Archivio del Tag ‘New York Times’
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Moriranno 6 milioni di ebrei: strana “profezia”, già nell’800
C’è il fatto che noi dobbiamo credere vere tutta una serie di cose, e le dobbiamo credere vere senza porci delle domande, perché alle volte il porci delle domande significa avere dei dubbi, che sono secondo me l’unica vera forma di libertà. Quando Gesù diceva “la verità vi renderà liberi”, non intendeva ciò che gli viene attribuito, sapete, perché se c’è una cosa che rende schiavi è proprio la verità. Guardate tutti quelli che sono convinti di avere una verità: sono schiavi di quella verità, non sono più liberi neppure di provare a pensare diversamente. C’è la verità filosofica, ben diversa da quella teologica, ma ciò che rende veramente liberi è il dubbio. Ed è per questo che chi governa non vuole mai che noi si abbia dei dubbi. Perché se abbiamo dei dubbi poniamo delle domande, così come io adesso porrò alcune domande (stando bene attento cosa dico, per non finire in tribunale). Il più volte ho detto, nelle conferenze, che il discorso dei 6 milioni di ebrei morti nella Shoah era conosciuto dalla seconda metà del 1800 ed era già scritto nelle riviste giudaiche della seconda metà del 1800. Era anche scritto nei all’inizio del ‘900 nei più importanti quotidiani americani, statunitensi e e canadesi, dove si parlava esattamente di 6 milioni di ebrei che stavano morendo o “dovevano” morire nel sud-est dell’Europa.Ora, io non sto mettendo in discussione la Shoah: sto solo ponendo delle domande, che forse sono più pesanti ancora. Perché, sapete, che siano 6 milioni o 5 oppure 600.000, cosa cambia? Voglio dire: se c’è un crimine, quello rimane. Il problema è stabilire chi l’ha veramente voluta, la Shoah: chi l’ha decisa, chi l’ha programmata. Perché sono sempre 6 milioni di ebrei? Ad esempio, il “New York Times” nel 1919 e poi nel 1920 scrive: “In Ucraina, 6 milioni di ebrei sono in pericolo”. E poi: “Sei milioni di ebrei in Ucraina in Polonia hanno ricevuto la notizia che stanno per essere completamente sterminati”. Ma nel 1919 Hitler aveva appena finito di fare la staffetta nella Prima Guerra Mondiale… Nel 1915 leggiamo: “Sei milioni di ebrei in Russia sono perseguitati, cacciati, umiliati, torturati, fatti morire di fame a migliaia, massacrati e oltraggiati, depredati”. Dalla metà del 1800 fino al 1900, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, sono sempre 6 milioni di ebrei. Un popolo che viene massacrato diminuisce di numero: noi conosciamo la storia dei nativi americani, sterminati dai cristiani spagnoli in nome dell’amore di Cristo. La stessa storia: perseguitati, cacciati, umiliati, torturati, fatti morire di fame, massacrati, oltraggiati, depredati. Cioè: se togliamo “ebrei” e ci scriviamo “nativi americani” è esattamente la stessa roba. Solo che sono passati da 80 milioni a 10. E i soli abitanti del Messico sono passati da 20 milioni a 2. Gli ebrei invece rimangono sempre 6 milioni, per 70 anni.Sempre 6 milioni: uno ha diritto di farsi una domanda? Ecco in Rete mi è stato sempre detto pubblicamente che io non ho il diritto di coltivare questa curiosità. Non ne ho il diritto, perché è una curiosità che non deve essere coltivata. Io collaboro con una persona (di cui per ora non faccio il nome, per prudenza) che è una laureata in legge e, in questo momento, sta esaminando circa 5.000 documenti del secolo scorso. Vengono fuori siti ebraici di rabbini dove c’è scritto che è già presente nella Bibbia il fatto che 6 milioni di ebrei dovessero morire per consentire agli ebrei di tornare in Israele. Ed è presente proprio dove si parla del ritorno degli ebrei. Per esempio, nel sito di Solomon Cohen “La nostra agenda giudaica” c’è scritto che «è proprio a causa di questa profezia che noi abbiamo anticipato che 6 milioni della nostra gente devono morire prima che a noi sia permesso di tornare in Israele». Questa roba qui è scritta nel “New York Times” del 6 novembre 1900, quando Hitler aveva da poco ho finito di succhiare il latte. Quindi, ripeto: non sto negando la Shoah, non posso certo essere messo sotto processo per negazionismo. Le fonti scrivono che, nel Levitico, alla parola che significa “ritornerete” manca una lettera, la “vav”, che ha valore numerico 6. E dicono che, siccome manca questa lettera, significa che 6 milioni di ebrei non potranno tornare in Israele.Ora, io non sto dicendo che questa sia una profezia vera (nella Bibbia, le profezie sono costruite ex-post). Ma loro scrivono che 6 milioni devono morire prima che agli ebrei sia concesso di ritornare. E dicono, in base al conteggio numerico “ghematrico” che addirittura la Bibbia contiene la data del ritorno in Israele – il 1948 – dopo che saranno morti 6 milioni di ebrei. Questa cosa qui la fanno addirittura risalire al “Sefer ha Zohar”, cioè il libro dello Zohar o Libro dello Splendore, che è una delle Bibbie della Cabala ebraica scritta del 1200. Un testo molto discusso: per alcuni è una vera cialtroneria, per altri invece è un testo che contiene antica saggezza (è scritto in aramaico antico, come se fosse stato scritto prima). Comunque, quello c’è scritto: l’assenza di quella famosa “vav” nel Levitico indicherebbe che, prima che gli ebrei possono tornare, ne devono morire, scomparire, 6 milioni. Lo scrivono anche nei loro siti. Benjamin Netanyahu, nella “Rivista del Mondo Giudaico”, avverte Putin che l’Iran vuole uccidere 6 milioni di ebrei. La giornalista e intellettuale ebrea Elena Loewenthal, due anni fa, ha scritto sulla “Stampa”: «Finalmente gli ebrei di Israele hanno di nuovo superato i 6 milioni».Allora, mi dico, uno ha il diritto di porsi delle domande e di coltivare delle curiosità, anche se so bene che le risposte a certe domande possono essere estremamente pesanti. Perché vuol dire capire chi è che sulla base di questa profezia, vera o presunta che sia – peggio ancora se è presunta, perché vuol dire che lo si è costruito appositamente. Vuol dire che, sulla base di questo, qualcuno ha deciso che, prima ancora che Hitler nascesse, 6 milioni di ebrei comunque dovevano morire. Sono domande alle quali poi devono rispondere gli storici, certo non io. Però queste cose ci possono aiutare a capire in che mondo viviamo, se 6 milioni di ebrei morti erano il “passaporto” per Israele: un “passaporto” che sarebbe stato previsto già dalla Bibbia, addirittura – o, se la Bibbia non l’ha previsto, hanno fatto in modo di farlo prevedere alla Bibbia. Chi e perché? Questo ce lo devono spiegare loro: io mi limito a leggere le loro fonti. Non so se questa “profezia” sia vera oppure no, ma se non è vera è ancora più grave, perché vuol dire che si è inventata una cosa per metterne in piedi una drammatica. E’ così, dunque, o sono io che faccio ragionamenti da mentecatto? Diciamo che faccio ragionamenti in libertà su argomenti di cui non dovrei parlare. Capite allora che, di fronte a certi discorsi, bisogna veramente avere la mente molto aperta e avere la voglia di porsi delle domande.(Mauro Biglino, dichirazioni rilasciate nell’ambito della conferenza pubblica tenuta a Reggio Emilia il 20 giugno 2018, ripresa su YouTube – minuti 45-58).C’è il fatto che noi dobbiamo credere vere tutta una serie di cose, e le dobbiamo credere vere senza porci delle domande, perché alle volte il porci delle domande significa avere dei dubbi, che sono secondo me l’unica vera forma di libertà. Quando Gesù diceva “la verità vi renderà liberi”, non intendeva ciò che gli viene attribuito, sapete, perché se c’è una cosa che rende schiavi è proprio la verità. Guardate tutti quelli che sono convinti di avere una verità: sono schiavi di quella verità, non sono più liberi neppure di provare a pensare diversamente. C’è la verità filosofica, ben diversa da quella teologica, ma ciò che rende veramente liberi è il dubbio. Ed è per questo che chi governa non vuole mai che noi si abbia dei dubbi. Perché se abbiamo dei dubbi poniamo delle domande, così come io adesso porrò alcune domande (stando bene attento cosa dico, per non finire in tribunale). Il più volte ho detto, nelle conferenze, che il discorso dei 6 milioni di ebrei morti nella Shoah era conosciuto dalla seconda metà del 1800 ed era già scritto nelle riviste giudaiche della seconda metà del 1800. Era anche scritto nei all’inizio del ‘900 nei più importanti quotidiani americani, statunitensi e e canadesi, dove si parlava esattamente di 6 milioni di ebrei che stavano morendo o “dovevano” morire nel sud-est dell’Europa.
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Roma Caput Mundi: gesuiti e massoni, il piano di Bannon
In questi giorni si parla molto di Steve Bannon e del suo ruolo nelle negoziazioni che hanno portato alla formazione del governo Lega-5Stelle. Il super-consulente di Trump, nonchè ex membro del Cda di Cambridge Analytica, poi apparentemente caduto in disgrazia, non solo ha proclamato che l’accordo Lega-M5S è nato su suo suggerimento, ma ha spiegato chiaramente i perchè. Ovviamente, a chi ha orecchie per intendere. Ma chi è questa eminenza grigia, che fino a due anni fa non conosceva nessuno, e che è dietro l’ascesa del presidente Usa? Per chi ci segue da tempo, è uno scherzo capirlo. Basta guardare la sua “provenienza”: Georgetown University, l’importante università gesuita di Washington, dove si forma l’élite gesuitica statunitense che stranamente finisce sempre per dettare le politiche di tutti i presidenti Usa da almeno 50 anni. E’ quella infatti la “casa” che ha formato Kissinger, Brzezinski, e migliaia di altre eminenze grigie minori, i gradini visibili del potentato del così detto Papa nero. Una casa che non fa distinzioni religiose, o di credo politico. Infatti la sua specialità è infilare i propri membri in tutte le organizzazioni che contano, dalla famosa e sopravvalutata lobby ebraica, agli altri ordini e potentati, come Opus Dei e massonerie varie, giù fino ai partiti, indifferentemente di finta destra o finta sinistra, o estremisti.Tutti specchietti: quello che conta è che ci sia sempre qualcuno dei loro a prendere le decisioni e/o a dare i consigli “giusti” al momento giusto. L’educazione di Bannon prosegue ad Harvard, l’università Ivy League dove molti dei futuri “movers and shakers” dell’establishment americano (e non) trovano, oltre alla cultura, i “fratelli” che li guideranno e accompagneranno nel loro percorso. D’altronde lo schema è chiaro e ripetuto in tutto il mondo, dove conta: ad esempio Georgetown ha aperto una branca qualche anno fa in Qatar, Stato creato e gestito dalla massoneria inglese. Lì si formano i dirigenti del golfo del petrolio, i cui proventi vengono in parte utilizzati per aizzare il divide et impera, come ad esempio sovvenzionare l’islamismo radicale di stampo wahabita, cosucce tipo l’Isis. In Italia non abbiamo bisogno di Georgetown, d’altronde qui abbiamo quello che si dice il “real deal”, non abbiamo certo bisogno d’importare professori del circuito gesuita. Al limite li esportiamo. Per esempio a Malta, dove uno strano elemento della Prima Repubblica va a chiedere se gli fanno aprire una branca dell’università di Malta a Roma. Branca che poi diventa università che da subito attrae e forgia i funzionari d’élite della difesa italiana. Gente che non conosceva nessuno, fino a ieri, e tutto a un tratto te li ritrovi, che so, ministro della difesa.Chissà poi perchè l’hanno chiamata “link”: collegamento. Certo, un collegamento fondamentale che viene in mente è quello tra i Cavalieri di Malta e i gestori dell’isola: gli inglesi. Ma tornando a Bannon, è chiaro che in questo momento, evidentemente, i consigli giusti li dà lui. Per lo meno ad un lato della scacchiera politica. Un perfetto prototipo dell’agente gesuito-massone. Non deve quindi stupire che uno come lui, apparentemente lontano da personaggi che più visibilmente rappresentano l’espressione del potere dominante, sia stato in grado non solo di influenzare il così detto fronte populista, ma anche e soprattutto di farlo mandare giù a chi sembrava opporsi. “Ma aspetta”, dirà allora il lettore attento: “L’espressione dei gesuito-massoni non erano i vari Monti, Letta, Draghi, Mattarella, Renzi? E se sì, perchè appoggiano il fronte contrario? Non ha senso!”. E superficialmente è così. Ma quando si analizza l’operato di strutture che funzionano sulla base del “divide et impera” e de “il fine giustifica i mezzi”, occorre sempre tenere a mente: a) il fine ultimo perseguito dalla struttura, e b) che il “divide”, per funzionare veramente, va applicato a 360°, ovvero anche e soprattutto ai membri stessi della struttura.Ricordiamoci allora qual è il “fine”: rallentare o impedire lo sviluppo delle coscienze individuali. Questo fine è generalmente noto solo ai gradini più alti della struttura. Gli altri operano nell’ignoranza dello scopo, così che possano essere puntati contro qualsiasi bersaglio in qualsiasi momento, con la scusa appropriata, e così che possano essere sempre tenuti sulla corda dalla competizione interna. Cosa ha a che vedere questo con il supporto a Lega e 5S? Come appunto dichiara serenamente Bannon: «Siete i primi a poter davvero rompere il paradigma sinistra-destra», avrebbe detto ai suoi interlocutori, come racconta al “Nyt”. «Potete mostrare che il populismo è il nuovo principio organizzatore». Lo stratega americano si dice convinto, tra le altre cose, che «altri paesi europei seguiranno l’esempio dell’Italia» (fonte: “Il Giornale”). Dunque, finalmente qualcuno si sbilancia e dichiara apertamente che, qui e ora, si sta attuando il cambio di paradigma di cui parliamo da anni su queste pagine.Destra e sinistra, il paradigma con il quale ci hanno preso in giro per secoli, non regge più, specialmente all’ombra dell’accentramento che deve essere portato avanti: ormai la maggior parte delle persone si sono rese conto che le differenze tra i vecchi schieramenti destra-sinistra sono diventate puramente cosmetiche, dato che le decisioni importanti hanno un indirizzo solo: quello “neoliberista” delle politiche imposte da Bruxelles. Quindi il paradigma utile, quello con cui possono continuare a prenderci in giro per almeno qualche decina d’anni è quello “Populisti Vs. Europeisti”. E basta aprire il vostro social preferito per vedere che in realtà, a parte qualche vecchio “aficionado” alla bandierina rossa o nera, gli irriducibili incapaci di uscire dalla sicurezza e comodità del comodo vecchio schema a cui sono abituati, gli schieramenti di consenso reali ruotano intorno a “Europa sì, Europa no”. In varie salse. La preparazione ed il miscuglio di queste salse è e sarà lo sport di chi ci vorrà menare per il naso nei prossimi anni, se non decenni.Ed è per questo che Bannon, allievo di Georgetown, viene qui a criticare un allievo del gesuita padre Bartolomeo Sorge, come il nostro Presidente, che a sua volta fa finta di ostacolare la nascita di un governo populista, che poi alla fine NON non ostacola. Ecco invece un’altra dichiarazione di Bannon riportata dal Televideo. Una dichiarazione più unica che rara, che non si riesce a capire se gli sia sfuggita nella foga, o l’abbia fatta di proposito. Bannon: «Questa Unione Europea è finita». Salvini e Di Maio? «Due giovani leader che hanno rinunciato alla premiership per un obiettivo più alto». Così Bannon, l’ex stratega di Trump che è tornato in Italia, a Roma, perché la capitale «è il centro del mondo», dice a “Repubblica”. Bannon confida di «aver esortato Salvini» a fare un governo con il M5S: «Ho dato consigli che sono stati ascoltati». Per Bannon «l’Unione Europea è finita, come sono finiti i diktat europei e il fascismo dello spread», e preconizza: «Presto avrete una confederazione di Stati liberi e indipendenti».Analizziamola: “Questa Ue è finita” – questo non è che reiterare che il paradigma è cambiato definitivamente. E’ l’annuncio urbi et orbi, fatto da un allievo dei gesuiti, che la modalità di conduzione della Ue (gestita dallo stesso potere nelle persone di Draghi, Monti, Barroso, Van Rompuy, ecc) , per continuare ad andare avanti realmente, deve cambiare: deve smettere di essere vista come un monoblocco burocratese imposto dall’alto, ma deve essere vista come luogo d’incontro democratico, con forze che scendono a patti. Enfasi su “ESSERE VISTA essere vista”. Ma non è questa l’informazione più golosa. E’ questa: «La capitale è il centro del mondo». Questo, per i più, è veramente incredibile. Verrà infatti presa per piaggeria: il potentone straniero che viene qui a darci il contentino e a dire che contiamo qualcosa. Ma non dicono mai queste parole, quando lo fanno. Quando è piaggeria dicono “l’Italia è un partner importante”. Qui Bannon non parla di Italia. Parla di Roma, ma non di quella della Raggi, tanto per intenderci. Manda un messaggio ben preciso a chi ha orecchie per intendere: “Sto qui a fare il lavoro di chi comanda davvero”. «Ho dato consigli che sono stati ascoltati». Non ha bisogno di spiegazioni: ha fatto il mestiere suo, quello per cui l’hanno preparato a Georgetown. Il resto è una reiterazione del primo punto. Ma perchè fare tutta questa manfrina?Perchè il modo in cui hanno portato avanti la creazione del Super-Stato Europeo finora sta cominciando a creare più problemi di quanti ne risolva, a chi comanda. Il dissenso ha numeri talmente importanti, che DEVE deve essere controllato e manovrato. Ma ciò è comunque un bene per le persone: il confronto populisti-europeisti dovrà per forza di cose far cadere qualche briciola di libertà in più. Quasi certamente la maggior parte delle concessioni saranno cosmetiche, libertà secondarie per lo più. Ma opportunità da cogliere. Come disse Steiner, «l’Italia traccia le strade»: è proprio qui, proprio in questi giorni, che stiamo assistendo al varo concreto di un progetto in preparazione da anni. Finalmente il cambio di paradigma diventa reale: ora c’è un governo “populista” in uno dei paesi fondatori della Ue, suggerito da un gesuita-massone, che da oggi è sia spauracchio e controparte di un governo europeo dominato dai gesuito-massoni, sia fonte d’ispirazione per altri grandi paesi. Affinchè il fronte si allarghi, e l’opinione pubblica continentale possa nuovamente essere divisa in due schieramenti che potranno essere menati per il naso con argomenti e mosse simili a quelle usate il secolo scorso quando la divisione era destra/sinistra.(Enrico Carotenuto, “Steve Bannon: la capitale è il centro del mondo – cosa significa?”, da “Coscienze in Rete” del 4 giugno 2018).In questi giorni si parla molto di Steve Bannon e del suo ruolo nelle negoziazioni che hanno portato alla formazione del governo Lega-5Stelle. Il super-consulente di Trump, nonchè ex membro del Cda di Cambridge Analytica, poi apparentemente caduto in disgrazia, non solo ha proclamato che l’accordo Lega-M5S è nato su suo suggerimento, ma ha spiegato chiaramente i perchè. Ovviamente, a chi ha orecchie per intendere. Ma chi è questa eminenza grigia, che fino a due anni fa non conosceva nessuno, e che è dietro l’ascesa del presidente Usa? Per chi ci segue da tempo, è uno scherzo capirlo. Basta guardare la sua “provenienza”: Georgetown University, l’importante università gesuita di Washington, dove si forma l’élite gesuitica statunitense che stranamente finisce sempre per dettare le politiche di tutti i presidenti Usa da almeno 50 anni. E’ quella infatti la “casa” che ha formato Kissinger, Brzezinski, e migliaia di altre eminenze grigie minori, i gradini visibili del potentato del così detto Papa nero. Una casa che non fa distinzioni religiose, o di credo politico. Infatti la sua specialità è infilare i propri membri in tutte le organizzazioni che contano, dalla famosa e sopravvalutata lobby ebraica, agli altri ordini e potentati, come Opus Dei e massonerie varie, giù fino ai partiti, indifferentemente di finta destra o finta sinistra, o estremisti.
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Reddito di cittadinanza: è il piano (infernale) degli oligarchi
Mark Zuckerberg non ha bisogno di presentazioni: mister Facebook vale 64 miliardi di dollari. Altro paperone-prodigio: il sudafricano Elon Musk, patron di Tesla e Space-X. Cos’hanno in comune, a parte i giacimenti aurei? La fede nel reddito di cittadinanza. La pensano così anche l’americano Richard Branson della Virgin e il canadese Stewart Butterfield, l’inventore della banca-immagini Flickr e di Slack, applicazioni per messaggerie. Uomini d’oro e potenti oligarchi, improvvisamente anche umanitari: si stanno battendo a favore del reddito di base garantito, osserva Chris Hedges, a lungo corrispondente estero del “New York Times”. «Sembra che siano dei progressisti e che esprimano queste loro proposte con parole che parlano di morale, prendendosi cura degli indigenti e dei meno fortunati». Ma dietro questa facciata, scrive Hedges, c’è una cruda consapevolezza: soprattutto la Silicon Valley «vede un mondo – quello che questi oligarchi hanno contribuito a creare – tanto iniquo che i consumatori di domani, che dovranno sopportare la precarietà del lavoro, salari sotto i minimi, l’automazione e la schiavitù di un debito che blocca tutto, non saranno in condizione di spendere abbastanza per comprare i prodotti e i servizi offerti dalle grandi corporations».
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Non basta uscire da Facebook, va chiusa anche WhatsApp
Non è così facile “mollare” Facebook e la sua rete di collegamenti: per uscire dal “radar” del più vasto social network al mondo, infatti, non basta cancellare il proprio profilo. Lo spiega Paolo Magliocco sulla “Stampa”, pensando soprattutto all’esodo di massa che sarebbe in corso: molti utenti sono infatti intenzionati ad abbandonare la piattaforma digitale più diffusa sul pianeta, dopo lo scandalo Cambridge Analytica: i dati di 50 milioni di statunitensi registrati da Facebook sono stati poi utilizzati da una società privata per la campagna elettorale presidenziale del 2016 ch ha incoronato Donald Trump. L’accusa: trasferendo i Big Data, Facebook ha consentito agli uomini reclutati da Steve Bannon di conoscere in anticipo l’orientamento elettorale di milioni di americani, “leggendo” alla perfezione anche il loro profilo psicologico, le loro abitudini, le loro intenzioni e forse anche i loro pensieri più reconditi, neppure ancora espressi. Alcuni utenti di Facebook adesso «hanno scoperto che i dati conservati dal social network sono molto più ampi di quanto immaginato». Dati che infatti «comprendono il registro di telefonate e messaggi di ogni genere, da Messenger a Whatsapp e agli Sms». Il movimento “#deletefacebook” ha raccolto adesioni di persone note, come la cantante Cher, l’industriale Elon Musk (proprietario di Tesla e SpaceX) e il cofondatore di Whatsapp, Brian Acton.Il patron di Facebook, Mark Zuckerberg, ha detto al “New York Times” di non ritenere che ci sia stato un numero significativo di abbandoni di Facebook. Molti siti, aggiunge “La Stampa” hanno intanto spiegato che, in realtà, cancellare il proprio account non è sufficiente per smettere di fornire dati al social network. La canadese “Ctv News” ricorda (pubblicando il contenuto anche su Facebook) che la società di Zuckerberg ha acquisito Instagram nel 2012 e poi i sistemi di messaggistica Cros e Whatsapp, nonché la società per lo sviluppo di realtà virtuale OculusVr e lo stesso Tbh, il social network usato soprattutto dai più giovani. L’amara soerpresa? «I termini per l’uso dei dati e la privacy di queste società permettono lo scambio di dati con Fb», scrive Magliocco. «La società di Zuckerberg, quindi, continuerebbe a raccogliere informazioni sulle persone attraverso queste altre app, se non vengono anch’esse abbandonate». E non è tutto: pure utilizzare il proprio account di Facebook per risparmiare tempo quando ci si iscrive ad altre applicazioni, come Airbnb, «probabilmente mette in collegamento i dati registrati da queste app con il social network». Se si vuole sapere quali siano queste applicazioni “contagiose” si può accedere al loro elenco attraverso il menù “impostazioni”.Inoltre, come ha dimostrato proprio il caso di Cambridge Analytica, i dati possono essere raccolti anche attraverso il collegamento con gli altri, aggiunge la “Stampa”: «Per essere certi che le proprie informazioni siano al sicuro non bisognerebbe essere in contatto con altre persone attraverso applicazioni che, nelle impostazioni usate da queste persone, siano potenzialmente collegate con Facebook». Ma ci vuol altro, per scoraggiare gli utenti di Facebook – ormai 2 miliardi, in tutto il mondo. Il quotidiano torinese cita lo psicanalista Aaron Balick, autore del libro “The Psychodynamics of Social Networking”, intervistato dall’edizione britannica di “Wired”. Per Balick, il problema nel lasciare Facebook sarebbe soprattutto di ordine psicologico: la preoccupazione per la propria privacy non supererebbe ancora la comodità di mantenere rapporti attraverso il social network, perché «a questo punto Facebook è integrato nelle nostre vite di relazione». Come dire: sappiamo di essere in trappola, ma ci restiamo tranquillamente. E pazienza se ogni nostro sospiro viene schedato e tradotto in numeri, a beneficio del marketing o del controllo politico.Non è così facile “mollare” Facebook e la sua rete di collegamenti: per uscire dal “radar” del più vasto social network al mondo, infatti, non basta cancellare il proprio profilo. Lo spiega Paolo Magliocco sulla “Stampa”, pensando soprattutto all’esodo di massa che sarebbe in corso: molti utenti sono infatti intenzionati ad abbandonare la piattaforma digitale più diffusa sul pianeta, dopo lo scandalo Cambridge Analytica: i dati di 50 milioni di statunitensi registrati da Facebook sono stati poi utilizzati da una società privata per la campagna elettorale presidenziale del 2016 ch ha incoronato Donald Trump. L’accusa: trasferendo i Big Data, Facebook ha consentito agli uomini reclutati da Steve Bannon di conoscere in anticipo l’orientamento elettorale di milioni di americani, “leggendo” alla perfezione anche il loro profilo psicologico, le loro abitudini, le loro intenzioni e forse anche i loro pensieri più reconditi, neppure ancora espressi. Alcuni utenti di Facebook adesso «hanno scoperto che i dati conservati dal social network sono molto più ampi di quanto immaginato». Dati che infatti «comprendono il registro di telefonate e messaggi di ogni genere, da Messenger a Whatsapp e agli Sms». Il movimento “#deletefacebook” ha raccolto adesioni di persone note, come la cantante Cher, l’industriale Elon Musk (proprietario di Tesla e SpaceX) e il cofondatore di Whatsapp, Brian Acton.
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Cambridge Analytica e Facebook: vittime 50 milioni di utenti
Una macchina devastante: manipolazione di massa, via Facebook, a scopo politico. Dietro allo scandalo Cambridge Analytica che sta facendo crollare in Borsa il social network di Mark Zuckerberg (2 miliardi di utenti, quasi 9 miliardi di dollari in pubblicità nel 2017) emerge una squadra formata da personaggi capaci di mettere insieme tecnologia, finanza e politica. Sono il “genietto pentito” Christopher Wylie, lo stratega trumpiano Steve Bannon, il miliardario Robert Mercer affascinato dall’intelligenza artificiale, il “manipolatore della psiche” Aleksandr Kogan e il manager Alexander Nix. «Una storia di profili rubati, manipolazioni, forse anche di tangenti e di corruzione», scrive Giuseppe Sarcina sul “Corriere della Sera”. Due gli obiettivi: spingere la Gran Bretagna fuori dall’Europa e Donald Trump verso la Casa Bianca. Un racconto reso possibile da una straordinaria inchiesta giornalistica del “Guardian”, firmata da Carole Cadwalladr. La reporter ha scavato per un anno sui retroscena della Brexit, fino a convincere Wylie a svelare i misteri della Cambridge Analytica. Il suo lavoro si è poi sommato all’indagine del “New York Times”. Tutto nasce nel 2013, quando sbarca a Londra un giovanotto canadese di 24 anni, Wylie, specialista in tendenze della moda, con un’idea sovversiva: rivoluzionare il marketing politico grazie a una specie di “porta a porta” digitale. «Si raccolgono i profili delle persone, si analizzano e poi si confeziona un messaggio su misura».Wylie prepara così il contenitore da cui nascerà Cambridge Analytica, la società di analisi da lui stesso fondata. Nel 2014 l’incontro con Steve Bannon, a cui offre «gli strumenti per la sua guerra psicologica». Per convincere il direttore di “Breibart”, la voce online della destra radicale americana, il «gay-vegano-canadese» Christopher usa la metafora dei sandali Crocs: «Non si può dire che siano belli, eppure tutti li vogliono». Si trattava solo di mettere la Brexit (e poi Trump) al posto dei sandali, scrive Sarcina. E i soldi per l’operazione? Bannon chiede l’appoggio di Robert Mercer, 71 anni, informatico tra i primi ad applicarsi all’intelligenza artificiale (poi approdato al misterioso e quasi “mistico” hedge fund Renaissance Technologies). Con un portafoglio di oltre 25 miliardi di dollari, Robert Mercer e la figlia Rebekah «sono finanziatori generosi delle varianti più conservatrici della politica americana e non solo», ricorda il “Corriere”. Hanno comprato quote in “Breitbart” e si sono appresati a sostenere Cambridge Analytica. Dove e come procurarsi i profili dei navigatori? Ci ha pensato Aleksandr Kogan, 31 anni, nato in Moldavia e cresciuto a Mosca fino all’età di 7 anni, quando la famiglia emigrò negli Stati Uniti.Kogan ha studiato psicologia a Berkeley e ha conseguito un Phd (dottorato di ricerca) all’università di Hong Kong. Nel 2012 è diventato assistente alla cattedra di psicologia a Cambridge, in Gran Bretagna. Ha condotto ricerche sofisticate, ma per la Analytica ha creato la app “Thisisyourdigitallife”, che offre «un esame della personalità compiuto da un team di psicologi». Kogan l’ha collocata sulla piattaforma Facebook, “catturando” subito 270 mila utenti. In realtà, scrive Sarcina, quell’applicazione «è una specie di sifone usato per risucchiare i dati sensibili dei sottoscrittori e dei loro amici». Un’enormità: «In totale 51 milioni di profili sottratti senza il consenso degli interessati: materiale prezioso per gli intrugli di Bannon». A gestire – come manager – il meccanismo è stato Alexander Nix, 42 anni, di Londra, reduce da studi all’Eton College (la scuola dell’establishment britannico), con laurea all’università di Manchester. Nel 2003, Nix ha lasciato la finanza per occuparsi di «comportamento e comunicazione politica». Ha diretto lo Strategic Communication Laboratories Group, fino a quando Bannon e Mercer l’hanno scelto come amministratore delegato di Cambridge Analytica (ora sospeso dalla società, per un video trasmesso da “Channel 4 News” in cui «si vede il distinto manager offrire “belle ragazze dell’Ucraina” per discreditare l’avversario politico di un suo cliente nello Sri Lanka».Una macchina devastante: manipolazione di massa, via Facebook, a scopo politico. Dietro allo scandalo Cambridge Analytica che sta facendo crollare in Borsa il social network di Mark Zuckerberg (2 miliardi di utenti, quasi 9 miliardi di dollari in pubblicità nel 2017) emerge una squadra formata da personaggi capaci di mettere insieme tecnologia, finanza e politica. Sono il “genietto pentito” Christopher Wylie, lo stratega trumpiano Steve Bannon, il miliardario Robert Mercer affascinato dall’intelligenza artificiale, il “manipolatore della psiche” Aleksandr Kogan e il manager Alexander Nix. «Una storia di profili rubati, manipolazioni, forse anche di tangenti e di corruzione», scrive Giuseppe Sarcina sul “Corriere della Sera”. Due gli obiettivi: spingere la Gran Bretagna fuori dall’Europa e Donald Trump verso la Casa Bianca. Un racconto reso possibile da una straordinaria inchiesta giornalistica del “Guardian”, firmata da Carole Cadwalladr. La reporter ha scavato per un anno sui retroscena della Brexit, fino a convincere Wylie a svelare i misteri della Cambridge Analytica. Il suo lavoro si è poi sommato all’indagine del “New York Times”. Tutto nasce nel 2013, quando sbarca a Londra un giovanotto canadese di 24 anni, Wylie, specialista in tendenze della moda, con un’idea sovversiva: rivoluzionare il marketing politico grazie a una specie di “porta a porta” digitale. «Si raccolgono i profili delle persone, si analizzano e poi si confeziona un messaggio su misura».
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Pantani ucciso dai boss del doping che lanciarono Armstrong?
Vuoi vedere che Pantani è stato distrutto e poi eliminato anche per evitare che facesse ombra a Lance Armstrong, il super-campione (artificiale) vicino ai Bush? Doping, ciclismo e morte: secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’industria segreta del doping usa i ciclisti come cavie per sperimentare nuove, micidiali droghe, destinate a soldati e guerriglieri: un business colossale, realizzato con la copertura di case farmaceutiche e gestito da poteri “supermassonici” pronti a eliminare fisicamente chiunque osi ribellarsi. Come Pantani, per esempio. La sua fine? Un monito, per qualsiasi altro ciclista che avesse provato a rifiutare la siringa. Supermassoni reazionari i Bush, “padrini” di Armstrong. Esoteristi, probabilmente, anche i killer di Pantani: lo afferma Lara Pavanetto, analizzando lo strano messaggio “alchemico” rinvenuto nella stanza in cui il campione romagnolo morì. Per Paolo Franceschetti, avvocato per lunghi anni, quel delitto è “firmato” Rosa Rossa, potente associazione occultistica all’origine di svariati crimini eccellenti, come quello del Mostro di Firenze: il delitto rituale come pratica “magica”, e il clamore mediatico come utile mezzo per spaventare l’opinione pubblica, rendendola più docile verso l’autorità costituita. Il ribelle Pantani? Andava puntito e infangato con la pena del contrappasso. Hai denunciato il doping? Bene, morirai disonorato: spacciato per cocainomane.Sono in tanti, a livello internazionale, ad aver ormai capito che il delitto Pantani era a doppio fondo. Lo sostiene la Pavanetto, autrice di originali ricerche storiche. Sul suo blog cita due giornalisti: il francese Pierre Ballester, già inviato de “L’Equipe”, e l’inglese David Walsh, del “Sunday Times”. Nel loro libro “L.A. Confidential, i segreti di Lance Armstrong”, avanzavano già nel 2004 pesanti sospetti sulle sei vittorie consecutive di Armstrong al Tour, dal 1999 al 2004, dopo il primo campionato del mondo vinto nel ‘92. Successi strabilianti, quelli del Tour, che avevano sollevato pesanti dubbi, dopo la gravissima malattia che aveva tolto Armstrong dalle corse per un paio d’anni, dalla fine del ‘96 a metà del ‘98. Tumore: asportazione di un testicolo, intervento chirurgico su gravi metastasi ai polmoni e al cervello, pesantissime cure chemioterapiche. Vengono in mente le parole del Pirata, citate nel libro del giornalista francese Philippe Brunel, “Gli ultimi giorni di Marco Pantani” (Bur, 2008): «Non hai fatto il corridore? Tu lo sai cosa vuol dire scalare una montagna, correre sotto il caldo. Credi davvero che si possa vincere il Tour dopo aver battuto il cancro?». Con il loro libro, annota Pavanetto, Ballester e Walsh avevano anticipato un’inchiesta pubblicata nel 2001 dallo stesso Walsh sul “Sunday Times”, dal titolo “Suspicion”. Il giornalista era partito dalla denuncia di un ex corridore junior, Greg Strock: secondo i suoi allenatori, Armstrong «aveva valori biologici eccezionali che non si trovavano in Usa dai tempi di Lemond».Nel 2000, ricorda Lara Pavenetto, Strock si era laureato in medicina. Grazie alle competenze acquisite, aveva denunciato la Federazione americana per averlo sottoposto a un doping sistematico che lo aveva fatto ammalare, fino a costringerlo allo stop dell’attività. Anche Armstrong, nota Walsh, era in nazionale in quel periodo. Strock chiamava in causa due tecnici della nazionale, uno dei quali, Chris Carmichael, era uno dei personaggi più vicini ad Armstrong da sempre. Nell’inchiesta si parlava anche del licenziamento improvviso dalla Us Postal (la squadra di Armstrong sponsorizzata dal ministero delle Poste statunitense) nel 1996. Fu licenziato anche il medico Steffen Prentice, che secondo Strock si era rifiutato di dopare dei ciclisti della squadra. Walsh raccolse anche la dichiarazione di un ex professionista, compagno di Armstrong alla Motorola dal 1992 al 1996, che sotto anonimato dichiarò: «Passammo all’epo nel 1995 perché non si vinceva, e avevamo avuto un 1994 nero». In “L.A. Confidencial”, Ballester e Wash hanno ricostruito anche il caso del litigio fra Armstrong e Greg Lemond a proposito di Michele Ferrari, il medico italiano coinvolto in numerosi processi di doping in Italia e difeso a spada tratta dal corridore texano. Ma la parte più interessante del racconto, scrive Lara Pavanetto, riguarda la testimonianza di Emma O’Really, massaggiatrice per tre anni (a partire dal 1998) dell’Us Postal, la squadra del trionfatrice al Tour.Nel giugno del 1999, la O’Really registra sul suo diario un colloquio con Lance. L’americano le dice che, con l’ematocrito basso, non si possono fare grosse performace. Lei allora gli chiede cosa intenda fare: «Quello che fanno tutti gli altri», ribatte lui, che più tardi, durante il Tour, le chiederà anche di coprire con fondotinta i segni delle iniezioni sulle braccia. L’americano fu trovato positivo ai corticoidi ad un controllo al Tour de France del 1999, ma fu discolpato dall’Uci (Unione ciclismo internazionale) dopo aver spiegato di aver «utilizzato una pomata contenente una sostanza vietata per curare una ferita procuratagli dal sellino della bicicletta». Armstrong affermò sempre di non avere mai assunto prodotti vietati, neppure a causa del suo tumore, che gli provocava una carente produzione fisiologica di testosterone, con la necessità dunque di assumerlo. Il libro riporta anche i pareri di scienziati illustri, i quali ritenevano umanamente impossibile – dopo un tumore, metastasi, operazioni, chemioterapie – andare forte come Armstrong, e vincere sei Tour de France.A Philippe Brunel, per il libro uscito nel 2002, Marco Pantani confida: «E’ strano, ogni volta che si parla di Armstrong tutti stanno zitti, come se nessuno avesse un’opinione. Io, in ogni caso non ci credo. E non ci crederò mai. È un personaggio finto, una specie di eroe dei fumetti – guarda, è Spiderman. Ora, chi l’ha creato? Chi lo ha voluto così? Non ne so nulla. Ma sono troppo realista per credere alla sua storia». Ma Lance Armstrong in quegli anni poteva fare e dire di tutto, e – come diceva Pantani – nessuno sembrava vedere nulla. Era “invicibile”, Armstrong. «L’amico dei repubblicani, l’amico di George W. Bush. L’amico di tanti politici e tante star di Hollywood. Armstrong sognava di correre un giorno per la poltrona di governatore del Texas e magari in seguito puntare anche alla Casa Bianca», scrive Pavanetto. Le sue perfomance “aliene” «avevano accelerato la mondializzazione di uno sport che storicamente era di matrice europea: grazie a lui, nel mondo del ciclismo la lingua inglese soppiantò il francese». Con Lance Armstrong diventarono volti abituali quelli dei cronisti del “New York Times”, del “Financial Times”, del “Wall Street Journal”, e quelli degli inviati di reti televisive come la “Cnn” o la “Cbs”, «che non perdevano una tappa se targata Armstrong: il re assoluto e incontrastato del ciclismo, temuto e idolatrato».Armstrong fu anche «l’amico di tanti potenti dello sport mondiale», e donò all’Uci centomila dollari nel 2000 per comprare dei macchinari antidoping. «Tutto quello che ha fatto Armstrong è stato possibile perché qualcuno gliel’ha permesso». Parafransando le parole di Pantani: «Chi lo ha creato? Chi l’ha voluto così?». Il doping serve a vincere, ma soprattutto a fare moltissimi soldi, ricorda Lara Pavanetto. «In due decenni di attività come ciclista professionista, grazie alle sponsorizzazioni, Lance Armstrong ha accumulato un patrimonio stimato attorno ai 125 milioni di dollari». Ma anche gli sponsor fanno fiumi di soldi col doping, «per cui la diffusione del fenomeno non è attribuibile solo ad atleti, allenatori, medici o direttori sportivi, ma anche a chi alimenta l’ingranaggio». Come l’Us Postal Service: «Fu lo sponsor di Armstrong tra il 2001 e il 2004, spese 32,27 milioni di dollari per sponsorizzare il team di Armstrong e ricevette benefici di immagine e marketing per 103,63 milioni». Come sottolineò l’avvocato di Armstrong, Tim Herman, a scandalo doping ormai scoppiato, «il ritorno per il ministero delle Poste statunitensi fu del 320% in quattro anni».I guai di Pantani, ricorda Pavanetto, iniziano il 5 giugno 1999 subito dopo l’arrivo a Madonna di Campiglio, penultima tappa di un Giro d’Italia che il Pirata aveva dominato e praticamente già vinto. «Sottoposto a un controllo del sangue, il suo ematocrito fu trovato fuori norma e, da regolamento, gli fu vietato di gareggiare per i seguenti 15 giorni. Il Giro dunque era perso». Anche le sue vittorie passate, a questo punto, vengono messe in discussione. «Tutta la sua carriera è messa in dubbio», tanto che Pantani non partecipò al Tour de France un mese dopo. «In quel momento era un campione nella sua fase di massimo rendimento: l’anno prima, il 1998, aveva vinto sia il Giro che il Tour. La sua popolarità era enorme e internazionale». Nel 2000, Pantani riuscì a prepararsi per partecipare al Tour e ne fu ancora un protagonista. Ma nel 2001 al Giro d’Italia ci fu la vicenda della siringa di insulina trovata nell’albergo dei ciclisti e attribuita a lui, che fu condannato. «Per questo episodio Leblanc, l’organizzatore del Tour, rifiutò l’iscrizione di Pantani all’edizione di quell’anno». Nel Giro del 2003, Pantani arrivò quattordicesimo, un risultato normale considerata la preparazione per forza scadente. «Quando Leblanc rifiutò nuovamente la sua iscrizione al Tour di quell’anno, Pantani gettò la spugna». Pochi mesi dopo, il 14 febbraio 2004, fu trovato morto nel residence “Le Rose” di Rimini, dove aveva soggiornato per una settimana, confermando l’alloggio giorno per giorno.Il motivo della morte fu fissato dal medico legale in overdose di cocaina, e ancora ad oggi questa è la versione ufficiale. «Nel frattempo c’erano anche stati i procedimenti giudiziari aperti contro di lui dalla giustizia ordinaria italiana, sempre per illecito uso di sostanze dopanti», scrive Pavanetto. «Alla fine Pantani era stato assolto da ogni reato, ma intanto sette Procure lo avevano portato a giudizio e le sue spese legali erano ammontate in totale a un miliardo e mezzo di lire». Nel frattempo comincia a brillare la stella di Lance Armstrong, che proprio a partire dal 1999 inizia a vincere “facile”: cinque Tour de France di fila (dal 1999 al 2003). «Ogni volta succede qualcosa che gli toglie di mezzo l’avversario più forte, cioè Marco Pantani: nell’edizione del ‘99 Pantani era assente per la vicenda di Madonna di Campiglio; in quella del 2000 era presente ma psicologicamente sotto pressione, il 2 marzo si era ritirato dalla Vuelta de Murcia per “stato acuto di stress”; al Giro aveva subito gli umilianti controlli medici a sorpresa dell’Uci; nelle successive gare Pantani era assente perché la sua iscrizione era stata respinta». Lara Pavanetto fa notare che nel 2000, pur nelle condizioni in cui era, il Pirata era stato l’unico ad attentare alla leadership di Armstrong: «Vinse due importanti tappe di montagna, una scalando il Mont Ventoux e l’altra a Courchevel». E’ indubbio che l’assenza di Pantani spianò la strada ad Armstrong.Alcuni mesi dopo la conclusione del Giro del 1999, continua Pavanetto, emerse l’ipotesi che Pantani fosse stato boicottato dall’ambiente delle scommesse clandestine italiane. Un’ipotesi che è ritornata prepotentemente in auge con due libri usciti di recente: “Pantani è tornato. Il complotto, il delitto, l’onore”, di Davide de Zan (Piemme, 2014), e “Il caso pantani. Doveva morire”, di Luca Steffenoni (Chiarelettere, 2017). Quella delle scommesse clandestine «resta sempre sullo sfondo ormai come unica ipotesi, quasi unico movente, assieme alla cocaina, della carriera rovinata del campione e poi della sua morte». Ma se lo scopo era quello di far perdere a Pantani, a due giornate dalla fine, un Giro che aveva già vinto per guadagnare sulle puntate, perché poi – si domanda Pavanetto – continuare il complotto negli anni successivi e nei vari livelli in Italia e in Francia, e presso l’Unione Ciclistica Internazionale? «E chi mai, nell’ambiente delle scommesse clandestine italiane, avrebbe avuto tali poteri di manipolazione a livello mondiale?». Ancora: «Il fatto che il ministero delle Poste americano sponsorizzasse uno squadrone ciclistico che, si può ben dire, andò all’attacco del ciclismo europeo, non è mai sembrato strano a nessuno?».Soltanto dopo la morte di Pantani si seppe che la “prodigiosa” ascesa di Lance Armstrong «fu viziata da un uso criminale del doping, per vincere a tutti i costi». Ma, appunto: «Nessuno all’epoca vide nulla?». Come disse Pantani: «E’ strano, ogni volta che si parla di Armstrong tutti stanno zitti, come se nessuno avesse un’opinione». Forse, conclude Lara Pavanetto, «era molto pericoloso avere un’opinione sullo squadrone e sulla star della Us Postal Service». E a quanto sembra, «ancora oggi è meno pericoloso avere un’opinione sulle scommesse della criminalità organizzata, che sulla storia dell’Us Postal Service». Si può parlare con una certa tranquillità delle scommesse clandestine gestite dalla mafia attorno al ciclismo delle gare truccate, mentre resta estremamente rischioso, ancora oggi, aprir bocca «sulla strana sincronicità degli eventi che videro tramontare la stella del Pirata e sorgere, luminosa e prepotente, quella di Lance Armstrong».Sulla misteriosa morte di Pantani, dice Pavanetto, resta fondamentale l’analisi offerta da Paolo Franceschetti sul suo blog: un delitto “rituale”, firmato Rosa Rossa nel residence “Le Rose” con quel sibillino biglietto: “Oggi le rose sono contente, la rosa rossa è la più contata”. In realtà, sottolinea la ricercatrice ricorda che nessun esame grafologico ha finora attestato che quelle frasi – su carta intestata dell’hotel – siano state scritte proprio da Pantani. «Io ne dubito fortemente – dice – anche perché secondo me in quelle poche, apparenti sconnesse righe potrebbero esserci la firma e il movente dell’assassino, seppure espresso in un modo allegorico e per certi versi burlesco, quasi si trattasse di un macabro gioco». A parte il passaggio sulle “rose”, il libro di Philippe Brunel sostiene che, in quel foglio, Pantani (o chi per lui) parla di «coincidenze saline» e di «una strana alchimia, dove si mette in relazione il fosforo con il potassio, la linfa, la “clorofilla di sangue”», e si legge: «Tutto passa come il mare». L’alchimia è la prima cosa che salta all’occhio, conferma Pavanetto. «Queste parole sembrano descrivere una trasmutazione alchemica. Il fosforo, simbolo dell’illuminazione spirituale; il potassio, la linfa; e soprattutto la “clorofilla di sangue”, e infine quel “tutto passa con il mare”».La clorofilla è chiamata anche “sangue vegetale” e può essere considerata un vero rigeneratore per le cellule, in quanto apporta ossigeno. «Può essere utile in varie forme di anemia, migliora la contrazione cardiaca e si rivela utile soprattutto per gli sportivi poiché ne aumenta la resistenza». E’ chiamata “sangue vegetale”, spiega Pavanetto, perché la sua struttura chimica è simile a quella dell’emoglobina, con la sola differenza che la clorofilla contiene magnesio anziché ferro. «Sin dal 1936 fu studiata come fattore per la rigenerazione del sangue, soprattutto in relazione all’emofilia». Studi che poi «servirono molto nel mondo del doping, dove appunto si “esercita” la rigenerazione del sangue». Sembra un macabro gioco di specchi e scatole cinesi, continua Lara Pavanetto: sapete qual è il simbolo alchemico del magnesio? La lettera D. E Pantani soggiornava (e morì) nella camera D5.Attenzione: il numero 5, «essenza del Pentacolo, è ricondotto al numero degli elementi, la quintessenza spirituale e i quattro elementi abituali: Acqua, Fuoco, Terra e Aria». I quattro elementi alchemici. “E tutto passa come il mare”: il mare «fu per gli alchimisti l’acqua mercuriale, l’elisir, l’oceano increato dove la materia prima subì il processo di trasformazione e di maturazione fino allo stato di perfezione». E, a proposito di “contrappasso” dantesco, Lara Pavanetto ricorda il canto primo del Purgatorio, nella “Divina Commedia”, in cui Virgilio lava Dante dalla “nerezza” dell’Inferno: «Con le mani bagnate dalla rugiada del mattino, Virgilio rimuove dalle guance lacrimose di Dante quella nerezza che l’Inferno gli aveva lasciato. Poi lo cinge con un giunco sottile che cresce nel limo del mare, giunco che nasce miracolosamente là dove viene reciso. E’ un nuovo battesimo, una nuova purificazione eseguita questa volta con la rugiada, cioè acqua che viene dal cielo, simbolo di doni spirituali». Recita quel fatidico biglietto: “E tutto passa come il mare”. Firma e chiave “rituale”, con spiegazione simbolica, dell’omicidio del campione ribelle che doveva essere punito in modo esemplare?Vuoi vedere che Pantani è stato distrutto e poi eliminato anche per evitare che facesse ombra a Lance Armstrong, il super-campione (artificiale) vicino ai Bush? Doping, ciclismo e morte: secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’industria segreta del doping usa i ciclisti come cavie per sperimentare nuove, micidiali droghe “performanti”, destinate a soldati e guerriglieri: un business colossale, realizzato con la copertura di case farmaceutiche e gestito da poteri “supermassonici” pronti a eliminare fisicamente chiunque osi ribellarsi. Come Pantani, per esempio? La sua fine: un monito, per qualsiasi altro ciclista che avesse provato a rifiutare la siringa? Supermassoni reazionari i Bush, “padrini” di Armstrong. Esoteristi, probabilmente, anche i killer di Pantani: lo afferma Lara Pavanetto, analizzando lo strano messaggio “alchemico” rinvenuto nella stanza in cui il campione romagnolo morì. Per Paolo Franceschetti, avvocato per lunghi anni, quel delitto è “firmato” Rosa Rossa, potente associazione occultistica all’origine di svariati crimini eccellenti, come quello del Mostro di Firenze: il delitto rituale come pratica “magica”, e il clamore mediatico come utile mezzo per spaventare l’opinione pubblica, rendendola più docile verso l’autorità costituita. Il ribelle Pantani? Andava punito e infangato con la pena del contrappasso. Aveva evocato lo spettro del doping? Bene, sarebbe morto disonorato: spacciato per cocainomane.
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Clinton, pedofili al potere: e Trump mobilita il Pentagono
Pedofili al potere, ai massimi vertici. Traffico di bambini, orge con minorenni. Nomi coinvolti? I maggiori, a cominciare dai Clinton. Da chi viene la denuncia? Da Donald Trump, che sta cercando di salvarsi – dall’impeachment e forse dall’omicidio, visto che «Kennedy fu ucciso per molto meno». Ma attenzione: mentre il Deep State trema, i grandi media tacciono: congiura del silenzio. Siamo in pericolo, scrive Paolo Barnard: Trump si fa difendere direttamente dal Pentagono, evocando lo stato di guerra, mentre i suoi nemici (accusati di pedofilia, prove alla mano) hanno il potere di silenziare giornali e televisioni. In altre parole: sta accadendo qualcosa di mai visto, a Washington. Una lotta mortale, tra un presidente sotto assedio e i suoi avversari “mostruosi”. Trump agisce solo per opportunismo, per salvarsi minacciando di spiattellare quello che sa, e che gli hanno rivelato ex funzionari della Cia come Kevin Shipp? Per contro, chi vuole farlo fuori adesso è nel panico da quando il presidente ha contrattaccato «con due numeri»: 13818, cioè l’ordine presidenziale esecutivo, e 82 FR 60839, cioè «il protocollo del medesimo presso l’Us Government Publishing Office». Una mossa “nucleare”, «ma talmente tanto che quegli apparati di potere, Shadow Government e Deep State, faticano a riprendersi». Una storia «agghiacciante», che Barnard ricostruisce nei dettagli.«Che i media siano controllati e che si auto-censurino per salvarsi il sedere, lo sa anche un cacciavite», premette. «Ma che due notizie bomba sul presidente della nazione più potente del mondo, e accessibili a tutti, scomparire nel nulla sui maggiori media occidentali, per un ordine di scuderia, questo non lo credevo». Attenti: nei Pentagon Papers, nel Watergate, nell’Iran-Contras, nell’Iraq-gate, i fatti erano occulti. Qui invece «sono pubblici e accessibili da una pensionata, riguardano l’uomo più potente del pianeta, eppure sono stati ‘suicidati’ e sepolti da tutti i grandi media con un accordo e con una sincronia scioccanti». In pratica, «i media non esistono più». Trump è sotto attacco da parte di due “Stati ombra” ben noti: il raggruppamento dei servizi segreti (Cia, Nsa, Nga, Fbi) che va sotto il nome di Shadow Government, e le maggiori corporations coi loro lobbysti che foraggiano il Congresso: Big Oil, Big Pharma, Big Banks, Big Media, Arms Industry e Silicon Valley, che passano sotto il nome di Deep State. Nota per gli scettici: chiunque neghi l’esistenza e i poteri di questi apparati, liquidandoli con la parola “complottismo”, «non ha mai letto una pagina del “New York Times”, del “Washington Post” o sentito di P2 e stragismo in Italia, quindi è un cretino».Donald Trump? Un presidente «incontrollabile, e forse anche mentalmente instabile», ma proprio per questo «ha devastato la sacra tradizione di almeno 70 anni di presidenze americane, dove le politiche reali furono sempre influenzate o truccate da Shadow Government e Deep State, fino alla presidenza Obama inclusa». Conclusione: «Trump va quindi abbattuto. Ma quest’uomo è molto meno fesso di ciò che appare», scrive Barnard. O meglio: «Si è circondato di alcuni dei più brillanti ‘Rasputin’ di tutta la storia moderna». Messo sotto assedio, ha quindi contrattaccato con quei due numeri, 13818 – 82 FR 60839. Premessa: «Donald Trump è sotto una ‘Dresda’ di bombe per abbatterlo», fra cui il presunto accordo-scandalo con Putin per truccare le elezioni 2016, che coinvolge anche la sua famiglia (e la relativa inchiesta è nelle mani dell’implacabile ex direttore dell’Fbi Robert Mueller). Sconta «accuse di grave instabilità mentale da impeachment», apparentemente documentate dall’esplosivo bestseller “Fire and Fury” di Michael Wolff: «Una presunta serie di abusi sessuali ai danni di donne lungo la sua carriera sia da businessman che come politico». Poi c’è una sfilza di accuse a membri del suo governo (Steve Mnuchin, Ryan Zinke, Tom Price) per uso personale di denaro pubblico. «Tutti questi scandali s’appoggiano pesantemente sui poteri e/o sulle spiate dello Shadow Government».Ce n’è a sufficienza per demolire chiunque, osserva Barnard. E Trump, senza quel micidiale documento (che ha firmato il 20 dicembre 2017) sembrava un gigante dai piedi d’argilla. «Non controlla l’Fbi, prima diretta dal suo arci-nemico Comey e oggi da Christopher Wray che a sua volta non controlla l’Fbi». In più Trump «non controlla la Cia, diretta da Mike Pompeo, che a sua volta non controlla la Cia». Di più: «Non controlla la Nsa diretta dall’ammiraglio Michael Rogers, che a sua volta non controlla la Nsa». Donald Trump «non ha nessuna influenza sulla Nga, che gioca un ruolo centrale in tutte le inchieste di massima sicurezza in America». Questo, per quanto riguarda lo Shadow Government. «Poi è troppo ricco per poter essere comprato dal Deep State, che – specialmente con Wall Street e la dirigenza ebraica americana – è lo sponsor principale dei democratici, e di tutti i repubblicani ostili al presidente». Poi, continua Barnard, quattro giorni prima di Natale cade la bomba 13818 – 82 FR 60839. «E, usando un’impareggiabile espressione americana, “the shit hit the fan” (la merda finì nelle pale del ventilatore)». Attenzione: l’ordine esecutivo «è uno degli atti legislativi americani più dirompenti da sessant’anni». Cosa dice? Colpisce con le massime armi – militari, giuridiche e finanziarie – chiunque si renda colpevole di violazioni dei diritti umani e di corruzione, negli Usa e nel mondo».L’ordine esecutivo presidenziale «colpisce anche i governi esteri coinvolti, i loro funzionari, e qualsiasi complice in qualsiasi forma». Di più: «Va a colpire queste infami catene là dove gli fa più male, cioè nei soldi, con il blocco e la confisca dei loro denari, proprietà, titoli, azioni, anche nelle loro forme più maliziosamente nascoste o lontanamente imparentate». Certo, «sappiamo che Trump non è Mandela», e infatti quel decreto è stato scritto «per mitragliare a morte un settore ben preciso delle violazioni dei diritti umani». Nel mirino c’è una piaga indicibile: «Il mercato dei minori per pedofilia, nel bacino più ampio dei trafficanti di persone». Infatti, spiega Barnard, il presidente aveva anticipato questa legge il 23 febbraio 2017 in conferenza stampa, rilanciata dalla “Associated Press”, «dove parlò proprio di traffici umani per pedofilia». Ma perché? «Perché Trump sa bene che questo abominio, l’abuso di minori venduti, sembra aver infettato la maggioranza dei vertici del Deep State, col silenzio dello Shadow Government, e con un presunto forte coinvolgimento di una notissima beneficienza: la Clinton Foundation». Come fa Trump a saperlo? «Da anni ne parla in pubblico un ex pezzo grosso della Cia, più altre fonti autorevoli». Sicché, il suo “executive order” «colpirà proprio i suoi nemici».In questo preciso momento, giura Barnard, «negli Stati Uniti alcuni altissimi nomi stanno tremando, e precisamente dalla mattina del 21 dicembre scorso, quando l’“executive order” 13818 – 82 FR 60839 è stato pubblicato ‘in Gazzetta’ a Washington». Un conrattacco mortale: «Jfk fu ucciso per meno, a quanto sappiamo fino ad oggi. Infatti i ‘Rasputin’ di Trump sapevano che la vita del presidente sarebbe stata immediatamente in pericolo dopo quell’ordine esecutivo». Proprio per questo, infatti, «hanno fatto la pensata di tutte le pensate». Cioè: il ricorso d’emergenza al Pentagono. Nelle prime righe dell’“executive order”, il presidente scrive: «Io perciò decido che i gravi abusi dei diritti umani, e la corruzione, nel mondo costituiscono un’insolita e straordinaria minaccia alla sicurezza nazionale». Notare: le parole “minaccia” e “sicurezza nazionale”, pronunciate dal presidente degli Stati Uniti, «implicano l’immediata mobilitazione di tutto l’esercito americano, cioè del Pentagono. E’ di fatto un preallarme di guerra, e di conseguenza le protezioni intorno al presidente divengono massime. E quando si muove il Pentagono non esiste nulla al mondo, se non un arsenale nucleare straniero, che possa batterlo. Questo è ultra-chiaro a tutti gli apparati di Deep State e Shadow Government, che ora sono in “deep shit”, nella merda fino al collo, per essere chiari».Non è stato un caso che Trump abbia messo nei posti chiave a Washington tre generali, e un ammiraglio a capo dei più potenti 007 degli Usa, sottolinea Barnard. «Abbiamo il generale James “Mad Dog” Mattis come ministro della difesa, il generale John Kelly come White House Chief of Staff e il generale H. R. McMaster come Consigliere per la Sicurezza Nazionale. Poi, anche se boicottato dai suoi sottoposti, c’è l’ammiraglio Michael Rogers a capo dalla Nsa. Insomma, il Pentagono. Trump sarà anche scemo, ma cosa sia lo Shadow Government lo sapeva benissimo, e si è protetto». Protezioni salva-vita, ora che Trump – per sfuggire all’assedio di cui è vittima – incalza i suoi nemici, capeggiati da Hillary Clinton, con quell’ordine esecutivo concepito «per metterli in un angolo con indagini profonde sul traffico internazionale di minori per pedofilia, in cui sarebbero coinvolti molti vertici Usa del Deep State, inclusi i Clinton, col silenzio dello Shadow Government». “The Donald” lo sta facendo «coprendosi le spalle con l’intero esercito degli Stati Uniti». Del resto, l’argomento toccato è off limits: pedofilia e potere, “non aprite quella porta”. Nessuno aveva mai osato tanto: l’abuso di bambini, nelle alte sfere, è un tabù inaccessibile. Chi tocca, muore.«Esisterebbe dunque un traffico di minori per pedofili di altissimo livello ai vertici del Deep State, inclusi i Clinton», scrive Barnard. «Trump apprende questo da molte fonti, la prima delle quali è l’ex agente e dirigente pluridecorato della Cia Kevin M. Shipp. Costui, senza la fama attribuita al suo collega ‘whistleblower’ Edward Snowden, sta rivelando da anni il livello di marciume criminale che davvero permea lo Shadow Government in America». Shipp è stato esperto di anti-terrorismo, guardia del corpo di due direttori della Cia. Era ai vertici della Counterintelligence, ed è stato citato dal “New York Times” come «veterano della Central Intelligence Agency». In altre parole: «Non è proprio un signor nessuno nello Shadow Government americano». Barnard ricorda che da anni il “Washington Times”, il “New York Post” e l’inglese “Guardian” «riportavano notizie certe sui cosiddetti “Voli Lolita” – cioè voli su un jet privato per orge con minori – organizzati dal miliardario pedofilo Jeffrey Epstein». Per dire: «Bill Clinton, secondo gli atti del processo che condannò Epstein, fu ospite 26 volte su quei voli». Altri nomi di alto rango trovati nell’agenda “nera” del miliardario «furono Tony Blair, Michael Bloomberg, Richard Branson fra molti altri, e i cellulari delle minori schiave del sesso fra cui “Jane Doe N.3”», una ragazzina che negli atti processuali ha dichiarato di «essere stata costretta a rapporti sessuali con diversi politici americani, top businessmen, un premier famosissimo e altri leader internazionali».Nel 2006, continua Barnard, «Epstein fece una grassa donazione alla Clinton Foundation». Nella capitale Usa, la Ong di Conchita Sarnoff, “Alliance to Rescue Victims of Trafficking”, ha decine di files su “potere e pedofilia”. Un incubo? Certo. «Ora, provate a trovare traccia sui grandi media italiani o americani dell’esplosivo affare». Niente: silenzio assoluto sui nomi coinvolti, «come Bill e Hillary Clinton, Robert Mueller, Kevin M. Shipp». Sui media, le espressioni Deep State e Shadow Government neppure compaiono. «Attenti, non parliamo di una legge del Nicaragua, ma del presidente americano più discusso e delegittimato della storia». Silenzio stampa totale: ne accenna il solo “Financial Times”, «ma svuotando tutta la news». Peggio: il 19 gennaio, giunge al Congresso un memorandum «che sembra contenere le prove delle azioni della Clinton, coi soldi del Partito Democratico, col silenzio di Cia ed Fbi, per usare i poteri “tech” della Nsa permessi dalla legge Fisa, sotto la presidenza di Obama… e il tutto per spiare la campagna elettorale di Trump, per corrompere testimoni russi a dire il falso contro il neo-eletto presidente, e con la collusione di Londra».“Fox News” titola: “Molto più grave del Watergate”. Il sito di finanza “Zero Hedge” pubblica all’istante i Tweet di alcuni senatori americani sotto shock, con parole come «questo memorandum manderà a spasso un sacco di gente, al Dipartimento della Giustizia, e certi nomi finiranno in galera», dalla bocca del senatore Matt Gaetz. Roba da invadere le prime pagine di “New York Times” e “Repubblica”, passando per “Cnn”, “Bbc” e “Rai”. «Nulla. Vado su “Fox News”, e in prima non c’è più nulla! Perdo il fiato. Ma lo recupero quando “Zero Hedge” pubblica un Tweet del più autorevole fra gli autorevoli, Edward Snowden, che conferma tutto». Eppure, di nuovo – scrive Barnard – ago e filo «hanno cucito la bocca e le dita di tutto il mondo dei media che contano in un istante, e con un potere di assolutismo che davvero non credevo possibile a questo livello». Ipotesi: «E’ possibile che lo stesso Donald Trump sia parte di questa incredibile congiura del silenzio, per barattare coi suoi nemici e per poterli poi ricattare per anni, ma ciò non cambia la sostanza». Sotto i nostri piedi si sta spalancando un abisso: «Non fate figli», chiosa Barnard.Pedofili al potere, ai massimi vertici. Traffico di bambini, orge con minorenni. Nomi coinvolti? I maggiori, a cominciare dal clan Clinton. Da chi viene la denuncia? Da Donald Trump, che sta cercando di salvarsi – dall’impeachment e forse dall’omicidio, visto che «Kennedy fu ucciso per molto meno». Ma attenzione: mentre il Deep State trema, i grandi media tacciono: congiura del silenzio. Siamo in pericolo, scrive Paolo Barnard: Trump si fa difendere direttamente dal Pentagono, evocando lo stato di guerra, mentre i suoi nemici (accusati di pedofilia, probabilmente ricattabili a vita) hanno comunque il potere di silenziare giornali e televisioni. In altre parole: sta accadendo qualcosa di mai visto, a Washington. Una lotta mortale, tra un presidente sotto assedio e i suoi avversari “mostruosi”. Trump agisce solo per opportunismo, per salvarsi minacciando di spiattellare quello che sa, e che gli hanno rivelato ex funzionari della Cia come Kevin Shipp? Per contro, chi vuole farlo fuori adesso è nel panico da quando il presidente ha contrattaccato «con due numeri»: 13818, cioè l’ordine presidenziale esecutivo, e 82 FR 60839, cioè «il protocollo del medesimo presso l’Us Government Publishing Office». Una mossa “nucleare”, «ma talmente tanto che quegli apparati di potere, Shadow Government e Deep State, faticano a riprendersi». Una storia «agghiacciante», che Barnard ricostruisce nei dettagli.
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I fotografi: sono un falso le immagini dell’uomo sulla Luna
«Se le avessero chieste a me, quelle immagini da studio le avrei fatte molto meglio», cioè con le ombre “giuste”, simulando bene l’effetto del sole. Parola di Oliviero Toscani. Il film del presunto allunaggio? La madre di tutte le fake news: «Un falso al 200%». A dirlo è un altro principe della fotografia mondiale, Peter Lindbergh, il numero uno nel campo della moda, “inventore” delle top-model degli anni ‘90, da Cindy Crawford a Naomi Campbell. La domanda: da dove arrivano quelle luci (artificiali) che rischiarano gli astronauti? Proiettori, spot da cinema, pannelli riflettenti: attrezzature di cui l’equipaggio di Apollo 11 non disponeva. L’esame dei fotografi è la prova regina del test condotto da Massimo Mazzucco, autore del documentario “American Moon”. Oltre tre ore di film, che inchiodano lo spettatore di fronte a una verità incontrovertibile: a prescindere dal fatto che ci siamo stati o meno, sulla Luna, le immagini dell’allunaggio – trasmesse dalla Nasa in mondovisione nel 1969 – sono un falso, palese e grossolano. I sospetti crescono ulteriormente, scoprendo che l’ente aerospaziale ha dichiarato di aver “smarrito” i film originali di un evento che, se fosse reale, sarebbe una pietra miliare nella storia dell’umanità. Per non parlare degli astronauti: anziché essere celebrati a vita come eroi, hanno trascorso il resto dei loro giorni a nascondersi.
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Amazon è partner Cia, di Bezos anche il Washington Post
Jeff Bezos non è solo l’uomo più ricco del mondo, dopo aver superato la vetta dei 100 miliardi di dollari grazie al “black friday”, impennata che la relegato in seconda posizione Bill Gates, patron della Microsoft. L’uomo-Amazon, che ha inaugurato l’ultima generazione dei nuovi iper-miliardari, con «un ammontare di denaro diluviano e perennemente in crescita», è anche un cardine del potere “totale” dell’élite: il maxi-contratto da 600 milioni stipulato con la Cia, ricorda “Dedefensa”, gli ha permesso di acquisire una testata giornalistica leader come il “Washington Post”, che da quel momento ha preso di mira gli avversari geopolitici dell’intelligence, condizionando l’intero mainstream statunitense, a cominciare dal “New York Times”. A questo si aggiunge «l’interessante maniera con cui Amazon si appropria di territori concreti, rispolverando il fenomeno della “città di una sola compagnia”», come al tempo in cui Detroit “apparteneva” alla General Motors. L’Institute for Policy Studies ha stabilito che i tre miliardari più ricchi possedevano quanto la metà più povera degli Stati Uniti. Grazie a Bezos, questo studio è sorpassato: perché il miliardario, nel frattempo, ha accresciuto la propria ricchezza di altri 20 miliardi di dollari. Nel mondo intero, i cinque miliardari più ricchi possiedono quanto la ricchezza della metà della popolazione mondiale, all’incirca 3,5 miliardi di persone.«Bezos ha acquisito la sua ricchezza grazie allo sfruttamento della sua forza lavoro, circa 300.000 persone in tutto il globo», scrive “Dedefensa” citando il sito economico Wsws.org. «I lavoratori di Amazon guadagnano 233 dollari al mese in India, per una media di solo 12,40 dollari l’ora negli Stati-Uniti». I dipendenti hanno tutele minime, salari bassi, contratti flessibili e spesso temporanei, aggiunge “Dedefensa”, in un post tradotto da Vollmond per “Come Don Chisciotte”. A rischio, pare, anche le condizioni di sicurezza sul lavoro: «In settembre, quando Phillip Terry, di 59 anni, è stato schiacciato da un carrello elevatore in una fabbrica di Amazon a Indianapolis, il ministro del lavoro ha dichiarato che l’impresa potrebbe essere costretta a pagare 28.000 dollari d’ammenda. Bezos guadagna una cifra simile in un minuto, più dei suoi operai americani in un intero anno». La società, inoltre, «esige gli stessi privilegi dei governi del mondo, privilegi fiscali e altre agevolazioni gratuite in cambio della costruzione dei suoi magazzini». Amazon messo in competizione più di 200 città americane desiderose di diventare il secondo quartier generale della compagnia, ottenendo in cambio enormi donazioni. «Chicago, per esempio, ha offerto ad Amazon un “pacchetto di incentivi” da 2,25 miliardi di dollari, mentre Stonecrest, in Georgia, ha deciso di cambiare il suo nome in “Amazonie” e di nominare Bezos “sindaco a vita”».Ma il binonio Bezos-Amazon, aggiunge “Dedefensa”, ha un tratto assai particolare, ovvero «la sua relazione estremamente forte e pubblicamente ostentata con la Comunità di sicurezza nazionale (Csn), e in particolare la comunità dell’intelligence». La sua collaborazione con la Cia è ormai palese, rileva il blog, dopo il contratto firmato nel 2013 tra Amazon e l’agenzia di Langley: 600 milioni di dollari, con i quali Bezos ha comprato il “Washington Post”, da allora divenuto «l’organo officiale della sicurezza nazionale (in particolare della Cia) e, durante la campagna Usa-2016, l’organo anti-Trump», in nome della posizione assunta dalla stessa Central Intelligence Agency. Una vera e propria luna di miele, con la Cia che «afferma apertamente la sua soddisfazione per questa cooperazione». Da registrare anche una visita ad Amazon altamente mediatizzata dal segretario alla difesa, James Mattis, «che ci permette di comprendere che anche il Pentagono amoreggi con Bezos». Ovvero: «Non si lavora più in segreto, come accadeva prima dell’affare Snowden». Secondo le fonti citate da “Dedefensa”, «Bezos ha trasformato la sua società in un organo semi-ufficiale dell’apparato di informazione militare americana». Amazon e la Cia hanno appena annunciato il lancio di un nuovo sistema di cloud “regione segreta”, nel quale la società ospiterà dei dati per la Cia, l’Nsa, il Dipartimento della difesa e altre agenzie di informazione militare.Un portavoce della Cia ha recentemente qualificato l’accordo sull’acquisto del “Washington Post” da parte di Bezos come «la migliore decisione che abbiamo preso». Nel quadro delle spese militari approvate a novembre dal Senato, Amazon sarà tra i maggiori fornitori di attrezzature informatiche. «L’uomo da 100 miliardi di dollari – scrive “Dedefensa” – ha impiegato la propria ricchezza per esercitare un’influenza considerevole nei corridoi del potere. Quest’anno Amazon ha finanziato il governo federale sborsando più di 9,6 milioni di dollari». Bezos è ricorso alle pagine del “Washington Post” per promuovere l’agenda del Partito democratico. Il “Post”, sotto la gestione di Bezos, è stato uno dei principali difensori della campagna contro la Russia, pubblicando nel novembre 2016 la lista “PropOrNot”, «una finta compilation di agenzie di stampa presumibilmente “propagandisti russi” includente anche siti di informazione di sinistra». In più, Bezos «sta prendendo nettamente le distanze dal piccolo mondo dei super-ricchi, e soprattutto dai compari della Silicon Valley». Lo si evince «dall’affermazione quasi pubblica dei legami tra Bezos e il servizio di informazione ed eventualmente i militari», con la convinzione che la Cia sia priviligiata come interlocutrice principale.Beninteso: «Tutta la Silicon Valley, dalla preistoria di Gates alla sexy-semplicità di Zuckerberg, ha sempre camminato a braccetto con la Comunità di sicurezza nazionale, Snowden ce l’ha ampliamente dimostrato». Ma con Bezos è un’altra cosa, continua “Dedefensa”: «La relazione è alla luce del sole, ambo le parti ostentano soddisfazione, e nulla ci può dire dove essa possa portare, né chi dei due domini l’altro; c’è un problema di preponderanza del potere». Secondo un analista come Robert Parry, il “Washington Post” di Bezos ha influenzato tutta la stampa mainstream, compreso il “New York Times” e gli altri grandi media occidentali, anche non americani. «L’isteria del Russiagate – scrive Parry – ha provocato un enorme abbassamento del livello giornalistico», per il fatto che i principali media statunitensi hanno ignorato le regole fondamentali nell’acquisizione di vere prove, prendendo per buone semplici vociferazioni sulla presunta interferenza russa nelle elezioni presidenziali. «Dato che la creazione di questa isteria antirussa, avviata dal 2013-2014 (Siria e sopratutto Ucraina), poteva effettivamente essere un obiettivo strategico della Cia, si può concludere che la missione sia stata compiuta. Ma a che prezzo?».Quanto alla Cia, non può non destare attenzione «la sua maniera di uscire allo scoperto, come ha fatto e continua a fare, affermando pubblicamente la sua soddisfazione di “lavorare” con un tale partner». La Cia è incredibilmente potente, come lo stesso Bezos, rileva “Dedefensa”. Ma si ha l’impressione – rispetto alle operazioni che furono affettuate dall’agenzia nel primo mezzo secolo dalla sua fondazione – che si sia persa un po’ di quella “sottigliezza”, tipica del recente passato. «Tra questi due partner – conclude “Dedefensa” – ci sono diverse cose in comune: il potere, la brutalità, il cinismo, la falsa virtù affermata perentoriamente e, in breve, tutto ciò che caratterizza la politica-sistema dal 2001, ma ostentato, istituzionalizzato, ufficializzato, proclamato». Se si analizza il risultato dei primi 16 anni di geopolitica Usa a partire dalla data-spartacque dell’11 Settembre, osservando «questo mostro Bezos-Cia», secondo il blog «si ha un’impressione per certi aspetti temperata: la loro potenza combinata può dare la vertigine, ma la vertigine può anche generare errori di manovra e cadute ancora più brutali». L’unione tra Bezos e la Cia era nell’aria da tempo, ma «si tratta di un’unione eccessiva che nasconde in sé la chiave della propria autodistruzione».Jeff Bezos non è solo l’uomo più ricco del mondo, dopo aver superato la vetta dei 100 miliardi di dollari grazie al “black friday”, impennata che ha relegato in seconda posizione Bill Gates, patron della Microsoft. L’uomo-Amazon, che ha inaugurato l’ultima generazione dei nuovi iper-miliardari, con «un ammontare di denaro diluviano e perennemente in crescita», è anche un cardine del potere “totale” dell’élite: il maxi-contratto da 600 milioni stipulato con la Cia, ricorda “Dedefensa”, gli ha permesso di acquisire una testata giornalistica leader come il “Washington Post”, che da quel momento ha preso di mira gli avversari geopolitici dell’intelligence, condizionando l’intero mainstream statunitense, a cominciare dal “New York Times”. A questo si aggiunge «l’interessante maniera con cui Amazon si appropria di territori concreti, rispolverando il fenomeno della “città di una sola compagnia”», come al tempo in cui Detroit “apparteneva” alla General Motors. L’Institute for Policy Studies ha stabilito che i tre miliardari più ricchi possedevano quanto la metà più povera degli Stati Uniti. Grazie a Bezos, questo studio è sorpassato: perché il miliardario, nel frattempo, ha accresciuto la propria ricchezza di altri 20 miliardi di dollari. Nel mondo intero, i cinque miliardari più ricchi possiedono quanto la ricchezza della metà della popolazione mondiale, all’incirca 3,5 miliardi di persone.
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Bevi Nespresso, e paghi il satellite-spia di George Clooney
George Clooney nasce il 6 maggio 1961 a Lexington in Kentucky. Il padre, Nick Clooney, era un famosissimo giornalista in Kentucky. La madre, Nina Bruce Warren, ex reginetta di bellezza, era impegnata sulla scena politica e sociale della città. Come il marito era molto conosciuta e aveva molti fans. George e la sorella Adelia sono i figli di due celebrità. Fin da piccoli sono abituati alla vita mondana, sorridono, stringono mani, conversano amabilmente. La sorella maggiore del padre, Rosemary Clooney, morta nel 2002 a settantaquattro anni, negli anni cinquanta fu una celebre star del music-hall. Le sue canzoni arrivarono in testa alla hit parade dell’epoca. Rosemary sarà anche un’attrice in un film del 1953 dal titolo “Il cammino delle stelle”. Rosemary era amica intima di Robert Kennedy, e proprio la notte in cui viene assassinato, il 6 giugno 1968, lo sta aspettando all’Ambassador Hotel di Los Angeles e addirittura sente gli spari che gli sono fatali. La morte di Robert Kennedy getterà Rosemary in una profonda depressione durata otto anni, dalla quale non si riprenderà mai completamente. I Clooney sono conosciuti come i Kennedy del Kentucky. Hanno in comune con loro le origini irlandesi, la fede cattolica e la fede democratica.Secondo il sito “ancestry.com”, una delle antenate di George era zia di Abraham Lincoln, repubblicano ma amatissimo dai democratici per avere abolito la schiavitù. Lincoln, sedicesimo presidente americano, nacque proprio in Kentucky. L’infanzia di George non è stata così facile. A otto anni gli viene diagnosticata la dislessia. Cinque anni dopo, a tredici anni, è colpito per lunghi mesi da una paralisi di Bell, a causa di un nervo cranico danneggiato, come era già accaduto a sua sorella qualche anno prima. Ma saltiamo al 1979, quando troviamo George sui banchi universitari, studente di giornalismo annoiato e sfaticato. Nel 1981 la zia Rosemary e il marito, l’attore e regista José Ferrer, arrivano a Lexington per trascorrervi qualche settimana. In realtà sono lì per girare un lungometraggio, e a George viene proposto di comparire in una scena. Folgorato dal cinema, il ragazzo abbandona gli studi di giornalismo, vuole andare in California e tentare la carriera cinematografica. Lavora alcuni mesi per guadagnare i soldi per il viaggio, che il padre gli nega, poi parte e raggiunge la zia Rosemary a Los Angeles che lo ospita per i primi tempi. Il successo arriverà solo nel 1994 con la serie “Er, Medici in prima Linea”: George ha trentatré anni.Da allora fino al matrimonio del 27 settembre 2014 sarà lo scapolo più ambito di Hollywood. In realtà George Clooney era già stato sposato una prima volta nel 1984 con l’attrice Talia Balsam. Il matrimonio durò sino al 1993. Da allora sino al matrimonio con Amal Alamuddin seguiranno molte fidanzate a intervalli regolari di tre o quattro anni. Storie mediatiche, nelle quali nulla è lasciato al caso. Tutte le sue partner, dopo la rottura (che interviene sempre dopo i tre anni di relazione) beneficiano di qualche premio di consolazione, notorietà rapida e redditizia. Tutte le sue ex si rifanno rapidamente una vita e trovano anche dei mariti d’oro. Una saga sentimentale che sembra preparata a tavolino, e che fa nascere negli anni molti sospetti sul reale orientamento sessuale della star. Sulla supposta doppia vita di Clooney le voci corrono per tanto tempo soprattutto a Laglio, sul lago di Como, dove nel 2001 l’attore compra una villa. Qualcuno, in quel periodo, su Internet ribattezza il lago di Como ‘Lake Homo’. Il matrimonio con Amal metterà fine a ogni chiacchera.Nel 2000 l’attore crea la propria casa di produzione, Section Eight, perché vuole realizzare film politicamente impegnati. Sarà il padre a influenzare la sua prima opera come regista: “Confessione di una mente pericolosa”, storia di un presentatore televisivo ingaggiato dalla Cia per diventare un sicario. Come attore, George Clooney riceve il suo primissimo Oscar per il film “Syriana” nell’anno della sua mobilitazione per la causa del Darfur. Nel film, George interpreta un agente Cia in rotta totale con la politica di Washington. Clooney si lancia in un cinema militante, rompendo con la sua immagine di bel ragazzo sexy. Nel 2007 l’attore annuncia pubblicamente il proprio impegno per il Darfur, e attraverso una lettera alla cancelliera tedesca e ai suoi omologhi europei chiede di far pressione sul Sudan. Nel 2008 l’Onu lo nomina messaggero della pace, la più alta distinzione civile. La sua vita cinematografica diventa realtà. In molte delle sue sceneggiature compare una sigla: quella della Cia. Clooney è un frequentatore del Cfr, il Council on Foreign Relations, think-tank fondato nel 1921, con sede a New York e un distaccamento vicinissimo al potere, a Washington. Il suo obiettivo è l’analisi strategica della politica estera degli Stati Uniti e della situazione mondiale. Clooney ne diventa membro permanente nel 2010 con l’appoggio dell’editorialista del “New York Times” Nicolas Kristof e del giornalista Charlie Rose.L’attore deve seguire alcuni stage specifici al Cfr. Da allora la sua figura sarà associata per sempre a quella del Darfur, sulla situazione del quale è informato da una serie di articoli di Nicholas Kristof. Proprio per parlare del Darfur Clooney incontrerà Obama, all’epoca senatore. Secondo il giornalista belga Michel Collon, Clooney ha favorito interessi e strategia degli Stati Uniti nella regione del Sudan. Clooney finanzierà un satellite per sorvegliare le attività del presidente sudanese Omar el-Bèchir. Fino al 2010 tutti i compensi ricevuti da Nespresso saranno investiti in questo progetto. L’obiettivo del ‘Satellite Sentinel Project’, con un sito Internet dedicato all’osservazione satellitare, è ottenere immagini di carri armati, fosse comuni e altre atrocità sul territorio. Si cercano le prove della colpevolezza del capo dello Stato per condurlo davanti alla Corte penale Internazionale. Un film di spionaggio… Nel mirino del satellite di Clooney ci sono ora la Repubblica democratica del Congo, la Repubblica Centrafricana e la Siria.Nel 2013 Nespresso e Technoserve (associazione senza scopo di lucro), si sono associate per migliorare i mezzi di sopravvivenza degli abitanti del Darfur, attuando uno sviluppo sostenibile del caffè, in un paese che diventa una straordinaria fonte di rifornimento per Nespresso/Nestlé. La svolta impegnata di Clooney comprende anche il felice matrimonio con Amal Alamuddin, brillante avvocato specialista in diritti umani, nata a Beirut il 3 febbraio 1978. All’inizio degli anni ottanta la sua famiglia fugge dal Libano e si stabilisce in Inghilterra a Gerrards Cross, elegante località del Buckinghamshire, dove oggi le case costano in media un milione e mezzo di euro. Uno dei nonni di Amal era ministro, l’altro medico e direttore dell’ospedale universitario americano di Beirut. Il padre è stato vicepresidente e professore di scienze commerciali all’università americana di Beirut. La madre, giornalista per il quotidiano di lingua araba “Al-Hayat”, spesso contestato per l’orientamento filoamericano, ha lavorato anche per la televisione libanese e ha intervistato Bill Clinton, Fidel Castro, Hussein di Giordania.Specialista del mondo arabo, è intervistata dalle reti di tutto il mondo, dalla “Bbc” alla “Cnn” e “Al-Jazeera”. Si definisce la voce dei musulmani moderati. Nella sua carriera Amal ha avuto molti incarichi prestigiosi già prima di conoscere Clooney, come l’impegno all’Onu insieme a Kofi Annan sul tema della Siria. Nel 2011 assume la difesa di Julian Assange, all’epoca fondatore del sito Wikileaks e minacciato di estradizione verso la Svezia, accusato da due donne di una fattispecie minore di stupro. Di lei Assange dirà: «Amal è un’amica e un avvocato che ha una prospettiva globale». Un palmarès incredibile per un avvocato di trentotto anni, sempre considerato junior all’interno del suo studio. L’entrata nella sua vita di George Clooney amplificherà a livello globale la sua reputazione di paladina dei diritti umani, e naturalmente il suo riflesso amplificherà a sua volta la figura della star hollywoodiana, che ora non nasconde più la sua ambizione politica. Un candidato perfetto per i democratici dopo il disastro di Hillary e la presidenza divisiva di Trump? Vedremo. Il suo curriculum è certo perfetto.(Lara Pavanetto, “George Clooney: quando con una tazzina di caffè paghi un satellite spia”, dal blog della Pavanetto del 10 novembre 2017).George Clooney nasce il 6 maggio 1961 a Lexington in Kentucky. Il padre, Nick Clooney, era un famosissimo giornalista in Kentucky. La madre, Nina Bruce Warren, ex reginetta di bellezza, era impegnata sulla scena politica e sociale della città. Come il marito era molto conosciuta e aveva molti fans. George e la sorella Adelia sono i figli di due celebrità. Fin da piccoli sono abituati alla vita mondana, sorridono, stringono mani, conversano amabilmente. La sorella maggiore del padre, Rosemary Clooney, morta nel 2002 a settantaquattro anni, negli anni cinquanta fu una celebre star del music-hall. Le sue canzoni arrivarono in testa alla hit parade dell’epoca. Rosemary sarà anche un’attrice in un film del 1953 dal titolo “Il cammino delle stelle”. Rosemary era amica intima di Robert Kennedy, e proprio la notte in cui viene assassinato, il 6 giugno 1968, lo sta aspettando all’Ambassador Hotel di Los Angeles e addirittura sente gli spari che gli sono fatali. La morte di Robert Kennedy getterà Rosemary in una profonda depressione durata otto anni, dalla quale non si riprenderà mai completamente. I Clooney sono conosciuti come i Kennedy del Kentucky. Hanno in comune con loro le origini irlandesi, la fede cattolica e la fede democratica.
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Il Sole 24 Ore: votate pure, intanto lo Stato non esiste più
In un paese come l’Italia, anestetizzato e abbindolato dalla propaganda e dalla disinformazione, non si è ancora capito in quale baratro ci hanno portato. E – per quanto possa sembrare incredibile – non lo hanno capito nemmeno quelli che ci hanno trascinato quaggiù. Intendo la classe politica. Infatti, alla vigilia della corsa elettorale, sui giornali si leggono annunci di programmi mirabolanti che stanno per essere sfornati dai diversi schieramenti: dal taglio delle tasse alle pensioni, dal reddito di cittadinanza ai finanziamenti allo stato sociale, dai fondi per la scuola a quelli per lottare contro la disoccupazione fino al ritorno del famoso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Bene. C’è solo un problema: le chiavi e il portafoglio di casa nostra sono ormai in mano ad altri. In Italia non governano più gli italiani. In maniera molto chiara – quasi brutale – lo ha fatto presente Sergio Fabbrini in un inciso del suo editoriale pubblicato dal “Sole 24 Ore”, dove si legge: «I politici italiani continuano a pensare come se fossero all’interno di uno Stato sovrano indipendente». Attenzione, non sono parole pronunciate da un “pericoloso” sovranista, ma da un commentatore che – come il suo giornale – aderisce all’ideologia dell’Unione Europea. Rileggete quelle parole perché sono vere e drammatiche, sebbene quel commentatore – come la gran parte degli editorialisti dei giornali – ritenga tutto questo un gran progresso.Bisognerebbe domandare agli italiani: a voi è mai stato detto che non siamo più «uno Stato sovrano indipendente»? Vi è mai stata chiesta una chiara autorizzazione a disfarsi della nostra sovranità? Vi sono mai state spiegate le conseguenze? Ci rendiamo conto che siamo praticamente sudditi della “Grande Germania” chiamata Unione Europea? Per la verità alcune voci inascoltate lo hanno gridato ai quattro venti, ma sono state fulminate sui giornali con continue accuse di sovranismo, di populismo e di nazionalismo. Oggi, in questa Italia, un Enrico Mattei verrebbe considerato un pericolo sovranista e nazionalista. Perché costruì l’Eni avendo come bussola il nostro interesse nazionale. Nel 2017 gli sarebbe impossibile. Il giornale della Confindustria ieri c’informava del «radicale cambiamento» che si è verificato ovvero che «lo Stato nazionale non esiste più in Europa» (sic!). Ripeto: non sono parole di Salvini o della Meloni, ma degli stessi europeisti. È la realtà dei fatti. Certo, in teoria è ancora in vigore l’articolo 1 della Costituzione secondo cui “la sovranità appartiene al popolo” italiano. Ma nella realtà non è più così. Lo abbiamo visto nel 2011 quando è stato rovesciato l’ultimo governo scelto dagli italiani e lo vediamo continuamente con la sottomissione alla Ue.Quelli del centrosinistra sono stati così zelanti da andare perfino oltre ciò che l’Europa (o meglio: la Germania) chiedeva, attribuendo alle norme europee valore costituzionale. Giulio Tremonti in una intervista a “Libero” ha spiegato che «la sinistra italiana, tra il 2000 e il 2001» ha introdotto «non richiesta, nell’articolo 117 della Costituzione la formula della nostra sottomissione quando si afferma che il potere legislativo dello Stato è subordinato “ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”, intendendo per ordinamento comunitario non solo i trattati, ma anche i regolamenti e le direttive europee». È un’ idea così geniale che ovviamente gli altri Stati d’ Europa si sono ben guardati dal farsela venire. I volenterosi governanti italiani sono i soli ad averla escogitata. Così siamo obbligati a recepire tutto, bail-in compreso e non importa se contraddice l’articolo 47 della nostra Costituzione sulla tutela del risparmio. Ovviamente la decisiva perdita di sovranità c’ è stata anzitutto quando abbiamo rinunciato alla nostra moneta, errore che paghiamo salatamente.Eppure eravamo stati avvertiti anche da premi Nobel per l’ economia, come Paul Krugman, che nel 1999, sul “New York Times”, scriveva: «Adottando l’euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera con tutti i danni che ciò implica». Ecco la vera questione: non siamo più uno Stato sovrano e indipendente, non abbiamo più una moneta e ci vengono imposte delle politiche e delle norme che fanno l’interesse nazionale altrui, non il nostro. Ci hanno ridotto a un “fake Stato”. Una colonia. La classe politica che ci ha portato a questo punto, e che adesso fischietta distrattamente facendo finta che esista ancora uno Stato italiano sovrano e indipendente, deve rendere ragione di questa follia, alla luce dei risultati devastanti di questi anni. Se le elezioni non affrontano questo problema saranno soltanto un altro modo per prendere in giro un popolo che è stato impoverito, ingannato, tradito ed espropriato perfino della sua sovranità.(Antonio Socci, “In Italia non governano più gli italiani ma l’Europa, e non fa il nostro interesse”, dal quotidiano “Libero” del 21 novembre 2017).In un paese come l’Italia, anestetizzato e abbindolato dalla propaganda e dalla disinformazione, non si è ancora capito in quale baratro ci hanno portato. E – per quanto possa sembrare incredibile – non lo hanno capito nemmeno quelli che ci hanno trascinato quaggiù. Intendo la classe politica. Infatti, alla vigilia della corsa elettorale, sui giornali si leggono annunci di programmi mirabolanti che stanno per essere sfornati dai diversi schieramenti: dal taglio delle tasse alle pensioni, dal reddito di cittadinanza ai finanziamenti allo stato sociale, dai fondi per la scuola a quelli per lottare contro la disoccupazione fino al ritorno del famoso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Bene. C’è solo un problema: le chiavi e il portafoglio di casa nostra sono ormai in mano ad altri. In Italia non governano più gli italiani. In maniera molto chiara – quasi brutale – lo ha fatto presente Sergio Fabbrini in un inciso del suo editoriale pubblicato dal “Sole 24 Ore”, dove si legge: «I politici italiani continuano a pensare come se fossero all’interno di uno Stato sovrano indipendente». Attenzione, non sono parole pronunciate da un “pericoloso” sovranista, ma da un commentatore che – come il suo giornale – aderisce all’ideologia dell’Unione Europea. Rileggete quelle parole perché sono vere e drammatiche, sebbene quel commentatore – come la gran parte degli editorialisti dei giornali – ritenga tutto questo un gran progresso.
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Se l’Ue perde la Merkel, spietata esecutrice degli oligarchi
Senza Angela Merkel alla testa dell’Europa, chi lotterà contro la svolta a destra di Polonia e Ungheria in materia di immigrazione? Chi scongiurerà una Grexit? Chi, soprattutto, ricatterà-blandirà l’Italia per evitare una sua uscita dall’euro nel 2018? «Il tramonto di Angela Merkel», scrive Federico Dezzani, «risolleva le sorti del 2017 e getta le basi per un 2018 esplosivo: il governatore della Banca Centrale Europa, Mario Draghi, è ormai il solo, vero, ostacolo alla dissoluzione dell’euro». E dire che erano le presidenziali francesi in prinmavera, ad apparire come l’unico appuntamento elettorale del 2017 capace di destabilizzare l’Eurozona: nessuna sorpresa, invece, era attesa dalle elezioni federali tedesche dove, grazie al sistema proporzionale, la riconferma di Angela Merkel alla cancelleria era data per scontata. Il crollo della Spd e il timore degli altri partiti di andare incontro a un destino analogo hanno però vanificato i tentativi di formare una nuova coalizione di governo. «Il ritorno alle urne è probabile», in Germania. «E la Cdu, questa volta, correrebbe senza Angela Merkel», osserva Dezzani. «La caduta dell’ultima “paladina del mondo liberale” imprime nuovo slancio alla disgregazione dell’Unione Europea».Sconfitta Marine Le Pen, ricorda Dezzani nel suo blog, «l’attenzione si è progressivamente spostata alle elezioni italiane del 2018, considerate l’unica incognita per il fantomatico rilancio del processo di integrazione europea». Pochi colpi di scena si aspettavano dalla Germania, «dove le solide prestazioni economiche (rispetto agli altri membri della Ue), il provvidenziale blocco della “via balcanica” (primavera 2016) e l’accomodante sistema proporzionale ponevano le basi per la nascita, senza difficoltà, del quarto governo Merkel». Era improbabile che il voto tedesco del 24 settembre producesse scossoni sull’establishment politico tedesco tali da decretare la fine della cancelliera, pericolosa per la stabilità della già precaria Unione Europea. «Il logoramento di Angela Merkel si è sviluppato in sordina, sfociando in un’aperta crisi politica soltanto a distanza di due mesi dal voto», annota Dezzani. «È stata una caduta a rallentatore, ma non per questo meno rovinosa per gli equilibri europei». Dalle elezioni è uscito un Bundestag «incapace di esprimere un chiaro esecutivo», rendendo infruttuose le consultazioni per l’ipotetica “coalizione Giamaica” formata da Cdu-Csu, Verdi e Liberali.Proprio i liberali, fa notare Dezzani, hanno rifiutato la linea in materia di immigrazione emersa durante in negoziati, «piombando così la Germania nella più grave crisi istituzionale del dopoguerra: le possibilità che Angela Merkel sopravviva all’incidente sono ormai minime». Se a Bruxelles c’è chi tifa per un governo di minoranza ancora presieduto dalla Merkel, «lo scenario più realistico è un rapido ritorno alle urne, dove la Cdu, già indebolita dalla peggiore prestazione elettorale degli ultimi 70 anni, sarebbe obbligata a sbarazzarsi di Angela Merkel», scelta (ma in realtà imposta) come presidente del partito nel lontano 2000 «a discapito di Wolfgang Schäuble, neutralizzato con la “Tangentopoli tedesca”». La ragione del fallimento dei negoziati? «Va cercata nel sistema di potere adottato da Angela Merkel», sistema che oggi «lascia la Cdu senza un delfino pronto a raccogliere la sua eredità». Spiega Dezzani: «Angela Merkel, il cui unico obiettivo è stato sin dai primi anni ‘90 la conquista e la conservazione della cancelleria federale, ha sempre sfruttato, svuotato e, infine, abbandonato qualsiasi alleato. Consumatone uno, ne cercava un altro, assicurandosi soltanto di rimanere al centro della scena politica», peraltro «con grande soddisfazione dei suoi padrini atlantici».Il gioco è andato avanti per 12 anni, pima di rompersi sull’onda dell’emergenza migratoria. L’esordio è del 2005, con la Merkel a capo di una Grande Coalizione con la Spd e i Verdi. Alle elezioni successive, ricorda Dezzani, la Spd ne esce a pezzi: e la cancelliera, di conseguenza, forma il nuovo governo con i liberali. Quindi nel 2013 sono i liberali a crollare, e così la Merkel «riallaccia i rapporti con i socialisti della Spd, ridotti nuovamente a semplice satellite della cancelliera». Trascorrono quattro anni e, nel 2017, la Germania torna al voto: la Spd registra il peggiore risultato di sempre (20%), inducendo la cancelliera a cercare un’intesa con i precedenti alleati liberali, cui deve sommare anche i Verdi per sopperire al salasso di voti subito dalla Cdu-Csu (dal 41% al 32%). Ora, ragionano i liberali: perché mai dovremmo farci spremere e poi gettar via come nel 2009, solo per garantire alla Merkel altri quattro anni alla cancelleria? Merkel: chi tocca muore. Nessuno sopravvive all’alleanza. Questo spiega la volontà generalizzata dei partiti tedeschi di tornare al voto il prima possibile: tutti, sottolinea Dezzani, «vogliono evitare l’ennesimo abbraccio mortale della cancelliera, la cui immagine, oltretutto, è ormai indissolubilmente compromessa dalla crisi migratoria del 2015».Assumendo quindi che il destino di Angela Merkel sia ormai segnato, quali previsioni si possono formulare per la Germania e l’Unione Europea? Dezzani ricorda innanzitutto quali interessi rappresenta la cancelliera, definita dal “New York Times” «the Liberal West’s Last Defender», l’ultima paladina dell’ordine liberale. In virtù del primato economico della Germania, la Merkel è «il politico che ha chiesto e ottenuto il coinvolgimento del Fondo Monetario Internazionale nei “salvataggi europei”, che ha favorito il saccheggio dell’europeriferia da parte della finanza internazionale, che ha avvallato il golpe italiano del 2011, che ha imposto le sanzioni contro la Russia al resto dell’Europa, che ha incentivato la politica migratoria di George Soros, che ha sinora garantito l’integrità dell’Eurozona nel bene e nel male, che ha raccolto la guida dell’ordine mondiale “liberale” dopo l’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump (surriscaldamento climatico, difesa della globalizzazione, etc)».Per Dezzani, l’uscita di scena della Merkel avrebbe conseguenze traumatiche per il potere Ue: «La Germania si prepara, una volta liberatasi dalla tutela di Angela Merkel, a spostarsi ulteriormente “a destra”: non si intende soltanto un travaso di voti verso i falchi della Cdu-Csu o “Alternativa per la Germania”, ma anche un diverso approccio di Berlino negli affari esteri». Secondo Dezzani, senza la Merkel alla cancelleria federale, «la Germania sarà più nazionalista e “continentale”, meno liberale e atlantica». Parallelamente, «l’uscita di scena di Angela Merkel complica ulteriormente i progetti di integrazione franco-tedeschi, già indeboliti dal rapido sfaldamento della presidenza Macron, e accelera le spinte centrifughe nel resto dell’Europa».Senza Angela Merkel alla testa dell’Europa, chi lotterà contro la svolta a destra di Polonia e Ungheria in materia di immigrazione? Chi scongiurerà una Grexit? Chi, soprattutto, ricatterà-blandirà l’Italia per evitare una sua uscita dall’euro nel 2018? «Il tramonto di Angela Merkel», scrive Federico Dezzani, «risolleva le sorti del 2017 e getta le basi per un 2018 esplosivo: il governatore della Banca Centrale Europa, Mario Draghi, è ormai il solo, vero, ostacolo alla dissoluzione dell’euro». E dire che erano le presidenziali francesi, in primavera, ad apparire come l’unico appuntamento elettorale del 2017 capace di destabilizzare l’Eurozona: nessuna sorpresa, invece, era attesa dalle elezioni federali tedesche dove, grazie al sistema proporzionale, la riconferma di Angela Merkel alla cancelleria era data per scontata. Il crollo della Spd e il timore degli altri partiti di andare incontro a un destino analogo hanno però vanificato i tentativi di formare una nuova coalizione di governo. «Il ritorno alle urne è probabile», in Germania. «E la Cdu, questa volta, correrebbe senza Angela Merkel», osserva Dezzani. «La caduta dell’ultima “paladina del mondo liberale” imprime nuovo slancio alla disgregazione dell’Unione Europea».