Archivio del Tag ‘New York Times’
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Ue, Mosca e Pechino soci perfetti: è l’incubo degli Usa
E’ ovvio che Obama attacca Putin perché teme che la Russia – immenso serbatoio energetico – faccia da ponte tra l’Europa e la superpotenza cinese. Ma sarebbe pazzesco pensare, solo per questo, che Putin sia “qualcosa di sinistra”, e così il regime di Pechino. Lo sostiene l’economista Joseph Halevi, riflettendo sui retroscena della crisi mondiale, che lo scontro sull’Ucraina ha reso evidente. Trattare Putin «come una specie di surrogato progressista»? Errore: «E’ questo che rende la sinistra ovunque totalmente imbecille – dice Halevi – e comincio a credere che lo sia sempre stata». L’attuale capo del Cremlino, infatti, venne scelto dalla vecchia nomenklatura del Kgb, l’unica che riuscì a tenere insieme la Russia che Eltsin stava mandando in pezzi. Ma l’obiettivo era uno solo: «Bloccare la sicura vittoria dei neo-comunisti alle prime elezioni post-Eltsin». Tutto questo «venne fatto dagli Usa, direttamente e soprattutto “via Europa”, per sostenere e rafforzare il potere di Putin, prima come premier e poi come presidente succeduto a Eltsin».L’elemento saliente di quel periodo, ricorda Helevi in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è la seconda guerrra cecena, combattuta tra il 1999 e il 2001. «La strategia militare elaborata da Putin implicò delle perdite fortissime tra i civili residenti in Cecenia (sia ceceni che russi) e questa violazione dei diritti umani non venne mai denunciata politicamente e formalmente dagli “occidentali” perchè troppo importante era Putin in relazione ad un possibilissimo ritorno al potere dei neo-comunisti». Altro errore, analogo: «Trattare la Cina come “qualcosa di rosso” perché c’è il Pcc al potere». Altro caso di miopia che, sempre secondo Halevi, «rende una grossa parte della sinistra completamente scema senza possibilità d’appello». Il modo migliore di intepretare la nuova Cina? «E’ vederla come un fenomeno ultra-bismarckiano», pur tenendo conto del fatto che «la formazione di una potenza bismarckiana delle dimensioni della Cina pone dei problemi per l’altra potenza», quella americana.Una visione, questa, elaborata già nel 1999 dalla Rand Corporation. Cina ultra-bismarckiana? A coniare la formula fu Zalmay Khalilzad, afghano emigrato negli Usa diventato sotto Bush figlio e ambasciatore Usa a Kabul dopo il 2001, poi ambasciatore in Iraq dopo il 2003 ed infine ambasciatore statunitense all’Onu. Sul versante geopolitico, Khalilzad spiega perchè – con la Cina di oggi – gli Usa non possono avere rapporti di sola cooperazione amichevole o di solo conflitto. «Pochi hanno colto la dimensione duale e contraddittoria degli interessi Usa in Cina, ma per coglierli basta studiare – leggendo il “Wall Street Journal” e l’“International New York Times” – Walmart, Apple e la General Electric». Quei colossi «sono in Cina per rifornire in primo luogo il mercato Usa, in secondo luogo il resto del mondo, in terzo luogo per vendere sul mercato cinese in crescita asfissiante (letteralmente)». Il successo della loro presenza in Cina «dipende dalla crescita cinese, che è organizzata dallo Stato bismarckianamente».Questa crescita, continua Halevi, significa «capacità di mettere in piedi in breve tempo grosse strutture industriali con ampie economie di scala e con ritmi di lavoro parossistici». Tutto ciò «conferisce una dimensione concreta alla globalizzazione». Esempio, il caso Apple, con iPad e iPhone «progettati negli Usa, prodotti da una società di Taiwan ma localizzata in Cina», perchè «a Taiwan e nemmeno negli Usa avrebbero potuto costruire, in poco tempo e con tutte le infrastrutture di collegamento, un insieme di impianti che occupano oltre 700 mila persone». Così, si è generato «uno iato crescente tra gli interessi economici del capitale Usa e la capacità dello Stato Usa di garantirne gli interessi in maniera coerente». Per esempio, negli Usa si discute la necessità di far rivalutare la moneta cinese, lo yuan: «A non volerlo sono proprio le società Usa che operano dalla Cina».Fino alla fine degli anni ‘90, prosegue Halevi, il mantenimento dell’egemonia statunitense si fondava sul ruolo della spesa pubblica federale (senza la quale il sistema militare, politico e finanziario non funzionerebbe) e sul ruolo del dollaro. Due elementi che permettevano e permettono il controllo delle cruciali zone energetiche del Medio Oriente. Un analista come Zbigniew Brzezinski sostenne che il controllo dell’arco energetico che va dall’Arabia Saudita all’insieme del Medio Oriente pemette di “tenere al guinzaglio” simultaneamente sia il Giappone che l’Unione Europea. «Giustissimo, per quel periodo», dice Halevi. «Da allora, la Russia è emersa come superpotenza energetica e la Cina come fulcro della produzione industriale mondiale, nonchè come asse dei meccanismi finanziari sui mercati delle materie prime, come il carbone».«Insieme alla finanziarizzazione degli Oceani e soprattutto dell’Artico – conclude Halevi – la dinamica dei prodotti finanziari globali non è certo determinata dal debito pubblico italiano e dallo spread, bensì dalla Cina». Sicché, la formazione di un “continuum” economico tra Cina, Russia ed Europa, Germania in primis, «è nei piani sia cinesi che tedeschi e russi». La parte più debole meno coordinata è quella russa, «perchè il processo di disgregazione dell’Urss apertosi nel 1991 è lungi dall’essersi concluso: la Russia è una superpotenza energetica, ma come forza statuale è ancora nel day-after del 26 dicembre del 1991». Per gli Stati Uniti, dunque, «è essenziale che non si formi alcun “continuum” euroasiatico, altrimenti entrerebbe seriamente in crisi la capacità dello Stato americano di proteggere coerentemente gli interessi del capitale Usa».E’ ovvio che Obama attacca Putin perché teme che la Russia – immenso serbatoio energetico – faccia da ponte tra l’Europa e la superpotenza cinese. Ma sarebbe pazzesco pensare, solo per questo, che Putin sia “qualcosa di sinistra”, e così il regime di Pechino. Lo sostiene l’economista Joseph Halevi, riflettendo sui retroscena della crisi mondiale, che lo scontro sull’Ucraina ha reso evidente. Trattare Putin «come una specie di surrogato progressista»? Errore: «E’ questo che rende la sinistra ovunque totalmente imbecille – dice Halevi – e comincio a credere che lo sia sempre stata». L’attuale capo del Cremlino, infatti, venne scelto dalla vecchia nomenklatura del Kgb, l’unica che riuscì a tenere insieme la Russia che Eltsin stava mandando in pezzi. Ma l’obiettivo era uno solo: «Bloccare la sicura vittoria dei neo-comunisti alle prime elezioni post-Eltsin». Tutto questo «venne fatto dagli Usa, direttamente e soprattutto “via Europa”, per sostenere e rafforzare il potere di Putin, prima come premier e poi come presidente succeduto a Eltsin».
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Chomsky e Barnard: se gridare di rabbia non basta più
«C’erano due milioni di italiani a manifestare contro la guerra in Iraq a Roma nel 2003… per un giorno. Bravi. Ma li vedi tu per il resto dell’anno passare di casa in casa a informare le masse? Dai. Se lo facessero allora sì che, assieme a nuovi metodi di comunicazione, le cose cambierebbero». Così Paolo Barnard scrive a Noam Chomsky, il linguista statunitense che il “New York Times” considera il maggior intellettuale vivente. Si tratta di un carteggio privato, datato 2007, cioè «prima dell’esplosione della crisi finanziaria, che ha sbattuto in faccia al mondo quanto in realtà ci siamo involuti e non evoluti nella difesa dei diritti dell’uomo e nella gestione dell’interesse pubblico». Tema cruciale: che fare, per cambiare le cose. Chomsky si appella a una variante della scommessa di Pascal: «Se decidiamo di rinunciare alla speranza, siamo certi che il peggio accadrà. Se invece manteniamo la speranza, possiamo immaginare che un futuro migliore arriverà». Barnard invece non ci crede più, non gli basta. Vede che tutto il nostro attivismo per i diritti finisce nel tritacarne del mainstream, senza che le atrocità del mondo vengano minimamente arginate.«Ancora non riusciamo a fermare l’orrore delle guerre, le ingiustizie su macro-scala, la fame di milioni di bambini, l’avanzare del Vero Potere, la dittatura dei mercati», scrive oggi Barnard. «Ebbi quindi un’idea. Scrissi a Chomsky e gli proposi la formazione di un pannello di esperti a livello mondiale che per la prima volta studiassero “che cosa cambia l’umanità in meglio”, partendo da cosa l’ha cambiata in passato, per arrivare a cosa la può veramente cambiare oggi. Un pannello di storici, antropologi, psicologi, intellettuali e veri combattenti». Assioma di partenza: «Non possiamo dare per scontato che ciò che è riuscito a stemperare la barbarie di 5.000 anni – passando per la Rivoluzione Francese e illuminista, quella socialista, per quella femminista, sulla scia dell’olocausto delle guerre mondiali, durante il prodigioso arrivo della rivoluzione delle tecnologie e mezzi di comunicazione – possa funzionare anche oggi. Talmente tanto è cambiato, soprattutto il Vero Potere ha ottenuto una tale rivincita a livello planetario, che dire – come diceva proprio Noam Chomsky – che “l’umanità è sempre uscita dalla barbarie e non c’è motivo per cui questo non debba continuare”, mi appariva superficiale».Se gli attivisti che lottano “per un mondo migliore” sbagliano l’analisi e gli strumenti per il cambiamento, rischiano di consegnarsi alla vittoria finale di quello che Barnard chiama “Vero Potere”. Sì, «c’è motivo di dubitare che l’attivismo possa ottenere qualcosa», ammette Chomsky, secondo cui però “ieri si stava peggio”. Ovvero: se si crede che il punto di svolta negativo e irreparabile sia maturato negli anni ‘70, fino al fallimento dell’opinione pubblica mondiale che non è riuscita a scongiurare la guerra in Iraq, il grande intellettuale americano cita gli anni ‘60, in cui «gli Usa compivano atrocità ben peggiori di quelle fatte in Iraq». Un solo esempio, il Vietnam: «Già nel 1967 il più rispettato storico militare sul Vietnam, Bernard Fall, dubitava che quel paese potesse persino sopravvivere ad attacchi di quella ferocia. Ma le proteste erano minime. In Europa non si mosse un dito mentre mezzo milione di soldati americani, coreani, thailandesi e mercenari stavano devastando il Vietnam del sud». L’Iraq? «E’ certamente un crimine, ma non si avvicina neppure pallidamente alle atrocità della guerra in Vietnam».Non si tratta di «rinunciare alla speranza», replica Barnard, ma – al contrario – dobbiamo «prendere atto del terrificante cambiamento nelle dinamiche sociali che ha reso apatici milioni di occidentali, e trovare un antidoto a questo finché possiamo». Secondo il giornalista, già inviato di “Report”, «i tempi migliori per la rivolta sociale alla brutalità vennero negli anni ‘70, che rappresentano il culmine, la “crema” se si vuole, di 250 anni di rivoluzioni sociali». La triste novità, invece, è «la paralisi odierna delle masse occidentali, frutto di 35 anni di “esistenza commerciale” e “cultura della visibilità massmediatica”, che hanno eroso la nostra psiche collettiva, e che va peggiorando. Sono due fenomeni che vedono la luce anch’essi negli anni ‘70 e lì iniziarono ad avvelenarci». Sono due fenomeni «interamente nuovi nella storia dell’umanità», mai tanto manipolata, «così come è inedito l’effetto di addormentamento oppiaceo che hanno sulle masse». In concreto, «la nostra esistenza oggi ci priva del tempo di capire, studiare e attivarci contro la barbarie del Vero Potere, ci toglie l’autostima per essere liberi pensatori (con conseguenze catastrofiche fra i sindacati italiani e i loro lavoratori)».Per Barnard, questi sconvolgenti cambiamenti «sono una “prima” assoluta nelle dinamiche sociali umane da 5.000 anni, non possono non aver causato mutamenti nel nostro sviluppo sociale». Sono troppo enormi per essere scartati e il giornalista vi scorge «la più grave minaccia alla nostra capacità di organizzazione collettiva contro i poteri». Dunque, aggiunge: «Io invoco che noi scopriamo la chiave di quella minaccia e la disattiviamo». Questa paralizzante mutazione antropologica, replica Chomsky, in realtà «iniziò negli anni ‘20 per poi massimizzarsi negli anni ‘70». Ha certo «plasmato il pubblico», ma secondo il linguista «con risultati del tutto diversi da quelli che il potere voleva ottenere», se è vero che «l’attivismo dagli anni ‘80 ha raggiunto cime mai viste prima, e ora sta inventandosi altri percorsi creativi». I movimenti tuttavia non sono all’altezza della sfida, né dei nuovi mezzi di cui pure disponiamo? «Argomento interessante», ammette Chomsky: «Un’idea intrigante, ma non so come misurarla».«La speranza, Noam, è nei nuovi metodi», risponde Barnrad, perché «quelli consueti nell’attivismo sono diventati privi di significato», siamo assuefatti anche alla protesta, che il mainstream digerisce senza turbarsi. E allora, «che senso ha continuare ad appellarsi a masse drogate da quei e fenomeni? Quindi perché non cercare nuovi metodi, che sappiano raggiungere le immense masse di maggioranza, quelle che non sanno neppure cosa significhino le parole Fondo Monetario, quelle che credono che la Palestina sia nata da Isreale, che non s’immaginano neppure lontanamente cosa veramente costi alle vite dei contadini africani la nostra tazza di caffè della mattina?. La speranza c’è a tonnellate, Noam, ma solo se abbiamo l’umiltà di accettare che i vecchi metodi sono morti e che un nuovo arsenale va costruito». Chomsy non è d’accordo: è «travolto da richieste di conferenze, interviste, attivismo». E poi, quali sarebbero le nuove forme di lotta? Neppure Barnard lo sa, ma – almeno – è certo che i “girotondi”, le raccolte di firme e i cortei di protesta non servano più a niente.«Quali erano le vecchie forme di lotta? Nominiamole: conferenze sempre piene di fans già convertiti; le solite manifestazioni; pubblicazioni e libri, di nuovo però ospitati da editori e media “amici”; i forum sociali, ancora zeppi di amici degli amici già simpatizzanti; l’equo-solidale col Sud, ok, bene, ma sempre minuti gruppi di “belle anime”. Insomma, le “belle anime” che parlano fra di loro Noam, sempre. Ma dimmi: è sufficiente ’sta roba a combattere una macchina colossale di potere finanziario, mediatico, industriale, politico e massmediatico che ha intrappolato 800 milioni di persone in una frenesia di vita e di indebitamento? Dimmi, Noam: le “belle anime” stanno convincendo e dando potere al taxista, al negoziante, all’impiegato, al pensionato, ai tifosi, alle discotecare, ai poliziotti, ai contadini, agli operai, ai conservatori, ai manager, ai colletti bianchi, gli anziani, ai qualunquisti, ai confusi, a chi non ha tempo per respirare la sera a casa? Sono milioni e votano! Non so, forse negli Usa avete fatto una miracolo, ma qui il movimento No-Global è conosciuto dal 99% come i black block che spaccano le vetrine, e nessuno sa nulla delle loro battaglie contro il Wto e i trattati di libero scambio coi poveri del Sud».«Gli Usa – replica Chomsky – sono oggi una nazione molto più civile di prima, e non è stato per magia. Questo include anche le aggressioni militari. Oggi nessun presidente qui potrebbe cavarsela con quello che hanno fatto Kennedy e Johnson nel sud est asiatico. E lo sanno». Chomsky è felice di essere riuscito a tenere una conferebza a mille cadetti e ufficiali di West Point sul tema della “guerra giusta”. E’ vero, il più delle volte la platea è fatta di “amici”, ma comunque «anni fa gli amici erano tre persone in una chiesa, oggi possono essere 5.000 di ogni estrazione in alcuni dei posti più reazionari d’America, e che ti ascoltano con attenzione. Questo è il risultato di molti anni di attivismo da parte di un sacco di gente, e mi sembra un’ottima cosa». Era solo il 2007, Chomsky non aveva ancora visto la Grande Crisi nella sua espressione più disumana, quella europea: un pugno di criminali, ha detto di recente, ha distrutto l’Europa. «Si credono i padroni del mondo. Dobbiamo fermarli». Già, ma come?«C’erano due milioni di italiani a manifestare contro la guerra in Iraq a Roma nel 2003… per un giorno. Bravi. Ma li vedi tu per il resto dell’anno passare di casa in casa a informare le masse? Dai. Se lo facessero allora sì che, assieme a nuovi metodi di comunicazione, le cose cambierebbero». Così Paolo Barnard scrive a Noam Chomsky, il linguista statunitense che il “New York Times” considera il maggior intellettuale vivente. Si tratta di un carteggio privato, datato 2007, cioè «prima dell’esplosione della crisi finanziaria, che ha sbattuto in faccia al mondo quanto in realtà ci siamo involuti e non evoluti nella difesa dei diritti dell’uomo e nella gestione dell’interesse pubblico». Tema cruciale: che fare, per cambiare le cose. Chomsky si appella a una variante della scommessa di Pascal: «Se decidiamo di rinunciare alla speranza, siamo certi che il peggio accadrà. Se invece manteniamo la speranza, possiamo immaginare che un futuro migliore arriverà». Barnard invece non ci crede più, non gli basta. Vede che tutto il nostro attivismo per i diritti finisce nel tritacarne del mainstream, senza che le atrocità del mondo vengano minimamente arginate.
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Cina, gli operai-schiavi rialzano la testa (grazie al web)
Sul piano legislativo i lavoratori cinesi godono di una serie di diritti, ancorché più limitati di quelli di cui dispongono i loro colleghi occidentali. Purtroppo tali diritti restano quasi sempre sulla carta, sia perché le imprese si guardano bene dal rispettarli, sia perché il Partito Comunista e i sindacati di stato non muovono un dito per farli rispettare. Ecco perché la Yue Yuen Industrial Holdings, azienda taiwanese che è considerata il più grande produttore mondiale di scarpe sportive (fra i suoi commettenti può vantare marchi di prestigio come Nike e Adidas) non ha versato per anni i contributi per la pensione ai suoi dipendenti. Mal gliene è incolto, perché non ha tenuto conto dell’evoluzione culturale delle nuove generazioni di operai cinesi, animate da una rabbia e uno spirito combattivo sconosciuti alle precedenti generazioni, e della loro abilità nell’usare i social network come strumenti di organizzazione e mobilitazione dal basso.Il risultato, come racconta il “New York Times”, è stato uno dei più lunghi e partecipati scioperi della storia recente del paese: 40.000 operai hanno bloccato le linee di produzione per due settimane, infliggendo all’azienda 27 milioni di danni. Alla fine il governo cinese, non riuscendo a bloccare la vertenza, si è rassegnato a intervenire e a costringere la Yue Yuen Industrial Holdings ad accettare un accordo. Pur in assenza di sindacati indipendenti (vietati dalla legge cinese) i lavoratori cinesi, secondo lo stesso articolo, hanno effettuato ben 1100 scioperi e proteste dal giugno del 2011 alla fine del 2013, mentre se ne registrano 200 solo negli ultimi due mesi.Lo strumento che ha favorito queste imponenti mobilitazioni, che hanno strappato consistenti aumenti salariali e altre concessioni, è stato un software di messaggistica chiamato Weixin (conosciuto anche con il nome inglese We Chat) che ha trecento milioni di utenti in grande maggioranza giovani: gli operai lo usano sistematicamente per scambiare informazioni, coordinare le azioni e estendere le lotte attraverso il passaparola. Ma attribuire tutto questo fermento sociale alla Rete sarebbe un errore non meno pacchiano di quello che ha indotto i media occidentali ad appioppare alla “primavera araba” l’etichetta di Twitter Revolution – una semplificazione su cui hanno giustamente ironizzato autori come Evgenij Morozov.Per capire le radici di questa ondata di lotte di classe è meglio andarsi a leggere il bel libro della sociologa cinese Pun Ngai, tradotto in Italia da Jaca Book con il titolo “La società armoniosa”. Pun Ngai analizza la cultura dei quasi trecento milioni di migranti interni che si sono riversati dalle campagne nelle grandi città dove vivono e lavorano in condizioni di sfruttamento spaventoso, paragonabili solo a quelle della classe operaia inglese dell’800 descritte da Engels. Sfruttati ma anche dotati di conoscenze, curiosità e competenze assai più avanzate di quelle dei loro genitori e quindi meno disposti a sopportare quelle condizioni disumane. Una massa operaia che, al pari di quella riversatasi dal nostro Sud a Torino e Milano negli anni ‘60 del ‘900, si sta rivelando poco propensa a chinare la testa e decisa a strappare redditi e condizioni di lavoro e di vita migliori. Quando la tecnologia incontra il capitale sono dolori per le classi subordinate, ma quando invece la tecnologia incontra la classe operaia sono dolori per i padroni.(Carlo Formenti, “Se gli operai cinesi rialzano la testa”, da “Micromega” del 5 maggio 2014).Sul piano legislativo i lavoratori cinesi godono di una serie di diritti, ancorché più limitati di quelli di cui dispongono i loro colleghi occidentali. Purtroppo tali diritti restano quasi sempre sulla carta, sia perché le imprese si guardano bene dal rispettarli, sia perché il Partito Comunista e i sindacati di stato non muovono un dito per farli rispettare. Ecco perché la Yue Yuen Industrial Holdings, azienda taiwanese che è considerata il più grande produttore mondiale di scarpe sportive (fra i suoi commettenti può vantare marchi di prestigio come Nike e Adidas) non ha versato per anni i contributi per la pensione ai suoi dipendenti. Mal gliene è incolto, perché non ha tenuto conto dell’evoluzione culturale delle nuove generazioni di operai cinesi, animate da una rabbia e uno spirito combattivo sconosciuti alle precedenti generazioni, e della loro abilità nell’usare i social network come strumenti di organizzazione e mobilitazione dal basso.
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I miliardari del futuro digitale e le nostre vite virtuali
Nel film “Her”, che ha appena vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale e che si svolge in un futuro prossimo, il personaggio principale, Theodore Twombly (Joaquin Phoenix) acquista un sistema operativo che funziona come un assistente totale, che si piega intuitivamente a qualsiasi esigenza o richiesta dell’utente. Theodore sceglie la voce femminile e con il suo smartphone passa le ore a chiacchierare con lei, finché non se ne innamora. La metafora è evidente e sottolinea la nostra sempre maggiore dipendenza dal mondo digitale, e la nostra immersione sempre più profonda in un universo smaterializzato. Ma se citiamo questo film non è solo per la sua moralità, ma perché i suoi personaggi vivono, come faremo domani, in un ambiente comunicativo ancora più iperconnesso. Con un’alta densità di tablet, smartphone, videogiochi di ultima generazione, schermi televisivi giganti e computer dialoganti attivati con la voce…La richiesta di dati e video ha raggiunto davvero livelli astronomici. Questo perché gli utenti sono sempre più agganciati nelle reti sociali. Facebook, ad esempio, ha già più di 1.300 milioni di utenti attivi in tutto il mondo, YouTube circa un miliardo, Twitter 750 milioni, WhatsApp 450 milioni. In tutto il mondo, gli utenti non sono più soddisfatti da un unico mezzo di comunicazione e reclamano il “quadruple play”, ossia l’accesso a Internet, Tv digitale, telefono fisso e mobile. E per soddisfare questa domanda insaziabile ci vogliono connessioni (di banda ultralarga) capaci di fornire l’enorme flusso di informazioni, espresse in centinaia di megabit al secondo. E qui sorge il problema. Dal punto di vista tecnico, le reti Adsl attuali – quelle che ci permettono di ricevere Internet in banda larga sui nostri smartphone – sono quasi già sature. Cosa fare? L’unica soluzione è passare attraverso il cavo, coassiale o in fibra ottica. Questa tecnologia assicura una qualità ottimale nella trasmissione dati e video a banda ultralarga, quasi senza limiti di portata.Era popolare nel 1980, ma fu accantonata perché richiede grandi opere costose (bisogna scavare e mettere sottoterra i cavi e portarli alla base degli edifici). Solo pochi operatori via cavo hanno continuato a investire sulla sua affidabilità e hanno pazientemente costruito una fitta rete cablata. La maggior parte degli altri preferivano la tecnologia Adsl, più economica (è sufficiente installare una rete di antenne) ma, come abbiamo detto, è quasi saturata. Pertanto, in questo momento, il movimento generale delle grandi società di telecomunicazioni (e degli speculatori dei fondi di capitale) è quello di cercare a tutti i costi la fusione con gli operatori via cavo le cui “vecchie” reti in fibra rappresentano, paradossalmente, il futuro delle autostrade della comunicazione.Questo contesto tecnologico e commerciale spiega la recente acquisizione, in Spagna, di Ono, il più grande operatore via cavo locale da parte della britannica Vodafone in cambio di 7,2 miliardi di euro. Quarto operatore spagnolo, Ono ha 1,1 milioni di linee mobili e 1,5 milioni di linee fisse, ma ciò che gli dà valore è la sua vasta rete cablata che raggiunge 7,2 milioni di famiglie. La quota del 60% in Ono era nelle mani dei fondi azionari internazionali che già sapevano, per le ragioni appena illustrate, che i giganti della telecomunicazione vogliono acquistare, a qualsiasi prezzo, agli operatori via cavo. Ovunque, i fondi-avvoltoio stanno comprando gli operatori via cavo indipendenti per poter ottenere guadagni significativi da rivendere a un qualche compratore dell’industria. Per esempio, in Spagna, i tre operatori via cavo regionali, Euskaltel, Telecable e R – sono stati oggetto di acquisti speculativi. Nel 2011 il fondo di private equity statunitense Carlyle Group ha acquistato l’85% dell’operatore asturiano via cavo Telecable.Nel 2012 il fondo italiano Investindustrial e quello americano Trilantic Capital Parners hanno rilevato il 48% dell’operatore basco Euskaltel. E il mese scorso il fondo britannico Cvc Capital Partners ha acquisito il 30% che gli mancava dell’operatore galiziano R, che controlla nella sua totalità. A volte le fusioni sono realizzate in senso inverso: è l’operatore via cavo che acquista una società di telecomunicazioni. È appena accaduto in Francia, dove l’azienda di cavi Numericable (cinque milioni di famiglie o aziende collegate) sta cercando di acquistare, per quasi 12 miliardi di euro, il terzo operatore di telefonia mobile francese, Sfr, proprietario di una rete di 57.000 chilometri di fibra ottica. Altre volte sono due cablo-operatori che decidono di fondersi. Sta succedendo in America, dove i due maggiori operatori via cavo, Comcast e Time Warner Cable (Twc), hanno deciso di unirsi. Insieme, questi due titani hanno oltre 30 milioni di abbonati, a cui procurano servizi di Internet a banda larga e di telefonia fissa e mobile.Le due aziende, ora socie, controllano anche un terzo della pay-tv. La loro mega-fusione verrebbe praticata sotto forma di un acquisto di Twc da parte di Comcast per la somma colossale di 45 miliardi di dollari (36 miliardi di euro). Il risultato sarà un mastodonte mediatico con un fatturato stimato in circa 87 miliardi di dollari (67 miliardi di euro). Una somma astronomica, come quella degli altri giganti di Internet, in particolare se confrontata con quella di alcuni gruppi mediatici di stampa scritta. Ad esempio, il fatturato del gruppo Prisa, il primo gruppo di comunicazione spagnolo, editore del quotidiano “El País” con una forte presenza in America Latina, è inferiore ai 3 miliardi di euro. Il “New York Times” fattura meno di 2 miliardi di euro. Il gruppo “Le Monde” non supera i 380 milioni di euro, e il “Guardian” neppure 250.In termini di solidità finanziaria, rispetto ai colossi delle telecomunicazioni, la stampa (anche con i siti web) pesa poco. E ogni volta meno. Ma rimane un fattore indispensabile di informazione e di denuncia. Particolarmente sugli abusi dei nuovi giganti delle telecomunicazioni quando spiano le nostre comunicazioni. Grazie alle rivelazioni di Edward Snowden e Glenn Greenwald, pubblicate dal quotidiano britannico “The Guardian”, abbiamo appreso che la maggior parte dei giganti di Internet erano – e sono tuttora – complici della National Security Agency (Nsa) per la realizzazione del suo programma illegale di spionaggio massivo delle comunicazioni e dell’utilizzo dei social network. Non siamo innocenti. Schiavi volontari, e pur sapendo di essere osservati, continuiamo ad alterarci con la droga digitale. Senza preoccuparci di quanto cresce la nostra dipendenza, consegnamo sempre più la sorveglianza delle nostre vite ai nuovi padroni della comunicazione. Continueremo così? Possiamo consentire di essere tutti sotto controllo?(Ignacio Ramonet, “Tutti sotto controllo”, intervento pubblicato da “Le Monde Diplomatique”, tradotto e ripreso da “Come Don Chisciotte” il 4 aprile 2014).Nel film “Her”, che ha appena vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale e che si svolge in un futuro prossimo, il personaggio principale, Theodore Twombly (Joaquin Phoenix) acquista un sistema operativo che funziona come un assistente totale, che si piega intuitivamente a qualsiasi esigenza o richiesta dell’utente. Theodore sceglie la voce femminile e con il suo smartphone passa le ore a chiacchierare con lei, finché non se ne innamora. La metafora è evidente e sottolinea la nostra sempre maggiore dipendenza dal mondo digitale, e la nostra immersione sempre più profonda in un universo smaterializzato. Ma se citiamo questo film non è solo per la sua moralità, ma perché i suoi personaggi vivono, come faremo domani, in un ambiente comunicativo ancora più iperconnesso. Con un’alta densità di tablet, smartphone, videogiochi di ultima generazione, schermi televisivi giganti e computer dialoganti attivati con la voce…
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Odio nucleare: era Israele il peggior nemico di Kennedy
Natural born killers, assassini nati. Tesi più che ardita, ma storicamente supportata da prove: cinque diversi primi ministri israeliani, prima di approdare alla politica, si erano fatti le ossa nel terrorismo sionista, firmando omicidi e stragi, per poi passare al Mossad. Perché mai non avrebbero potuto organizzare proprio loro l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, ovvero il più grande mistero irrisolto – dopo cinquant’anni – nella storia americana del secolo scorso? Se lo domanda Said Alami su “Rebelion”, citando nuovi dossier desecretati e libri-denuncia come “Final Judgment, the Missing Link in the Jfk assassination controversy”, del giornalista investigativo Michael Collins Piper. La tesi esplora un possibile movente: la centrale nucleare semi-clandestina che Israele stava allora costruendo a Dimona, nel deserto del Neghev, con tecnologia francese. Kennedy, molto contrariato, fece scendere il gelo sui rapporti con Tel Aviv. Ma non aveva calcolato che la Cia – con la quale era in guerra – era largamente infiltrata dal Mossad.La teoria secondo sui sarebbe stata proprio la Cia ad assassinare Kennedy si basa sulla profonda inimicizia che regnava tra Jfk e l’intelligence, dopo che il presidente si era rifiutato di sostenere militarmente l’agenzia durante l’invasione della Baia dei Porci nel 1963, fallita poi miseramente, causando il rafforzamento del regime rivoluzionario di Fidel Castro a Cuba. Stanco degli eccessi della Cia, Kennedy confidò al suo collaboratore Clark Clifford di voler smantellare la Cia in mille pezzi. E Israele, attraverso i suoi uomini nell’agenzia di Langley, era a conoscenza di questi rapporti di tensione tra Kennedy e l’intelligence, scrive Alami in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Possibile manovalanza dell’omicidio messo a segno a Dallas il 22 novembre 1963, la vasta rete criminale facente capo al gangster Meyer Lansky, boss della potentissima mafia ebraica negli Usa, anch’essa in stretto collegamento col servizio segreto israeliano.Le tensioni tra Usa e Israele cominciano tre anni prima dell’omicidio Kennedy, nel 1960, quando già il presidente uscente, Eisenhower, chiede spiegazioni al premier israeliano Ben Gurion sul misterioso impianto di Dimona, in pieno deserto. Gli israeliani mentono, sostenendo che si tratta di una innocua fabbrica tessile. La Cia però indaga fino a ottenere fotografie dell’installazione, classificate “top secret” ma poi pubblicate in prima pagina sul “New York Times”. Quando si insedia Kennedy, il 20 gennaio 1961, il caso Dimona è ormai diventato «un’autentica bomba a orologeria nelle relazioni fra Tel Aviv e Washington», ricorda Alami. La Casa Bianca aumenta le pressioni, e ottiene la prima ammissione: l’impianto in effetti è nucleare, ma “per scopi pacifici”. Kennedy allora rifiuta di invitare Ben Gurion a Washington, così il premier israeliano – per allentare la tensione – autorizza un’ispezione di due scienziati statunitensi, Ulysses Staebler e Jess Croach, che in un rapporto confermano la versione israeliana: Dimona non è un impianto militare. Questo sblocca il veto di Kennedy, che finalmente incontra Ben Gurion il 30 maggio e si fa promettere che Israele consentirà agli Usa (che non si fidano dell’alleato mediorientale) un monitoraggio costante dell’installazione.«Nei due anni successivi al colloquio, però – scrive Alami – la volpe israeliana non mantenne le promesse». Così, Kennedy si spazientisce e il 13 maggio 1963 intima a ben Gurion di riaprire alle ispezioni il sito di Dimona, pena l’isolamento mondiale di Israele. Per tutta risposta, Ben Gurion si dimette da primo ministro. A metà giugno, Jfk rivolge lo stesso ultimatum al successore di Ben Gurion, Levi Eshkol. Ed è qui – suggerisce Said Alami – che forse nasce il cambio radicale di strategia: far fuori il presidente-nemico, con l’aiuto della Cia. Il curriculum dei premier israeliani non è certo rassicurante, aggiunge Alami, ricordando le responsabilità della leadership di Tel Aviv nell’attività terroristica condotta per anni in Palestina, dalla pulizia etnica contro la popolazione civile agli attentati per colpire il protettorato britannico e ottenere lo status di paese indipendente.Ben Gurion, padre dello Stato di Israele, è responsabile di genocidio contro i civili palestinesi: il leader sionista fondò il primo gruppo armato, Hashomer, già nel 1909. Il suo successore al governo di Tel Aviv, Levi Eshkol, era uno dei capi dell’Haganah, organizzazione terroristica generata da Hashomer. Entrambi erano considerati «due criminali», peraltro «reclamati negli anni ’30 e ’40 dalla polizia britannica in Palestina e nel resto del mondo per i loro numerosi omicidi e attentati», ricorda Alami. Terzo illustre terrorista e futuro primo ministro di Israele è Yitzhak Shamir: era membro del gruppo terroristico ebraico Irgun e poi del gruppo Lehi, altra organizzazione terroristica in Palestina. Quando Eshkol diventò primo ministro, Shamir era a capo del comando omicidi del Mossad, dove ha servito dal 1955 al 1965, periodo in cui risiedeva per la maggior parte del tempo a Parigi, sede europea del Mossad.«Shamir serviva il Mossad, tra le altre cose, per eseguire l’Operazione Damocle, operazione in cui vennero uccisi vari scienziati tedeschi trasferiti in Egitto dopo la Rivoluzione degli Ufficiali Liberi in Egitto nel 1952 e l’arrivo al potere di Nasser», continua Alami. L’elenco prosegue col nome del quarto uomo, Menachem Beghin, anch’egli prima terrorista e poi premier. Già ricercato dalla giustizia britannica, Begin aveva militato fra i terroristi dell’Irgun fino a diventarne leader nel 1943. «E’ stato colui che ordinò la mattanza all’Hotel Rey David, a Gerusalemme, nel 1946, dove morirono 91 persone». Due anni più tardi, aggiunge Alami, 132 terroristi di Irgun, comandati proprio da Begin, furono protagonisti della famosa strage di Deir Yasin, in cui vennero assassinate centinaia di persone in due villaggi palestinesi, donne e bambini compresi. E’ dimostrato, dice Alami, che proprio Beghin abbia incontrato un gangster della mafia ebraica statunitense due settimane prima dell’omicidio di Kennedy: si tratta di Micky Cohen, uomo di fiducia di Meyer Lansky nella West Coast. Secondo Collins Piper, fu proprio Cohen a reclutare un altro ebreo, Jack Rubenstein, meglio conosciuto come Jack Ruby, per assassinare Lee Harvey Oswald, l’uomo accusato di essere l’autore materiale dell’omicidio di Dallas.Dalla ricostruzione, tacciata di “antisemitismo” dall’epoca dell’uscita del libro di Collins Pipier, negli anni ‘90, non si salva neppure il quinto futuro premier israeliano, il coraggioso Yitzhak Rabin, protagonista della storica pace con Arafat (gli accordi di Oslo del 1993) che gli valsero il Premio Nobel per la Pace ma anche la “condanna a morte”, eseguita nel ‘95 da un colono ebreo estremista. La notizia è che Rabin si trovava a Dallas il giorno dell’omicidio Kennedy. «Non sarebbe proprio una coincidenza – sostiene Alami – tenendo conto del fatto che anche Rabin lavorava per il Mossad». Collins Pipier ipotizza che proprio Rabin, in veste di giornalista, abbia intervistato Jack Ruby il giorno prima dell’assassinio di Oswald nel quartier generale della polizia di Dallas. Anche il dossier di Said Alami mette in luce un clamoroso intreccio di potenti uomini d’affari americani collegati a Israele, al Mossad, alla Cia e alla criminalità ebraica negli Usa. «In realtà, la teoria che Israele stia dietro all’omicidio Kennedy non è né nuova né strana», ammette Alami. La “notizia”, semmai, è che Washington e i media l’hanno semplicemente dimenticata. Magico potere della mitica “lobby ebraica” che presidia Wall Street? Una cosa è certa: i tempi in cui la Casa Bianca osa fare la voce grossa con Israele, pretendendo trasparenza, sono finiti esattamente cinquant’anni fa, nella stessa tomba di Kennedy.Natural born killers, assassini nati. Tesi più che ardita, ma storicamente supportata da prove: diversi primi ministri israeliani, prima di approdare alla politica, si erano fatti le ossa nel terrorismo sionista, firmando omicidi e stragi, per poi passare al Mossad. Perché mai non avrebbero potuto organizzare proprio loro l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, ovvero il più grande mistero irrisolto – dopo cinquant’anni – nella storia americana del secolo scorso? Se lo domanda Said Alami su “Rebelion”, citando nuovi dossier desecretati e libri-denuncia come “Final Judgment, the Missing Link in the Jfk assassination controversy”, del giornalista investigativo Michael Collins Piper. La tesi esplora un possibile movente: la centrale nucleare semi-clandestina che Israele stava allora costruendo a Dimona, nel deserto del Neghev, con tecnologia francese. Kennedy, molto contrariato, fece scendere il gelo sui rapporti con Tel Aviv. Ma non aveva calcolato che la Cia – con la quale era in guerra – era «largamente infiltrata dal Mossad».
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Guerra e gas, obbedire a Obama è un pessimo affare
Dall’abbraccio mortale con Obama abbiamo tutto da perdere, se il presidente americano pretende che l’Europa si prepari a una guerra – fredda, o addirittura calda – con la Russia di Putin. Lo sostiene Manlio Dinucci, considerando il “pacco atlantico” che la Casa Bianca ha proposto all’Unione Europea. Per dirla con Susan Rice, consigliera per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, la loro missione consiste nel «premere per l’unità dell’Occidente» di fronte alla «invasione russa della Crimea». Primo passo, l’ulteriore rafforzamento della Nato, cioè «l’alleanza militare che, sotto comando Usa, ha inglobato nel 1999-2009 tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia, tre dell’ex Urss e due ex repubbliche della Jugoslavia (distrutta dalla Nato con la guerra)». Inarrestabile marcia verso est: basi, forza militare, capacità nucleare, “scudo antimissile” per minacciare Mosca. Fino al “golpe” di Kiev che ha spinto la Crimea a tornare sotto l’ala del Cremlino. Completa il quadro lo sviluppo del Trattato Transatlantico, il Ttip, detto anche “la Nato economica”, funzionale al sistema geopolitico Usa.Significativo, scrive Dinucci sul “Manifesto”, è che la visita di Obama in Europa si sia aperta con il terzo summit sulla sicurezza nucleare: una creazione dello stesso Obama, «non a caso Premio Nobel per la Pace», per “mettere in sicurezza” l’immenso arsenale atomico occidentale: alle 8.000 testate nucleari americane, tra cui 2.150 pronte al lancio, si aggiungono le 500 testate francesi e britaniche, che portano il totale Nato a oltre 2.600 testate pronte al lancio, a fronte delle circa 1.800 russe. Potenziale ora accresciuto dalla fornitura del Giappone agli Usa di oltre 300 chili di plutonio e una grossa quantità di uranio arricchito adatti alla fabbricazione di armi nucleari, cui si aggiungono 20 chili da parte dell’Italia. Nel club nucleare c’è anche Israele, l’unica potenza nucleare in Medio Oriente (non aderente al Trattato di non-proliferazione), che possiede fino a 300 testate e produce tanto plutonio da fabbricare ogni anno 10-15 bombe tipo quella di Nagasaki.Obama ha ordinato che circa 200 bombe B-61 schierate in Germania, Italia, Belgio, Olanda e Turchia (violando il trattato di non-proliferazione) siano sostituite con nuove bombe nucleari B61-12 a guida di precisione, progettate in particolare per il caccia F-35, comprese quelle anti-bunker per distruggere i centri di comando in un “first strike” nucleare. La strategia di Washington ha un duplice scopo, sostiene Dinucci: da un lato, ridimensionare la Russia, che ha rilanciato la sua politica estera (si veda il ruolo svolto in Siria) e si è riavvicinata alla Cina, e dall’altro «alimentare in Europa uno stato di tensione che permetta agli Usa di mantenere tramite la Nato la loro leadership sugli alleati». Alcuni sono veri e propri alleati, come la Germania: «Con il governo tedesco Washington tratta per la spartizione di aree di influenza». Con altri, come l’Italia, semplici paesi satelliti, la Casa Bianca «si limita a pacche sulle spalle sapendo di poter ottenere ciò che vuole».Contemporaneamente, continua Dinucci, Obama preme sugli alleati europei perché riducano le importazioni di gas e petrolio russo. Obiettivo non facile. L’Unione Europea dipende per circa un terzo dalle forniture energetiche russe: Germania e Italia per il 30%, Svezia e Romania per il 45%, Finlandia e Repubblica Ceca per il 75%, Polonia e Lituania per oltre il 90%. L’amministrazione Obama, scrive il “New York Times”, persegue una «strategia aggressiva» che mira a ridurre le forniture energetiche russe all’Europa: essa prevede che la Exxon Mobil e altre compagnie statunitensi forniscano crescenti quantità di gas all’Europa, sfruttando i giacimenti mediorientali, africani e altri, compresi quelli statunitensi la cui produzione è aumentata permettendo agli Usa di esportare gas liquefatto.In questo quadro rientra la “guerra dei gasdotti”: obiettivo statunitense è bloccare il Nord Stream, che porta nella Ue il gas russo attraverso il Mar Baltico, e impedire la realizzazione del South Stream, che lo porterebbe nella Ue attraverso il Mar Nero. Entrambi i grandi gasdotti aggirano l’Ucraina, attraverso cui passa oggi il grosso del gas russo, e sono realizzati da consorzi guidati dalla Gazprom di cui fanno parte compagnie europee. Paolo Scaroni, numero uno dell’Eni, ha avvertito il governo che, se venisse bloccato il progetto South Stream, l’Italia perderebbe ricchi contratti, come l’appalto da 2 miliardi di euro che la Saipem si è aggiudicata per la costruzione del tratto sottomarino.Dall’abbraccio mortale con Obama abbiamo tutto da perdere, se il presidente americano pretende che l’Europa si prepari a una guerra – fredda, o addirittura calda – con la Russia di Putin. Lo sostiene Manlio Dinucci, considerando il “pacco atlantico” che la Casa Bianca ha proposto all’Unione Europea. Per dirla con Susan Rice, consigliera per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, la loro missione consiste nel «premere per l’unità dell’Occidente» di fronte alla «invasione russa della Crimea». Primo passo, l’ulteriore rafforzamento della Nato, cioè «l’alleanza militare che, sotto comando Usa, ha inglobato nel 1999-2009 tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia, tre dell’ex Urss e due ex repubbliche della Jugoslavia (distrutta dalla Nato con la guerra)». Inarrestabile marcia verso est: basi, forza militare, capacità nucleare, “scudo antimissile” per minacciare Mosca. Fino al “golpe” di Kiev che ha spinto la Crimea a tornare sotto l’ala del Cremlino. Completa il quadro lo sviluppo del Trattato Transatlantico, il Ttip, detto anche “la Nato economica”, funzionale al sistema geopolitico Usa.
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Argentina e Grecia presentano Padoan, il rovina-paesi
«La riforma Fornero è stato un passo importante per la risoluzione dei problemi dell’Italia», dichiarò un anno fa il neo ministro dell’economia Pier Carlo Padoan. Ex dirigente del Fondo Monetario Internazionale, ex consulente della Bce ed ex vice segretario dell’Ocse, Padoan è di casa tra i potenti del mondo. Scelto personalmente dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e osannato dai grandi media italiani, il neo ministro non è stimato da tutti gli economisti, soprattutto da quelli non liberisti. Sentite cosa scrisse di lui sul “New York Times” il Premio Nobel per l’economia Paul Krugman: «Certe volte gli economisti che ricoprono incarichi ufficiali danno cattivi consigli; altre volte danno consigli ancor peggiori; altre volte ancora lavorano all’Ocse».Padoan era responsabile dell’Argentina per conto del Fondo Monetario Internazionale nell’anno in cui il paese sudamericano fece default. A cosa si riferiva Krugman? Padoan è stato l’uomo che ha gestito per conto del Fondo Monetario Internazionale la crisi argentina. Nel 2001, Buenos Aires fu costretta a dichiarare fallimento dopo che le politiche liberiste e monetariste imposte dal Fmi (quindi, suggerite da Padoan) distrussero il tessuto sociale del paese. In quegli anni il neo ministro si occupò anche di Grecia e Portogallo. Krugman scrisse in un altro articolo che furono proprio le ricette economiche «suggerite da Padoan» a «favorire la successiva crisi economica nei due Paesi».Ecco cosa dichiarò Padoan a proposito della crisi greca: «La Grecia si deve aiutare da sola, a noi spetta controllare che lo faccia e concederle il tempo necessario. La Grecia deve riformarsi, nell’amministrazione pubblica e nel lavoro». In altre parole, Atene avrebbe dovuto rendere il lavoro molto più flessibile, alleggerendo (licenziando) la macchina della pubblica amministrazione. Nel marzo del 2013, quando la Grecia era sull’orlo del collasso, l’allora numero due dell’Ocse suggerì più esplicitamente: «C’è necessità che il governo greco adotti una disciplina di bilancio rigorosa e di un continuo sforzo di risanamento dei conti pubblici, condizioni preventive per il varo di misure a sostegno dello sviluppo». Padoan è stato per quattro anni responsabile per conto del Fmi della Grecia. Successivamente, ha influenzato le politiche economiche di Atene in qualità di vice presidente dell’Ocse.(Franco Fracassi, “L’uomo che spinse l’Argentina nell’abisso”, da “Popoff” del 21 febbraio 2014).«La riforma Fornero è stato un passo importante per la risoluzione dei problemi dell’Italia», dichiarò un anno fa il neo ministro dell’economia Pier Carlo Padoan. Ex dirigente del Fondo Monetario Internazionale, ex consulente della Bce ed ex vice segretario dell’Ocse, Padoan è di casa tra i potenti del mondo. Scelto personalmente dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e osannato dai grandi media italiani, il neo ministro non è stimato da tutti gli economisti, soprattutto da quelli non liberisti. Sentite cosa scrisse di lui sul “New York Times” il Premio Nobel per l’economia Paul Krugman: «Certe volte gli economisti che ricoprono incarichi ufficiali danno cattivi consigli; altre volte danno consigli ancor peggiori; altre volte ancora lavorano all’Ocse».
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Il super-ministro di Renzi: italiani, soffrire vi fa bene
Suvvia, un po’ di austerità fa bene: cari italiani, dovete soffrire. A parlare così è il neoministro dell’economia, Pier Carlo Padoan. Parole riportate dal premio Nobel Paul Krugman in un articolo sul “New York Times” dell’aprile scorso. «Meno di un anno – rileva Debora Billi – anche se, a leggerle, certe affermazioni sembrano ripescate dalle tenebrose teorie dei tempi bui di qualche decennio fa». L’articolo, d’altronde, si intitola “Le botte devono continuare”: non certo una prospettiva tranquillizzante. «Matteo Renzi – scrive la Billi nel suo blog, “L’estremista” – aveva promesso che avrebbe ridiscusso l’austerity in Europa (sbattendo i pugni sul famoso tavolo che in realtà non esiste), e ora ci si chiede come diamine farà se il suo ministro preposto la pensa all’opposto». Renzi? «Già si sta rimangiando le promesse, infatti. Avrebbe potuto risparmiarsele fin dall’inizio, tanto mica doveva votarlo nessuno». Che ha detto, il suo ministro? Letteralmente: «Il dolore sta producendo risultati».Capo-economista dell’Ocse nonché professore universitario alla Sapienza di Roma, Padoan ha avuto incarichi come consulente presso la Banca Mondiale, la Commissione Europea e la Banca Centrale Europea. E’ stato inoltre direttore di Italiani Europei, la fondazione di Massimo D’Alema, un think-tank politico che si occupa di temi economici e sociali. Tra il 2001 e il 2005 ha ricoperto il ruolo di direttore esecutivo per l’Italia del Fondo Monetario Internazionale con responsabilità su Grecia, Portogallo, San Marino, Albania e Timor Est, mentre dal 1998 al 2001 è stato consigliere economico presso la presidenza del Consiglio dei ministri, collaborando con i premier Massimo D’Alema e Giuliano Amato.Lo stesso Padoan, super-tecnocrate perfettamente in linea con la Troika europea protagonista delle politiche di rigore che stanno devastando l’Europa del Sud, è stato anche responsabile per il coordinamento della posizione italiana nei negoziati dell’ Agenda 2000 per il bilancio Ue, l’Agenda di Lisbona, il Consiglio Europeo, gli incontri bilaterali e i vertici del G8. Dal 1992 al 2001 ha anche insegnato al College of Europe ed è stato visiting professor in Italia, Argentina, Giappone, Polonia e Belgio. Al “New York Times” ha confidato che, a suo parere, la crescente percezione che l’austerità sia futile è completamente sbagliata. «Il consolidamento fiscale sta producendo risultati», ha detto. Aggiungendo che i politici dell’Eurozona dovrebbero cercare di fare un lavoro migliore per comunicare i loro “successi” ad una popolazione stremata. «Rimane sempre la speranza che stesse facendo dell’ironia spinta», chiosa Debora Billi.Suvvia, un po’ di austerità fa bene: cari italiani, dovete soffrire. A parlare così è il neoministro dell’economia, Pier Carlo Padoan. Parole riportate dal premio Nobel Paul Krugman in un articolo sul “New York Times” dell’aprile scorso. «Meno di un anno – rileva Debora Billi – anche se, a leggerle, certe affermazioni sembrano ripescate dalle tenebrose teorie dei tempi bui di qualche decennio fa». L’articolo, d’altronde, si intitola “Le botte devono continuare”: non certo una prospettiva tranquillizzante. «Matteo Renzi – scrive la Billi nel suo blog, “L’estremista” – aveva promesso che avrebbe ridiscusso l’austerity in Europa (sbattendo i pugni sul famoso tavolo che in realtà non esiste), e ora ci si chiede come diamine farà se il suo ministro preposto la pensa all’opposto». Renzi? «Già si sta rimangiando le promesse, infatti. Avrebbe potuto risparmiarsele fin dall’inizio, tanto mica doveva votarlo nessuno». Che ha detto, il suo ministro? Letteralmente: «Il dolore sta producendo risultati».
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Distruggere l’Ucraina: un piano da 5 miliardi di dollari
L’assistente del segretario di Stato Victoria Nuland ha detto al National Press Club di Washington, lo scorso dicembre, che gli Stati Uniti hanno investito 5 miliardi di dollari «al fine di dare all’Ucraina il futuro che merita», così scrive Paul Craig Roberts sul suo blog. Lui è ex assistente al Tesoro degli Usa e dice cose documentate. E ho letto che la Nuland ha già scelto i membri del futuro governo ucraino per quando Yanukovic sarà stato spodestato (o fatto fuori). L’Ucraina potrà avere così “il futuro che merita”. Ma quale futuro merita l’Ucraina, gli ucraini? Per come stanno andando le cose nessuno: non ci sarà l’Ucraina. Nell’indescrivibile clangore delle menzogne che gronda dai media mainstream la cosa principale che manca in assoluto è la banale constatazione che Yanukovic, l’ennesimo “dittatore sanguinario” della serie, è stato eletto a larga maggioranza dagli ucraini.Nessuno ne contestò l’elezione quando sconfisse Viktor Yushenko, anche se fu un boccone amaro per chi di Yushenko aveva finanziato l’ascesa. E gli aveva perfino procurato la moglie. Pochi sanno che la seconda moglie di Yushenko si chiama Katerina Chumacenko, che veniva direttamente dal Dipartimento di Stato Usa (incaricata dei “diritti umani”). Ancora meno sanno che Katerina, prima di fare carriera a Washington, era stata uno dei membri più attivi e influenti dell’organizzazione neo-nazista Oun-B della sua città natale, Chicago. Oun-B sta per Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini, di Stepan Bandera. L’Oun-B, tutt’altro che defunta, ha dato vita al Partito Svoboda, il cui slogan di battaglia è “l’Ucraina agli ucraini”, lo stesso che Bandera innalzava collaborando con Hitler durante la seconda guerra mondiale.Del resto Katerina era stata leader del Comitato del Congresso ucraino, il cui ispiratore era Jaroslav Stetsko, braccio destro di Stepan Bandera. Che è come dire che il governo americano si era sposato con i nazisti ucraini emigrati negli Usa, prima di mettere Katerina nel letto di Yushenko. Anche di questo il mainstream non parla. Ma ho fatto questa digressione per dire che, certo, gli ucraini hanno tutto il diritto di essere scontenti, molto scontenti di Yanukovic. E di avere cambiato idea. Anche noi abbiamo tutto il diritto di essere scontenti di Napolitano o del governo, ma questo non significa che pensiamo sia giusto assaltare il Quirinale a colpi di bombe molotov prima e poi di fucili mitragliatori. Essenziale sarebbe stato tenere conto di questi dati di fatto. Ma il piano, di lunga data, degli Stati Uniti era quello di assorbire l’Ucraina nell’Occidente. Se possibile tutta intera.Sentite cosa scriveva nel 1997 Zbignew Brzezinski, polacco: «Se Mosca ricupera il controllo sull’Ucraina, con i suoi 52 milioni di persone e le grandi risorse, riprendendo il controllo sul Mar Nero, la Russia tornerà automaticamente in possesso dei mezzi necessari per ridiventare uno Stato imperiale». Ecco dunque il perché dei 5 miliardi di cui parla la Nuland. Caduto Yushenko, in questi anni decine di Ong, fondazioni, istituti di ricerca, università europee e americane, e canadesi, hanno invaso la vita politica dell’Ucraina. Qualche nome? Freedom House, National Democratic Institute, International Foundation for Electoral Systems, International Research and Exchanges Board. E, mentre si «faceva cultura», e si compravano tutte le più importanti catene televisive e radio del paese, una parte dei fondi servivano per finanziare le squadre paramilitari che vediamo in azione in piazza Maidan. Che, grazie a questi aiuti, si sono moltiplicate.Adesso emerge il Pravij Sector (“Settore di destra” e “Spilna Prava”), ma il giornale polacco “Gazeta Wiborcza” ha parlato di squadre paramilitari polacche che agiscono a Maidan. E la piazza pullula di agenti dei servizi segreti occidentali: lo fanno in Siria, perché mai non dovrebbero farlo a Kiev? È perfino più facile: Yanukovic, dittatore sanguinario, appare più molle di Milosevic, altro strano dittatore sanguinario che si fece sconfiggere elettoralmente da Otpor (fondato e ampiamente finanziato dagli Usa). Tutto già visto. C’è solo un problema: Putin non è un pellegrino sprovveduto. È questo il popolo ucraino? Certo sono migliaia, anzi decine di migliaia, a mostrare il livello della rabbia popolare contro un regime inetto (non più inetto di quelli dei precedenti amici dell’Occidente, Kravchuk, Kuchma, Yushenko, Timoshenko), ma chi guida è chiaro perfino dalle immagini televisive. E questa è la ex Galizia, ex polacca, e la Transcarpazia. Se crolla Yanukovic e prendono il potere costoro, sarà una diaspora sanguinosa.I primi ad andarsene saranno i russofoni dell’est e del nord, del Donbass dei minatori, che già stanno alzando le difese. E subito sarà la Crimea, che ha già detto quasi unanime che intende restare dalla parte della Russia, anche per tentare di salvarsi dalla furia antirussa di coloro che prenderanno il potere. È l’inizio delle secessioni, oggi perfino difficili da prevedere, dai contorni indefiniti, che produrranno non fronti militari ma selvagge rappresaglie all’interno di comunità che non saranno più solidali. L’Europa, fedele esecutrice dei piani di Washington, ha aperto il vaso di Pandora. Che adesso le esploderà tra le mani. I nuovi inquilini saranno di certo concordati (sempre che Putin abbia la garanzia che non sarà valicato il Rubicone dell’ingresso nella Nato), ma coloro che sono scesi in piazza armati hanno in testa un’idea di Europa molto diversa da quella che si figura Bruxelles.E quelli in buona fede che sono andati dietro i neonazisti – e sono sicuramente tanti – si aspettano di entrare in Europa domani. E saranno tremendamente delusi quando dovranno cominciare a pagare, e non potranno comunque entrare, perché nei documenti di Vilnius questo non è previsto. L’unico tra i commentatori italiani che ha scritto alcune cose sensate è stato Romano Prodi, ma le ha scritte sull’“International New York Times”. Rivolto agli europei li ha invitati a non mettere nel mirino solo Yanukovic, bensì condannare anche i rivoltosi. E ha aggiunto: «Coinvolgere Putin», visto che tutte le parti hanno «molto da perdere e nulla da guadagnare da ulteriori violenze». Giusto ma ottimista. Chi ha preparato la cena adesso vuole mangiare e non si fermerà. E l’isteria antirussa è il miglior condimento per altre avventure.(Giulietto Chiesa, “L’Occidente apre il vaso di Pandora”, da “Il Manifesto” del 21 febbraio 2014).L’assistente del segretario di Stato Victoria Nuland ha detto al National Press Club di Washington, lo scorso dicembre, che gli Stati Uniti hanno investito 5 miliardi di dollari «al fine di dare all’Ucraina il futuro che merita», così scrive Paul Craig Roberts sul suo blog. Lui è ex assistente al Tesoro degli Usa e dice cose documentate. E ho letto che la Nuland ha già scelto i membri del futuro governo ucraino per quando Yanukovic sarà stato spodestato (o fatto fuori). L’Ucraina potrà avere così “il futuro che merita”. Ma quale futuro merita l’Ucraina, gli ucraini? Per come stanno andando le cose nessuno: non ci sarà l’Ucraina. Nell’indescrivibile clangore delle menzogne che gronda dai media mainstream la cosa principale che manca in assoluto è la banale constatazione che Yanukovic, l’ennesimo “dittatore sanguinario” della serie, è stato eletto a larga maggioranza dagli ucraini.
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Hollande, un vero scandalo (ma le donne non c’entrano)
Non ho seguito più di tanto François Hollande, il presidente francese, da quando si è capito chiaramente che non avrebbe rotto con l’ortodossia della politica economica europea, una politica distruttiva e ancorata all’idea dell’ “austerità”. Ma adesso ha fatto una cosa veramente scandalosa. Non sto parlando, ovviamente, della sua presunta relazione con un’attrice, che, anche se fosse appurata, non è né sorprendente (dopotutto siamo in Francia) né preoccupante. No, ciò che è sconvolgente è la sua adesione alle più screditate dottrine economiche della destra. Si può convenire sul fatto che gli attuali problemi economici dell’Europa non siano dovuti solo alle cattive idee della destra. È vero che sono stati conservatori sordi e ostinati a indirizzare le politiche economiche, ma ciò è avvenuto con l’avallo e il consenso degli smidollati ed inetti politici della sinistra moderata.L’Europa sembra appena emergere da una recessione con ricaduta (double-dip recession) e comincia a crescere un po’. Ma questo timido accenno di ripresa fa seguito ad anni di risultati disastrosi. Quanto disastrosi? Prendiamo un esempio: nel 1936, sette anni dopo la grande depressione, la maggior parte dell’Europa cresceva rapidamente, con il Pil procapite stabilmente assestato su alti valori. In confronto, il Pil procapite reale di oggi è ancora largamente al di sotto del picco del 2007, e tutt’al più risale lentamente. Per fare peggio di quanto è avvenuto nella grande depressione, si potrebbe dire, ce n’è voluto. Come ne uscirono all’epoca gli europei? Semplice: negli anni ’30 la maggior parte dei paesi europei finirono per abbandonare, chi prima, chi poi, l’ortodossia economica. Abbandonarono la parità aurea; desistettero dal pareggio di bilancio; ed alcuni di essi lanciarono vasti programmi di spese militari, che ebbero come effetto collaterale una potente azione di stimolo all’economia. Il risultato fu una forte ripresa dal 1933 in poi.L’Europa contemporanea è molto migliore di allora: da un punto di vista morale, politico e anche umano. Un impegno condiviso in nome della democrazia ha portato pace per molti anni; le reti di protezione sociale hanno limitato i danni di una disoccupazione troppo elevata; un’azione coordinata ha contenuto il rischio di un tracollo finanziario. Purtroppo, se il continente è riuscito a evitare il disastro, ciò ha avuto come effetto collaterale lo schiacciamento dei governi su politiche economiche ortodosse. Nessuno è uscito dall’euro, anche se è una camicia di forza monetaria. Senza la spinta delle spese militari, nessuno ha allentato l’austerità fiscale. Tutti stanno facendo le scelte ritenute sicure e responsabili. E la crisi persiste. In questo paesaggio depresso e deprimente, la Francia non si comporta peggio di altri. Certo è rimasta indietro rispetto alla Germania, sostenuta dalle suo eccellente export. Ma i risultati della Francia sono stati molto migliori di quelli di tanti altri paesi europei. E non parlo solo dei paesi colpiti dalla crisi da debito. La crescita della Francia ha superato quella di due pilastri dell’ortodossia, come la Finlandia e l’Olanda.È vero che i dati più recenti indicano una Francia che male si allinea all’accenno di ripresa europeo. Molti osservatori, compreso il Fondo Monetario Internazionale, indicano proprio nelle politiche d’austerità la causa principale di questa debolezza recente. Ma adesso che Hollande ha illustrato i suoi piani per invertire la rotta… è difficile non farsi prendere dallo sconforto. Perché Hollande ha annunciato l’intenzione di ridurre il carico fiscale sulle imprese tagliando – per compensarne i costi – la spesa pubblica (senza dire quale), ed ha dichiarato: «È sull’offerta che dobbiamo agire», e ha poi aggiunto: «E’ l’offerta che crea la domanda». Benedetto ragazzo! Questa dichiarazione richiama quasi letteralmente la fandonia, più volte smascherata, nota come “legge di Say”, che pretende che cadute generali della domanda non possono verificarsi, perché chi guadagna deve comunque in qualche modo spendere. Quest’idea è semplicemente sbagliata; ancora più sbagliata alla luce dei fatti di questo inizio 2014.Tutti gli indicatori mostrano che la Francia è inondata di risorse produttive, sia il lavoro che il capitale, che restano sottoutilizzate perché la domanda è insufficiente. Per rendersene conto basta considerare l’inflazione, che diminuisce sempre più. In effetti la Francia e l’Europa si stanno pericolosamente avvicinando ad una deflazione in stile giapponese. Come spiegarsi allora che, proprio in questo momento, Hollande abbia adottato una dottrina economica così screditata? Come ho già detto, questo è un segno delle tristi sorti del centrosinistra europeo. Per quattro anni, l’Europa è stata preda della febbre da austerità, con risultati prevalentemente disastrosi; si cerca ora di presentare l’attuale debole ripresa come un trionfo di quelle politiche.Alla luce dei danni generati da quelle scelte, ci si sarebbe potuto aspettare che i politici della ‘sinistra del centro’ si battessero strenuamente per un cambio di passo. Eppure, ovunque in Europa, il centro-sinistra ha, nella migliore delle ipotesi (per esempio, in Gran Bretagna) esposto critiche deboli e svogliate; spesso ha semplicemente arretrato in totale sottomissione. Quando Hollande è diventato il leader della seconda economia europea, alcuni di noi avevano sperato che riuscisse a esprimere una posizione critica. Invece ha cominciato, come al solito, ad arretrare. Un arretramento che diventa oggi un vero e proprio crollo intellettuale. Mentre la seconda depressione europea continua.(Paul Krugman, “Scandalo in Francia”, intervento apparso sul “New York Times” il 23 gennaio 2014 e ripreso da “Micromega”).Non ho seguito più di tanto François Hollande, il presidente francese, da quando si è capito chiaramente che non avrebbe rotto con l’ortodossia della politica economica europea, una politica distruttiva e ancorata all’idea dell’ “austerità”. Ma adesso ha fatto una cosa veramente scandalosa. Non sto parlando, ovviamente, della sua presunta relazione con un’attrice, che, anche se fosse appurata, non è né sorprendente (dopotutto siamo in Francia) né preoccupante. No, ciò che è sconvolgente è la sua adesione alle più screditate dottrine economiche della destra. Si può convenire sul fatto che gli attuali problemi economici dell’Europa non siano dovuti solo alle cattive idee della destra. È vero che sono stati conservatori sordi e ostinati a indirizzare le politiche economiche, ma ciò è avvenuto con l’avallo e il consenso degli smidollati ed inetti politici della sinistra moderata.
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Siria, era tutto falso: chi ha mentito ora chieda scusa
Una colossale montatura, progettata a tavolino sulla base di prove false: l’esercito siriano, che la Nato stava per bombardare lo scorso settembre, non ha mai usato armi chimiche contro la popolazione civile di Damasco. Il gas Sarin che ha ucciso centinaia di siriani è stato usato dai “ribelli”, finanziati e protetti dall’Occidente. E’ stata dunque una gigantesca menzogna mediatica – esattamente come quella delle “armi di distruzione di massa” di Saddam – a trascinare il mondo sull’orlo di una guerra devastante. Lo affermano da Boston gli specialisti del Mit, il prestigioso Massachusetts Institute of Technology. «Adesso – dichiara Giulietto Chiesa – sappiamo, oltre ogni dubbio, che la Cia ha mentito e che il bombardamento di armi chimiche sulla periferia di Damasco, il 21 agosto 2013, fu compiuto dai mercenari che combattono contro Bashar al-Assad. Ci furono oltre mille morti, dissero». E non è stato un “tragico errore”. La verità è un’altra: «Mentivano, ma è il loro mestiere».Il nuovo rapporto del Mit, scrive Marinella Correggia in un post ripreso da “Megachip”, smentisce definitivamente Obama, che aveva accusato Assad dell’attacco chimico avvenuto a Ghouta, il 21 agosto 2013. A settembre si era arrivati a un passo dai bombardamenti sulla Siria, evitati solo in extremis grazie alla fermezza di Putin e alla drammatica sollecitudine di Papa Francesco. La prova regina: insieme a Theodore Postol, l’ex ispettore Onu sugli armamenti, Richard Lloyd, rivela che la gittata del «missile rudimentale» trovato dagli ispettori Onu «non poteva essere superiore ai due chilometri». E quindi, «sulla base della mappa delle forze in campo presentata dalla stessa Casa Bianca il 30 agosto, il punto di lancio si doveva per forza trovare nelle aree controllate dai “ribelli”». Contraddizioni e contraffazioni erano del resto subito emerse dalle centinaia di video scioccanti postati dagli anti-Assad che controllavano l’area. «Perfino il numero delle vittime è stranamente rimasto un mistero – le stime vanno da 300 a 1.400, il “dato” degli Usa, stimato sulla base dei corpi apparsi nei video».Come mai non è andata come con la provetta di Colin Powell che scatenò l’inferno in Iraq nel 2003? Il giornalista investigativo Seymour Hersh ha analizzato il caso sulla “London Review of Books”, citando fonti militari e dei servizi. Da mesi l’intelligence aveva avvertito la Casa Bianca che «anche i ribelli potevano avere e usare il gas Sarin». Ma Obama e i suoi, «senza portare nessuna prova, hanno cercato di vendere un bel sacco di bugie». Salvo poi cambiare linea all’ultimo minuto, quando è stato evidente che un’azione militare sarebbe stata sgradita ai più: clamoroso il “no” del Parlamento britannico, schiaccianti i sondaggi tra i cittadini americani, contrari all’intervento. Mesi fa, aggiunge Marinella Correggia, l’analista Sharmine Narwani ha studiato il rapporto degli ispettori Onu: «Alla fine non ci dice nulla su che cosa sia successo a Ghouta, né su come o su chi». Gli esperti militari notano «discrepanze fra le analisi dell’ambiente – niente tracce di Sarin a Muadamya ad esempio – e quelle sulle munizioni e sulle persone esaminate – positive al Sarin, forse portate lì da altri luoghi, dai ribelli che controllano l’area?».Del resto, ammettevano gli ispettori stessi che tutta l’ispezione era avvenuta – cinque giorni dopo il fatto – sotto il controllo dei ribelli e con possibili manipolazioni dei reperti e dei luoghi. Un funzionario dell’Onu, anonimo, puntava il dito sull’intelligence saudita, «ma nessuno osa dirlo». Lo ha detto anche, a suo tempo, il sito di opposizione “Syriatruth” (e anche il newsmagazine “Sibialiria”). Di recente il “New York Times” ha di fatto smentito – a pagina 8 e in poche righe – la propria famosa «analisi del vettore» fatta in settembre insieme a “Human Rights Watch”, analisi a suo tempo così utile a Obama e agli altri interventisti che, come dice Hersh, non avevano davvero altro per le mani. Eppure, protesta Giulietto Chiesa, «per settimane tutti i giornali e tutti i telegiornali italiani dissero – nei titoli, nei testi, nei commenti, come se fosse ovvio – che “il dittatore sanguinario Assad” gasava, massacrava i propri cittadini. Verifiche? Nessuna. Bastava copiare quello che diceva Obama».Adesso, scrive Chiesa sul “Fatto Quotidiano”, quei media dovrebbero essere obbligati a smentire, ma non smentiscono. «Dovrebbero licenziare i giornalisti bugiardi e incompetenti (unico licenziamento che noi saremmo disposti ad applaudire), ma non licenziano. I direttori di quei giornali e telegiornali dovrebbero apparire in video, o in prima pagina, scusandosi per i propri “errori” e orrori. Ma fanno finta di non ricordarsi niente». Eppure non fu cosa da poco. «Arrivammo a un passo dal bombardamento di Damasco da parte delle forze americane e della Nato, per punire il “gasatore”». Gli ipocriti ora tacciono, ed è un silenzio poco rassicurante: «Stiamo tutti molto attenti: una masnada di delinquenti (o di irresponsabili) ha in mano i principali canali di informazione dell’Occidente. Adesso abbiamo la prova che avremmo potuto essere trascinati in guerra da costoro. E sappiamo anche che è già avvenuto ripetutamente. Sono armati. Bisogna togliere loro le armi della menzogna di cui dispongono».Una colossale montatura, progettata a tavolino sulla base di prove false: l’esercito siriano, che la Nato stava per bombardare lo scorso settembre, non ha mai usato armi chimiche contro la popolazione civile di Damasco. Il gas Sarin che ha ucciso centinaia di siriani è stato usato dai “ribelli”, finanziati e protetti dall’Occidente. E’ stata dunque una gigantesca menzogna mediatica – esattamente come quella delle “armi di distruzione di massa” di Saddam – a trascinare il mondo sull’orlo di una guerra devastante. Lo affermano da Boston gli specialisti del Mit, il prestigioso Massachusetts Institute of Technology. «Adesso – dichiara Giulietto Chiesa – sappiamo, oltre ogni dubbio, che la Cia ha mentito e che il bombardamento di armi chimiche sulla periferia di Damasco, il 21 agosto 2013, fu compiuto dai mercenari che combattono contro Bashar al-Assad. Ci furono oltre mille morti, dissero». Ma on è stato un “tragico errore”. La verità è un’altra: «Mentivano», e in fondo «è il loro mestiere».
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Energia, iniziata la grande corsa ai forzieri dell’Artico
Mentre molte riserve di gas e di petrolio in diverse aree del mondo stanno vivendo il loro rapido declino, si ritiene che l’Artico possegga enormi giacimenti ancora inesplorati. Secondo la “United States Geological Survey” (Indagine geologica degli Stati Uniti), circa il 13% delle riserve mondiali di petrolio e il 30% di quelle di gas ancora non sfruttate si trovano al di sopra del Circolo Polare Artico. Ansiosi di affondare le mani in quella fortuna, la Russia e i paesi artici confinanti – Canada, Norvegia, Stati Uniti, Islanda e Danimarca (quest’ultima in virtù della sua autorità sulla Groenlandia) – hanno spronato le compagnie energetiche a trivellare nell’area. Specialmente per la Russia – che recentemente ha preso il controllo di una nave di Greenpeace e ha denunciato trenta attivisti per assalto ad una sua piattaforma petrolifera – è molto forte la tentazione di sfruttare l’Oceano Artico.L’economia della Russia è fortemente dipendente dalle esportazioni di petrolio e gas, e il governo conta molto su queste vendite per il reddito nazionale. Fino a poco tempo fa, per soddisfare le loro esigenze energetiche, i russi potevano attingere dai giacimenti nella Siberia occidentale, ma ora, considerato il declino di molti di questi depositi, fanno molto affidamento alle riserve artiche per mantenere gli attuali livelli di produzione. «Il nostro compito principale è di rendere l’Artico la prima risorsa per la Russia del 21° secolo», dichiarò nel 2008 l’allora presidente Dmitrij Medvedev. I russi hanno esplorato le varie opzioni di trivellazione in diverse aree offshore dell’Artico. Nel Mare Pechora, a nord della Siberia nordoccidentale, il gigante dell’energia russo Gazprom ha installato la sua piattaforma Prirazlomnaya — proprio quella che gli attivisti di Greenpeace hanno preso d’assalto. Più a est, nel Mar Kara, il gruppo statale Rosneft sta collaborando con la Exxon Mobil per lo sviluppo di giacimenti molto promettenti.Rosneft si è anche associata alla Statoil norvegese e all’Eni Italiana per esplorare il potenziale di sfruttamento nel Mar di Barents. Ma è molto difficile che sia solo la Russia a tentare di aprire i forzieri dell’Artico. La Norvegia, come la Russia, trae gran parte delle sue entrate proprio dalle esportazioni di gas e petrolio, e punta molto sullo sfruttamento delle riserve del Mar di Barents per compensare la forte contrazione produttiva rilevata nei suoi giacimenti nei Mari del Nord e della Norvegia. Ci sono anche altre zone dell’Artico nel mirino di altri paesi: la Cairn Energy di Edimburgo ha appena aperto dei pozzi di esplorazione nelle acque a largo della Groenlandia, ad esempio, mentre la Royal Dutch Shell sta tentando l’esplorazione di campi a largo dell’Alaska.Nonostante tutte le sue promesse, l’Artico non cederà facilmente le sue ricchezze. In inverno, il ghiaccio copre costantemente le superfici marine e tempeste violente e frequenti sono un continuo pericolo. Il riscaldamento globale potrebbe, in qualche modo, contribuire a ridurre il ghiaccio nei periodi estivi e autunnali, permettendo così trivellazioni più prolungate, ma allo stesso tempo potrebbe causare condizioni meteorologiche inusuali e incontrollate ed altri pericoli correlati. Altro rischio che si aggiunge: molte delle linee di confine nella regione artica, sono ancora da demarcare e alcuni paesi artici hanno già minacciato di ricorrere alla forza militare nel caso in cui le compagnie energetiche occupino aree che considerate di loro sovranità.Le ardue sfide che l’Artico pone al suo sfruttamento hanno già intimorito la Shell, che ha speso 4,5 miliardi di $ per l’esplorazione offshore in Alaska, ma che ancora non è riuscita a trivellare un solo pozzo. Alcune di queste sfide sono perfettamente legali – comunità indigene e ambientalisti, nel timore di contaminazioni delle loro acque e danni alla natura, hanno già diffidato le compagnie dal trivellare. Inoltre, l’Artico in sé ha già dato prova di essere un avversario formidabile. Nell’estate del 2012, durante il primo tentativo della Royal Dutch Shell di sondare i depositi artici, le operazioni di trivellazione furono interrotte da venti battenti e placche di ghiaccio galleggianti. Diversi mesi dopo, quando una delle teste dei pozzi franò al suolo durante una violenta tempesta, la Shell annunciò che avrebbe sospeso le operazioni offshore in Alaska e che, prima di procedere ulteriormente, avrebbe rafforzato le proprie capacità operative nella zona.Le disavventure della Shell hanno anche consolidato il timore che trivellare nell’Artico ponga alla regione una minaccia considerevole. Nell’evento di una importante fuoriuscita petrolifera, il danno conseguente sarebbe molto più grave e distruttivo di quello causato nel Golfo del Messico dalla Deepwater Horizon nell’aprile 2010, sia per la mancanza di adeguate capacità di risposte operative, sia per la probabilità che il ghiaccio impedisca seriamente le operazione di bonifica. Mentre sempre più compagnie si spingeranno nell’Artico accelerando le loro attività esplorative, aumenteranno di conseguenza le probabilità di incidenti e fuoriuscite. Il fatto che la Shell – una delle compagnie petrolifere tecnologicamente più avanzate – si sia finora dimostrata incapace di superare questi rischi, accresce la preoccupazione che in quelle acque pericolose si trovino presto ad operare altre compagnie meno preparate ed efficienti.Cresce anche il rischio di conflitti sulla proprietà di territori contesi. Cinque paesi artici hanno già rivendicato diritti esclusivi di trivellazione su aree di confine rivendicate anche da altri paesi, mentre resta ancora controverso il controllo sulla regione polare in generale. In un’area «con un potenziale energetico che rappresenta un quarto delle riserve mondiali inesplorate di gas e petrolio», ha detto recentemente il ministro della difesa statunitense Chuck Hagel, «è prevedibile che l’ondata di interesse nell’esplorazione energetica nell’area possa aumentare le tensioni su altri argomenti controversi». Fino ad oggi nessuna di queste dispute ha provocato una risposta di tipo militare, e gli Stati artici si sono impegnati ad astenersi dal farlo in futuro. Tuttavia, quasi tutti i paesi artici hanno anche affermato il loro diritto di difesa dei propri territori offshore con la forza, e hanno anche preso le necessarie misure per rafforzarsi in questo senso. La Russia, ad esempio, ha recentemente annunciato dei programmi definiti “di infrastruttura militare di punta” nell’Artico.Niente, comunque, potrebbe scoraggiare altri paesi interessati. Considerando l’altissima richiesta mondiale di petrolio e l’incapacità dei pozzi esistenti di soddisfarla, le maggiori compagnie energetiche tenteranno ogni possibile strada per aumentare la produzione. E’ quindi essenziale che siano posti subito dei limiti chiari e rigorosi alle operazioni di trivellazione nell’Artico, in modo da ridurre le tensioni esistenti nell’area. Sono stati fatti dei progressi nell’ambito del Consiglio Artico, un foro di consultazione delle nazioni artiche. Ma resta ancora molto da risolvere. Un modo per stabilire formalmente delle regole precise potrebbe essere l’adozione di un Trattato Artico, sulla falsariga del Trattato Antartico del 1959. Come avvenne per quest’ultimo, un accordo siglato dai paesi artici stabilirebbe dei precisi confini marittimi e dei limiti alle attività militari. Potrebbe anche imporre delle regole ambientali e garantire un passaggio sicuro alle imbarcazioni civili che navigano sui mari artici. E infine, diciamolo: nessun gas e nessun petrolio potrà mai giustificare la distruzione della natura locale o una corsa agli armamenti nell’Artico.(Michael T. Klare, “E’ iniziata la corsa ai forzieri dell’Artico”, dal “New York Times” dell’8 dicembre 2013, ripreso da “Come Don Chisciotte”).Mentre molte riserve di gas e di petrolio in diverse aree del mondo stanno vivendo il loro rapido declino, si ritiene che l’Artico possegga enormi giacimenti ancora inesplorati. Secondo la “United States Geological Survey” (Indagine geologica degli Stati Uniti), circa il 13% delle riserve mondiali di petrolio e il 30% di quelle di gas ancora non sfruttate si trovano al di sopra del Circolo Polare Artico. Ansiosi di affondare le mani in quella fortuna, la Russia e i paesi artici confinanti – Canada, Norvegia, Stati Uniti, Islanda e Danimarca (quest’ultima in virtù della sua autorità sulla Groenlandia) – hanno spronato le compagnie energetiche a trivellare nell’area. Specialmente per la Russia – che recentemente ha preso il controllo di una nave di Greenpeace e ha denunciato trenta attivisti per assalto ad una sua piattaforma petrolifera – è molto forte la tentazione di sfruttare l’Oceano Artico.