroregioni” tanto cara all’establishment atlantico», sostiene Dezzani. Il progetto: «Smembrare gli Stati nazionali per sostituirli, al vertice, con un governo sovranazionale e, alla base, con una costellazione di cantoni, regioni e feudi: l’oligarchia libera di comandare indisturbata su 500 milioni di persone ed i paesani appagati delle loro effimere autonomie». La storia della Lega Nord, continua l’analista, è indissolubilmente legata al crollo del Pentapartito. Cioè alle manovre, iniziate con la firma del Trattato di Maastricht, per traghettare l’Italia verso la nascente Unione Europea a qualsiasi costo: vergognose privatizzazioni, saccheggi del risparmio privato, attentati terroristici e giustizialismo spiccio. «Studiare l’origine della Lega Nord significa quindi completare l’analisi dell’infamante biennio 1992-1993 che travolse la Prima Repubblica e forgiò la Seconda, dove Umberto Bossi ha giocato un ruolo di primo piano».La Lega Nord nasce ufficialmente nel febbraio del 1991, come federazione della Lega Lombarda, della Liga Veneta, di Piemont Autonomista e dell’Union Ligure: «Chi volesse indagare sul periodo proto-leghista, scoprirebbe quasi certamente che anche questi movimenti autonomisti nascono nel medesimo humus massonico-atlantista da cui germoglierà poi il Carroccio». La Liga Veneta, quella più radicata e “antica”, compie i primi passi presso l’istituto privato linguistico Bertrand Russell di Padova, dove nel 1978 è istituito un corso di storia, lingua e civiltà veneta. «Chi volesse scavare più indietro ancora – ipotizza Dezzani – potrebbe riallacciarsi alla lunga serie di attentati destabilizzanti, di matrice autonomista e secessionista, che colpiscono tra gli anni ‘50 e ‘60 il Nord-Est dove, è bene ricordarlo, la concentrazione delle forze armante angloamericane è più alta che in qualsiasi altra parte dell’Italia continentale», come nel caso della caserma Ederle di Vicenza e della base di Aviano, fuori Udine. «L’idea di superare le leghe su base “etnica” e di federarle in un’unica Lega allargata all’intero Nord, ribattezzato all’occorrenza come “Padania”, è comunque ufficialmente attribuita ad Umberto Bossi». Ma il “senatur” ne è stato l’unico padre o è stato “aiutato” da una regia più ampia, «sofisticata e altolocata», come quella che starebbe dietro ai 5 Stelle?«Diversi elementi fanno propendere per la seconda ipotesi», continua Dezzani, «declassando Umberto Bossi al ruolo di capo carismatico di facciata, di semplice tribuno e di arringatore: la stessa funzione, per intendersi, svolta da Beppe Grillo nel M5S». Siamo infatti nel febbraio 1991, il Muro di Berlino è crollato da due anni e l’Unione Sovietica collasserà entro pochi mesi: «L’oligarchia atlantica ha già stilato i suoi piani per il “Nuovo Ordine Mondiale” che, calati nella realtà italiana, significano l’abbattimento della Prima Repubblica, l’archiviazione della Dc e del Psi, lo smantellamento dell’economia mista e, se possibile, anche un nuovo assetto geopolitico per la penisola», da attuare attraverso i movimenti indipendentisti. Segnale importante: «L’accoglienza che la grande stampa anglosassone riserva al neonato Carroccio, simile a quella che il Movimento 5 Stelle riceverà a distanza di 15 anni, non lascia adito a dubbi circa l’interessamento che Londra e Washington nutrono per la neonata formazione nordista: il 4 ottobre 1991 il “Wall Street Journal” definisce la formazione di Umberto Bossi come “il più influente agente di cambiamento della scena politica italiana”».Poco dopo, nel gennaio 1992, il settimanale statunitense “Time” definisce Bossi come il leader più popolare e temuto della politica italiana. E il 28 marzo, il settimanale inglese “The Economist”, megafono della City, accomuna la Lega Nord al Partito Repubblicano di Ugo La Malfa, definendolo come «l’unico fattore di rinnovamento nel decadente panorama politico italiano». Sono le stesse settimane in cui Mario Chiesa, esponente socialista e presidente del Pio Albergo Trivulzio, è arrestato a Milano per aver intascato una bustarella: è il primo atto di quell’inchiesta giudiziaria, Mani Pulite, destinata a travolgere il Pentapartito e la Prima Repubblica. «Non c’è dubbio che la Lega Nord debba “completare”, nei piani angloamericani, l’inchiesta di Tangentopoli», sostiene Dezzani: «Il pool di Mani Pulite è incaricato di smantellare la Dc ed il Psi, mentre il Carroccio ha lo scopo di intercettare i voti in fuga dai vecchi partiti prossimi al collasso». E il trait d’union tra il palazzo di giustizia milanese e la Lega Nord, sempre secondo Dezzani, è fisicamente incarnato dal console americano Peter Semler, cioè il funzionario statunitense che, alla fine del 1991, un paio di mesi prima dell’arresto di Mario Chiesa, “incontra” Antonio Di Pietro nei suoi uffici per discutere delle imminenti inchieste giudiziarie. E’ lo stesso funzionario che, «quasi contemporaneamente, “incontra” i dirigenti della Lega Nord».In una recente intervista a “La Stampa”, Semler ammette di aver pranzato con due dirigenti leghisti il 1° gennaio 1992: «Quello che mi colpì di più era un ex poliziotto, ex militare. Giocammo al golf club di Milano e mi dissero: “Cambierà tutto”». Rileva Dezzani: «C’è da scommettere che non siano stati i due leader della Lega Nord ad avvertire il console americano che tutto sarebbe cambiato, bensì l’opposto». Il Carroccio, infatti, all’epoca «è parte integrante della manovra angloamericana per smantellare il Psi e la Dc», con la sua corrosiva e talvolta violenta retorica contro la partitocrazia della Prima Repubblica, lo Stato clientelare ed assistenzialista (indimenticabile il cappio sventolato nel 1993 a Montecitorio, per “appendervi” i politici corrotti). Ma perché mai, continua Dezzani, l’attacco è sferrato “su base regionale”, attraverso una formazione che inneggia alla Padania onesta e laboriosa, contro la Roma corrotta e la ladrona, sede di “un Parlamento infetto”? Ovvero: perché la stessa funzione non è assolta da un partito di protesta “nazionale”, come è oggi il Movimento 5 Stelle?«Compito della Lega Nord – riprende Dezzani, parlano al presente storico – è anche quello di attuare il piano geopolitico che l’establishment atlantico ha in serbo per l’Italia in questa drammatica fase della vita nazionale: passare dall’Italia unita all’unione, o confederazione, di tre macroregioni», ovvero la Repubblica del Nord (o Padania), una repubblica del Centro e una del Sud: «E’ il periodo, infatti, delle “stragi mafiose” e Cosa Nostra ed il Carroccio sembrano lavorare all’unisono (d’altronde, la regia a monte è comune) per ritagliarsi ognuno il proprio feudo, cannibalizzando lo Stato nazionale». Da qui, Dezzani mette in luce l’entrata in scena di una figura-chiave del leghismo delle origini, il personaggio politico che avrebbe dovuto essere “la mente” del processo di secessione della Repubblica dal Nord: Gianfranco Miglio, classe 1918 (scomparso poi nel 2001). Allievo del filosofo liberale Alessandro Passerin d’Entrèves (a lungo docente all’Università di Oxford e quella di Yale) e del giurista Giorgio Balladore Pallieri (primo giudice italiano alla Corte europea dei diritti dell’uomo).Docente all’Università Cattolica di Milano, teorizzatore del decisionismo, studioso del federalismo e ascoltato consulente in materia di riforme costituzionali, vero e proprio “giacobino di destra”, Gianfranco Miglio è un intellettuale molto gettonato dai politici e dagli alti manager della Prima Repubblica in cerca di consigli. Miglio comincia coll’assistere l’uomo più potente d’Italia, Eugenio Cefis: presidente dell’Eni dal 1967, dopo la morte di Enrico Mattei, fino al 1971, e poi numero uno della Montedison dal 1971 al 1977. Secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016, Cefis è stato il capo della Loggia P1, vero dominus delle strategie coperte per la manipolazione occulta dell’Italia. Carpeoro la chiama “sovragestione”: un intreccio di poteri fortissimi eterodiretti dagli Usa, reti massoniche e servizi segreti deviati. Un livello di potere assai più alto e protetto di quello rappresentato dalla P2 di Gelli, che infatti all’occorrenza fu sacrificato sull’altare dell’opinione pubblica, a differenza del potentissimo Cefis, che è anche l’uomo-ombra di “Petrolio”, il romanzo incompiuto sulla fine di Mattei che forse è costato la vita a Pasolini. Tornando alla ricostruzione di Dezzani sulle mosse di Miglio: dopo aver collaborato con Cefis, l’ideologo della Padania ha fatto anche da consulente al primo ministro Bettino Craxi.Nei tumultuosi anni che seguono la caduta del Muro di Berlino – scrive Dezzani – il professor Miglio compie una spettacolare e singolare metamorfosi: nel giugno del 1989, constata la precarietà delle finanze pubbliche e del panorama politico italiani, suggerisce nientemeno che «sospendere le prove elettorali per un certo periodo, dar vita a un lungo Parlamento, bloccare il ricambio parlamentare, che so, per 8-10 anni», affidando quindi poteri speciali al Pentapartito per fronteggiare le emergenze. Dopo nemmeno due anni, Miglio è invece diventato “l’ideologo” della costituenda Lega Nord, nonché il più severo e spietato censore della partitocrazia, dello Stato parassitario e della deriva mafiosa del Meridione: «E’ difficile spiegare questo repentino cambiamento e il suo “affiancamento” a Umberto Bossi, se non come un’operazione studiata a tavolino, concepita da quegli “ambienti liberali ed anglofoni” che Miglio frequenta sin dalla gioventù».Gianfranco Miglio, annota Dezzani, è l’architetto di quelle riforme costituzionali che dovrebbero scardinare l’assetto geopolitico dell’Italia, servendosi della Lega Nord e di Umberto Bossi come semplici grimaldelli. Esisterebbero, secondo il professore, due Italie: una europea, da agganciare alla nascente Unione Europea, e una mediterranea, da abbandonare alla deriva verso il Levante e il Nord Africa. Lo Stato unitario ha fatto il suo tempo e sulle sue macerie bisogna edificare uno Stato federale, o meglio ancora confederale, costruito da tre entità separate: una Repubblica del Nord, una del Centro e una del Sud. Al governo centrale della neo-costituita Unione Italiana, spetterebbero soltanto la difesa e parte della politica estera. «Il disegno sottostante alle ricette di Miglio è chiaro: sfruttare l’inchiesta di Tangentopoli che sta sconquassando la politica, il crollo del Pentapartito, la strategia della tensione e l’emergenza finanziaria, per cancellare l’Italia unitaria come soggetto geopolitico. Un’Italia che, con Enrico Mattei, Aldo Moro e le politiche filo-arabe di Bettino Craxi e Giulio Andreotti, ha dimostrato di poter infastidire gli angloamericani nello strategico bacino mediterraneo».Le elezioni politiche del 5 aprile 1992 vedono la Lega Nord raccogliere una discreta percentuale dei voti in uscita dalla Dc e dal Psi: in Lombardia il Carroccio raccoglie il 23% delle preferenze, ad un solo punto dai democristiani, ma si ferma all’8,65% a scala nazionale, mentre le varie leghe del Sud non decollano. «Non è andata così bene, dovevamo essere determinanti», ammette Bossi, ben sapendo che la secessione del Nord dal resto d’Italia implicherebbe una forza elettorale che la Lega dimostra di non avere. Bottino elettorale: 55 deputati e 25 senatori. Sono abbastanza, «per portare a compimento la demolizione della Prima Repubblica e il rapido smantellamento dell’economia mista, come auspicato dai croceristi del Britannia». Ecco il punto, per Dezzani: «Non c’è una singola mossa del Carroccio, infatti, che si discosti dall’agenda che l’establishment atlantico ha in serbo per l’Italia: la Lega è decisiva per bloccare l’elezione di Giulio Andreotti al Quirinale, si schiera contro l’ipotesi di una presidenza del Consiglio affidata a Bettino Craxi, è favorevole ad un aggressivo piano di privatizzazioni».«Gli economisti di Bossi credono nella Thatcher», titola la “Repubblica”, riportando che la Lega vuole «privatizzare tutte le imprese di Stato, dall’Iri all’Eni, all’Efim. Senza risparmiare le banche pubbliche come Bnl, Comit, Credito italiano, San Paolo di Torino. Largo ai privati anche per le Ferrovie, l’Enel e le Poste». La Lega di Bossi, aggiunge Dezzani, è fautrice di un “liberismo spinto” contrapposto allo Stato-padrone, definito ovviamente come «parassitario, bizantino, romano-centrico, corrotto, ladrone». Non solo, il Carroccio «gioca di sponda con le “menti raffinatissime” che stanno attuando una spietata strategia di destabilizzazione per meglio saccheggiare i risparmi degli italiani e l’industria pubblica: mentre i servizi segreti “deviati” piazzano bombe in tutt’Italia e gli squali dell’alta finanza si accaniscono sui Btp, la Lega Nord getta altra benzina sul fuoco, incitando allo sciopero fiscale, sconsigliando di comprare i titoli di Stato, evocando la separazione del Sud mafioso dal resto dell’Italia, gridando all’imminente secessione della Padania».«Ma se la casa crolla, il Nord deve andarsene», è un sintomatico titolo della “Repubblica” del 31 dicembre 1992. Nell’articolo, il professor Miglio dipinge un futuro a tinte fosche per l’Italia. E pronostica un imminente, drammatico peggioramento della situazione economica, anticamera della secessione della Repubblica del Nord: «Se si arrivasse a non riuscire a controllare più niente, se non si riuscisse più ad avere i servizi, se la sicurezza e le garanzie crollassero, è evidente che ciascuno penserebbe a se stesso. Probabilmente anche il Sud se ne andrebbe per conto suo». Bingo: per Dezzani, «le parole dell’ideologo del Carroccio sono musica per chi, a Washington e Londra, lavora per tenere l’Italia in costante fibrillazione». Poco dopo, nel 1993, l’inchiesta di Mani Pulite ha sortito gli effetti sperati: Dc e Psi, che l’analista definisce «i vincitori morali della Guerra Fredda», sono stati spazzati via dal pool di Milano. «L’unico grande partito risparmiato dalle inchieste giudiziarie è stato il Pci, riverniciato ora come Pds, cui gli angloamericani contano di affidare il governo facendo affidamento sulla sua ricattabilità», dato che «nella Russia allo sfascio si comprano gli archivi del Kgb a prezzo di saldo».Se dalle successive elezioni uscisse un Nord saldamente in mano al Carroccio e un Centro-Sud in mano alla sinistra, «si concretizzerebbe lo scenario di una secessione “de facto” della Padania dal resto dell’Italia». Per la Lega Nord non che resta, a questo punto, che «ricevere la benedizione “ufficiale” da parte dell’establishment atlantico, dopo lunghi rapporti reconditi ed opachi». Così, il 18 ottobre 1993 una delegazione del Carroccio si reca in visita al quartier generale della Nato a Bruxelles. E il 23 ottobre è la volta degli Stati Uniti: una prima tappa a New York, per incontrare il milieu dell’alta finanza e di Wall Street, e una seconda tappa a Washington, dove sono in programma pranzi di lavoro con deputati e senatori repubblicani ed esponenti della National Italian American Foundation. Ma ecco che accade qualcosa di inatteso: «La “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, annunciata nell’autunno del 1993, è un evento non previsto dall’establishment atlantico», che secondo Dezzani puntava sulla bipartizione Lega (Nord) e sinistra (Centro-Sud). In più, il Cavaliere vince: «La neonata Forza Italia si impone alle elezioni politiche del 27-28 marzo 1994, drenando buona parte dei voti in uscita dal Psi e dalla Dc e imponendosi come primo partito del Nord Italia».La Lega, ferma all’8% delle preferenze su scala nazionale, dimostra ancora di non avere una forza sufficiente per strappare la secessione della Padania e attuare gli ambiziosi cambiamenti costituzionali sognati da Gianfranco Miglio. Forte di 122 deputati e 59 senatori, il Carroccio dispone però di un manipolo di parlamentari sufficienti per staccare la spina al primo governo Berlusconi, di cui è entrata a far parte nella cornice del Popolo della Libertà. Per Dezzani, riemerge quindi la vera natura della Lega Nord «come strumento politico nelle mani di Londra e Washington». E quando Berlusconi, durante la conferenza mondiale dell’Onu contro la criminalità organizzata, riceve un invito a comparire dal pool di Milano, Umberto Bossi «completa l’operazione per disarcionare il Cavaliere, togliendogli la fiducia e avvallando il “ribaltone” che insedia l’ex-Bankitalia Lamberto Dini a Palazzo Chigi». Si marcia così rapidamente verso nuove elezioni, e «ancora una volta il Carroccio agisce in perfetta sintonia con l’establishment atlantico: scegliendo di correre da solo e di non rinnovare l’alleanza col Popolo della Libertà, spiana la strada ai governi di Romano Prodi e Massimo D’Alema: seguirà “il contributo straordinario per l’Europa”, la scandalosa privatizzazione della Telecom, “la marchant bank” di Palazzo Chigi, la liquidazione finale dell’Iri, il vergognoso cambio di 2.000 lire per ogni nuovo euro, l’avvallo alle operazioni militari della Nato contro la Serbia».E così, mentre «quel che rimane dell’economia mista è smantellato a prezzi di saldo e i risparmi degli italiani sono immolati sull’altare della moneta unica», Umberto Bossi continua a blaterare di secessione, di camice verdi, di milizie armate del Nord, di rivolta fiscale. Dezzani lo definisce «utile idiota manovrato dall’oligarchia atlantica». La Lega tornerà al governo solo dopo le elezioni del 2001, quando i giochi “europei” saranno ormai fatti. Morale: «Le vicende della Lega Nord, di Gianfranco Miglio e di Umberto Bossi sono legate a doppio filo alla nascita Seconda Repubblica, alla perdita di qualsiasi sovranità nazionale e all’avvento della moneta unica». Secondo Dezzani, il Senatùr ne è perfettamente cosciente. Intervistato recentemente dal “Corriere della Sera”, dichiara: «Se venisse giù l’euro, verrebbe giù tutto, una situazione che nessuno saprebbe gestire. Tra l’altro, pagheremmo di più le materie prime, cosa che per un paese di trasformazione come l’Italia sarebbe un disastro. Berlusconi parla di doppia moneta, il che è una presa per il culo. Ma non è che Berlusconi non sia in grado di capire le cose». Per Dezzani, «sono le ultime battute dell’ennesima “stampella del potere”», sia pure in camicia verde.Ogni fase politica della Repubblica italiana è stata scandita da un partito “di protesta”, funzionale agli interessi dell’establishment atlantico: si comincia con L’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini per terminare col Movimento 5 Stelle di Gianroberto Casaleggio, passando per il Partito Radicale di Marco Pannella e la Lega Nord di Umberto Bossi. Fino alla recente svolta nazionalista, filorussa e anti-euro, il Carroccio è infatti stato uno dei tanti prodotti di Washington e Londra, schierato su posizioni “thatcheriane” ed europeiste. E’ la tesi di Federico Dezzani, analista geopolitico, impegnato in una ricostruzione “non convenzionale” della storia recente del nostro paese. Nei primi anni ‘90, ricorda, la Lega Nord avrebbe dovuto essere lo strumento per attuare un ambizioso disegno geopolitico: la frantumazione dello Stato unitario e la nascita di una confederazione di tre “macroregioni”, così da cancellare l’Italia come attore del Mar Mediterraneo. Questo, secondo Dezzani, il vero ruolo della Lega Nord durante Tangentopoli, a cominciare dalla figura, allora determinante, del suo ideologo, il professor Gianfranco Miglio.
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La mafia? Creata dai massoni inglesi, per sabotare l’Italia
Spaghetti, pizza e mafia. Sicuri che l’onorata società sia interamente made in Italy? La Sicilia a Cosa Nostra, la Campania alla camorra, la Calabria alla ‘ndrangheta: «Sono accostamenti triti e ritriti, spesso impiegati per dipingere l’intera Italia come un paese mafioso, corroso dal crimine, e quindi da collocare ai margini del sistema internazionale, tra gli Stati semi-falliti». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, la verità è più complessa. E non solo italiana, anche se la mafia ha tratto alimento dal brigantaggio, nato nel Sud come ribellione armata alla ferocia dell’esercito piemontese all’epoca dell’Unità d’Italia. Da allora – 1861 – il paese affronta il problema mafioso: migliaia di inchieste, libri, analisi economiche e sociali. «Ma è possibile affrontare la questione in termini geopolitici?», si domanda Dezzani? La sua risposta è sì. Ed è decisamente spiazzante: «Mafia, camorra e ‘ndgrangheta sono società segrete paramassoniche, inoculate dagli inglesi all’inizio dell’Ottocento per destabilizzare il Regno delle Due Sicilie e trasmesse all’Italia post-unitaria per minare lo Stato e castrarne la politica mediterranea».Nella sua analisi sul biennio 1992-1993, che decretò il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, Dezzani smonta la tesi dominante sul quel cruciale periodo della storia italiana: «Alla base delle stragi in Sicilia e “sul continente”, non ci fu il braccio di ferro tra malavita e Stato sul 41 bis, ma un più ampio ampio ed ambizioso progetto con cui le “menti raffinatissime” vollero ridisegnare la mappa economica e politica dell’Italia, inserendola nella più vasta cornice del Nuovo Ordine Mondiale». L’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima? «Va collegato alla cruciale elezione del presidente della Repubblica di quell’anno». Le uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? «Sono analoghi ammonimenti lanciati al Parlamento, ma allo stesso tempo sono anche un avvertimento alla giustizia italiana affinché si fermi al livello “insulare” delle indagini, senza approfondire i legami tra Cosa Nostra ed i servizi segreti della Nato». E le bombe del 1993 «sono un “lubrificante” per consentire agli anglofili del Britannia di smantellare a prezzi di saldo l’Iri e l’industria pubblica».In questo contesto, scrive Dezzani nel suo blog, «la mafia è uno strumento dell’oligarchia atlantica per perseguire obiettivi addirittura in contrasto con gli interessi di Cosa Nostra: è infatti assodato che la stagione stragista debilitò gravemente Cosa Nostra, “spremuta” nella strategia della tensione del 1992-1993 fino quasi a svuotarla». E non è certo un’eccezione l’impiego del crimine organizzato da parte degli angloamericani, già nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Dezzani esplora altri momenti cruciali del Belpaese, scovandovi lo zampino della malavita. Per esempio sul caso Moro, a partire dal sequestro, il 16 marzo 1978: «E’ ormai appurato che la ‘ndrangheta abbia partecipato al “commando12” che rapì il presidente della Dc, reo di turbare gli assetti internazionali con la sua apertura al Pci». Non solo: il capo della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, ha dichiarato che «avrebbe potuto salvare Moro, se i servizi segreti non si fossero opposti». Prima ancora, la strage di piazza Fontana, 12 dicembre 1969: l’ecatombe che inaugura la strategia della tensione «è perpetrata dalla destra eversiva di Franco Freda, in stretto contatto con la ‘ndrangheta». E ancora: l’omicidio di Enrico Mattei, 1962. «E’ Cosa Nostra a sabotare, all’aeroporto di Catania Fontanarossa, il velivolo su cui trovò la morte il presidente dell’Eni, scomodo alle Sette Sorelle».Rileggendo la storia a ritroso, il binomio atlantico-mafia compare già al momento dello sbarco angloamericano in Sicilia del 1943: «E’ il mafioso Lucky Luciano a facilitare la conquista dell’isola, e papaveri di Cosa Nostra presenziano anche all’armistizio di Cassibile, che sancisce la fine delle ostilità tra l’Italia e gli Alleati». Quasi un secolo prima ci fu un altro famosissimo sbarco, quello di Garibaldi a Marsala, nel 1860, con i “picciotti” impegnari a dare «un contributo determinante alla spedizione di Mille, benedetta e protetta da Londra». Domande: cosa sono, davvero, la mafia, la camorra e la ‘ndragheta? Perché affiorano in tutti i passaggi della storia italiana a fianco di Londra e Washington? E perché sono sovente associate ad un’altra organizzazione segreta di matrice anglosassone, la massoneria speculativa? Generalmente non se parla, nei film e nei prodotti televisivi sulla mafia, e nemmeno tra le migliaia di pagine stampate. Sulla mafia, scrive Dezzani, «campano non soltanto i malavitosi, ma anche i “professionisti dell’antimafia” che pullulano nei tribunali, pennivendoli del calibro di Roberto Saviano ed il variegato mondo di preti, intellettuali e soloni che ruota attorno alla “lotta alla mafia”». Nessuno di loro, però, secondo Dezzani, ha «intuito la vera natura del crimine organizzato». Ci arrivò Falcone, quando osservò che la mafia «presenta forti analogie con le Triadi cinesi, la malavita turca e la Yakuza giapponese».Con un approccio storico e geopolitico che analizza gli interessi strategici, Dezzani arriva a concludere che mafia, camorra e ‘ndragheta sono «società segrete paramassoniche dedite al crimine, vere e proprie “sette” che rispondono alle logge inglesi ed americane, sin dalla loro origine agli inizi dell’Ottocento». Sarebbe una verità «perfettamente nota agli “addetti ai lavori”», cioè «vertici della mafia, politici, Grande Oriente d’Italia, Cia, Mi6». Una realtà «spesso intuita e talvolta accennata da onesti magistrati e seri studiosi», ancge se nessuno ha finora prodotto uno studio organico sul tema. Dezzani parte dal quesito chiave: perché le mafie si sviluppano in tre regioni meridionali quasi contemporaneamente, tra gli anni ‘10 e ‘30 dell’Ottocento? Le risposte più frequenti sono di natura socio-economica: l’arretratezza del Meridione, il retaggio della dominazione spagnola, la presenza del latifondo, le mentalità della popolazione, la diffusione di miseria e povertà. «Sono risposte fuorvianti», vosto che «il reddito pro-capite del Regno delle Due Sicilie era paragonabile a quello del resto d’Italia», e la povertà era «simile a quella di alcune zone del Piemonte e del Veneto, che non produssero crimine organizzato». Inoltre, «la dominazione spagnola aveva interessato pure la “civilissima” Lombardia» e, per contro, «altre regioni meridionali persino più povere (come il Molise e la Basilicata) non conobbero le mafie, che germogliarono invece in due ricche capitali come Palermo e Napoli».Per scoprire le autentiche origini del fenomeno mafioso, secondo Dezzani occorre «tuffarsi nella storia, accantonando analisi pseudo-economiche, per afferrare le forze vive e la geopolitica dell’epoca». E’ lo stesso procedimento che porta a dimostrare come l’Isis «non sia altro che uno strumento degli angloamericani per balcanizzare il Medio Oriente e dividerlo lungo faglie etniche e religiose, piuttosto che il frutto spontaneo del fondamentalismo islamico». Così, Dezzani si tuffa nella storia, partendo dagli anni a cavallo tra ‘700 e ‘800, quando il mondo è in fiamme per la guerra tra Francia rivoluzionaria e le altre monarchie europee: «La Rivoluzione Francese, in cui Londra ha giocato un ruolo determinante (si pensi agli “anglofili” come Honoré Mirabau, il marchese de La Fayette e Philippe Égalité), è sfruttata dagli inglesi per liquidare la Francia come grande potenza marittima, estendere i propri domini in India e rafforzare l’egemonia su un’area chiave del mondo: il Mar Mediterraneo, da unire in prospettiva al Mar Rosso ed all’Oceano Indiano con il canale di Suez».Il Regno di Napoli, di fronte all’avanzata delle truppe rivoluzionarie francesi, è costretto ad aprire i propri porti alla flotta inglese, «senza sapere che, così facendo, firma la sua condanna a morte: gli inglesi sbarcano infatti coll’obiettivo di rimanerci anche dopo la guerra, installandosi così nello strategico Sud Italia che presidia il Mar Mediterraneo». Per un certo periodo, continua Dezzani, gli inglesi diventano addirittura padroni del Regno: quando infatti il francese Gioacchino Murat si insedia a Napoli, il re Ferdinando IV si rifugia in Sicilia protetto dagli inglesi e Lord William Bentinck governa l’isola come un dittatore de facto. Sotto l’ombra del potere inglese, «arriviamo così alle origini di Cosa Nostra». Un grande esperto di mafia come Michele Pantaleone ricorda che nel Meridione il brigantaggio assunse una funzione “sociale” solo dopo il 1812, quando il potere feudale venne eliminato: Pantaleone scrive che lo «spirito di mafiosità» sorse in concomitanza con la formazione delle famigerate “compagnie d’armi”, create dalla baronia siciliana nel 1813 a difesa dei diritti feudali. Lo “spirito di mafiosità”, dunque, prende forma tra il 1812 e il 1850: «Il suo epicentro è nel palermitano e di qui si irradia verso la Sicilia orientale».Il 1812, anno citato in tutti i testi di storia sulla mafia, è quello in cui il “dittatore” Lord William Bentinck impone al re, esule a Palermo, l’adozione di una Costituzione sulla falsariga di quella inglese, di comune accordo con i baroni siciliani: «Gli stessi baroni che creano quelle “compagnie d’armi”», antesignane della futura mafia. «Strane davvero queste “compagnie”, “consorterie” o “sette” che iniziano a pullulare dopo il 1812: presentano singolari analogie con la massoneria speculativa che gli inglesi innestano ovunque arrivino: segretezza, statuti, rituali d’iniziazione, mutua assistenza, diversi gradi di affiliazione, livelli sconosciuti agli altri aderenti». E poi, continua Dezzani, le nuove “compagnie” accampano anche «la pretesa di non essere volgari criminali, ma “un’aristocrazia del delitto riconosciuta, accarezzata ed onorata”, proprio come i massoni si definiscono gli “aristocratici dello spirito” in contrapposizione all’antica nobiltà di sangue. “Mafia” nei rioni di Palermo significa “bello, baldanzoso ed orgoglioso”».La Restaurazione reinsedia Ferdinando IV, ora Ferdinando I delle Due Sicilie, sul trono di Napoli. Il sovrano, nel 1816, si affretta a revocare la Costituzione scritta dagli inglesi, «considerata come un’insidiosa minaccia alle sue prerogative». Ma è tardi: «I germi inoculati dagli inglesi, le misteriose sette criminali che dalla periferia di Napoli e Palermo si irradiano verso i palazzi di baroni e notabili, però crescono. Corrodono il Regno delle Due Sicilie dall’interno, emergendo come un vero Stato nello Stato: trascorreranno poco meno di cinquantanni prima che contribuiscano in maniera determinante allo sfaldamento del Regno borbonico». È tra il 1820 ed il 1830 che lo scrittore Marc Monnier (1829-1885) situa la comparsa a Napoli di una misteriosa setta paramassonica, la “bella società riformata”, dedita ad attività illecite: «E’ la futura camorra, che nel 1842 scrive il primo statuto definendo i vari gradi di affiliazione sulla falsa riga della libera muratoria, da “giovanotto onorato” a “camorrista”, passando per “picciotto di sgarro” e così via». Quasi contemporaneamente, al di là dello Stretto di Messina, la mafia è già ad uno stadio avanzato, perché nel 1828 il procuratore di Girgenti scrive dell’esistenza di un’organizzazione di oltre 100 membri di diverso rango, «riuniti in fermo giuramento di non rilevare mai menoma circostanza delle operazioni». Idem per la ‘ndrangheta in Calabria.Nel 1848, continua Dezzani, Londra incendia l’Europa usando come cinghia di trasmissione la solita massoneria speculativa: è la “Primavera dei popoli”, cui seguiranno tante altre primavere di complotti, da quella di Praga del 1968 a quella araba del 2011. Nel Mediterraneo gli inglesi si adoperano per staccare la Sicilia, avamposto strategico per ogni operazione militare e politica in quel quadrante, dal Regno Borbonico: i “baroni”, gli stessi che comandano le malfamate “compagnie d’armi”, insorgono contro Ferdinando II, proclamando decaduta la corona borbonica e affidandosi alla corona d’Inghilterra, disposta a difendere l’indipendenza dell’isola. Il contesto internazionale non è però favorevole alla secessione e Ferdinando II reprime manu militari l’insurrezione, guadagnandosi l’appellativo di “re bomba”, dipinto dalla stampa anglosassone come un despota sanguinario e illiberale. «Le carceri, che già allora sono il principale centro di propagazione delle mafie, si riempono di patrioti-liberali e “picciotti”, uniti dal comune retroterra massonico: si saldano così legami che saranno presto utili». Geopolitica, ancora: i rapporti tra Napoli e Londra sono ai minimi storici anche la contesa sullo zolfo siciliano, sicché Ferdinando II si avvicina alla Russia, allora acerrima rivale degli inglesi: sono gli anni del Grande Gioco, in cui Londra e San Pietroburgo si sfidano in Eurasia per l’egemonia mondiale.Quando nel 1853 scoppia la guerra di Crimea, prosegue Dezzani, il Regno delle Due Sicilie rimane rigorosamente neutrale: nega addirittura alle navi inglesi e francesi dirette verso Sebastopoli di attraccare nei propri porti per rifornirsi. Il primo ministro inglese, Lord Palmerston, non ha dubbi: il Regno Borbonico, nonostante la grande distanza geografica, è diventato un vassallo della Russia. Chi partecipa alla “Guerra d’Oriente” è invece il Regno di Sardegna, consentendo così al primo ministro, Camillo Benso, conte di Cavour, di acquisire un ruolo da protagonista nell’ormai imminente riassetto dell’Italia: «La storiografia certifica che Cavour, da buon reapolitiker qual è, non ha in mente “l’unità” della Penisola, bensì “l’unificazione” doganale, economica e militare di tre regni autonomi. Il Regno sabaudo allargato a tutto il Nord Italia, lo Stato pontificio ed il Regno borbonico: la soluzione, seppur caldeggiata da francesi e russi, è però osteggiata dagli inglesi, decisi a cancellare il potere temporale della Chiesa Cattolica e a sostituire gli infidi Borbone con i più sicuri Savoia, tradizionali alleati dell’Inghilterra sin dal Settecento».È infatti “l’inglese” Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi celebrato dalla stampa angloamericana nonché 33esimo grado della massoneria, a sbarcare nel maggio del 1860 a Marsala, feudo inglese per la produzione di vino, protetto dalle due cannoniere inglesi Argus e Intrepid. «La reazione della marina militare borbonica è nulla, perché la massoneria ha ormai assunto il controllo delle forze armate e dei vertici dello Stato. Le strade e le grandi città sono invece passate sotto il controllo del crimine organizzato: “i picciotti”, che agiscono sempre in sintonia con i “baroni”, danno un aiuto determinante all’avanzata dei Mille». E così «il Regno delle Due Sicilie, svuotato da uno Stato parallelo che è cresciuto dentro lo Stato di facciata, si squaglia rapidamente: Reggio Calabria non oppone alcuna resistenza, mentre Napoli precipita nel caos, lasciando che il vuoto di potere sia colmato dalla camorra, lieta di accogliere Garibaldi e le sue truppe». Nasce in questo modo il Regno d’Italia, «che ancora oggi paga il prezzo del suo peccato originale». Ovvero: «È uno Stato strutturalmente debole, nato senza possedere il monopolio della violenza, costretto a convivere con due gemelli siamesi, le mafie e la massoneria speculativa, che non solo altro che meri strumenti in mano a chi ha davvero orchestrato l’Italia unita: l’impero britannico».Londra, sottolinea Dezzani, non è certo animata da nobili sentimenti: ha defenestrato i russofili Borbone per sostituirli con i fedeli Savoia, ha creato a Sud delle Alpi una media potenza da opporre alla Francia (si veda la Triplice Alleanza), ha partorito uno Stato sufficientemente robusto da reggersi in piedi, ma abbastanza debole da non insidiare la sua egemonia sul Mar Mediterraneo. «Le stesse mafie che hanno corroso il Regno delle Due Sicilie sono lasciate infatti in eredità allo Stato unitario: è un’eredità avvelenata, finalizzata a compiere una perdurante opera di destabilizzazione nel Meridione, cosicché non possa mai sfruttare il suo enorme potenziale geopolitico di avamposto verso Suez, il Levante ed il Nord Africa». E attenzione: «Le mafie come strumento inglese di destabilizzazione non sono una peculiarità del Sud Italia». Dezzani cita le Triadi cinesi che smerciano nel Celeste Impero Celeste quell’oppio per cui Londra ha addirittura combattuto una guerra (1839-1842): le analogie con la mafia, come notava Falcone, sono incredibili. «Tatuaggi, mutua assistenza, omertà, segretezza, riti d’iniziazione, diversi gradi di affiliazione, struttura piramidale: anche le Triadi sono sette criminali paramassoniche e, non a caso, quando i comunisti prenderanno il potere nel 1949, ripareranno nella colonia britannica di Hong Kong».Non c’è alcun dubbio che l’Italia “liberale” fondata nel 1861 sia terreno fertile per il crimine organizzato: mafia, camorra e ‘ndrangheta «si sviluppano nelle rispettive regioni come Stati paralleli a quello unitario, prosperando più che ai tempi del Regno delle Due Sicilie». Per Dezzani, «massoneria e mafie, benedette da Londra, sono i motori dell’Italia liberale, un edificio che sembra spesso vicino al crollo, totalmente ripiegato su se stesso». La mafia contribuisce a mantenere l’Italia in un perenne stato di fibrillazione, guidando ad esempio la rivolta del “sette e mezzo” che paralizza la Sicilia nel 1866, quasi l’antefatto del drammatico 1992. Il fenomeno mafioso, aggiunge Dezzani, è contenuto finché la destra storica, quella di Cavour, resta al potere. Ma poi esplode con l’avvento nel 1876 della sinistra storica: «Sotto la presidenza del Consiglio di massoni come Agostino Depretis e Francesco Crispi, è inaugurato il “Vice-Regno della mafia” che dal 1880 circa si estende fino al 1920». Lo Stato liberale «abdica a favore del baronato». E l’intera Sicilia, formalmente governata da Roma, è in realtà un feudo anglo-mafioso: «Londra non ha bisogno di staccare l’isola del governo centrale come ai tempi di Ferdinando II, perché esercita il controllo de facto con la “setta” criminale paramassonica».Secondo Dezzani, è la stessa organizzazione che negli Stati Uniti assume nomi evocativi come “Mano Nera” o “Anonimi Assassini”: «Quando nel 1909 il commissario della polizia di New York, Joseph Petrosino, sbarca a Palermo per indagare sui legami tra mafia americana e siciliana, “i picciotti” non si fanno scrupoli a sparargli in testa». Nessuno deve disturbare i rapporti tra mafia e politica: il trasformismo parlamentare dell’epoca giolittiana è terreno fertile per la malavita, «determinante per l’elezione degli onorevoli espressi dalle popolose regioni meridionali». Un cambiamento, ammette Dezzani, si registra solo dopo la marcia su Roma del 1922, con l’irruzione sulla scena di Benito Mussolini, che certo «è una vecchia conoscenza di Londra sin dalla Prima Guerra Mondiale e dalla campagna interventista del “Popolo d’Italia”», ed vero che «conquista la presidenza del Consiglio con l’appoggio determinante degli inglesi e della massoneria di piazza del Gesù», ma il duce del fascismo «tende ad emanciparsi in fretta». Secondo Dezzani, «l’omicidio Matteotti del 1924 può infatti essere considerato il primo tentativo inglese di rovesciarlo e ha certamente un certo peso sulla decisione del 1925 di abolire la libera muratoria (sebbene numerosi massoni, primo fra tutti Dino Grandi, restino al governo)».Fedele alla massima “tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”, Mussolini non può ovviamente accettare la convivenza con istituzioni parallele al governo, come la mafia. Nell’ottobre 1925 Cesare Mori è nominato prefetto di Palermo e, in poco meno di quattro anni, infligge un duro colpo a Cosa Nostra, avvalendosi dei “poteri eccezionali” affidatigli da Mussolini: nel 1927 il tribunale di Termini Imerese condanna oltre 140 mafiosi a durissime pene. Chi, ovviamente, stigmatizza la condotta del governo italiano è l’Inghilterra. Dezzani cita l’ambasciatore Ronald Graham, che scrive al premier Chamberlain: «Il signor Mori ha certamente restaurato l’ordine. Ha eliminato numerosi mafiosi e ras ed anche numerosi innocenti con mezzi molto dubbi, comprese prove fabbricate dalla polizia e processi di massa». Al che, aggiunge Dezzani, «mafie e massoneria, sorelle inseparabili, piombano quindi “nel sonno”, in attesa di essere risvegliate al momento opportuno: proprio come ai tempi delle guerre napoleoniche, sbarcheranno in Sicilia con gli inglesi, accompagnati questa volta anche dalle forze armate statunitensi».È il 1943 e la mafia non solo facilita lo conquista dell’isola attraverso Lucky Luciano, ma addirittura «presenzia alla firma dell’armistizio di Cassibile nella persona di Vito Guarrasi, lontano parente di Enrico Cuccia (la cui famiglia è originaria del palermitano)». Finché il “continente” è occupato dai tedeschi, gli angloamericani coltivano la ricorrente idea di separare la Sicilia dal resto dell’Italia: è il momento d’oro del separatismo e del bandito Giuliano, destinato a scemare man mano che le truppe alleate risalgono la penisola. «Perché infatti accontentarsi della Sicilia se, come ai tempi d’oro dell’Italia liberale, è possibile costruire dietro lo Stato di facciata un secondo Stato, retto dalle mafie a dalla massoneria? Inizia così la lunga stagione dei “misteri italiani” dove mafia, camorra e ‘ndrangheta figureranno a fianco di servizi segreti “deviati” e logge massoniche in decine di omicidi ed attentati: dal disastro aereo di Enrico Mattei alle bombe del 1993, dal sequestro Moro al rapimento dell’assessore campano Ciro Cirillo». Inutile stupirsi, insiste Dezzani: «Il fenomeno rientra nella norma, perché sin dalle origini nella prima metà dell’Ottocento le mafie non erano altro che società segrete paramassoniche, dedite al crimine e obbedienti alle logge inglesi e americane».Un pentito, Giovanni Gullà, ha rivelato agli inquirenti i meccanismi di “Mamma Santissima”, la nuova ‘ndrangheta, che contribuirà in maniera decisiva alla strategia della tensione: «La “Santa” si spiega nella logica della “setta segreta”: si è inteso creare una struttura di potere sconosciuta agli altri per ottenere maggiori benefici». Secondo Gullà, «la “Santa”, come setta segreta, è l’esatto corrispondente della massoneria coperta rispetto a quella ufficiale». Certo, «l’appartenente alla ‘ndrangheta non può essere massone», ma questo vale solo «per la ‘ndrangheta “minore” e la massoneria pubblica». La “Santa” invece «rappresenta una struttura segreta dentro la stessa ‘ndrangheta». E quindi, «se il fine mutualistico può essere soddisfatto con l’ingresso di massoni nella struttura e viceversa, nessun ostacolo può essere frapposto». La “Santa”, conclude Dezzani, è dunque l’élite della ‘ndrangheta, «costituita negli anni ‘70 nel nome di tre personaggi storici, tutti risalenti al Risorgimento, tutti massoni, tutti ottime conoscenze di Londra: Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini e Giuseppe La Marmora». Dalla “pax britannica” dell’ordine liberale alla “pax americana” dal 1945 a oggi. L’eventuale fine della mafia? Di ordine geopolitico: «È un sistema internazionale entrato ormai in crisi irreversibile, schiacciato dalla crisi del capitalismo anglosassone e dall’emergere di nuove potenze». Per Dezzani sarebbe il caso di sfruttare il declino dell’egemonia angloamericana «per liquidare anche quelle società segrete paramassoniche che da due secoli corrodono il Meridione e l’Italia, impedendo di sfruttarne l’enorme potenziale come ponte naturale tra Europa e Asia».Spaghetti, pizza e mafia. Sicuri che l’onorata società sia interamente made in Italy? La Sicilia a Cosa Nostra, la Campania alla camorra, la Calabria alla ‘ndrangheta: «Sono accostamenti triti e ritriti, spesso impiegati per dipingere l’intera Italia come un paese mafioso, corroso dal crimine, e quindi da collocare ai margini del sistema internazionale, tra gli Stati semi-falliti». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, la verità è più complessa. E ha un’origine non solo italiana, anche se la mafia ha tratto alimento dal brigantaggio, nato nel Sud come ribellione armata alla ferocia dell’esercito piemontese all’epoca dell’Unità d’Italia. Da allora – 1861 – il paese affronta il problema mafioso: migliaia di inchieste, libri, analisi economiche e sociali. «Ma è possibile affrontare la questione in termini geopolitici?», si domanda Dezzani? La sua risposta è sì. Ed è decisamente spiazzante: «Mafia, camorra e ‘ndrangheta sono società segrete paramassoniche, inoculate dagli inglesi all’inizio dell’Ottocento per destabilizzare il Regno delle Due Sicilie e trasmesse all’Italia post-unitaria per minare lo Stato e castrarne la politica mediterranea».
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Misds, peggio di euro e Ttip: se passa, si piange davvero
Ricordate il mio motto su Twitter? “La news che ti stravolge la vita è quella che scivola dietro l’ombra della news che tutti pensano che gli stravolgerà la vita”. Please welcome Misds. Paolo Barnard ve lo dice da anni. “Loro” non mollano mai, mai. Lavorano 24/24 e 7/7 coi migliori cervelli del mondo, e avevano capito da un pezzo che gli artigli dell’Eurozona si erano di molto consumati. Le mega corporations di tutti i settori – dalla finanza, all’alimentazione, ai servizi, alla Information Technology – si sono dette “The best days of the Euro-feasting are over. Must find a new way to fuck these States up again”, tradotto: i giorni migliori del banchetto-Euro sono finiti. Dobbiamo trovare un altro modo per fottere ’sti Stati, ancora. Il Ttip è per ora naufragato. L’uomo con le scarpe da 5.000 dollari a Wall Street, a Chicago, o a Francoforte ha per caso sollevato un sopracciglio? No. Lui lo sa benissimo che ciò che oggi i popoli rigettano ‘up-front’, gli rientra sempre dalla porta di servizio.Ricordate la Costituzione della Ue? Rigettata nel 2005 da francesi e olandesi, rientra dalla porta di servizio nel 2007 col nome di Trattato di Lisbona. Ricordate l’infame Gats? Era il trattato per la privatizzazione di ogni servizio vitale del cittadino, dalla sanità fino all’anagrafe e all’acqua pubblica. Sepolto dai disumani sforzi di poche Ong internazionali, e di pochi media, è tornato ancor peggio col nome Tisa, oggi in vista di ratificazione. Nel Ttip la cosa in assoluto più micidiale era la clausola che permetteva alle multinazionali di trascinare interi Stati in tribunale se questi obiettavano per l’Interesse Pubblico alle loro condotte commerciali. Questa clausola si chiamava Isds (Investor-State-Dispute-Settlement, cioè Risoluzione di Controversia fra Investitore e Stato). Neppure l’infame Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) era mai arrivata a tanto. Al Wto solo uno Stato poteva trascinare in corte un altro Stato se riteneva che il secondo gli impedisse di far business. Io lo denunciai a Report (Rai3) nel 2000, sono 17 anni fa… La carne ormonata Usa tentava d’infettare l’Europa, ci fu una battaglia al Wto fra Washington e Roma, Londra, Parigi, Berlino ecc.Nel Ttip la cosa era mille volte più micidiale con l’Isds. Coll’Isds del Ttip la multinazionale Usa delle carni avvelenate poteva direttamente far causa a Roma, Londra, Parigi, Berlino ecc per costringerli a cedere. Cioè, migliaia di multinazionali potevano costringere i singoli Stati a processi infiniti e costosi come una finanziaria nazionale, tutti contro l’interesse dei cittadini che quegli Stati ancora timidamente proteggono. Vi rendete conto cosa significa? Può il governo di Roma permettersi 40 avvocati internazionali a 3.000 dollari al giorno per avvocato per, mettiamo, 250 cause di altrettante multinazionali per 10 anni? Sono 10.000 avvocati a 3.000 dollari al giorno per almeno 10 anni in totale. Fate i conti. E poi se Roma perde, i risarcimenti alle multinazionali arrivano alle migliaia di miliardi di dollari. Fate i conti. Può permetterselo oggi, quando il governo fatica a trovare gli spiccioli per gli ospedali? E poi anche peggio. Perché con il sistema Isds i processi fra la multinazionale X e lo Stato Y sarebbero stati celebrati in tribunali off-shore, quasi tutti a Londra o New York, non a casa nostra.Ok, Ttip bocciato, ma quest’infamia della disputa multinazionali contro Stati interi sta rientrando dalla porta di servizio. Non mollano mai, mai! Please, welcome Misds. Oggi abbiamo una bella cosmesi: la Commissione Ue di Jean-Claude Juncker ci riporta la sopraccitata infamia del Pubblico Interesse con un altro nome. Sono stati costretti a questa cosmesi dopo che 3,5 milioni di europei firmarono contro il Ttip affossandolo. I bastardi della Commissione di Bruxelles hanno riformulato il trucco, l’hanno prima fatto rientrare in un trattato minore fra Canada e Ue chiamato Ceta, ma ora per il piacere degli Usa ce lo ripresentano così: Misds è la stessa identica porcata che dormiva in pancia al Ttip e che ho descritto sopra, cioè l’Isds, ma con davanti la parolina Multilaterale (la M). Be’, semplifico: ora viene chiesto allo Stato X di firmare un accordo con lo Stato Y dove entrambi accettano la porcata Isds, mentre prima il Ttip applicava la porcata Isds in massa a tutti gli Stati della Ue senza consultarli. Ohhh che miglioramento! Voi pensate che i parlamentari di Roma, tutti preoccupati dalla battaglia Pd-M5S sui vitalizi, capiranno cosa la “sacra Ue” ci chiede di firmare fra Roma e Stato X, Y, o Z?Ma peggio: la parola Multilaterale suggerisce che magari Roma abbia gli stessi diritti di far causa alle multinazionali. Macché. La proposta della Commissione lascia tutto come nell’Isds del bocciato Ttip. Saranno solo le mega corporation a poter trascinare in tribunali off-shore i singoli governi. Inoltre, ovvio no?, credete che le Ong o i sindacati possano far causa alle multinazionali se queste inquinano, causano malattie a migliaia di cittadini o fottono l’occupazione in intere Regioni? Ma va’… Zero. Cosa significa tribunali off-shore? Nella proposta della Commissione significa tribunali che giudicheranno la disputa multinazionale-Stato e che sono composti da giuristi internazionali di provata esperienza nel settore… investimenti. Ma dai? Questi sono al 100% gente come Giuliano Amato, che dal settore pubblico è finito a prendere parcelle milionarie dalla Deutsche Bank, poi è tornato al pubblico. Immaginate l’imparzialità dei giudici del Misds, giuristi che hanno militato anni al soldo della Volkswagen, della Monsanto, della Apple, della McDonald’s, della Unilever, della Dupont, della Thyssen, di Jp Morgan ecc., dove hanno preso milioni, poi tornano all’arbitrariato internazionale nel Misds. Auguri.Non so se avete capito che razza di mostruosità, da far impallidire ogni porcata che denunciammo sull’Eurozona e Bruxelles, è questo Misds. Ci sono là fuori già 75.000, settantacinque mila, mega corporations che non aspettano altro che la ratificazione del “nuovo” Misds per devastare come mai nella storia il potere di un governo di legiferare nell’Interesse Pubblico. Già oggi, dopo 40 anni di neoliberismo, neomercantilismo, di economicidio Ue, e di tutte le sinistre a baciare le pile del Vero Potere, le leggi per l’Interesse Pubblico sono ridotte a una carcassa di pollo. I bastardi ci divoreranno anche quella col Misds. E sarà sangue come mai prima nella storia (fra 10 anni mi scriverete “Barnard sei un grande! Tu l’avevi detto dieci anni fa…”).(Paolo Barnard, “Misds, scordate l’Eurozona: se passa questo si piange davvero”, dal blog di Barnard del 24 marzo 2017).Ricordate il mio motto su Twitter? “La news che ti stravolge la vita è quella che scivola dietro l’ombra della news che tutti pensano che gli stravolgerà la vita”. Please welcome Misds. Paolo Barnard ve lo dice da anni. “Loro” non mollano mai, mai. Lavorano 24/24 e 7/7 coi migliori cervelli del mondo, e avevano capito da un pezzo che gli artigli dell’Eurozona si erano di molto consumati. Le mega corporations di tutti i settori – dalla finanza, all’alimentazione, ai servizi, alla Information Technology – si sono dette “The best days of the Euro-feasting are over. Must find a new way to fuck these States up again”, tradotto: i giorni migliori del banchetto-Euro sono finiti. Dobbiamo trovare un altro modo per fottere ’sti Stati, ancora. Il Ttip è per ora naufragato. L’uomo con le scarpe da 5.000 dollari a Wall Street, a Chicago, o a Francoforte ha per caso sollevato un sopracciglio? No. Lui lo sa benissimo che ciò che oggi i popoli rigettano ‘up-front’, gli rientra sempre dalla porta di servizio.
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Siberia: quel cratere aperto dal meteorite, pieno di diamanti
E’ rimasto segreto per anni. Eppure un buco di circa 100 chilometri di diametro, creato da un asteroide precipitato 35 milioni di anni fa, è il più grande giacimento di diamanti presente sulla Terra, nonché uno dei posti più inquietanti, scrive Noemi Penna sulla “Stampa”, in un servizio che presenta immagini che «sembrano esser state scattate su un pianeta alieno». Siamo a Popigai, nella Siberia orientale, a 400 chilometri dal primo centro abitato e a un’ora e mezza di elicottero dall’aeroporto di Khatanga. «Questa miniera è stata gelosamente nascosta dai russi per oltre 40 anni. E’ stata infatti scoperta all’inizio degli anni ‘70 ma è stata subito etichettata come “top secret”: durante la guerra fredda l’Unione Sovietica la considerava una “riserva strategica” e solo nel settembre del 2012 la Russia ha ufficialmente dichiarato l’esistenza di questo giacimento inestimabile». Negli anni si sono susseguite numerose spedizioni, ben prima della “ufficializzazione” e dalla “riscoperta” avvenuta nel 2009. I ricercatori dell’Istituto di geologia di Novosibirsk hanno certificato che il cratere contiene trilioni di carati, ovvero centinaia di migliaia di tonnellate: là sotto ci sono abbastanza diamanti da sopperire alle richieste globali per tremila anni.«Non stiamo parlando però di diamanti “tradizionali”: queste pietre preziose risultano infatti due volte più dure rispetto alle altre, hanno una forma tabulare con striature di colore grigio, blu o giallo e vengono definite “da impatto”», scrive Penna. «Si pensa infatti che siano state prodotte dall’onda d’urto dell’asteroide – che aveva un diametro compreso tra 5 e i 7 chilometri – su un grande deposito di grafite siberiano». La pressione d’urto avrebbe in sostanza trasformato la grafite presente nel terreno in diamanti, in un raggio di 13,6 chilometri dal punto d’impatto. «Questo ha fatto sì che il cratere di Popigai custodisca al suo interno una quantità di diamanti almeno 10 volte superiore di tutti i giacimenti presenti sul nostro pianeta finora scoperti». L’enorme cratere siberiano, che «sembra un paeaggio alieno segreto», è il settimo per dimensioni sulla Terra e, ricorda la “Stampa”, è stato designato dall’Unesco come parco geologico. Ma come si è formato, in realtà?Secondo Richard April, professore di geologia all’università di Hamilton, New York, ci sono due spiegazioni principali per la formazione dei cosiddetti “diamanti da impatto”, che si trovano in piccole quantità nei siti dell’impatto da meteorite in tutto il mondo. Una possibilità, scrive “Gaia News”, è che un meteorite cada in una zona ricca di qualche forma di carbonio, come i resti degli organismi viventi: le alte pressioni e le temperature generate dalla collisione sarebbero sufficienti a trasformare il carbonio terrestre in diamante. In un secondo scenario, invece, il carbonio arriva all’interno del meteorite e, allo stesso momento dell’impatto, si fonde trasformandosi in diamanti che si disperdono nel terreno. Secondo April però, nessuno dei due scenari potrebbe creare il numero di diamanti di cui parlano gli scienziati russi. C’è una terza possibilità che, secondo April, che potrebbe spiegare la formazione di così tanti diamanti extraduri nel cratere: è concepibile che il meteorite si sia infilato, come una palla da golf in buca, in un campo di diamanti preesistente. Uno dei “tubi vulcanici di kimberlite”, presenti in Siberia. «E’ possibile che i diamanti si siano ricristallizzati alle alte temperature; questo potrebbe anche spiegare il fatto che ci sono così tanti diamanti». Ma sarebbe la prima volta che gli scienziati assistono ad un fatto di tale portata.E’ rimasto segreto per anni. Eppure un buco di circa 100 chilometri di diametro, creato da un asteroide precipitato 35 milioni di anni fa, è il più grande giacimento di diamanti presente sulla Terra, nonché uno dei posti più inquietanti, scrive Noemi Penna sulla “Stampa”, in un servizio che presenta immagini che «sembrano esser state scattate su un pianeta alieno». Siamo a Popigai, nella Siberia orientale, a 400 chilometri dal primo centro abitato e a un’ora e mezza di elicottero dall’aeroporto di Khatanga. «Questa miniera è stata gelosamente nascosta dai russi per oltre 40 anni. E’ stata infatti scoperta all’inizio degli anni ‘70 ma è stata subito etichettata come “top secret”: durante la guerra fredda l’Unione Sovietica la considerava una “riserva strategica” e solo nel settembre del 2012 la Russia ha ufficialmente dichiarato l’esistenza di questo giacimento inestimabile». Negli anni si sono susseguite numerose spedizioni, ben prima della “ufficializzazione” e dalla “riscoperta” avvenuta nel 2009. I ricercatori dell’Istituto di geologia di Novosibirsk hanno certificato che il cratere contiene trilioni di carati, ovvero centinaia di migliaia di tonnellate: là sotto ci sono abbastanza diamanti da sopperire alle richieste globali per tremila anni.
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Google oscura il web pro-Trump: colpo di Stato in arrivo?
«In una escalation repressiva della libertà di parola degna di una Cina comunista, Google ha lanciato una purga per smantellare i siti web che appoggiano il presidente Trump». Lo denuncia Mike Adams, tra gli “editor” del sito “NaturalNews.com”, «cancellato da Google, attraverso la rimozione di oltre 140.000 pagine di contenuti che trattano di prevenzione di malattie, terapie nutrizionali, ricerche scientifiche sulla contaminazione ambientale e molto altro». La rete è in subbuglio per questa evidente violazione della libertà di espressione, dopo che la censura di Google denunciata da “Natural News” è diventata virale sui social, nelle interviste radio e negli articoli su tutti i media indipendenti. “Natural News”, dice Adams in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è stato presa di mira, probabilmente, perché non solo ha pubblicamente previsto la vittoria del presidente Trump molto prima che si verificasse, ma ha apertamente appoggiato le politiche di Trump «atte a proteggere l’America, drenare la palude e ripristinare la repubblica». Ma l’oscuramento di “Natural News” è solo «la prima mossa di una vasta purga della libertà di parola da parte di Google per mettere a tacere le voci pro-Trump in tutta la rete».Dopo il primo annuncio di Adams, che denunciava «la scioccante censura di “Natural News” da parte di Google», l’editor è stato contattato da diversi gestori di siti che affermano di essere stati messi offline anch’essi più o meno nello stesso momento. Il sito “Is My Website Penalized” (il mio sito è penalizzato?) mostra che almeno 470 siti web sono stati declassati o addirittura bannati da Google nell’ultimo mese. «Probabilmente molti di questi 470 siti meritavano di essere messi offline per codice maligno o infezioni da malware», ammette Adams, che però esclude che il problema riguardasse “Natural News”, come confermato da Google Search Console. «Natural News è stato bannato attraverso una “decisione umana” che non ha alcuna giustificazione ed è stata emanata senza alcun preavviso né possibilità di appello». Di fatto, continua Adamas, «qualcuno di Google ha semplicemente deciso che non gli piacevano i contenuti di “Natural News”, e ha premuto l’interruttore “memory hole” (buco della memoria) sull’intero sito in un attimo, un po’ come quando hanno fatto detonare gli esplosivi ad alto potenziale per abbattere l’Edificio 7», cioè il palazzo di Manhattan crollato l’11 Settembre senza essere stato colpito né dagli aerei, né dagli incendi.«Questo – continua Adams – si aggiunge al sabotaggio economico commesso contro “InfoWars”», quando Adroll, la piattaforma per la pubblicità di Google, «ha tolto la pubblicità a “InfoWars” senza preavviso», con un danno, secondo “InfoWars”, di 3 milioni di dollari. «Due giorni prima, “Breitbart News” è stato preso di mira con la rimozione di Milo Yiannopoulos, grazie a dei video-leaks orchestrati da gruppi di facciata legati a George Soros». Attenzione: «E’ il preludio di un’enorme false-flag o di un golpe contro il presidente Trump?». La faccenda è serissima, sottolinea Mike Adams: «Per quale ragione Google si darebbe tanto disturbo impegnandosi nella oltraggiosa censura e nel sabotaggio economico di due dei maggiori media indipendenti al mondo, in un’azione censoria consecutiva che quasi grida “urgenza!”?». La risposta è ovvia: «Qualcosa di grosso sta per essere messo in atto contro Trump, e le maggiori voci a sostegno di Trump vengono silenziate in modo sistematico, una ad una, per essere certi che nessun media indipendente possa contrastare la narrazione ufficiale che verrà propagandata dai media spacciatori di fake news (Cnn, WashPo, Nyt, etc.)». Per Adams, «questo non è altro che fascismo». Succede «quando le multinazionali eseguono gli ordini dello Stato Profondo che pianifica di causare disordini di massa o morte per rimuovere Trump dal potere». Tra gli altri “pericoli”, secondo Adams, c’è anche la possibilità che Trump «possa rendere pubblica la verità sui legami con la pedofilia di importanti politici di Washington».«In una escalation repressiva della libertà di parola degna di una Cina comunista, Google ha lanciato una purga per smantellare i siti web che appoggiano il presidente Trump». Lo denuncia Mike Adams, tra gli “editor” del sito “NaturalNews.com”, «cancellato da Google, attraverso la rimozione di oltre 140.000 pagine di contenuti che trattano di prevenzione di malattie, terapie nutrizionali, ricerche scientifiche sulla contaminazione ambientale e molto altro». La rete è in subbuglio per questa evidente violazione della libertà di espressione, dopo che la censura di Google denunciata da “Natural News” è diventata virale sui social, nelle interviste radio e negli articoli su tutti i media indipendenti. “Natural News”, dice Adams in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è stato presa di mira, probabilmente, perché non solo ha pubblicamente previsto la vittoria del presidente Trump molto prima che si verificasse, ma ha apertamente appoggiato le politiche di Trump «atte a proteggere l’America, drenare la palude e ripristinare la repubblica». Ma l’oscuramento di “Natural News” è solo «la prima mossa di una vasta purga della libertà di parola da parte di Google per mettere a tacere le voci pro-Trump in tutta la rete».
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Chi vuol tenere Lapo Elkann fuori dagli affari di famiglia?
Lapo Elkann nella bufera a causa dei suoi eccessi? Un rampollo di casa Agnelli non finisce sui giornali senza un preciso piano per distruggerlo. Lo sostiene Andrea Camaiora sull’“Huffington Post”, domandandosi: «Chi vuole tenere Lapo Elkann fuori degli affari di famiglia?». Una lettura precisa, sui retroscena di una vicenda che illuminerebbe aspetti del vero potere italiano, legato al capitalismo familiare dei signori della Fiat. «La storia recente della dinastia Agnelli dice che Lapo, genio e sregolatezza, è mal sopportato come componente del cda Ferrari ed è stato per un certo periodo in ballo anche come presidente della Juventus». Ma la galassia di famiglia non si ferma a questo, aggiunge Camaiora: c’è ovviamente il fondo Exor, la “cassa” degli Agnelli, che porta dritta dritta a Fca, la “creatura” di Sergio Marchionne il cui leader è il fratello di Lapo, John Elkann. «Di questo potrebbero scrivere più precisamente giornalisti esperti in economia e finanza. A noi interessa osservare qualcos’altro, ovvero che Lapo Elkann – l’unico nipote di Gianni Agnelli che ha creato qualcosa di proprio fuori del core business familiare, Italia independent e Garage Italia Customs – diventa periodicamente protagonista delle cronache nazionali con un’altalena infinita di belle e brutte figure».L’11 ottobre 2005, ricorda il giornalista, Lapo viene ricoverato in gravissime condizioni presso il reparto di rianimazione dell’ospedale Mauriziano di Torino, a causa di un’overdose per un mix di oppiacei dopo una notte in compagnia di più transessuali, tra cui la celebre trans Patrizia. Più recentemente il “sequestro” «dai profili poco credibili» che lo ha visto nuovamente in compagnia di un transgender, questa volta a New York, «per una cifra ridicola per la famiglia Agnelli: 10 mila euro». E qui, ricorda Camaiora, tutti si sono domandati: c’era proprio bisogno che la famiglia portasse questa vicenda al disonore della ribalta? «Un interrogativo che si rafforza visto che più che sequestrato, Lapo era stato in qualche modo trattenuto e che poi – superato lo strepitus mediatico – anche il profilo penale della vicenda si è subito smontato, con la procura che ha riconosciuto che Lapo non ha affatto organizzato un finto rapimento». Cadute le accuse, dunque, «ma screditamento pienamente realizzato». L’analista del “Post” dice di tenersi alla larga dal complottismo, ma sostiene che «a indurre una riflessione sulla regia mediatica degli scandali di cui è in qualche modo vittima Lapo c’è un’ultima curiosa coincidenza», ovvero: le dichiarazioni di Lapo, a bufera finita, sul futuro delle sue attività extra-Fiat.Prosciolto dalla giustizia americana in tempi record per il nostro sistema giudiziario, il giovane Elkann ha usato parole misurate ma in qualche modo anche combattive: «Ho attraversato un momento difficile che però mi ha dato il tempo e il silenzio necessari per riflettere e soprattutto per rinforzare ciò che voglio fare in futuro». E anche: «So che voglio proseguire il lavoro che ho fatto su di me in queste settimane, per raccogliere nuove energie e mettere una consapevolezza diversa nella mia vita e nel mio lavoro». Ha quindi precisato che intende «sostenere le aziende cui ho dato vita e portare avanti i tanti progetti di collaborazione avviati con il massimo impegno». Così si è espresso alla fine di gennaio. Ma non era ancora finita, la tempesta contro di lui: «Il 7 febbraio – scrive Camaiora – il “Corriere.it” ha rilanciato, con il titolo “Vi racconto quelle notti a Torino”, l’intervista al trans Patrizia che la trasmissione condotta da Luca Telese, “Bianco e Nero”, aveva nei giorni precedenti mandato in onda e che si riferiva al caso di undici anni prima». Conclude Camaiora: «Per Elkann speriamo di sbagliarci, ma non è solo e non tanto in tribunale che deve difendersi, se non vuole essere tenuto sempre a debita distanza dagli affari di famiglia. Sempre che, naturalmente, la cosa gli interessi».Lapo Elkann nella bufera a causa dei suoi eccessi? Un rampollo di casa Agnelli non finisce sui giornali senza un preciso piano per distruggerlo. Lo sostiene Andrea Camaiora sull’“Huffington Post”, domandandosi: «Chi vuole tenere Lapo Elkann fuori degli affari di famiglia?». Una lettura precisa, sui retroscena di una vicenda che illuminerebbe aspetti del vero potere italiano, legato al capitalismo familiare dei signori della Fiat. «La storia recente della dinastia Agnelli dice che Lapo, genio e sregolatezza, è mal sopportato come componente del cda Ferrari ed è stato per un certo periodo in ballo anche come presidente della Juventus». Ma la galassia di famiglia non si ferma a questo, aggiunge Camaiora: c’è ovviamente il fondo Exor, la “cassa” degli Agnelli, che porta dritta dritta a Fca, la “creatura” di Sergio Marchionne il cui leader è il fratello di Lapo, John Elkann. «Di questo potrebbero scrivere più precisamente giornalisti esperti in economia e finanza. A noi interessa osservare qualcos’altro, ovvero che Lapo Elkann – l’unico nipote di Gianni Agnelli che ha creato qualcosa di proprio fuori del core business familiare, Italia independent e Garage Italia Customs – diventa periodicamente protagonista delle cronache nazionali con un’altalena infinita di belle e brutte figure».
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Sta sparendo il buio: in pericolo salute, animali e piante
Tutti abbiamo visto almeno una volta nella vita una falena attirata dalle luci fuori casa andare a sbattere senza alcun timore contro una lampadina. Questo istinto è lo stesso che le guida a volare in circolo quando sono presenti le luci naturali di stelle e luna e che le fa rimbalzare sulle fonti luminose. L’inquinamento luminoso è un fenomeno che disturba i flussi migratori, i rituali di accoppiamento, la caccia e molti altri processi essenziali per la vita di piante, insetti e animali. Alcune fra le 450 specie di uccelli presenti nel Nord America utilizzano la luna e le stelle per orientarsi durante le proprie migrazioni notturne. Gli scienziati hanno documentato incidenti nei quali interi stormi di uccelli sono andati a sbattere contro degli edifici illuminati delle città. Ne sono morti decine di migliaia in una singola notte. Gli effetti negativi dell’inquinamento luminoso vengono subiti da animali migratori volanti, di terra o acquatici. Per esempio, i pattern migratori del salmone sono correlati al sole. Secondo quanto riscontrato in una ricerca citata dall’International Dark-Sky Association, nel momento in cui il salmone viene esposto a luce artificiale, tali pattern divengono irregolari.Alcuni alberi sono sensibili alla durata del giorno poiché questa determina i loro ritmi stagionali. Ma, nel momento in cui la luce artificiale estende la loro esposizione a una fonte luminosa, queste specie cambiano modalità di fioritura, di germoglio e di perdita delle foglie. Uno degli effetti più gravi, secondo William R. Chaney del Dipartimento delle risorse forestali e naturali dell’università Purdue, è che la luce artificiale «promuove la crescita continua degli alberi e pertanto impedisce loro di sviluppare l’inattività che permette di sopravvivere al rigore dell’inverno». Circa 4 americani su 5 non possono vedere la Via Lattea. Più del 99 percento degli americani vive sotto un cielo considerato inquinato. Ma, sebbene l’inquinamento luminoso sia molto diffuso nel paese, gli Stati Uniti non sono presenti nella lista stilata dagli scienziati di Harvard nella quale sono inserite le 20 nazioni più inquinate in questo senso. Tra i paesi del G20, gli Stati Uniti si trovano al nono posto.Per quanto riguarda il corpo umano, l’inquinamento luminoso interferisce con la produzione di melatonina durante la notte. L’esposizione alla luce nelle ore notturne è risultata correlare con molte malattie fra cui diabete, obesità, cancro al seno e alla prostata. Come se non bastasse, secondo l’International Dark-Sky Association la quantità di luce utilizzata ogni anno per illuminare le strade e i parcheggi disseminati nel paese è superiore a quella utilizzata nella città di New York in due anni. Più del 50 percento della luce viene sprecata perché non adeguatamente direzionata. Sebbene illuminare le strade sembri essere una misura necessaria per la sicurezza, Chaney ricorda che «molte aree ad alta concentrazione di traffico sono così intensamente illuminate che la visibilità viene disturbata dal riverbero prodotto dalla poca schermatura degli impianti».(Tara Macisaac, “L’inquinamento luminoso danneggia natura, salute e portafoglio”, da “Epoch Times”, ripreso da “La Crepa nel Muro” l’11 gennaio 2017).Tutti abbiamo visto almeno una volta nella vita una falena attirata dalle luci fuori casa andare a sbattere senza alcun timore contro una lampadina. Questo istinto è lo stesso che le guida a volare in circolo quando sono presenti le luci naturali di stelle e luna e che le fa rimbalzare sulle fonti luminose. L’inquinamento luminoso è un fenomeno che disturba i flussi migratori, i rituali di accoppiamento, la caccia e molti altri processi essenziali per la vita di piante, insetti e animali. Alcune fra le 450 specie di uccelli presenti nel Nord America utilizzano la luna e le stelle per orientarsi durante le proprie migrazioni notturne. Gli scienziati hanno documentato incidenti nei quali interi stormi di uccelli sono andati a sbattere contro degli edifici illuminati delle città. Ne sono morti decine di migliaia in una singola notte. Gli effetti negativi dell’inquinamento luminoso vengono subiti da animali migratori volanti, di terra o acquatici. Per esempio, i pattern migratori del salmone sono correlati al sole. Secondo quanto riscontrato in una ricerca citata dall’International Dark-Sky Association, nel momento in cui il salmone viene esposto a luce artificiale, tali pattern divengono irregolari.
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Bravi, odiate Trump. Per la Cia sarà più facile assassinarlo
Il breve discorso inaugurale del presidente Trump è stato una dichiarazione di guerra contro tutto l’establishment americano al potere. Tutto. Trump ha reso abbondantemente chiaro che i nemici degli americani sono proprio qui in casa: globalisti, economisti neoliberisti, neoconservatori e altri unilateralisti abituati ad imporre gli Stati Uniti nel mondo, che ci coinvolgono in costose guerre senza fine, e politici che servono l’establishment al potere piuttosto che gli americani; a dirla tutta, l’intera cupola di interessi privati che ha portato l’America allo sfinimento mentre gli interessati si arricchivano. Se si può dire la verità, il presidente Trump ha dichiarato guerra a se stesso, una guerra per lui molto più pericolosa che se avesse dichiarato guerra alla Russia o alla Cina. I gruppi di interesse designati da Trump come “Il Nemico” sono ben radicati e abituati a stare al potere. Le loro potenti reti di relazioni sono ancora al loro posto. Anche se ci sono maggioranze repubblicane sia alla Camera che al Senato, la maggior parte dei rappresentati del Congresso è tenuta a rispondere ai gruppi di interesse al potere che finanziano le loro campagne, e non al popolo americano e al presidente.Il complesso militare/della sicurezza, le multinazionali che delocalizzano, Wall Street e le banche, non cederanno a Trump. Né lo faranno i media prezzolati, che sono di proprietà dei gruppi di interesse il cui potere viene sfidato da Trump. Trump ha chiarito che sta dalla parte di ogni americano, nero, marrone e bianco. Pochi dubbi sul fatto che la sua dichiarazione di inclusività e apertura verrà ignorata dagli odiatori della sinistra, che continueranno a chiamarlo razzista, come già stanno facendo, mentre scrivo, i manifestanti pagati 50 dollari all’ora. In effetti, la leadership nera, per esempio, è educata al ruolo della vittima, ruolo al quale le sarebbe difficile sfuggire. Come si fa a mettere insieme persone alle quali per tutta la vita è stato insegnato che i bianchi sono razzisti e che loro sono vittime dei razzisti? Lo si può fare? Ho partecipato ad un breve programma su “Press Tv”, nel quale avremmo dovuto commentare il discorso inaugurale di Trump. L’altro commentatore era un nero americano, da Washington Dc. Il carattere inclusivo del discorso di Trump non gli ha fatto nessuna impressione, e l’ospite della trasmissione era interessato solo a mostrare le proteste dei manifestanti al fine di screditare l’America. Così tante persone hanno un interesse economico a parlare in nome delle vittime e a dire che l’apertura di Trump toglie loro lavoro.Quindi insieme ai globalisti, alla Cia, alle multinazionali che delocalizzano, alle industrie degli armamenti, all’establishment Nato in Europa, e ai politici stranieri abituati a essere pagati profumatamente per sostenere la politica estera interventista di Washington, si schiereranno contro Trump anche i leader dei gruppi vittimizzati, i neri, gli ispanici, le femministe, i clandestini, gli omosessuali e i transgender. Questa lunga lista ovviamente include anche i bianchi liberal, convinti che l’America da una costa all’altra sia abitata da bianchi razzisti , misogini, omofobi, e svitati amanti delle armi. Per quanto li riguarda, questo 84% della geografia degli Stati Uniti dovrebbe essere messo in quarantena o seppellito. In altre parole, rimane abbastanza buona volontà nella popolazione per consentire a un presidente di riunire il 16% che odia l’America con l’84% che la ama? Considerate le forze che Trump si trova contro. I leader neri e ispanici hanno bisogno del vittimismo, perché è quello che conferisce loro reddito e potere. Guarderanno con sospetto all’apertura di Trump. La sua inclusività è un bene per i neri e gli ispanici, ma non per i loro leader.I dirigenti e gli azionisti delle multinazionali sono arricchiti dalla delocalizzazione del lavoro che Trump dice che riporterà a casa. Se tornano i posti di lavoro, se ne andranno i loro profitti, i bonus e le plusvalenze. Ma tornerà la sicurezza economica della popolazione americana. Il complesso militare e della sicurezza ha un bilancio annuale di 1.000 miliardi che dipende dalla “minaccia russa”, minaccia che Trump dice di voler sostituire con una normalizzazione dei rapporti. L’assassinio di Trump non può essere escluso. Molti europei devono il proprio prestigio, il proprio potere, e i propri redditi alla Nato, che Trump ha messo in discussione. I profitti del settore finanziario derivano quasi interamente dalla schiavitù del debito cui sono sottoposti gli americani e dal saccheggio delle loro pensioni private e pubbliche. Il settore finanziario con il suo agente, la Federal Reserve, può distruggere Trump con una crisi finanziaria. La Federal Reserve di New York ha una sala operativa completa. Può mandare nel caos qualsiasi mercato. O sostenere qualsiasi mercato, perché non vi è alcun limite alla sua capacità di creare dollari.L’intero edificio politico degli Stati Uniti si è completamente isolato dal volere, dai desideri e dalle esigenze del popolo. Ora Trump dice che i politici risponderanno al popolo. Questo, naturalmente, significherebbe un forte colpo alla continuità dei loro incarichi, al loro reddito e alla loro ricchezza. C’è un gran numero di gruppi, finanziati da non-sappiamo-chi. Ad esempio, oggi RootsAction ha risposto al forte impegno di Trump di stare al fianco di tutto il popolo contro l’Establishment al Potere, con la richiesta al Congresso “di incaricare la Commissione Giustizia della Camera per un’iniziativa di impeachment” e di inviare denaro per l’impeachment di Trump. Un altro gruppo di odio, Human Rights First, attacca la difesa di Trump dei nostri confini in quanto chiude “un rifugio di speranza per coloro che fuggono dalle persecuzioni“. Pensateci per un minuto. Secondo le organizzazioni liberal-progressiste di sinistra e i gruppi di interesse razziali, gli Stati Uniti sono una società razzista e il presidente Trump è un razzista. Eppure, le persone soggette al razzismo americano fuggono dalle persecuzioni verso l’America, dove subiranno persecuzioni razziali? Non ha senso. I clandestini vengono qui per lavoro. Chiedete alle imprese di costruzione. Chiedete ai mattatoi. Chiedete ai servizi di pulizia nelle aree turistiche.La lista di quelli a cui Trump ha dichiarato guerra è abbastanza lunga, anche se se ne potrebbero aggiungere degli altri. Dovremmo chiederci perché un miliardario di 70 anni con imprese fiorenti, una bella moglie, e dei figli intelligenti, sia disposto a sottoporre i suoi ultimi anni alla straordinaria pressione di fare il presidente con il difficile programma di riportare il governo nelle mani del popolo americano. Non c’è dubbio che Trump ha fatto di sé stesso un bersaglio. La Cia non ha intenzione di mollare il colpo e andare via. Perché una persona dovrebbe farsi carico dell’imponente ricostruzione dell’America che Trump ha dichiarato di voler fare, quando poteva invece trascorrere i suoi ultimi anni godendosela immensamente? Qualunque sia la ragione, dovremmo essergli grati per questo, e se è sincero lo dobbiamo sostenere. Se viene assassinato, dobbiamo prendere le armi, radere al suolo Langley [sede centrale della Cia] e ucciderli tutti. Se avrà successo, merita il titolo: Trump il Grande! La Russia, la Cina, l’Iran, il Venezuela, l’Ecuador, la Bolivia, e qualsiasi altro paese sulla lista nera della Cia dovrebbe capire che l’ascesa di Trump non basta a proteggerlo. La Cia è una organizzazione a livello mondiale. I suoi redditizi affari forniscono delle entrate indipendenti dal bilancio degli Stati Uniti. L’organizzazione è in grado di intraprendere azioni indipendentemente dal presidente o anche dal proprio direttore. La Cia ha avuto circa 70 anni per consolidarsi. Ed esiste ancora.(Paul Craig Roberts, “La dichiarazione di guerra di Trump”, dal sito di Craig Roberts del 20 gennaio 2017, post tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).Il breve discorso inaugurale del presidente Trump è stato una dichiarazione di guerra contro tutto l’establishment americano al potere. Tutto. Trump ha reso abbondantemente chiaro che i nemici degli americani sono proprio qui in casa: globalisti, economisti neoliberisti, neoconservatori e altri unilateralisti abituati ad imporre gli Stati Uniti nel mondo, che ci coinvolgono in costose guerre senza fine, e politici che servono l’establishment al potere piuttosto che gli americani; a dirla tutta, l’intera cupola di interessi privati che ha portato l’America allo sfinimento mentre gli interessati si arricchivano. Se si può dire la verità, il presidente Trump ha dichiarato guerra a se stesso, una guerra per lui molto più pericolosa che se avesse dichiarato guerra alla Russia o alla Cina. I gruppi di interesse designati da Trump come “Il Nemico” sono ben radicati e abituati a stare al potere. Le loro potenti reti di relazioni sono ancora al loro posto. Anche se ci sono maggioranze repubblicane sia alla Camera che al Senato, la maggior parte dei rappresentati del Congresso è tenuta a rispondere ai gruppi di interesse al potere che finanziano le loro campagne, e non al popolo americano e al presidente.
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Ciao Ue, pure i francesi di sinistra voteranno Marine Le Pen
La prossima mazzata che l’Unione Europea riceverà sarà dalla Francia: il paese è in crisi nera, i socialisti sono vicini all’estinzione e l’ultra-liberismo annunciato da François Fillon, alfiere del centrodestra, regalerà un trionfo al Front National. «Con la sua politica economica thatcheriana – scrive Fried Siegel sul “City Journal” – Fillon spingerebbe senza dubbio un gran numero di sindacalisti francesi del settore pubblico – e ciò che resta degli elettori della classe lavoratrice industriale – tra le braccia di Marine Le Pen, che potrebbe di fatto trasformarsi nel candidato di sinistra (se una tale definizione ha ancora un senso)». Facile previsione: «I molti milioni di persone che lavorano per il settore pubblico o che ricevono sussidi potrebbero silenziosamente sostenere il nazionalismo della Le Pen piuttosto che rischiare di perdere i loro privilegi». Chiunque sia il vincitore, in ogni caso, «la malnata Unione Europea riceverà un altro shock». Come i democratici americani «hanno marciato a ranghi serrati di sconfitta in sconfitta», ormai «anche le élite europee non danno segno di imparare alcunché». Fillon vuole «cancellare lo stato sociale, licenziare i lavoratori ed aumentare i giorni lavorativi?». Ed è così che Marine Le Pen diventa «la candidata della “sinistra” francese».Anche la Francia, dunque, sta per presentare il conto di «una globalizzazione avvenuta a rotta di collo», con un “politicamente corretto” «imposto aggressivamente e dall’arroganza delle élite». Qualcosa sta franando, scrive Siegel in una riflessione proposta da “Voci dall’Estero”, se è vero che i sondaggisti non ne azzeccano più una, dalla Brexit a Trump. Non sono nemmno riusciti a prevedere che l’ex primo ministro François Fillon avrebbe vinto le primarie per diventare il candidato conservatore alle elezioni presidenziali del prossimo aprile in Francia. Con le sue idee «conservatrici in ambito sociale ma liberiste in campo economico», Fillon «rappresenta un allineamento di opinioni che non si vedeva dagli anni ’40 dell’Ottocento». Tutto sta cambiando, e non se n’è accorto neppure Jean-Claude Juncker, «lussemburghese sconosciuto ai più», ormai «diventato il pubblico zimbello durante il periodo precedente al voto sulla Brexit». Fillon ha detto ai francesi che vuole “ridare al paese la sua libertà”. E come? «Ha promesso di tagliare mezzo milione di posti di lavoro nel settore pubblico, di mettere fine alla settimana lavorativa di 35 ore e di ridurre la corposa regolamentazione del lavoro francese da 3.000 ad appena 150 pagine». Sarebbe una sorta di rivoluzione, scrive Siegel: «La Francia moderna non si è mai sottoposta alle riforme liberiste che hanno ravvivato le economie di Gran Bretagna, Canada, Svezia e Germania».In Francia, continua Siegel, la spesa pubblica rappresenta oggi il 57% dell’economia, «e come negli Stati Uniti – ma peggio – il libero mercato è stato strangolato da uno statalismo fuori controllo». Lo scrittore cattolico George Marlin, di New York, ha descritto come gli elettori cattolici della “Rust Belt”, la fascia degli Stati Uniti centrali dove si collocano le maggiori capitali industriali, oggi in declino, sono «infuriati per l’atrofia economica e per il “politicamente corretto” del liberalismo sociale», e quindi si sono orientati verso Donald Trump, determinandone la vittoria. Qualcosa di simile è successo in Francia, scrive Siegel: «Nell’aprile 2017 Fillon, anglofilo e cattolico praticamente, potrebbe verosimilmente contrapporsi a Marine Le Pen, la leader anti-islamista del Front National, nel ballottaggio delle elezioni presidenziali francesi». Se ciò accade, «gli espertoni scopriranno che la loro mappa mentale è resa del tutto obsoleta da un conflitto tra due candidati entrambi “conservatori”». E questo è avvenuto «perché la classe lavoratrice francese, una volta rivendicata dalla “sinistra”, è stata abbandonata dai socialisti, così come è avvenuto con la loro controparte in America».I socialisti «si sono dissolti nella ricerca di una incoerente alleanza tra elettori gay, islamici e femministi». Ben li rappresenta il presidente François Hollande, che «ha governato con così tanta inettitudine da raccogliere oggi appena il 4% dei consensi». Al confronto, Hillary Clinton se l’è cavata piuttosto bene con gli uomini della classe lavoratrice bianca, ottenendo il 38% dei voti. «I socialisti francesi sono ritornati alla posizione marginale che avevano nell’Ottocento», scrive ancora Siegel, che ricorda che nel 2001 il padre di Marine Le Pen, Jean-Marie Le Pen, sostenitore della Francia di Vichy, scosse il mondo arrivando secondo alla prima tornata elettorale delle elezioni presidenziali francesi, scavalcando il socialista Lionel Jospin. Il 16% dei voti raccolto da Jospin fu quasi raggiunto da «un confuso assortimento da museo di comunisti, maoisti e trotskisti». Messi assieme, i partiti estremisti della destra e della sinistra avevano raccolto circa un terzo dei voti. Ma poi, nelle elezioni generali, i partiti mainstream si unirono per sostenere Jacques Chirac, che batté Jean-Marie Le Pen con l’82% dei suffragi. Ma il 2016 è diverso, avverte Siegel: «La Francia è demoralizzata. È scossa dall’aggressione musulmana. Si è trascinata per decenni con meno dell’1% di crescita annuale. Il suo tasso di disoccupazione è vicino alla doppia cifra, la disoccupazione giovanile al 24% spinge schiere di giovani verso Londra, Berlino e New York». A rivendicare le parole d’ordine della sinistra – lavoro, diritti, sovranità – è rimasta solo Marine Le Pen.La prossima mazzata che l’Unione Europea riceverà sarà dalla Francia: il paese è in crisi nera, i socialisti sono vicini all’estinzione e l’ultra-liberismo annunciato da François Fillon, alfiere del centrodestra, regalerà un trionfo al Front National. «Con la sua politica economica thatcheriana – scrive Fried Siegel sul “City Journal” – Fillon spingerebbe senza dubbio un gran numero di sindacalisti francesi del settore pubblico – e ciò che resta degli elettori della classe lavoratrice industriale – tra le braccia di Marine Le Pen, che potrebbe di fatto trasformarsi nel candidato di sinistra (se una tale definizione ha ancora un senso)». Facile previsione: «I molti milioni di persone che lavorano per il settore pubblico o che ricevono sussidi potrebbero silenziosamente sostenere il nazionalismo della Le Pen piuttosto che rischiare di perdere i loro privilegi». Chiunque sia il vincitore, in ogni caso, «la malnata Unione Europea riceverà un altro shock». Come i democratici americani «hanno marciato a ranghi serrati di sconfitta in sconfitta», ormai «anche le élite europee non danno segno di imparare alcunché». Fillon vuole «cancellare lo stato sociale, licenziare i lavoratori ed aumentare i giorni lavorativi?». Ed è così che Marine Le Pen diventa «la candidata della “sinistra” francese».
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Sta fondendo l’Antartide: verso cataclismi inimmaginabili
Sta per collassare l’Antartide, e i ghiacci che si credevano “perenni” stanno fondendo alla velocità della luce: lo rivela uno studio che «dovrebbe spaventare a morte chiunque dubiti della solennità e della potenza dietro l’accelerazione del riscaldamento globale», avverte Robert Hunziker su “Counterpunch”, che presenta una ricerca «sconvolgente, dagli sviluppi raccapriccianti». Ovvero: «Se si sciogliesse integralmente l’intera Antartide, provocherebbe un innalzamento del livello del mare di circa 60 metri». Non faremo in tempo a vederlo, nella nostra vita («è troppo grande e richiederebbe decisamente troppo riscaldamento e davvero troppo tempo»), ma – intanto – un collasso della sola Antartide Occidentale, quella finita sotto i riflettori, «ha il potenziale, secondo la nuova ricerca, per sommergere Miami e New York durante le nostre vite attuali». Attenzione: «È la prima volta, questa, in cui delle osservazioni scientifiche giungono ufficialmente alla conclusione che una catastrofe così orrenda sia possibile, così presto». Miami Beach è già costretta a sollevare le strade di mezzo metro a causa delle persistenti inondazioni. «Un mare in crescita è la vendetta del riscaldamento globale per le sconsiderate, arroganti, presuntuosamente eccessive emissioni di CO2 di combustibile fossile, causate dall’uomo».Le nuove «spaventose scoperte», scrive Hunziker in un report tradotto da “Come Don Chisciotte”, includono il ghiacciaio di Pine Island, l’oggetto del lavoro di ricerca di Seongsu Jeong, Ian M. Howat, Jeremy N. Basis, “Accelerated Ice Shelf Rifting and Retreat at Pine Island Glacier, West Antarctica”, studio pubblicato da “Geophysical Research Letters” il 28 novembre 2016. Allarme rosso, già a partire dal titolo: “Accelerazione della frattura di una calotta di ghiaccio e arretramento del ghiacciaio di Pine Island, in Antartide Occidentale”. «Si dà il caso che il ghiacciaio di Pine Island fosse già la più grande massa al mondo di irreversibile scioglimento di ghiaccio». Adesso, con questa nuova analisi, «la tempistica sta assumendo una nuova preoccupante dimensione». Secondo Ian Howat, professore associato di Scienze della Terra presso l’università statale dell’Ohio, «questa sorta di formazione di fratture causa un altro meccanismo di arretramento rapido di questi ghiacciai, aggiungendo la probabilità che si possano vedere collassi significativi nell’Antartide Occidentale durante la nostra esistenza». Questa, sottolinea Huziker, è una minaccia di riscaldamento globale completamente nuova, per le sue impressionanti dimensioni e gli scenari tempistici ormai ravvicinati.Che cosa ha indebolito il centro della calotta antartica? E’ stato «un crepaccio, disciolto al livello di sostrato roccioso da un oceano riscaldato», visto che la base della lastra di ghiaccio dell’Antartide Occidentale si trova sotto il livello del mare. «Un oceano riscaldato appare come la causa di come l’oceano abbia assorbito il 90% del calore della Terra, aiutando a proteggere le creature sulla terraferma, come gli umani, da un reale surriscaldamento dannoso», scrive Hunziker. «Ma si raccoglie ciò che si semina, come è stato dimostrato in Antartide: tutto questo calore mondiale ci si sta ritorcendo contro sotto grandi, grosse lastre di ghiaccio». Qui le differenze rispetto alle ricerche del passato: le fratture si formavano generalmente ai margini delle calotte di ghiaccio, dando vita agli iceberg, ma non in profondità e all’interno, come invece evidenzia questa nuova scoperta. Inoltre, la frattura in questione è all’interno, a circa 32 km (20 miglia). «Il Ghiacciaio di Pine Island (tenendo le dita incrociate) funziona come misura di protezione, trattenendo grandi porzioni di ghiaccio dell’Antartide Occidentale dal riversarsi nel mare». In pratica «è come un portiere di hockey», impegnato a frenare «una parte delle lastre di ghiaccio del Massiccio dell’Antartide Occidentale».Quel grande ghiacchaio è dunque «l’ultima linea di difesa, che previene il collasso parziale delle grandi lastre di ghiaccio, che causerebbero un grande tonfo inimmaginabile, di grandezza inconcepibile». Lo conferma già nel 2015 “Science Magazine”, secondo cui basterebbe «un colpetto» a far collassare le lastre di ghiaccio dell’Antartide Occidentale, con il livello del mare che «si solleva di 3 metri». E’ esplicita, la rivista: «Non serve molto a causare il crollo totale della lastra di ghiaccio dell’Antartide Occidentale, e una volta iniziato non si fermerà». Nell’ultimo anno, aggiunhe Hunziker, «molti articoli hanno evidenziato la vulnerabilità della lastra di ghiaccio che ricopre la parte occidentale del continente, suggerendo che il suo crollo sia inevitabile, e probabilmente già in corso. Adesso, un nuovo modello mostra proprio come questa valanga possa realizzarsi». Una quantità relativamente piccola di scioglimento nel corso di pochi decenni «porterà inesorabilmente alla destabilizzazione dell’intera lastra di ghiaccio e all’aumento del livello del mare». L’ultima ricerca rivela che «le circostanze sembra si stiano accelerando».Con questa nuova scoperta, la tempistica per il collasso della lastra di ghiaccio dell’Antartide Occidentale è del tutto inquietante, sottolinea Hunziker: «In precedenza i ricercatori pensavano a decenni e secoli. Adesso, “all’interno delle nostre vite attuali”». Sperando che non sia già troppo tardi, aggiunge Hunziker pensando a Trump e ai negazionisti del “global warming”, «mai prima d’ora nella storia mondiale è stato importante avere una forte leadership in Usa, per fare qualunque cosa sia necessaria per tamponare un cambio climatico incombente, un cataclisma del riscaldamento globale. È in gioco il nostro stile di vita». In base a queste linee, dice ancora Hunziker, «la scienza che studia il clima è inspiegabilmente simile al rilevamento degli asteroidi vicini alla Terra», che nel corso dei millenni si sono occasionalmente scontrati col nostro pianeta, «annientando ad esempio i poveri e indifesi dinosauri». Se un asteroide vicino alla Terra è «progettato per urtare», forse «un certo tipo di dispiegamento può prevenire il grande schianto dall’annientamento della vita sul pianeta». E quindi: «Quale dispiegamento ferma le lastre di ghiaccio dal collasso?».Sta per collassare l’Antartide, e i ghiacci che si credevano “perenni” stanno fondendo alla velocità della luce: lo rivela uno studio che «dovrebbe spaventare a morte chiunque dubiti della solennità e della potenza dietro l’accelerazione del riscaldamento globale», avverte Robert Hunziker su “Counterpunch”, che presenta una ricerca «sconvolgente, dagli sviluppi raccapriccianti». Ovvero: «Se si sciogliesse integralmente l’intera Antartide, provocherebbe un innalzamento del livello del mare di circa 60 metri». Non faremo in tempo a vederlo, nella nostra vita («è troppo grande e richiederebbe decisamente troppo riscaldamento e davvero troppo tempo»), ma – intanto – un collasso della sola Antartide Occidentale, quella finita sotto i riflettori, «ha il potenziale, secondo la nuova ricerca, per sommergere Miami e New York durante le nostre vite attuali». Attenzione: «È la prima volta, questa, in cui delle osservazioni scientifiche giungono ufficialmente alla conclusione che una catastrofe così orrenda sia possibile, così presto». Miami Beach è già costretta a sollevare le strade di mezzo metro a causa delle persistenti inondazioni. «Un mare in crescita è la vendetta del riscaldamento globale per le sconsiderate, arroganti, presuntuosamente eccessive emissioni di CO2 di combustibile fossile, causate dall’uomo».