Archivio del Tag ‘neoliberismo’
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Magaldi: Italia da rifare, ma non con questi politici venduti
«Magari fosse un pericolo per l’establishment, quel damerino di Di Maio», che invece ha tutta l’aria del bravo ragazzo innocuo. Renzi e Berlusconi concentrano su di lui i loro strali? Ovvio: fabbricando un nemico apparente, tentano di accreditarsi come politici autorevoli, in grado di cambiare il paese. Peccato che, «mentre i 5 Stelle al massimo hanno malgovernato Roma», il Pd e il centrodestra hanno a lungo “sgovernato” l’Italia: «Perché mai, in tutti questi anni, non hanno fatto nemmeno una delle strabilianti cose che adesso promettono, in campagna elettorale? Lo spettacolo che offrono è patetico». Ma c’è poco da ridere, avverte Gioele Magaldi a “Colors Radio”: la scontata non-vittoria di nessuno dei tre blocchi maggiori «è esattamente il risultato atteso e auspicato dalla supermassoneria reazionaria, interessata ad avere in Italia l’ennesimo governo debole e precario, sorretto da una maggioranza parlamentare friabile e quindi ancora più manipolabile e sottomesso ai grandi interessi economici sovranazionali, quelli che tengono in scacco l’intera Europa». Il peggiore degli scenari? Una replica del pessimo governo Letta, «creatura di quel “magnifico” oligarca che è stato Giorgio Napolitano». La risposta? «Popolare: di fronte all’inciucio di primavera, gli italiani faranno bene a chiedere nuove elezioni subito, per smascherare questa classe politica giunta al capolinea».
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Bezos l’uomo più ricco della storia, 105 miliardi in 25 anni
Di lui, persino i super-squali della finanza come Lloyd Blankfein della Goldman Sachs parlano con un misto di ammirazione e timore reverenziale: il boom di Amazon ha infatti distrutto interi comparti industriali, lasciando a casa decine di migliaia di lavoratori. E oggi, sostiene “Bloomberg”, Jeff Bezos è l’uomo più ricco della storia, avendo accumulato 105 miliardi di dollari in venticinque anni. Non è isolato, Bezos: gli analisti indipendenti ricordano il super-contratto da 600 milioni con la Cia (forniture elettroniche) e l’acquisizione nel 2013 del “Washington Post”, da allora punta di lancia della politica estera Usa contro i nemici della Cia e del Pentagono, mentre i lavoratori di Amazon – spesso lasciati senza tutele – guadagnano appena 233 dollari al mese in India, e in media solo 12,40 dollari l’ora negli Stati Uniti. Uno sfruttamento piramidale, che cambia i connotati antropologici dei consumatori e ammassa miliardi al vertice. Bezos ha scavalcato Bill Gates: il patron della Microsoft è fermo a 93,3 miliardi di dollari, a cui però andrebbero aggiunti i 63 miliardi di dollari donati alla sua fondazione. Ricchezza e immaginazione: certamente Bezos è uno dei personaggi-chiave del nostro tempo. Libri e poi dvd, videogiochi, macchine fotografiche, elettrodomestici. L’espansione di Amazon è stata fulminea, inarrestabile e mondiale.Cresciuto a Seattle come Bill Gates e lo stesso Steve Jobs della Apple, nel 1994 Jeff Bezos era già un trentenne brillante, ricorda il “Corriere della Sera”. «Laurea in ingegneria a Princeton, un passaggio a Wall Street, una prima esperienza nel commercio internazionale con la Fitel, l’approdo all’hedge fund di New York, De Shaw & Co. Qui, nel 1992, aveva conosciuto MacKenzie Tuttle, che sposò l’anno dopo: la compagna della vita con cui ha avuto quattro figli. Jeff veniva da un’infanzia non semplice: sua madre, Jacklyn Gise, lo ebbe nel 1964 quando era ancora adolescente da Ted Jorgensen, da cui divorziò l’anno dopo. Nel 1968 Jacklyn si trasferì a Houston con Miguel Bezos, un immigrato cubano che prestò diventò ingegnere della Exxon». In quel 1994, dunque, Jeff aveva soldi, posizione sociale, un impiego d’élite: quanto bastava per soddisfare anche le ambizioni più esigenti. «Niente rispetto a quello che sarebbe accaduto in quell’anno: Jeff inventa un nuovo formato commerciale, una libreria online che chiama Cadabra e poi Amazon, come il Rio delle Amazzoni. «Nel 1999 è già sulla copertina di “Time”, come persona dell’anno. Il decollo è stato verticale, un po’ come quello del razzo New Glenn, l’ultimo progetto di Blue Origin, una delle società dell’imprenditore».Se si vuole provare a definire la “dottrina Bezos”, scrive Giuseppe Sarcina sul “Corriere”, si deve partire da questa voracità insaziabile, questa spinta a debordare. «Jeff è un onnivoro che ama raccontarsi come un uomo di grandi curiosità e passioni». A cinque anni, dice, rimase «folgorato» dallo sbarco sulla Luna. Per questo nel 2009 fondò Blue Origin, che ora pianifica i primi voli di turismo spaziale per il 2019. «Ma anche sulla Terra l’orizzonte è ampio. Nel 2013 il businessman rivolge lo sguardo all’editoria, uno dei settori più maturi del mercato. Compra, per 250 milioni di dollari, il “Washington Post”, uno de quotidiani più importanti, a quel tempo piuttosto sofferente». Un giornale con 800 reporter, in utile per il secondo anno consecutivo: guadagna con gli abbonamenti, raddoppiati dal gennaio scorso. «Il dato più sorprendente è che l’azienda ha aumentato i ricavi anche con la pubblicità digitale, nonostante la concorrenza micidiale di Facebook e di Google». C’è un po’ di “effetto Trump” in tutto questo. Sotto la testata si legge: «Democray dies in darkness».Il core business, però, ruota sempre intorno ad Amazon, cui ha affiancato, nell’agosto del 2017, Whole Foods, la grande catena di supermercati di qualità negli Stati Uniti: un’acquisizione record da 13,7 miliardi di dollari. «Il progetto prevede: riduzione dei prezzi, distribuzione a domicilio ancora più capillare». Ma non mancano le contraddizioni, aggiunge il “Corriere” L’editore del “Post” litiga spesso con i sindacati e con i “maratoneti”, cioè i dipendenti dei magazzini Amazon, che percorrono chilometri al giorno tra le linee di distribuzione. La Commissione Europea lo accusa di non pagare il dovuto al fisco. «Intanto però tutti continuano a cercarlo. Bezos ha aperto un’asta per la nuova sede di Amazon negli Stati Uniti. Le più importanti città americane, a cominciare da New York, si sono messe in coda».Di lui, persino i super-squali della finanza come Lloyd Blankfein della Goldman Sachs parlano con un misto di ammirazione e timore reverenziale: il boom di Amazon ha infatti distrutto interi comparti industriali, lasciando a casa decine di migliaia di lavoratori. E oggi, sostiene “Bloomberg”, Jeff Bezos è l’uomo più ricco della storia, avendo accumulato 105 miliardi di dollari in venticinque anni. Non è isolato, Bezos: gli analisti indipendenti ricordano il super-contratto da 600 milioni con la Cia (forniture elettroniche) e l’acquisizione nel 2013 del “Washington Post”, da allora punta di lancia della politica estera Usa contro i nemici della Cia e del Pentagono, mentre i lavoratori di Amazon – spesso lasciati senza tutele – guadagnano appena 233 dollari al mese in India, e in media solo 12,40 dollari l’ora negli Stati Uniti. Uno sfruttamento piramidale, che cambia i connotati antropologici dei consumatori e ammassa miliardi al vertice. Bezos ha scavalcato Bill Gates: il patron della Microsoft è fermo a 93,3 miliardi di dollari, a cui però andrebbero aggiunti i 63 miliardi di dollari donati alla sua fondazione. Ricchezza e immaginazione: certamente Bezos è uno dei personaggi-chiave del nostro tempo. Libri e poi dvd, videogiochi, macchine fotografiche, elettrodomestici. L’espansione di Amazon è stata fulminea, inarrestabile e mondiale.
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Potere, dogma, dominio: noi e i Catari, i “Bogre” del 1200
I càtari? «Erano seguaci di una cupa, feroce, sanguinosa setta di origine asiatica», scrive sul “Corriere” Vittorio Messori, giornalista vicinissimo al Vaticano e autore di libri-intervista su Wojtyla e Ratzinger, fino a “La Chiesa di Francesco”. Sostiene, Messori, che gli eretici cristiano-dualisti annientati dalla Crociata Albigese all’inizio del 1200 fossero appoggiati dai nobili del Midi francese «non per motivi religiosi, ma perché volevano mettere le mani sulle terre della Chiesa», dando così per scontato che il Vaticano fosse una specie di multinazionale del latifondo sorretta dalle rendite economiche, più che un’istituzione dedita alla vita spirituale dei fedeli. L’espressione “le terre della Chiesa” viene infatti pronunciata da Messori con assoluta disinvoltura, peraltro sorvolando sulla storia: centinaia di pagine, nella storiografia per lo più transalpina, documentano l’adesione alla religione càtara da parte della “meglio gioventù” nobiliare occitanica, non certo attratta dagli epigoni di una “cupa, feroce, sanguinosa setta di origine asiatica”, ma da cristiani gnostici che vivevano in religiosa povertà, senza neppure un tempio, e accusavano Roma di aver barato fin dall’inizio sull’identità di Cristo e sul significato delle Scritture.E se la tenebrosa “setta asiatica” (stranamente non citata da Messori, solo evocata) fosse il Manicheismo, è bene sapere che ormai gli storici escludono categoricamente qualsiasi filiazione dottrinaria tra la predicazione del profeta persiano Mani e l’affermazione balcanica dei bogomili, i progenitori dei càtari. Il Padre Celeste adorato dai Buoni Cristiani – ribattezzati “càtari” dai loro sterminatori – era in tutto simile ad Ahura Mazda, la divinità della luce di Zoroastro, ispiratore della religione più diffusa in Medio Oriente fino all’anno zero: sarebbero sacerdoti mazdei i Magi venuti dall’Oriente di cui parla il Vangelo di Matteo, accorsi ai piedi della culla di Betlemme. Se il Cattolicesimo contempla la vita ulteriore, “eterna”, al di là di quella presente, sia il Mazdeismo che il successivo Catarismo danno estrema importanza alla terza fase dell’esistenza, che in realtà è la prima, chiaramente narrata nelle loro teologie. La dimensione materiale? E’ vissuta come passaggio transitorio, una dolorosa “caduta” rispetto allo stadio precedente, quello in cui le anime vivevano in beatitudine “al cospetto di Dio”. Missione del credente càtaro: aiutare l’umanità a “tornare a casa”, adottando il modello evangelico (rifiutare beni e ricchezze) per riconquistare l’accesso alla terra d’origine, l’ancestrale ascendenza “divina” di cui sarebbe rimasta una traccia, una scintilla, in ogni essere vivente.Proprio il mito del ritorno pervade un suggestivo racconto dei Sufi, quello dei costruttori di navi: compito del credente è custodire l’arte del carpentiere, anche se il potere del mondo detesta i “costruttori di navi”, imponendo questo mondo come l’unico possibile. Un ponte diretto collega i mistici “dervisci” a Francesco d’Assisi, che entrò in contatto con loro durante il suo viaggio in Egitto – per poi replicare il modello dei Sufi, asceti “vestiti di lana grezza”, nel futuro ordine francescano, a sua volta poi tacciato di eresia e avvicinato pericolosamente proprio al Catarismo. Sembra un fantasma scomodo, ancora oggi, quello dell’eresia cristiana dualistica del medioevo: se un intellettuale militante come Messori la attacca frontalmente, puntando a screditarla e demonizzarla, un laico come Eugenio Scalfari in un articolo su “Repubblica” arriva a equipararla, sbadatamente, a un altro Cristianesimo alternativo, quello di Pietro Valdo, per il quale invece la divinità era una sola – non esiste Dio Straniero, per i valdesi: il mondo è opera di una sola mano, quella dell’Altissimo.Anche se non lo si vuole ammettere, osserva il regista Fredo Valla, autore dell’atteso documentario “Bogre” (un viaggio tra bogomili e càtari, dalla Bulgaria alla Francia), l’eresia cristiano-dualistica scosse il medioevo europeo come un terremoto. Condannando la materia come frutto di una “creazione dannata”, opera del Demiurgo sfuggito al controllo della divinità celeste (buona, ma non onnipotente), contestava il ruolo sociale e politico dell’istituzione religiosa come garante dello status quo, dell’ordine feudale. In Linguadoca, Acquitania e Guascogna il Catarismo fu tollerato fino a quando, a prendere i voti, non furono i figli dei nobili: disposti a rinunciare ai feudi di famiglia, pur di abbracciare la predicazione dei Buoni Uomini. E’ esplicito l’inutile grido d’allarme lanciato, a Roma, da Bernardo di Chiaravalle, reduce da una missione esplorativa nelle terre occitane: il grande monaco spiegò al pontefice che nel Midi francese la fede càtara accomunava aristocrazia e popolo, di fronte allo spettacolo indecente offerto dal clero cattolico, ricchissimo e corrotto. Il futuro San Bernardo raccomandò la via della persuasione, dopo aver bonificato le diocesi per riconquistare i fedeli. Ma il Papa, Innocenzo III, preferì la via delle armi: alla carneficina della Crociata, che in vent’anni di guerra precipitò l’Occitania nella rovina economica, seguì la catastrofe dell’Inquisizione anti-càtara, durata 70 anni, che inaugurò il terrore come arma politica sistematica.Guardare tra quelle pagine con spirito laico e distaccato non è mai semplice, avverte una studiosa come Lidia Flöss, autrice di importanti ricerche sul Catarismo anche italiano: si rischia di cadere in posizioni preconcette, che non tengono conto dello spirito dei tempi, rinnovando polemiche anacronistiche. Sbagliato fare del Catarismo una sorta di mitologia new age: nel saggio “I Catari, gli eretici del male”, la Flöss si addentra fra le diatribe – prosaiche, umanissime – delle svariate comunità càtare del Lago di Garda, in competizione tra loro per la leadership teologica. Da una parte i “bulgari”, moderati e fiduciosi – come i bogomili (e i mazdei) – nella riconciliazione universale “alla fine dei tempi”, e dall’altra i càtari radicali, come il pope Niketas che evangelizzò Tolosa, convinti dell’irriducibile opposizione tra bene e male. Sul fronte opposto, nella Crociata Albigese, ai baroni francesi del Nord furono promessi i feudi del Sud come preda di guerra, ma i soldati ai loro ordini – quelli che fecero strage della popolazione civile – era stata promessa la remissione dei peccati, cioè il viatico per la vita eterna, in cambio della pulizia etnico-religiosa che avrebbe liberato l’Occitania dalla peste eretica.La stessa Simone Weil, autrice del meraviglioso saggio “I Catari e la civiltà mediterranea”, sottolinea la presenza della “pietas” tra i versi della Canzone della Crociata, opera di autori cattolici: nel poema non viene mai meno la profonda pietà per gli sconfitti. E’ un sentimento che la Weil attribuisce alla temperie socio-culturale della terra dei Trovatori, straordinariamente tollerante, al punto da far riverberare lo spirito democratico dell’Atene di Pericle, con il culto della bellezza opposto a quello della forza. E il “paratge”, il particolare senso dell’onore che anima l’ideale cavalleresco occitanico, ricomparirà sicuramente nel viaggio cinematografico di Fredo Valla, alla ricerca – sulla scorta della lezione di Simone Weil – di una perduta dimensione del vivere, che stranamente fiorì in quella regione, a partire dal 1100, prima che calasse il sipario del sangue e della paura. Molto semplicemente: in modo forse anche ingenuo, il Cristianesimo eretico dei càtari – in pieno medioevo – contesta il fatto che una religione possa indossare i panni del potere. Oggi, nel 2018, il mondo è in mano a un potere laico, fondato solo sul denaro, che però esercita il suo dominio mediante dogmi di tipo religioso, come quello neoliberista. Perché perdere tempo a fare assurdi processi alla storia, quando è possibile guardarci dentro, in quella storia, anche grazie a un documentario, per poi magari scoprire che qualcosa, del nostro presente, può avere un fondamento tra le pagine dell’epopea dei “Bogre”?I càtari? «Erano seguaci di una cupa, feroce, sanguinosa setta di origine asiatica», scrive sul “Corriere” Vittorio Messori, giornalista vicinissimo al Vaticano e autore di libri-intervista su Wojtyla e Ratzinger, fino a “La Chiesa di Francesco”. Sostiene, Messori, che gli eretici cristiano-dualisti annientati dalla Crociata Albigese all’inizio del 1200 fossero appoggiati dai nobili del Midi francese «non per motivi religiosi, ma perché volevano mettere le mani sulle terre della Chiesa», dando così per scontato che il Vaticano fosse una specie di multinazionale del latifondo sorretta dalle rendite economiche, più che un’istituzione dedita alla vita spirituale dei fedeli. L’espressione “le terre della Chiesa” viene infatti pronunciata da Messori con assoluta disinvoltura, peraltro sorvolando sulla storia: centinaia di pagine, nella storiografia per lo più transalpina, documentano l’adesione alla religione càtara da parte della “meglio gioventù” nobiliare occitanica, non certo attratta dagli epigoni di una “cupa, feroce, sanguinosa setta di origine asiatica”, ma da cristiani gnostici che vivevano in religiosa povertà, senza neppure un tempio, e accusavano Roma di aver barato fin dall’inizio sull’identità di Cristo e sul significato delle Scritture.
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Giannuli: spiegate alla sinistra che le tasse vanno tagliate
Da circa venti anni assistiamo ad una sceneggiata per cui la sinistra (o quel che si definisce tale) è il partito delle tasse che, appena ha il governo, si affretta golosamente ad aumentare, e la destra è quella che protesta e strepita contro questi aumenti (“Stanno mettendo le mani in tasca agli italiani!”), ma che poi, andata al governo, non solo non toglie nessuno di quegli aumenti, ma ne aggiunge di suoi. Per la sinistra si tratta di un riflesso condizionato che la induce a pensare che le tasse siano un bene in sé, perché servono a finanziare la spesa sociale e come meccanismo di redistribuzione della ricchezza. Ma le cose sono molto più complicate. In primo luogo, si pone un problema di quantità: quale è la soglia di un prelievo fiscale sopportabile? Non poniamo la questione in termini etici, ma in termini economici: è evidente che più alto è il prelievo fiscale e meno soldi hanno i cittadini per i consumi e, se i consumi calano, ne soffrono le imprese che, oltre certi livelli di guardia, potrebbero crollare una dopo l’altra, provocando un crollo occupazionale. Si innesca così in circolo vizioso, per cui l’aumento delle disoccupazione riduce ulteriormente il monte salari e, quindi i consumi; questo produce nuovi fallimenti, e così via.Peraltro la flessione occupazionale, in termini lineari, produce anche una contrazione del gettito fiscale, con il risultato di spingere ad una nuova stretta per mantenere costante il gettito. E di questo passo si fa bancarotta. Naturalmente ci sono una serie di soglie per cui il risultato finale può prodursi più o meno lentamente. Ed esistono anche controtendenze che limitano gli effetti negativi di un’eccessiva pressione fiscale: ad esempio, evasione fiscale e lavoro nero, per quanto condannabili sul piano morale e indesiderabili su quello politico, però hanno l’effetto di sottrarre una parte della ricchezza all’appropriazione statale, mantenendo quindi, almeno in parte, il potere d’acquisto dei cittadini. Con il risultato che più è elevata la pressione fiscale, più aumenta la propensione a pratiche illegali o condannabili come evasione e lavoro nero, il che poi sposta il carico del gettito inevaso sulle spalle dei contribuenti onesti o che non possono sottrarsi agli obblighi fiscali, il che moltiplica tanto le ingiustizie sociali quanto gli effetti antieconomici dell’eccessivo carico fiscale.Dunque occorre capire quale possa essere una soglia accettabile di pressione, e qui dobbiamo constatare che da 6 anni in qua, la pressione (grazie ai governi del Pd o magari sostenuti dall’esterno dal Pd, come il governo Monti) è salita a circa il 55% del Pil, tenendo conto, oltre che della tassazione diretta, di quella indiretta, dei ticket, delle tariffe dei servizi pubblici, eccetera. Un prelievo di quelle dimensioni sarebbe eccessivo anche per un breve periodo, ma qui ormai siamo entrati nell’ordine di idee che questo è un livello “normale” destinato a durare a tempo indeterminato. Il secondo ordine di problemi è chi sia il soggetto tassato, in che misura e con quali meccanismi. Una delle grandi falsità del neoliberismo è quella per la quale, siccome i ricchi sono quelli che hanno più potenziale di spesa, più detassiamo i ricchi (secondo le politiche di tassazione regressiva sul reddito inaugurate dalla Reaganomics negli Usa degli anni Ottanta), più aumentano i consumi e, quindi, si spinge verso una dinamica virtuosa.Chiunque sappia qualcosa di economia e non sia un venduto sa che la propensione all’accumulazione è direttamente proporzionale al reddito: il “ricco” (usiamo questo termine vago) spende una parte minima del proprio reddito in consumi, poi spende una quota più alta di esso in investimenti nell’economia reale, ma la parte più consistente la accumula come riserva di valore in impieghi finanziari che, in quanto tali, sono improduttivi se non nella parte (più o meno minoritaria) destinata all’economia reale. Più denaro resta immobilizzato nella riserva finanziaria, meno risorse ci sono a disposizione. In terzo luogo è decisivo come si spende il gettito fiscale. La sinistra immagina (o fa finta di crederci) che la voce più consistente sia quella della spesa sociale (pensioni, sanità, istruzione, ammortizzatori sociali) il che non è vero, se non in parte. Sicuramente le voci che abbiamo indicato sono consistenti, ma ci sono anche capitoli di spesa tutt’altro che irrilevanti come la spesa militare, quella per i lavori pubblici e, soprattutto, quella per il personale della Pa (per cui, dando lo stipendio a un fannullone, si fa una spesa improduttiva, ma si sostengono i consumi).In ciascuno di questi capitoli di spesa ci sono sprechi e diseconomie che si potrebbero rivedere facendo dimagrire la spesa complessiva, senza per questo danneggiare la spesa sociale. Ma, soprattutto, ci sono spese assolutamente negative come i compensi eccessivi ai dirigenti, l’eccessivo numero di enti che neppure alimentano i consumi ma finiscono in rendita finanziaria, ed è qui che occorre andare col machete (ma ne riparleremo). Poi c’è una spesa direttamente finanziaria: gli interessi per il debito che crescono costantemente (siamo a 84 miliardi l’anno, destinati a crescere perché in 4 anni di governo Pd il debito è cresciuto di altri 200 miliardi). Ma se la spesa rimane questa, il gettito fiscale non ce la fa e si produce nuovo debito, nonostante l’aumento delle tasse. Ma con questo livello di pressione fiscale non c’è ripresa immaginabile e, prima o poi, lo sbocco è il default. Dunque, per una vera ripresa, occorre tagliare il prelievo fiscale con una cura drastica: diciamo almeno 7-8 punti in un anno. E per far questo occorre una vera spending review (non l’attuale pagliacciata) e ricontrattare le condizioni di debito. Ma questo nella sinistra chi lo dice? Chi si preoccupa del fatto che il prelievo fiscale è diventato un moltiplicatore di ingiustizie sociali?(Aldo Giannuli, “Perché la sinistra non capisce niente della questione fiscale”, dal blog di Giannuli del 2 gennaio 2018).Da circa venti anni assistiamo ad una sceneggiata per cui la sinistra (o quel che si definisce tale) è il partito delle tasse che, appena ha il governo, si affretta golosamente ad aumentare, e la destra è quella che protesta e strepita contro questi aumenti (“Stanno mettendo le mani in tasca agli italiani!”), ma che poi, andata al governo, non solo non toglie nessuno di quegli aumenti, ma ne aggiunge di suoi. Per la sinistra si tratta di un riflesso condizionato che la induce a pensare che le tasse siano un bene in sé, perché servono a finanziare la spesa sociale e come meccanismo di redistribuzione della ricchezza. Ma le cose sono molto più complicate. In primo luogo, si pone un problema di quantità: quale è la soglia di un prelievo fiscale sopportabile? Non poniamo la questione in termini etici, ma in termini economici: è evidente che più alto è il prelievo fiscale e meno soldi hanno i cittadini per i consumi e, se i consumi calano, ne soffrono le imprese che, oltre certi livelli di guardia, potrebbero crollare una dopo l’altra, provocando un crollo occupazionale. Si innesca così in circolo vizioso, per cui l’aumento delle disoccupazione riduce ulteriormente il monte salari e, quindi i consumi; questo produce nuovi fallimenti, e così via.
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Magaldi: elezioni-farsa, poi finalmente toccherà agli italiani
Preparatevi all’ultima farsa dei morti viventi: fingono di candidarsi per governare il paese, ben sapendo che non ci proveranno neppure, perché occuparsi dell’Italia significa sfidare Bruxelles. Il loro unico obiettivo? Tentare di salvare la poltrona, col terrore di non riuscirci: la coperta delle larghe intese è troppo stretta, in tanti resteranno al freddo e fatalmente daranno filo da torcere al governicchio che Mattarella proverà comunque a mettere in pista, per tirare a campare ancora un po’. Tradotto: «Queste elezioni saranno senza vincitori e daranno vita a un esecutivo dal respiro corto, un ectoplasma come il governo Letta o quello di Gentiloni». Dopodiché, tempo scaduto: sarà la fine, per questi partiti che oggi promettono di avere ancora un futuro davanti a sé. «E lo sanno, che è l’ultima fermata», perché poi finiranno i residui scampoli di illusione, dalla chimera Renzi al surreale Berlusconi. Tutti a casa, e palla al centro: toccherà finalmente agli italiani, dopo tanto tempo. Ne è convinto Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, osservatore ravvicinato della politica nazionale ed europea. Pronostico: la crisi, sempre più feroce, indurrà la popolazione a scendere in campo direttamente, occupandosi del proprio destino. Obiettivo: un cambio radicale di paradigma. Giù le tasse, fine dell’austerity, stop ai trattati-capestro dell’Ue, recupero della sovranità finanziaria nazionale.Ai microfoni di “Colors Radio”, Magaldi offre una visione precisa dello scenario che si va preparando. «Punto primo: nessuno dei tre blocchi vincerà le elezioni, nessuno sfonderà e nemmeno crollerà». In altre parole, si prefigura la peggiore delle prospettive possibili: «Il centrodestra si illude fare mirabilie sull’onda del voto siciliano ma resterà deluso, così come Salvini e la Meloni che, in ossequio all’alleanza elettorale con Berlusconi, si scoprono ogni giorno più moderati». Più in calo il clan renziano del Pd, che però non è ancora pronto a rottamare il leader, «anche solo per una questione di poltrone da mantenere». I 5 Stelle? «E’ vero che molti militanti sono delusi dalle perfomance dei dirigenti, ma intanto sono curiosi di vedere come se la caverà di Maio, che comunque in nessun caso sarà premier». Governo tecnico? Giammai: «Gli italiani si sono “vaccinati” con Monti, hanno imparato che i tecnocrati di quel calibro sono ancora meno trasparenti dei politici: obbediscono a interessi inconfessabili. E Mattarella, che magari non brilla di molte virtù, non ha però la protervia di Napolitano: incaricherà una figura incolore, destinata a durare poco».Nel frattempo, si augura Magaldi, gli italiani apriranno gli occhi: «Per anni hanno votato politici che baravano sistematicamente: si candidavano a rimettere in piedi il paese, sapendo benissimo che invece non avrebbero contato nulla, di fronte ai poteri forti internazionali». Lo stesso Renzi si è limitato a fingere di fare le riforme che Berlusconi aveva solo promesso per vent’anni, e i 5 Stelle vanno alle elezioni senza un programma di governo per l’Italia. Poi ci sono i cespugli, più o meno imbarazzanti, come “Liberi e Uguali”, con Pietro Grasso «intronato da quattro amici al bar». E la Bonino, che ottiene il simbolo da Tabacci per evitare di raccogliere le firme per candidarsi? «Stupisce un simile gesto da una radicale: se fatta bene, proprio la raccolta firme è un’occasione per fare campagna elettorale in modo democratico, presentandosi ai cittadini». Tutti a casa? L’astensionismo sarà alto, le premesse ci sono tutte: nessuno dei concorrenti ha idee spendibili per risollevare le sorti del paese. «Ma restare a guardare non è una soluzione», sostiene Magaldi, che sta lavorando per la nascita di un nuovo soggetto politico, il Pdp (Partito Democratico Progressista), con una prospettiva rivoluzionaria: respingere il paradigma neoliberista del rigore.Finita la farsa elettorale del 4 marzo, dice, sotto la spinta dell’inesorabile crisi economica gli elettori smetteranno di regalare deleghe in bianco a partiti nei quali non hanno più alcuna fiducia. «Si sta avvicinando la fine di un ciclo, questo è certo: niente sarà più come prima. Dopo le elezioni 2018, tutti si accorgeranno che nessuno dei candidati ha gli strumenti per rappresentare degnamente l’Italia, affrontando la crisi in modo adeguato». Gli italiani? «Toccherà a loro decidere: se restare a casa ancora una volta, o partecipare direttamente alla costruzione di un futuro diverso, diametralmente opposto a quello sin qui confezionato dal finto centrosinistra e dal finto centrodestra, entrambi asserviti alle logiche sovranazionali, supermassoniche, che hanno orientato l’Unione Europea: un apparato burocratico “matrigno”, manovrato esclusiamente da interessi privati, industriali e finanziari». Nessuno lo dice apertamente, certo: anche per questo, il voto del 4 marzo sarà davvero una farsa. L’ennesima, l’ultima. Poi, dice Magaldi, qualcosa dovrà per forza succedere: questo paese, prima o poi, dovrà svegliarsi.Preparatevi all’ultima farsa dei morti viventi: fingono di candidarsi per governare il paese, ben sapendo che non ci proveranno neppure, perché occuparsi seriamente dell’Italia significa sfidare Bruxelles. Il loro unico obiettivo? Tentare di salvare la poltrona, col terrore di non riuscirci: la coperta delle larghe intese sarà troppo stretta, in tanti resteranno al freddo e fatalmente daranno filo da torcere all’inciucio, al governicchio che Mattarella proverà comunque a mettere in pista, per tirare a campare ancora un po’. Tradotto: «Queste elezioni saranno senza vincitori e daranno vita a un esecutivo dal respiro corto, un ectoplasma come il governo Letta o quello di Gentiloni». Dopodiché, tempo scaduto: sarà la fine, per questi partiti che oggi promettono di avere ancora un futuro davanti a sé. «E lo sanno, che è l’ultima fermata», perché poi finiranno i residui scampoli di illusione, dalla chimera Renzi al surreale Berlusconi. Tutti a casa, e palla al centro: toccherà finalmente agli italiani, dopo tanto tempo. Ne è convinto Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, osservatore ravvicinato della politica nazionale ed europea. Pronostico: la crisi, sempre più feroce, indurrà la popolazione a scendere in campo direttamente, occupandosi del proprio destino. Obiettivo: un cambio radicale di paradigma. Giù le tasse, fine dell’austerity, stop ai trattati-capestro dell’Ue, recupero della sovranità finanziaria nazionale.
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Grimaldi: golpe Cia in corso in Iran, via rivoluzione colorata
«Si è scatenato quello che promette essere un rinnovato tentativo USraeliano, con il conforto saudita e il beneplacito dell’Ue, al cambio violento di regime in Iran, stavolta mettendoci tutto l’impegno dei due terroristi di Stato della cosiddetta “comunità internazionale (leggi Nato), Trump (con lo Stato Profondo Usa) e Netanyahu (sostenuto dalla lobby) e arrivando fino all’aggressione armata, con conseguenze apocalittiche non solo per il Medioriente». Fulvio Grimaldi, per lunghi anni giornalista Rai e autore del documentario “Target Iran”, che racconta la nuova realtà dell’ex Persia affrancatasi dall’Occidente, teme che la guerriglia scatenatasi a Teheran sia l’antipasto dell’ennesima, sanguinosa “rivoluzione colorata” per rovesciare il governo iraniano, che insieme a quello russo si è opposto con successo, in Siria, alla guerra contro Assad organizzata dalla Cia utilizzando i miliziani dell’Isis. «L’anticipazione di questa strategia, lubrificata dallo tsunami di falsità e diffamazioni di cui si incaricano i media mainstream, con particolare efficacia quelli di “sinistra” e la loro clientela di utili idioti e amici del giaguaro imperialista – scrive Grimaldi – la si è avuta nel 2009, al tempo delle elezioni che hanno rinnovato il mandato al migliore, più laico, antimperialista (si ricordi la sua amicizia con Hugo Chavez) e socialmente sensibile presidente iraniano, Mahmud Ahamdinejad».All’epoca, scrive Grimaldi sul suo blog, venne scatenata la sedicente “rivoluzione verde”, dove «settori della borghesia ricca, nostalgica della sanguinaria dittatura del fantoccio occidentale Reza Pahlevi e famelica di neoliberismo per poter sottrarre beni e diritti ai ceti popolari valorizzati da Ahmadinejad, vennero mandati, da agenti infiltrati del terrorismo internazionale, allo scontro con lo Stato». Il pretesto era il solito: «Brogli nella vittoria di Ahamedinejad, riscatto delle donne oppresse da burka e bigottismo patriarcale». Allora, continua Grimaldi, si trattava di ridurre la crescente influenza di Teheran sul cosiddetto “arco scita”, «espressione depistante utilizzata per descrivere governi e popolazioni resistenti all’imperialismo Usa e israeliano, neutralizzare il suo ruolo di prezioso fornitore di gas e petrolio a paesi su cui l’Occidente intende esercitare il dominio energetico, bloccare il modello di emancipazione sociale messo in atto da Ahmadinejad e l’impetuoso sviluppo industriale del paese». Al centro della “sceneggiata” era la presunta volontà di Teheran di dotarsi di armamento atomico, quando la stessa Aiaea, l’agenzia Onu per l’energia atomica, insisteva a dimostrare che lo sviluppo nucleare dell’Iran era dedicato esclusivamente a uso civile, sanitario ed energetico.Con l’avvento del “moderato” Hassan Rouhani, reso possibile dal fatto che il “conservatore” Ahmadinejad non poteva presentarsi per un terzo mandato e che il suo schieramento aveva fronteggiato le elezioni diviso (“moderato” e “conservatore” sono i termini «che i media ci infliggono per designare chi è gradito e chi sgradito all’Occidente»), avviene secondo Grimaldi «l’indecorosa resa, la rivincita dei “quartieri alti” di Teheran, un’offensiva privatizzatrice e, pietra angolare dell’indipendenza o meno del paese, l’accordo sul nucleare con gli Usa che ha privato l’Iran quasi interamente del suo potenziale di nucleare civile». Il che avrebbe dovuto portare alla normalizzazione dei rapporti con Usa e Occidente, alla fine di sanzioni tra le più feroci e genocide mai inflitte, alla pacificazione della regione. Invece, «è sotto gli occhi di tutti a cosa ha portato l’arrendevolezza di Rouhani». Il progetto di “regime change” mancato da Obama, Hillary Clinton e Netanyahu è fallito clamorosamente, ma i nemici dell’Iran non hanno mai mollato la presa, tra fake news e attentati terroristici contro scienziati iraniani e contro la stessa popolazione civile, «affidati a una setta di fuorusciti riparata a Parigi e a Washington e da lì foraggiata e armata: i Mek, Mujahedin del Popolo».A far saltare i nervi al blocco occidentale, aggiunge Grimaldi, è stato il sostegno dato dall’Iran «alla resistenza irachena e iraniana contro Usa, Israele, Nato e loro mercenariato jihadista», nonché «l’impetuosa crescita del suo prestigio e della sua influenza nella regione». E così «siamo ai pogrom di oggi, che annunciano una nuova “rivoluzione verde” che in Occidente si spera risolutrice». Ma che non lo sarà, sostiene sempre Grimaldi, «alla luce dell’unità del popolo iraniano, della sua coscienza politica, del suo patriottismo». Dal giorno in cui la rivoluzione khomeinista ha posto fine alle ingerenze colonialiste e poi imperialiste (si ricordi il colpo di Stato angloamericano contro il premier Mossadeq nel 1952 e la restaurazione imperiale sotto lo Shah), «l’Occidente non ha mai cessato di fornire all’opinione pubblica un quadro grottescamente distorto dell’Iran e dei suoi 80 milioni di abitanti». Oggi, prosegue Grimaldi, «si riparte con la totale falsità di una dittatura, una società oppressa dal clero, una catastrofe economico-sociale, una matrice di terrorismo e instabilità in tutta la regione». Tutto “merito” degli Stati Uniti: «La potenza che s’inventa interferenze russe nelle proprie elezioni, ma che non ha trascurato di intervenire, con tangenti, ricatti, manipolazione di settori sociali, tsunami mediatici e colpi di Stato, in praticamente ogni processo elettorale e genericamente politico dove fosse in gioco il dominio Usa, rinnova l’operazione fallita del 2009: obiettivo, ancora una volta il “regime change” e, in mancanza, l’aggressione, o diretta, o affidata a surrogati».Secondo Grimaldi, le politiche neoliberiste di Rouhani «hanno annullato in parte il progresso delle classi popolari realizzato da Ahmadinejad». Soprattutto, le sanzioni che l’accordo nucleare avrebbe dovuto far sospendere (ma che Trump ha rafforzato) hanno peggiorato le condizioni di vita di vaste masse: aumento dei prezzi di carburanti ed energia, annullamento dei sussidi alimentari, inflazione, crisi del bazar, disoccupazione. «Ed è successo quanto s’è visto e documentato a Kiev, Bengasi in Libia, Deraa in Siria, Caracas». Un copione: «Parte una pacifica rivendicazione di piazza in varie città iraniane, nel giro di ore, secondo un programma dettagliato pubblicato in rete, in varie città spuntano gruppetti di non più di 50 soggetti che, alle richieste di aumenti salariali e altri interventi economici, sovrappongono slogan anti-sistema, contro il governo e, con particolare virulenza contro il “dittatore” Khamenei, che è dittatore quanto lo è il capo di Stato di qualsiasi paese europeo». Se “morte al dittatore” e “morte a Khamenei” ci riportano dritti agli auspici indirizzati a Maduro, Gheddafi o Assad, «l’inconfutabile marchio israeliano risuona nelle imprecazioni contro il ruolo regionale dell’Iran e contro l’impegno per la Palestina, Gaza e il Libano: “Giù le mani dal Medioriente”, “No Gaza”, “No Libano”».Non passano che poche ore e, immancabili, partono colpi di arma da fuoco, non si capisce bene da quale parte (per i media occidentali inconfutabilmente dalla polizia) e cadono le prime vittime. Poi, a tempo scaduto, «escono fuori prove, video, testimonianze e confessioni che attestano la presenza di infiltrati impegnati a sparare sulla folla: su questo aspetto, tuttavia, i mass media appaiono distratti». Intanto, aggiunge Grimaldi, «hanno lucidato le proprie trombe tutti gli squalificatissimi arnesi della cosiddetta “società civile” e dei “diritti umani”, gli scontati travestimenti dell’intelligence imperialista, da Amnesty International a Hrw e alla National Endowment for Democracy, con pesce pilota, da noi, il “Manifesto”, zelantissimo su tutte le campagne delle false sinistre e vere destre internazionali: russofobia, “dittatori”, migranti e Ong sorosiane, molestie, gender, “populisti”, “sovranisti”, “minaccia fascista” incombente (che, per carità, non riguarda mica censura, militarizzazione, securitarismo, bellicismo, colonialismo, guerra ai poveri su entrambi i lati dell’Atlantico)».Una di queste entità, «la Foundation for Defense of Democracies, del talmudista Mark Dubowitz», ha sintetizzato il programma di distruzione dell’Iran, nel plauso del direttore della Cia, Mike Pompeo e del segretario di Stato Tillerson, nei termini di un appello a Trump di lanciare «l’offensiva finale contro il regime di Teheran, indebolendone le finanze attraverso più massicce sanzioni economiche e minandone la direzione attraverso la mobilitazione delle forze pro-democrazia». E il Congresso «ha votato cospicui finanziamenti ai terroristi del Mek, la cui presidente, Maryam Rajavi, non ha perso l’occasione peri incitare “l’eroico popolo dell’Iran” all’assassinio del dittatore Khamenei e alla liberazione dei prigionieri politici». Presto, conclude Grimaldi, emergerà anche una nuova eroina-simbolo della “rivoluzione democratica”, sul modello di Neda Soltan. Ricordate la giovane manifestante di Teheran “uccisa” dagli agenti del regime «di cui, poi, un video dimostrava la finta morte allestita con finto sangue dai suoi compari e un giornale tedesco, la “Sueddeutsche Zeitung”, la “resurrezione” in Germania». Nulla di nuovo sotto il sole: «Solo che questa volta temo che, constatati i propri rovesci in Medio Oriente, grazie anche all’Iran, i veri Stati canaglia vogliano andare fino in fondo. E qui, amici, la controinformazione è vitale».«Si è scatenato quello che promette essere un rinnovato tentativo USraeliano, con il conforto saudita e il beneplacito dell’Ue, al cambio violento di regime in Iran, stavolta mettendoci tutto l’impegno dei due terroristi di Stato della cosiddetta “comunità internazionale (leggi Nato), Trump (con lo Stato Profondo Usa) e Netanyahu (sostenuto dalla lobby) e arrivando fino all’aggressione armata, con conseguenze apocalittiche non solo per il Medioriente». Fulvio Grimaldi, per lunghi anni giornalista Rai e autore del documentario “Target Iran”, che racconta la nuova realtà dell’ex Persia affrancatasi dall’Occidente, teme che la guerriglia scatenatasi a Teheran sia l’antipasto dell’ennesima, sanguinosa “rivoluzione colorata” per rovesciare il governo iraniano, che insieme a quello russo si è opposto con successo, in Siria, alla guerra contro Assad organizzata dalla Cia utilizzando i miliziani dell’Isis. «L’anticipazione di questa strategia, lubrificata dallo tsunami di falsità e diffamazioni di cui si incaricano i media mainstream, con particolare efficacia quelli di “sinistra” e la loro clientela di utili idioti e amici del giaguaro imperialista – scrive Grimaldi – la si è avuta nel 2009, al tempo delle elezioni che hanno rinnovato il mandato al migliore, più laico, antimperialista (si ricordi la sua amicizia con Hugo Chavez) e socialmente sensibile presidente iraniano, Mahmud Ahamdinejad».
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Ratto: questa scuola fabbrica soltanto servi, ragazzi infelici
I ragazzi sono spinti ad accettare tutto da una scuola che educa alla servitù, al non lamentarsi, alla sottomissione. A scuola si esercita una forma di terrorismo già dai primi anni delle secondarie superiori. Si ripete cioè: occhio, guarda che siamo in crisi – cosa che è sempre molto utile da ribadire – e quindi sarà difficilissimo trovare lavoro. Dunque prendi qualsiasi cosa ti capiti, non alzare la testa, non farti valere, sottomettiti alle logiche neoliberiste e a tutto quello che ne consegue. Quindi nessuno si lamenta più. Il fatto stesso che nel mio liceo qualcuno abbia osato lamentarsi del freddo, visto che si viveva in gran parte delle aule e dei corridoi a 14 gradi per sei ore di seguito, ha suscitato un grandissimo scalpore. Quasi tutti gli insegnanti si sono nascosti dietro a un dito. Da un lato speravano che i ragazzi si lamentassero perché loro stessi avevano freddo. Dall’altro, però li punivano se lo facevano, “perché io devo interrogare, perché io devo spiegare”. Insomma, il sistema che si sta creando è un sistema che insegna molto bene a sottomettersi. Faccio un esempio per tutti: è un classico trovare il ragazzo che ti dice: «Il tema è andato bene perché ho detto quello che voleva la professoressa». Questo è il modo grazie al quale, con una gravissima responsabilità da parte nostra, noi produciamo servi.E questa scuola – che ha preso spunto dal sistema d’istruzione statunitense – è una scuola fortemente globalizzata, finalizzata esattamente a questo genere di obiettivo. L’aspetto negativo è questa trasformazione progressiva che l’istruzione pubblica ha subìto in una logica aziendale, dal 2000 in avanti. La scuola è sempre più un sistema, in cui i ragazzi sono stati progressivamente trasformati in “clienti”. Tramite questa scuola dell’autonomia, i singoli istituti locali si sono trovati in competizione per attirare più “clienti” possibili. Quindi questo ha significato anche promuoverli più facilmente. Si è creata una situazione in cui si è parlato sempre più di “saperi minimi”. Si è diffusa una disistruzione di ragazzi sempre meno a conoscenza dei fatti, sempre meno istruiti. E in questa situazione, dopo una prima fase di coccole, siamo entrati nella seconda fase, quella attuale, in cui gli alunni sono oramai inebetiti, annichiliti, con una bassa cultura, così come probabilmente un certo sistema vuole, così come il modello americano impone. Quindi una cultura molto bassa, un grado di consapevolezza pressoché pari a zero. Passioni politiche, interessi, convinzioni religiose pari a zero, nel senso che basta aderire alla tradizione: ragazzi che in classe te li trovi come delle specie di mummie, non interessati a nulla se non all’ultima generazione di smartphone.In qualche modo gli elettori ideali, i cittadini consumatori ideali, individui che sono come delle nere lavagne vuote, su cui puoi scrivere quello che vuoi. E’ come sottomettere l’insegnamento dei valori elevati della vita alle esigenze di un pensiero neoliberista, perché in realtà ormai chi va a scuola è inserito nell’ottica del profitto, del primeggiare sugli altri, ognuno per sé. La stessa introduzione del concetto di credito scolastico, avvenuta con la riforma Berlinguer, ha portato a una svalutazione della centralità del voto, con la sua connotazione morale: se prendevi quattro ti vergognavi, ti sentivi un verme perché avevi preso quattro. Adesso il voto è solo un tramite per arrivare a un punteggio e il punteggio è il più possibile appiattente: annulla molto le differenze tra i più bravi e i meno bravi. E soprattutto è l’anticamera dei soldi: i ragazzi a scuola sono tirati su in forte competizione gli uni con gli altri, finalizzando tutto a prendere più credito possibile, più punteggio possibile, per una questione utilitaristica. C’è questa idea del sapere che deve servire a qualcosa. Sempre più spesso, mentre spiego, mi capita di sentirmi interrompere da qualcuno: “Questa cosa la dobbiamo sapere? Questa cosa serve?”. Non è che ci siano la passione o l’interesse: c’è soltanto l’interrogativo rispetto a quanto ciò che diciamo possa poi essere spendibile in termini di credito, in termini di pezzi di carta, in termini di soldi, in termini occupazionali.Una delle strategie che io trovo più orrende è proprio quella dell’orientamento scolastico. Cioè i ragazzi vengono convogliati solo in alcuni rami, in alcuni percorsi di studio universitario e poi occupazionale: quelli che interessano a chi gestisce l’aspetto tecnologico, quelli più valorizzati nel sistema economico, scoraggiando invece inclinazioni artistiche, inclinazioni letterarie e umanistiche. Perché? Perché ormai da un po’ di tempo sappiamo tutti che la potenza di uno Stato è basata sulla sua capacità tecnologica, su quella economico-capitalistica e non certo sulla bellezza delle sue opere d’arte o sulla musica, come in Italia invece dovrebbe essere. Si indottrinano persone che interiorizzano che l’unica cosa che conta sono i soldi, attraverso l’insegnamento della scuola, della televisione e della pubblicità. Bisogna apparire, bisogna essere di successo. Tra i vari termini orrendi di cui si alimentano tutte le ultime riforme scolastiche, c’è quella del “successo formativo”, che in qualche modo gonfia di significato il vuoto di una conoscenza spesso piuttosto mediocre. È chiaro che è tutta una rincorsa a costruire una società, un sistema di persone che ha in cima alla sua scala di valori questo apparire, questo possedere, questo avere più soldi possibile, ma infelice.La cosa che noto di più è questa diffusissima infelicità che si dirama dai ragazzi di quest’età, fino poi agli individui di età superiore. Una società in cui ogni individuo non è messo nelle condizioni di essere ciò che è, ovvero di realizzare sé stesso, costituirà una società di infelici. Ce l’ha insegnato Platone ne “La Repubblica” e di fatto le cose stanno effettivamente andando in questa direzione. Quale valore ha il dubbio e come lo si coltiva, in un mondo che emargina gli anticonformisti? Il dubbio ha un valore totale. Io dico sempre ai miei ragazzi: se c’è un’unica cosa che deve restarvi nell’animo, alla fine dei cinque anni di liceo, quella cosa è il dubbio. La cultura è soltanto quello. Non è il sapere, ma è il dubbio di non sapere. E d’altra parte, socraticamente, la questione è sempre la stessa: è il sapere di non sapere che fa la differenza tra chi è (forse) sapiente, e chi no. Sapiente nel senso che sa che non sa, e che quindi deve continuare a cercare. Quando non è scetticismo fine a se stesso, il dubbio scatena voglia di capire, voglia di interessarsi, di cercare. E dunque scatena un impegno personale, individuale, mette in gioco aspirazioni che portano poi a un percorso individuale di crescita continua. Finché c’è dubbio c’è la crescita, quando si arriva alla certezza si smette di crescere.È una scuola che invece svende il sapere a un livello estremamente banale, marginale. Una scuola che sforna esperti. Seminare, senza curarsi del raccolto? Uno dei più grandi filosofi dell’ottocento, Kierkegaard, ha insistito moltissimo su questo aspetto. E dopo lui altri, compreso in Italia Augusto Del Noce. I problemi insiti in una cultura per obiettivi è stato analizzato benissimo dai grandi filosofi come un pericolo enorme, perché se un obiettivo venga raggiunto o meno è qualcosa che si valuta dal di fuori, nel momento in cui viene esternato. Questa cultura per obiettivi di fatto vanifica e banalizza il lavoro, che spesso non è valutabile così facilmente da un punto di vista esteriore. Mi ricordo quando ho cominciato a insegnare, all’inizio degli anni 90: ci si lamentava molto della riforma di Gentile. Di fatto la scuola reggeva ancora su quelle che erano le linee direttive della scuola gentiliana della metà degli anni Venti. E si diceva: è una scuola fascista o comunque nata in quell’ambito. Ma c’erano dei concetti, come quello della vocazione all’insegnamento, come una missione con un ruolo che non può essere in nessun modo insegnato, perché l’insegnante quel ruolo ce l’ha dentro. Insegnante è colui che sa insegnare perché dentro di sé è insegnante. C’era una fiducia nei nostri insegnanti, che poi di fatto è la fiducia che forse avevamo gli uni nei confronti degli altri.Una società invece basata su questo clima del sospetto – questo mettere tutti contro tutti, questo smantellamento di ogni valore – ha portato a tutta una serie di privazioni e di abbassamenti del valore degli insegnanti, così come di moltissimi altri profili. L’insegnante adesso è un impiegato. Non ci sono più i presidi, ci sono i “dirigenti”, in una logica assolutamente aziendale. L’insegnante non può essere l’impiegato, quello che compila i moduli, quello che progetta per rendere la scuola sempre più apprezzabile dall’esterno. Deve essere un insegnante nel senso di “lasciare un segno”. Invece gli insegnanti oggi non lasciano nulla: lasciano il vuoto, quel vuoto che ci portiamo dietro tutti e che abita nella nostra società. Io credo che questa scuola non sia certo ormai il luogo ideale per l’apprendimento. Quella che può insegnare è una scuola invece fatta di insegnanti veri, persone che sanno lasciare un segno, che coinvolgono, che danno un’impronta importante ai ragazzi. Sì, la Rete è importante: io insegno filosofia e storia, non termino mai una lezione di storia che non finisca con questa esortazione: «Andate a informarvi». E informarsi vuol dire andare a cercare.C’è il problema della verità: come faccio a sapere chi ha la verità? Questo è un problema, ma forse la verità non è tanto la conseguenza di una certa testimonianza: forse la verità è il dialogo tra le varie testimonianze. Cioè forse la verità è il confronto: forse la verità sta nel problematizzare non nel risolvere. E si ritorna a quello che secondo me è l’aspetto fondamentale: la cultura sta nella domanda, non nella risposta. Io esorto gli studenti a pretendere una scuola che li coinvolga, che li interessi, che li appassioni. Avete diritto ad una scuola che vi faccia saltare sulle sedie, che vi prenda. Una scuola nella quale il tempo passi alla stessa velocità con cui passa quando siete col fidanzato, quando siete a giocare a calcio, quando state suonando la chitarra con il vostro gruppo. Deve essere una scuola interessante nel senso proprio di interessarvi, di farvi entrare all’interno del meccanismo, di farvi partecipare. Voi vi meritate una scuola così, una scuola che in qualche modo vi chiami in causa, che vi faccia sentire vivi e che riesca a produrre in voi la felicità, cioè accordare per ognuno di voi la propria strada e la propria capacità di realizzare se stessi.(Pietro Ratto, dichiarazioni rilasciate a Claudio Messora nella video-intervista “Noi insegnanti produciamo servi”, pubblicata su “ByoBlu” il 15 dicembre 2017. Scrittore, filosofo e saggista, il professor Ratto ha appena pubblicato il romanzo “La scuola nel bosco di Gelsi”).I ragazzi sono spinti ad accettare tutto da una scuola che educa alla servitù, al non lamentarsi, alla sottomissione. A scuola si esercita una forma di terrorismo già dai primi anni delle secondarie superiori. Si ripete cioè: occhio, guarda che siamo in crisi – cosa che è sempre molto utile da ribadire – e quindi sarà difficilissimo trovare lavoro. Dunque prendi qualsiasi cosa ti capiti, non alzare la testa, non farti valere, sottomettiti alle logiche neoliberiste e a tutto quello che ne consegue. Quindi nessuno si lamenta più. Il fatto stesso che nel mio liceo qualcuno abbia osato lamentarsi del freddo, visto che si viveva in gran parte delle aule e dei corridoi a 14 gradi per sei ore di seguito, ha suscitato un grandissimo scalpore. Quasi tutti gli insegnanti si sono nascosti dietro a un dito. Da un lato speravano che i ragazzi si lamentassero perché loro stessi avevano freddo. Dall’altro, però li punivano se lo facevano, “perché io devo interrogare, perché io devo spiegare”. Insomma, il sistema che si sta creando è un sistema che insegna molto bene a sottomettersi. Faccio un esempio per tutti: è un classico trovare il ragazzo che ti dice: «Il tema è andato bene perché ho detto quello che voleva la professoressa». Questo è il modo grazie al quale, con una gravissima responsabilità da parte nostra, noi produciamo servi.
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Della Luna: tengono in vita l’Italia solo per finire di svuotarla
Il re è nudo ma niente succede. I numerosi scandali e, ultimamente, la commissione parlamentare di inchiesta sulle banche, hanno messo a nudo la realtà della politica e della burocrazia, le sistematiche e trasversali ruberie del regime, la sua strutturale illegalità di funzionamento – e niente succede, la società accetta tutto passivamente. Così come fa la “giustizia”, il popolo non reagisce, accetta ingiustizia e illegalità. Sempre più subisce e non agisce. L’esperienza gli ha insegnato che votare e manifestare è improduttivo. Una ribellione popolare contro il marcio regime è impossibile: il popolo italiano è vecchio e sfiduciato, anche in se stesso, e senza fiducia in se stesso un popolo non organizza una ribellione. E il voto non consente di cambiare, come si dirà. I banksters saccheggiano impuniti il risparmio, mentre autorità di controllo giudiziarie e amministrative chiudono un occhio o due e non agiscono nemmeno dopo il fatto. Il governo, con dentro parenti e amici dei banchieri, li copre e scarica sulla società civile i danni dei loro abusi. Grillo ruggiva dichiarando che il suo movimento avrebbe aperto i palazzi del potere come scatolette di sardine per mettere alla luce del giorno tutte le illegalità, come se ciò potesse suscitare reazioni tali da riformare il sistema. Ma non è così: il sistema continua come prima, e la gente subisce passivamente.E perché stupirsi? La legalità è l’interesse più diffuso, dunque il più disperso, il più debole, quindi il più perdente. E’ un interesse impotente a difendere se stesso. Il popolo è bue perché è popolo, non per altra ragione. Per contro, gli interessi concentrati, dei pochi contro i molti, soprattutto se illeciti e nascosti, sono anche poteri forti, e hanno buon gioco a comprare chi gli serve e a mettere nei posti giusti i loro fiduciari. Gli esponenti del regime italiano vantano oggi una ripresa economica, sia pur da fanalino di coda, ma non dicono che le previsioni per i prossimi 25 anni mostrano il sistema-paese Italia in costante perdita di produttività-competitività rispetto agli altri paesi comunitari e Ocse. Il che comporta che, per competere sui costi di produzione, si dovrà continuare a tagliare i salari reali, i diritti dei lavoratori, le pensioni, gli investimenti, e che in prospettiva l’Italia è spacciata, perché già da 25 anni sta perdendo in produttività comparata, e 50 anni così implicano che il paese non è più vitale. Spacciata, anche perché il governo deve perseguire una politica di saldi primari attivi (cioè togliere con le tasse dalla società più denaro di quanto riversa in essa, nonostante che la società sia in grave carenza di denaro).Altro che virtuosità, risanamento, ripresa: tutto deve andare ai banchieri che prestano i soldi, compresa la proprietà delle aziende. Senza investimenti strategici non vi è recupero di produttività, non vi è fine del declino. Ciò accelererà la fuga di capitali, imprenditori, lavoratori qualificati e cervelli. Questo destino fallimentare è connaturato all’Italia unitaria, a questo Stato voluto e creato dall’estero per servire ed essere sfruttato da potenze straniere, come spiegato in precedenti articoli. Uno Stato sbagliato per composizione, che è stata fatta accozzando nazioni preunitarie troppo diverse tra loro e che perciò non hanno mai legato ma hanno generato una governance parassitaria e incompetente, che sa solo arricchirsi rubando sui trasferimenti dalle aree efficienti a quelle inefficienti, e in generale sulle risorse pubbliche e private. Uno Stato vassallo, in cui la politica è decisa dall’estero e alla classe politica interna, come unico spazio di azione, rimane la competizione-lottizzazione nel saccheggio del cittadino e della spesa pubblica. Non potendo procurarsi consensi con le buone politiche nell’interesse nazionale, i nostri politicanti se li procurano distribuendo privilegi clientelari. Questo è il modo di produzione della legittimazione elettorale in Italia.I potentati stranieri dominanti sostengono e legittimano quelle forze politiche e burocratiche italiane che meglio servono i loro interessi a spese degli italiani (fino a mandare eserciti italiani a combattere servilmente guerre americane e francesi contro gli interessi italiani), consentendo loro in cambio di continuare i loro traffici con piccole banche, appalti truccati. E’ grazie a siffatti rapporti con la partitocrazia e la burocrazia italiane che potentati stranieri hanno acquisito il controllo di (quasi) tutte le imprese di punta e strategiche italiane, nonché della Banca d’Italia e del sistema creditizio. E’ così che il governo ha regolarmente sottoscritto, sotto ricatto di rating, contratti finanziari scientemente rovinosi a vantaggio delle controparti dominanti come Morgan Stanley, con perdite per decine di miliardi – vedasi il commento dell’onorevolele Brunetta all’audizione della dottoressa Cannata in commissione banche, audizione che si è cercato di mettere in ombra col polverone sulle dichiarazioni del presidente di Consob Giuseppe Vegas alla medesima commissione sul caso Etruria-Boschi, tacendo sul ministro e sugli alti dirigenti del Tesoro che sono poi passati a Morgan Stanley.Un simile Stato, come apparato, non può vivere se non attraverso una corruzione sistemica, quindi intessuta nelle istituzioni anche di controllo (le campagne di lotta contro la corruzione, ovviamente, sono una presa per i fondelli). I suoi partiti politici sono galassie di comitati di affari dediti ad operazioni illecite o quantomeno scorrette. Le rispettive segreterie fanno da organo di coordinamento tra tali comitati, e di ricezione delle richieste di interessi stranieri (talvolta anche nazionali) dominanti. Che forza avrebbero i partiti di potere se non gestissero (clientelarmente) appalti, crediti, assunzioni, licenze? Nessuna. I partiti che si staccano da quelli di potere per perseguire ideali sociali e di giustizia, sistematicamente, si spengono; non sono vitali, sebbene abbiano talora ottime idee e grande onestà, proprio perché non si portano dietro alcuna fetta di spesa pubblica, alcuna risorsa clientelare. Laddove vi sono seri interessi in gioco, le leggi, anche dagli organi di controllo e giustizia, sono osservate solo marginalmente, soprattutto per mantenere una minima facciata di legittimità agli occhi della gente comune.In realtà, vi è una netta divisione tra chi è soggetto alla legge e chi sta sopra di essa e la usa sugli altri per schiacciarli e spremerli. Il potere pubblico è inteso come proprietà privata, come diritto di passare sopra le regole e di togliere diritti agli altri, cioè di derogare alla legalità. Adesso, in campagna elettorale, è inevitabile che i partiti millantino, ciascuno, di avere la capacità e la volontà di salvare il paese e di combattere la corruzione. Lo afferma quella (pseudo) sinistra che è stata l’esecutore più attivo e fedele degli interessi stranieri, che più ha collaborato nel sottomettere ad essi tutto il paese, nello spremerlo per arricchire gli squali della finanza predona, nel sabotare l’economia e l’ordine pubblico, nell’imporre un pensiero e un linguaggio unico che impedissero persino di descrivere ciò che essa stava e sta perpetrando. Poi abbiamo un Berlusconi, proprietario del principale partito del centrodestra, che ha sempre usato i voti di chi gli dava fiducia per sostenere la linea della (pseudo) sinistra e della Germania, persino il rovinoso governo Monti, al fine di difendere i propri interessi aziendali e processuali – un Berlusconi da sempre condizionabile mediante attacchi giudiziari che scattano quando serve.Abbiamo una Lega con analisi e propositi condivisibili, la quale un tempo era indipendentista e ora non lo è più, almeno nelle dichiarazioni, e si propone come tutrice degli interessi nazionali pan-italiani entro un’Ue e un euro in cui vuole rimanere. Purtroppo, sino ad ora, su scala nazionale, la Lega ha realizzato niente o quasi dei suoi programmi, pur essendo stata a lungo al governo. Abbiamo infine una M5S che conta numerosi esponenti validi, coraggiosi e liberamente agenti, ma i cui titolari – quelli che enunciano che “uno vale uno” – non si sa che mete abbiano e che interessi incarnino, anche se appaiono significativi legami con gli Usa. Abbiamo infine una nuova, furbesca legge elettorale, che lascia nelle mani delle segreterie (negandole agli elettori) non solo la scelta dei parlamentari, ma anche la decisione sul nuovo governo: una legge tipicamente partitocratica. No, signori miei, non illudetevi: il processo di disfacimento e la parassitosi maligna interna ed esterna continueranno più saldamente che mai, con la Bce che sosterrà il debito pubblico, differendo il collasso, per consentire di portare a compimento il piano di trasferimento delle risorse del paese. Niente cambierà con le prossime elezioni. L’unico cambiamento possibile e concreto lo realizza chi emigra.(Marco Della Luna, Il Re è nudo ma niente succede, dal blog di Della Luna del 17 dicembre 2017).Il re è nudo ma niente succede. I numerosi scandali e, ultimamente, la commissione parlamentare di inchiesta sulle banche, hanno messo a nudo la realtà della politica e della burocrazia, le sistematiche e trasversali ruberie del regime, la sua strutturale illegalità di funzionamento – e niente succede, la società accetta tutto passivamente. Così come fa la “giustizia”, il popolo non reagisce, accetta ingiustizia e illegalità. Sempre più subisce e non agisce. L’esperienza gli ha insegnato che votare e manifestare è improduttivo. Una ribellione popolare contro il marcio regime è impossibile: il popolo italiano è vecchio e sfiduciato, anche in se stesso, e senza fiducia in se stesso un popolo non organizza una ribellione. E il voto non consente di cambiare, come si dirà. I banksters saccheggiano impuniti il risparmio, mentre autorità di controllo giudiziarie e amministrative chiudono un occhio o due e non agiscono nemmeno dopo il fatto. Il governo, con dentro parenti e amici dei banchieri, li copre e scarica sulla società civile i danni dei loro abusi. Grillo ruggiva dichiarando che il suo movimento avrebbe aperto i palazzi del potere come scatolette di sardine per mettere alla luce del giorno tutte le illegalità, come se ciò potesse suscitare reazioni tali da riformare il sistema. Ma non è così: il sistema continua come prima, e la gente subisce passivamente.
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Bagnai: cretini di sinistra, l’immigrazionismo è colonialismo
«Il nostro paese è stato distrutto da quelli che ci propongono come panacea i lavoratori altrui, dopo averci proposto come panacea la moneta altrui. E un paese distrutto, semplicemente, non ha risorse per aiutare nessuno». Parola di Alberto Bagnai, che sul blog “Goofynonics” rilancia un intervento già abbozzato anni fa, destinato ai suoi studenti della Sapienza, corso di laurea in “economia della cooperazione internazionale e dello sviluppo”. La tesi: “L’immigrazionismo è la fase suprema del colonialismo”. «Per motivi scellerati – premette l’economista – abbiamo mandato al potere gli immigrazionisti: quelli che, ideologicamente, vedono nella libera immigrazione in Italia la soluzione dei problemi del mondo, senza se e senza ma». I nostri aiuti allo sviluppo? Cronicamente insufficienti: «Lo sono sempre stati, proprio perché l’egemonia culturale e politica è stata esercitata dai neoliberisti (cioè dagli idoli degli iussolisti scemi – e anche di quelli furbi), i quali, come sappiamo, vogliono reprimere la spesa pubblica – qualsiasi spesa – sotto la fulgida egida del “non ci sono risorse”». E oggi il problema si è aggravato: parte delle risorse che potremmo dedicare all’emancipazione di quei popoli «viene dedicata al loro traghettamento», via Lampedusa. «Le risorse ci sarebbero sia per traghettare, che per emancipare», ma «la scelta di fare solo una di queste cose è una scelta politica».Una scelta, avverte Bagnai, nella quale «la sovranità popolare non è stata coinvolta, venendo completamente sovrastata da quella di organizzazioni ormai chiaramente individuabili come braccio operativo di un progetto esogeno al nostro paese». Naturalmente, aggiunge l’economista, «gli iussolisti scemi erano praticamente tutti europeisti». Eppure, aggiunge, «non ce n’era nemmeno uno che notasse come da questo dibattito l’Europa fosse totalmente assente». Di fatto, «per lo iussolista scemo l’Italia è merda», e comunque è “normale” che l’Europa sia inesistente, nella gestione del problema migranti. «C’è questa strana caratteristica dell’immigrazionismo, che più di essere un’ideologia è una religione (con tanto di pensiero magico)», scrive Bagnai. «In quanto religione, ha una sua terra promessa, che però è una e una sola: l’Italia – che fra l’altro è esattamente quella dove molti di quelli che arrivano non vorrebero restare». E chi se ne importa: «Ogni religione vuole sacrifici, e le vittime dell’immigrazionismo sono, naturalmente: gli immigrati». Del resto, «un processo così complesso non dovrebbe essere affidato alla carità pelosa di organizzazioni arroganti e non trasparenti, che tanta parte hanno avuto nel generare il traffico (e quindi le vittime)».Poi c’è un problema di fondo, strutturale: «L’immigrazionismo, con buona pace dei tanti razzisti che pure circolano e che non hanno la mia simpatia, altro non è, da parte delle ex potenze coloniali, che una fase ulteriore di appropriazione delle risorse delle ex colonie». Sostiene Bagnai: «Dopo averle depredate delle loro risorse naturali, le deprediamo delle loro risorse umane». C’è chi disprezza la qualità umana dei migranti? «Se pure quelle che vediamo per strada fossero solo braccia rubate all’agricoltura», secondo Bagnai «sarebbero, appunto, braccia rubate all’agricoltura di paesi nei quali l’autosufficienza alimentare non è un dato banale». La forza lavoro è una risorsa, è un fattore produttivo. «E la libera mobilità dei fattori produttivi è benefica e equilibrante solo nei modelli neoclassici, cioè nell’ossatura ideologica del liberismo oltranzista». Qui in Europa, abbiamo visto che «la mobilità del lavoro è particolarmente destabilizzante, perché tende ad amplificare il divario fra paese di provenienza e di destinazione». Nel modello neoclassico, aggiunge Bagnai, «ogni bracciante che parte dal Niger contribuisce a far aumentare il salario di quelli che restano. Nel mondo reale, contribuisce a impoverire il paese».Questa situazione, continua Bagnai, è la stessa che «i vescovi africani vedono e stigmatizzano, perché vale, su scala minore, quello che vale per noi». E cioè: «Anni e risorse spesi per istruire persone che poi vanno altrove, creando un danno al paese di origine. Ma questo, agli immigrazionisti non interessa». Cosa gliene importa, davvero, della vita in Burkina Faso o in Sierra Leone? «Ben contenti e soddisfatti di essere nati dalla parte giusta del mondo», in un preciso spettro ideologico, «a loro interessa solo che qualcuno venga qui a “pakarglilapensione”, perché così gli hanno detto che succederà i giornali dei padroni, cui loro, da buoni imbecilli di sinistra, credono, perché Gramsci per loro se va bene è un liceo, se va male una strada, e nella maggior parte dei casi non è niente». Infierisce, Bagnai: «Questa è la feccia con la quale dovremo ricostruire questo cazzo di paese, non so se è chiaro: una torma di imbecilli sottoproletarizzati da decenni di propaganda a reti unificate, pronti a sollevarsi (sotto l’egida di ogni e qualsiasi organizzazione imperialistica i loro caporioni gli propongano in base alle loro logiche elettoralistiche) per difendere progetti la cui matrice ultraliberista (quindi fallimentare e fascista) dovrebbe essere immediatamente leggibile da chiunque avesse delle minime basi di storia del pensiero, ma anche di mero buon senso».«Il nostro paese è stato distrutto da quelli che ci propongono come panacea i lavoratori altrui, dopo averci proposto come panacea la moneta altrui. E un paese distrutto, semplicemente, non ha risorse per aiutare nessuno». Parola di Alberto Bagnai, che sul blog “Goofynonics” rilancia un intervento già abbozzato anni fa, destinato ai suoi studenti della Sapienza, corso di laurea in “economia della cooperazione internazionale e dello sviluppo”. La tesi: “L’immigrazionismo è la fase suprema del colonialismo”. «Per motivi scellerati – premette l’economista – abbiamo mandato al potere gli immigrazionisti: quelli che, ideologicamente, vedono nella libera immigrazione in Italia la soluzione dei problemi del mondo, senza se e senza ma». I nostri aiuti allo sviluppo? Cronicamente insufficienti: «Lo sono sempre stati, proprio perché l’egemonia culturale e politica è stata esercitata dai neoliberisti (cioè dagli idoli degli iussolisti scemi – e anche di quelli furbi), i quali, come sappiamo, vogliono reprimere la spesa pubblica – qualsiasi spesa – sotto la fulgida egida del “non ci sono risorse”». E oggi il problema si è aggravato: parte delle risorse che potremmo dedicare all’emancipazione di quei popoli «viene dedicata al loro traghettamento», via Lampedusa. «Le risorse ci sarebbero sia per traghettare, che per emancipare», ma «la scelta di fare solo una di queste cose è una scelta politica».
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Bernays: vi guideremo come pecore, sarete ai nostri ordini
Annoverato dall’autorevole rivista americana “Life” tra i 100 uomini più potenti del XX Secolo, acclamato unanimemente come il creatore dell’ingegneria del consenso, Edward Louis Bernays è un nome poco familiare al pubblico europeo. Conosciuto forse a qualche curioso per la sua parentela con il padre della psicoanalisi, dello zio Freud il giovane Louis assimila velocemente e rielabora brillantemente la teoria di rivoluzionaria conoscenza dell’inconscio. Di estrazione ebraica e borghese si trasferisce giovanissimo nella New York dei primi del Novecento dove, abbandonata la strada prestabilita della prosecuzione dell’attività paterna, muove i primi passi nel mondo del giornalismo, per affermarsi in una veste di comunicatore del tutto inedita per i tempi. Dopo i fasti registrati dall’industria manifatturiera a servizio della produzione bellica della Prima Guerra Mondiale, gli Stati Uniti si trovano a dover affrontare il più spaventoso degli spettri del mercato: il rischio di sovrapproduzione. Il “brain storming” di illustri banchieri e influenti imprenditori porta a centrare la soluzione in modo deciso e inequivocabile: occorre traghettare il cittadino americano dalla cultura dei bisogni a quella dei desideri, rendendo le persone bramose di soddisfare necessità sempre nuove, gravose come impellenti bisogni.La logica economica, dopo aver asservito l’industria bellica per accrescere la propria produzione, si avvicina così alla neonata scienza della psicoanalisi. Ma come fare a convincere i cittadini a consumare nuovi prodotti non avendo esaurito i vecchi acquistati? Per Bernays, la risposta è semplice: basta «inquadrare l’opinione pubblica così come un esercito inquadra i suoi soldati». Lo zio Sigmund aveva dato luce alla parte oscura che muove il desiderio spinto dall’inconscio: attraverso il meccanismo di compensazione dei desideri, l’individuo sposta l’orizzonte del suo desiderio represso e non ammissibile verso la sfera esterna della materialità per poterlo soddisfare. Appresa la lezione, Bernays offre la sua preziosa consulenza nella campagna della American Tobacco Company per abbattere il tabù dell’America del primo dopoguerra verso la pratica del fumo da parte delle donne. Nel 1929 inscena la parata delle “fiaccole della libertà”: ingaggia una decina di suffragette che, nel pieno di una manifestazione pasquale, accendono in modo teatrale l’oggetto del desiderio manifesto allora proibito, le sigarette, che nell’inconscio femminile rappresentavano il pene. La notizia fa il giro del mondo, veicolata come gesto di libertà e emancipazione femminile, intaccando fortemente il tabù puritano.L’individuo, dunque, è disposto ad assumere comportamenti irrazionali, orientati al consumo di prodotti non solo inutili per la sua vita, ma addirittura dannosi, pur di sentir soddisfatti alcuni sui aneliti inconfessabili e inappagati, pur di veicolare all’esterno un’immagine che lo gratifichi e lo faccia sentire apprezzato dagli altri. E proprio perché in preda a forze inconsce gli essere umani vanno controllati, «come un gregge di pecore va guidato». Alle minoranze più intelligenti spetta il compito di fare proselitismo e indirizzare le masse indisciplinate e irrazionali. Una sorta di compito morale degli eletti: «Solo così si può coniugare l’interesse individuale con quello collettivo per favorire lo sviluppo e il benessere dell’America» (“Propaganda”, 1928). L’elenco dei clienti di Bernays è un pullulare di nomi del gotha economico e politico americano: Procter & Gamble, l’American General Electric, la General Motors, il presidente Usa Eisenhower sono solo alcuni dei nomi presenti nello sterminato portfolio di Bernays, capace di camuffare da colpo di Stato il golpe guatemalteco del 1953 per favorire, al fianco della Cia, gli interessi della United Fruit Company. La sua fama arriverà oltreoceano, conquistando con le sue teorie il ministro della propaganda nazista Goebbels, suo dichiarato fan. E’ a lui che devono la paternità tutte le attuali figure “professionali”, come gli spin doctor, che hanno fatto della propaganda l’arma del consenso sociale.(Ilaria Bifarini, “Il padre della propaganda: Edward Bernays”, da “Scenari Economici” del 21 settembre 2017. Economista, la Bifarini è autrice del saggio “Neoliberismo e manipolazione di massa, storia di una bocconiana redenta”).Annoverato dall’autorevole rivista americana “Life” tra i 100 uomini più potenti del XX Secolo, acclamato unanimemente come il creatore dell’ingegneria del consenso, Edward Louis Bernays è un nome poco familiare al pubblico europeo. Conosciuto forse a qualche curioso per la sua parentela con il padre della psicoanalisi, dello zio Freud il giovane Louis assimila velocemente e rielabora brillantemente la teoria di rivoluzionaria conoscenza dell’inconscio. Di estrazione ebraica e borghese si trasferisce giovanissimo nella New York dei primi del Novecento dove, abbandonata la strada prestabilita della prosecuzione dell’attività paterna, muove i primi passi nel mondo del giornalismo, per affermarsi in una veste di comunicatore del tutto inedita per i tempi. Dopo i fasti registrati dall’industria manifatturiera a servizio della produzione bellica della Prima Guerra Mondiale, gli Stati Uniti si trovano a dover affrontare il più spaventoso degli spettri del mercato: il rischio di sovrapproduzione. Il “brain storming” di illustri banchieri e influenti imprenditori porta a centrare la soluzione in modo deciso e inequivocabile: occorre traghettare il cittadino americano dalla cultura dei bisogni a quella dei desideri, rendendo le persone bramose di soddisfare necessità sempre nuove, gravose come impellenti bisogni.
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Macché neofascismo: comanda il denaro, l’Italia non esiste
Al di là del ridicolo di un ministero della difesa che scambia la bandiera della marina militare guglielmina per quella del Terzo Reich e colpisce con ignorante ingiustizia il carabiniere che l’aveva esposta nella sua stanza, chi oggi paventa un pericolo neofascista o populista è uno sciocco, perché la realtà è che il potere politico ed economico sta saldamente nelle mani (armate) di una oligarchia globale tecnocratico-finanziaria che si impone unilateralmente a due terzi del mondo, e ciò rende impossibile non soltanto il ritorno del fascismo o del comunismo per spinta dal basso, ma qualsiasi cambiamento politico strutturale che venga dal basso e dagli umori popolari anziché dall’alto. E’ finita l’epoca dei movimenti popolari che cambiano qualcosa di importante (se mai vi è stata). Al più, un’ideologia rossa o nera o verde potrebbe essere usata come verniciatura per nuove operazioni di ingegneria sociale calate dall’alto, oppure per agitare le masse additando un capro espiatorio, oppure per giustificare giri di vite sulla libertà di pensiero, stampa, insegnamento, privacy, diretti a corroborare il dominio del pensiero unico e dei suoi falsi clichés.Appare ormai chiaramente che le costituzioni reali oggi sono foggiate e trasformate dalle tecnologie finanziarie, informatiche, elettroniche e biologiche (sempre più rapidamente evolutive) della dominazione top-down sulla società. Non sono fatte dalle ideologie o dalle morali diffuse né da processi democratici. L’Italia unitaria è stata progettata e realizzata durante il cosiddetto Risorgimento da forze e interessi esterni ad essa (finanza anglo-francese), progettata e costruita come una specie di protettorato al loro servizio e non per essere uno Stato indipendente. Tale essa è rimasta e rimarrà. Nel corso della sua storia, l’Italia unitaria ha cercato più volte di sollevarsi a una condizione di indipendenza e parità con le altre potenze e di tutelare i propri interessi rispetto ad esse. Tentò dapprima partecipando alla Grande Guerra, ma poi gli Usa imposero che rinunciasse a quanto le spettava in base ai trattati con l’Intesa. La seconda volta tentò con Mussolini, conquistando una sorta di impero e alleandosi con Hitler; finì come sappiamo: da quella sconfitta in poi, abbiamo più di cento basi militari Usa sul territorio nazionale.Si provarono a darle almeno una qualche autonomia politica e capacità di difendere i propri interessi dapprima Craxi (ricordate Sigonella e la sua politica medio-orientale?) e poi Berlusconi (ricordate i suoi accordi con la Libia e la sua resistenza alle imposizioni tedesche in materia di bilancio?): entrambi sono stati tolti di mezzo con mezzi giudiziari. Dimenticavo: prima ancora aveva tentato qualcosa di simile Enrico Mattei (ricordate la sua politica petrolifera in concorrenza con i petrolieri angloamericani?), e fu tolto di mezzo con l’esplosivo. I migliori interpreti del ruolo dell’italia (con la “i” minuscola) nell’ordinamento mondiale sono stati, per contro, gli statisti europeisti come Ciampi e da ultimo soprattutto Giorgio Napolitano con l’operazione Monti, che oggi viene messa alla luce persino da gente quale Romano Prodi, come colpo di palazzo richiesto dall’estero.(Marco Della Luna, “Simboli fascisti e destini italiani”, dal blog di Della Luna del 7 dicembre 2017).Al di là del ridicolo di un ministero della difesa che scambia la bandiera della marina militare guglielmina per quella del Terzo Reich e colpisce con ignorante ingiustizia il carabiniere che l’aveva esposta nella sua stanza, chi oggi paventa un pericolo neofascista o populista è uno sciocco, perché la realtà è che il potere politico ed economico sta saldamente nelle mani (armate) di una oligarchia globale tecnocratico-finanziaria che si impone unilateralmente a due terzi del mondo, e ciò rende impossibile non soltanto il ritorno del fascismo o del comunismo per spinta dal basso, ma qualsiasi cambiamento politico strutturale che venga dal basso e dagli umori popolari anziché dall’alto. E’ finita l’epoca dei movimenti popolari che cambiano qualcosa di importante (se mai vi è stata). Al più, un’ideologia rossa o nera o verde potrebbe essere usata come verniciatura per nuove operazioni di ingegneria sociale calate dall’alto, oppure per agitare le masse additando un capro espiatorio, oppure per giustificare giri di vite sulla libertà di pensiero, stampa, insegnamento, privacy, diretti a corroborare il dominio del pensiero unico e dei suoi falsi clichés.
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Galloni: dire no ai boss dell’euro, creato per uccidere l’Italia
Poniamo il caso che un grande economista italiano vi dicesse che l’euro è stato inventato per impedire all’Italia di rafforzarsi: ci credereste? Vi conviene farlo, dice Gianluca Scorla, se questo economista risponde al nome di Nino Galloni, già ricercatore a Berkeley e poi docente universitario a Modena, Milano e Roma. Di scuola post-keynesiana, tra il 1981 e il 1986 è stato collaboratore del professor Federico Caffè, il genio europeo dell’economia progressista. Nell’ultima stagione governativa di Andreotti, il “Divo Giulio” chiamò a sé proprio Galloni per aiutare l’Italia a non rimetterci le penne, in vista del Trattato di Maastricht. Risultato: l’allora cancelliere Kohl ingiuse al nostro governo di allontanare quel funzionario “ribelle”, che si ridusse – in ufficio – a comunicare con Andreotti mediante “pizzini”, per aggirare il rischio di intercettazioni ambientali. Galloni ha lavorato al ministero dell’economia e in quello del lavoro, all’Inpdap e all’Ocse, nonché presso gruppi come Agip, Nuova Satin, Fintext Corporation. E’ stato impegnato nell’Inps, poi nell’Inail. Oggi è vicepresidente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi. Obiettivo: costringere la politica italiana a leggere la crisi in modo corretto, capendo chi l’ha creata e perché.Sono passi indispensabili, per poterne uscire. Come? Restituendo allo Stato la sua piena sovranità operativa, monetaria e finanziaria, senza la quale ogni soluzione di rilancio non è credibile, è pura propaganda elettorale. Renzi e Berlusconi fanno a gara nel promettere bonus e sgravi fiscali? Stanno semplicemente barando: sanno benissimo che, se prima non si rovescia il tavolo europeo del rigore (che non è tecnico-economico ma solo politico, ideologico), non ci si saranno soldi per sostenere gli italiani. Era il 2014, quando Galloni – dopo aver denunciato il piano di “deindustrializzazione” dell’Italia pianificato via Eurozona dal nostro maggiore competitor, la Germania – ricordava la trama del film horror proiettato in Europa negli ultimi tre lustri. «Dalla fine della primavera del 2001 i grandi ecomomisti, i Premi Nobel, i centri di ricerca, i grandi esperti avevano previsto che “dal prossimo trimestre ci sarà la ripresa”, e che questa ripresa “slitterà al semestre successivo”, poi “all’anno successivo” e poi ancora a quello venturo, senza alcuna spiegazione sulle logiche che avrebbero dovuto guidare questa ripresa». Ma della ripresa, ovviamente, «nemmeno l’ombra», sintetizza tre anni fa Gianluca Scorla, sul “Giornale delle Buone Notizie”.E vi pare possibile che, di trimestre in trimestre, da allora, le banche abbiano emesso 800.000 miliardi di dollari di titoli derivati e altri 3 milioni di miliardi di dollari di derivati sui derivati, quindi di titoli tossici? Già nel 2014 il totale sfiorava i 4 quadrilioni di miliardi di dollari, cifra pari a 55 volte il Pil del mondo. Lacrime e sangue: quante ne hanno davvero versate gli italiani, obbedendo ai diktat degli ultimi governi euro-diretti, da Monti a Gentiloni passando per Letta e Renzi? «Nella fase storica in cui la politica è stata superata dall’economia e le scelte operate seguono il paradigma della speculazione internazionale piuttosto che del rilancio dello sviluppo», riassume Scorla, Galloni racconta come stanno realmente le cose, indicando anche la via da percorrere per risalire la china: utilizzare ogni mezzo (compresi quelli esistenti, non soppressi da Maastricht) per riattivare lo Stato come soggetto necessariamente protagonista dell’economia nazionale: per esempio emettendo moneta metallica o anche “moneta fiduciaria”, non a corso legale fuori dai confini nazionali, ma valida ad esempio per pagare le tasse. «Già solo questo – ricorda Galloni, in un recente intervento al convegno promosso a Roma dal Movimento Roosevelt sulla Costituzione – basterebbe a rimediare allo scellerato obbligo del pareggio di bilancio, introdotto dal governo Monti con i voti di Berlusconi e Bersani».“Chi ha tradito l’economia italiana” (Editori Riuniti) è uno dei recenti saggi ai quali Galloni ha affidato la sua circostanziata denuncia. In estrema sintesi: i 35 anni che vanno dal 1944 al 1979, riassume Scorla, sono lo specchio di uno stabile modello di capitalismo espansionista keynesiano che ha centrato l’obiettivo di massimizzare le vendite, i profitti complessivi e l’occupazione. Nel 1979, in concomitanza con il G7 di Tokyo, l’uscita dal sistema della solidarietà internazionale dà luogo alla genesi di un nuovo tipo di capitalismo, definito di “rivincita dei proprietari”, che durerà fino agli inizi degli anni ’90 con l’avvento della crisi del sistema monetario europeo. «Dalla fine degli anni ’70, la svolta liberista anti-keynesiana trova il suo apice devastatore nella logica del salvataggio bancario, che spinge le istituzioni e le banche stesse ad assoggettarsi, nel tempo, al sistema ultra-speculativo voluto dalla grande finanza». Dal 2001, quindi, «le banche affondano l’acceleratore nell’emissione di derivati e dei derivati sui derivati, generando così i titoli tossici. L’obiettivo raggiunto coincide con la massimizzazione del guadagno, non sul rendimento del titolo ma sul numero delle emissioni».Meglio di chiunque altro, Galloni ha spiegato come – tra il 1980 e l’anno seguente – lo sviluppo del paese fu letteralmente sabotato dal divorzio tra Bankitalia (Ciampi) e il Tesoro (Andreatta): prima ancora dell’euro, la banca centrale abdicò al suo ruolo istituzionale di “prestatore di ultima istanza”, cessando di fungere da “bancomat” del governo, a costo zero. Da allora, il deficit cominciò a essere finanziato – al prezzo di interessi salatissimi – da investitori finanziari privati: cosa che fece letteralmente esplodere, di colpo, il debito pubblico italiano, problema poi impugnato come una clava dal potere neoliberista, fin dall’inizio impegnato a fare la guerra allo Stato. Oggi, dice Galloni, la buona notizia è che l’Italia sta resistendo in modo imprevedibile al massacro sociale imposto da Bruxelles per via finanziaria. E senza alcun intervento da parte della politica: i lavoratori, semplicemente, hanno smesso di andare a votare, gonfiando l’oceano dell’astensionismo. Potremmo vivere un’accelerazione positiva esponenziale, aggiunge Galloni, se solo la politica si decidesse a dire la verità sull’accaduto, a denunciare i nemici del sistema-Italia e a mettere in campo politiche nuovamente espansive, fondate su investimenti strategici sorretti dall’emissione monetaria diretta. Premessa: innanzitutto, è urgente compiere una mossa semplice e drastica, di cui hanno paura tutti – dal Pd a Berlusconi, fino ai 5 Stelle. E cioè: mandare a stendere i poteri che manovrano i fantocci di Berlino, Bruxelles e Francoforte. Dicendo loro: se non si rinegozia tutto, da cima a fondo, l’Italia sospende la vigenza dei trattati europei. Funzionerebbe: perché, senza più il nostro paese, il bunker antieuropeo chiamato Unione Europea crollerebbe un minuto dopo.Poniamo il caso che un grande economista italiano vi dicesse che l’euro è stato inventato per impedire all’Italia di rafforzarsi: ci credereste? Vi conviene farlo, dice Gianluca Scorla, se questo economista risponde al nome di Nino Galloni, già ricercatore a Berkeley e poi docente universitario a Modena, Milano e Roma. Di scuola post-keynesiana, tra il 1981 e il 1986 è stato collaboratore del professor Federico Caffè, il genio europeo dell’economia progressista. Nell’ultima stagione governativa di Andreotti, il “Divo Giulio” chiamò a sé proprio Galloni per aiutare l’Italia a non rimetterci le penne, in vista del Trattato di Maastricht. Risultato: l’allora cancelliere Kohl ingiuse al nostro governo di allontanare quel funzionario “ribelle”, che si ridusse – in ufficio – a comunicare con Andreotti mediante “pizzini”, per aggirare il rischio di intercettazioni ambientali. Galloni ha lavorato al ministero dell’economia e in quello del lavoro, all’Inpdap e all’Ocse, nonché presso gruppi come Agip, Nuova Satin, Fintext Corporation. E’ stato impegnato nell’Inps, poi nell’Inail. Oggi è vicepresidente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi. Obiettivo: costringere la politica italiana a leggere la crisi in modo corretto, capendo chi l’ha creata e perché.