Archivio del Tag ‘neoliberismo’
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Sarkozy e la Hathor Pentalpha, superloggia del terrorismo
La lapidazione pubblica di un politico di rango non ha mai un’unica paternità: di solito sono tante le nubi che, a un certo punto, si trasformano in tempesta. E per un ex presidente della Francia, cioè di una delle cinque potenze atomiche con diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il solo fatto di essere trattenuto in stato di fermo in una stazione di polizia, alla stregua di un criminale comune, costituisce l’atto d’inizio – il più eclatante – di una vera e propria demolizione a reti unificate. I giornali parlano di vendetta a distanza da parte degli ex fedelissimi di Gheddafi: prima di essere assassinato “su ordine dei servizi francesi”, il raiss di Tripoli avrebbe finanziato sottobanco, in modo cospicuo, la campagna elettorale di Sarkozy per le presidenziali del 2007 (in cambio di cosa?). Gli italiani ricordano ancora l’irridente impudenza con cui l’allora capo dell’Eliseo, insieme ad Angela Merkel, seppellì in mondovisione il moribondo Berlusconi, incalzato da mille inchieste e travolto dallo scandalo delle “olgettine”. Un sinistro preludio, per l’Italia, all’austerity di lì a poco imposta con il diktat della Bce firmato Draghi e Trichet, corroborato dal crollo delle azioni Mediaset e dall’esplosione pilotata dallo spread. «Gli italiani sono dei bambinoni deficienti, non si sono nemmeno accorti che siamo stati noi a inviargli il “fratello” Mario Monti, il nostro uomo», con l’incarico di sabotare l’economia del Belpaese, precipitandolo nel baratro della crisi: legge Fornero, pareggio di bilancio in Costituzione.Lo dicono, nell’appendice del bestseller “Massoni” (edito da Chiarelettere a fine 2014), quattro pesi massimi della supermassoneria internazionale, protetti dall’anonimato ma «pronti a manifestarsi, nel caso qualcuno ne contestasse le affermazioni». Non ce n’è stato bisogno: Monti, Napolitano e gli altri si sono ben guardati dal chiedere all’autore del saggio, Gioele Magaldi, di rendere pubblica l’identità di quei quattro “vecchi saggi” del massimo potere in vena di rivelazioni. Accanto a un mediorientale e a un asiatico, a parlare sono uno statunitense (che ricorda da vicino lo stratega Zbigniew Brzezinski, da poco scomparso) e un francese, il cui identikit di eminenza grigia potrebbe benissimo corrispondere a quello di Jacques Attali, già plenipotenziario di Mitterrand e poi “padrino” e king-maker di Emmanuel Macron. La tesi del libro, assolutamente dirompente, è stata oscurata dai media mainstream: da decenni, il mondo sarebbe nelle mani di 36 Ur-Lodges, potentissime superlogge massoniche sovranazionali. Dopo l’iniziale dominio delle organizzazioni di ispirazione progressista, dall’era Roosevelt fino ai Kennedy, il potere sarebbe passato all’ala neo-conservatrice (Kissinger, Rockefeller, Rothschild) dopo il duplice omicidio di Bob Kennedy e del “fratello” Martin Luther King.A seguire: una guerra segreta senza risparmio di colpi – da un lato il Cile del massone Pinochet e la Grecia dei colonnelli, ma anche i ripetuti tentativi di golpe in Italia con la complicità della P2 di Gelli, e dall’altro la Rivoluzione dei Garofani in Portogallo scattata non a caso il 25 aprile (del ‘74). Poi, lo sciagurato patto “United Freemanson for Globalization” per spartirsi la torta mondiale sdoganando il neoliberismo. Con in più una scheggia impazzita: la Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, nella quale – secondo Magaldi – figura anche il nome di Sarkozy, accanto a quelli del turco Erdogan, protagonista degli odierni orrori in Medio Oriente, e del britannico Tony Blair, l’indimenticato inventore delle inesistenti “armi di distruzone di massa” di Saddam Hussein, ovvero “la madre di tutte le fake news”. Saddam e la guerra in Iraq, cioè Bush junior, dopo la prima Guerra del Golfo scatenata da Bush senior. Il Rubicone è stato varcato con l’opaco, devastante maxi-attentato dell’11 Settembre (e la conseguente invasione dell’Afghanistan, seguita dalle guerre in Iraq e in Libia, dalla “primavera araba”, dall’atroce conflitto in Siria).Terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera – da Al-Qaeda all’Isis – secondo un copione basato sulla più accurata disinformazione, fotografato alla perfezione dall’immagine di Colin Powell che, alle Nazioni Unite, agita una prova falsa come la celebre “fialetta di antrace” per raccontare che il regime di Baghdad sarebbe pronto a sterminare l’umanità. Non fu solo una drammatica sterzata politica imposta dai “neocon” Usa, sostiene Magaldi: la strategia della tensione internazionale, che produce guerre in Medio Oriente e leggi speciali negli Usa e in Europa per rispondere agli attentati “islamici”, corrisponde alla sanguinosa strategia della “Hathor Pentalpha”, la «loggia del sangue e della vendetta» creata da Bush (padre) dopo la bruciante sconfitta alle primarie repubblicane inflittagli nel 1980 da Ronald Reagan. In questo modo, Magaldi spiega anche i due attentati simmetrici che seguirono, nel 1981: qualcuno sparò a Reagan il 30 marzo, e – per rappresaglia – i sostenitori occulti di Reagan armarono la mano di Ali Agca, che il 13 maggio sparò a Papa Wojtyla, eletto al soglio pontificio con il determinante appoggio di Brzezinski, allora vicino a Bush. Due minacciosi avvertimenti, con firme opposte ma identico stile: né a Washington né a Roma si sparò per uccidere.Fantapolitica? Ne ha tutta l’aria: a patto di rassegnarsi all’idea che sia proprio la geopolitica a esser diventata “fanta”, rendendo possibile l’impensabile. «Dispongo di 6.000 pagine di documenti che comprovano quanto affermato nel mio libro», ribadisce Magaldi, a scanso di equivoci. Il problema? Nessuno, finora, gliene ha chiesto conto: meglio la congiura del silenzio, di fronte a pagine così sconcertanti e imbarazzanti. Le grandi scelte strategiche del pianeta – sottolinea l’autore – sono state messe a punto negli ultimi 30-40 anni da superlogge storicamente neo-aristocratiche come la “Three Eyes” e la “Compass Star-Rose”, insieme alla “Edmund Burke”, alla “Leviathan”, alla “White Eagle”. Sono loro a dominare ministeri, banche, università, istituzioni internazionali finanziarie “paramassoniche” come il Fmi e la Bce. Obiettivo: sdradicare Keynes dalla politica economica dell’Occidente: via il welfare e i diritti del lavoro, guerra alla sinistra sindacale, demonizzazione del debito pubblico, privatizzazione universale, fine dello Stato sociale come garante del benessere diffuso. Svuotare la democrazia, per restituire il potere all’oligarchia – finanza, industria, multinazionali – secondo un modello neo-feudale: solo un’élite “illuminata” ha il diritto di governare il popolo. E la tenebrosa “Hathor Pentalpha”?«Semplicemente, la “Hathor” ha ritenuto che tutto questo non bastasse: il nuovo ordine antidemocratico andava imposto con la guerra e il terrorismo, a partire proprio dall’11 Settembre». Specchietto le allodole, il saudita Osama Bin Laden reclutato dalla Cia in Afghanistan negli anni ‘70, in funzione anti-sovietica. «Bin Laden fu iniziato alla “Three Eyes”: me lo confidò proprio l’uomo che lo affilò, Brzezinski». Lo stesso Brzezinski, aggiunge Magaldi, rimase deluso dalla scelta di Bin Laden di passare poi alla “Hathor Pentalpha”, la superloggia dei Bush. Simboli eloquenti: Hathor è uno dei nomi della dea egizia Iside, cara ai massoni, e il suo nome in inglese è, appunto, Isis. «Anche l’uomo che si fa chiamare Abu Bakr Al-Baghdadi, stranamente rilasciato nel 2009 dal campo di prigionia iracheno nel quale era detenuto, è stato affiliato alla “Hathor Pentalpha”». Al-Baghdadi, il presunto capo del sedicente Isis: organizzazione terroristica che, quando ha perso terreno in Siria sotto il colpi dell’offensiva militare russa, ha cominciato a colpire l’Europa. Charlie Hebdo e Bataclan, Bruxelles, la strage di Nizza. «Tutti attentati spaventosamente stragistici, “firmati” con una simbologia nacosta e nient’affatto islamica, ma saldamente ancorata alle date-simbolo del martirio dei Templari nel 1300».Ne parla nel saggio “Dalla massoneria al terrrorismo” (Revoluzione) l’esperto simbologo Gianfranco Carpeoro, massone come Magaldi, altrettanto critico rispetto al potente mileu “latomistico” globalizzato, pronto anche a fare l’uso più cinico e spregiudicato di vasti settori dei servizi segreti, ridotti a strumenti di una “sovragestione” pericolosa, che sottomette gli Stati (e i governi eletti) ai disegni di una ristretta oligarchia. «Tutto quel sangue, in Europa, è nato da una rottura all’interno dell’ala reazionaria dell’élite supermassonica», ha ripetuto Carpeoro, in trasmissioni web-streaming come quelle di “Border Nights”. Chi ha premuto sul tasto del neo-terrorismo interno – è la sua tesi – l’ha fatto per intimidire quegli elementi che, in seno all’oligarchia, si erano mostrati titubanti di fronte alla “linea dura”, quella delle stragi nelle piazze europee. «E’ in corso un’escalation, prepariamoci al peggio: in Europa potrebbe verificarsi un maxi-attentato come quello dell’11 Settembre». Previsione fortunatamente inesatta: «E’ vero», ammette Carpeoro, «le stragi sono cessate». Ma questo – spiega – dipende dal fatto che, “lassù”, si sono rimessi d’accordo su come agire, a cominciare proprio dalla Francia.Ieri, all’Eliseo c’era Hollande, un politico da intimidire (come socialista ma anche come supermassone “di sinistra”, esponente della Ur-Lodge progressista “Fraternité Verte”), a capo di un establihment incalzato dal “populismo” di Marine Le Pen. Poi invece le elezioni hanno incoronato Macron, «che a differenza di Hollande – sostiene Carpeoro – è espressione diretta di quei circoli, responsabili della “sovragestione”», fino a ieri anche terroristica, all’occorrenza. E’ lo stesso Macron che, a giorni alterni, fa l’amicone dell’Italia, promettendo a Gentiloni – in cambio di cospicue cessioni di italianità – di difendere il Belpaese dai “cattivi” tedeschi. E’ cronaca: soldati italiani spediti in Niger a far la guardia all’uranio per conto dei francesi, voci sul ridisegno delle acque territoriali a favore dei pescatori francesi, vistosa ascesa del management transalpino nel cuore del “made in Italy”. Con Gentiloni e Macron, sostiene Federico Dezzani, l’Italia si auto-declassa al rango di neo-colonia francese, nell’illusione di trovare riparo dal rigore imposto dall’ordoliberismo teutonico. Sta davvero succedendo qualcosa di strano, “lassù”, se un big come Sarkozy finisce sotto interrogatorio in un commissariato di Nanterre? Significa che la superloggia (già terrorista) “Hathor Pentalpha” è in discesa libera, nei piani alti della “sovragestione”? Inutile sperare in spiegazioni esaurienti: il mainstream si limiterà alle fonti giudiziarie sul caso Libiagate, mentre il pubblico assiste alla strana caduta di un ex superpotente come Sarkozy, in una Francia senza più attentati né stragi, dove l’oligarca Jacques Attali ha battezzato il nuovo regno di Macron, l’ex ragazzo prodigio della Banca Rothschild.La lapidazione pubblica di un politico di rango non ha mai un’unica paternità: di solito sono tante le nubi che, a un certo punto, si trasformano in tempesta. E per un ex presidente della Francia, cioè di una delle cinque potenze atomiche con diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il solo fatto di essere trattenuto in stato di fermo in una stazione di polizia, alla stregua di un criminale comune, costituisce l’atto d’inizio – il più eclatante – di una vera e propria demolizione a reti unificate. I giornali parlano di vendetta a distanza da parte degli ex fedelissimi di Gheddafi: prima di essere assassinato “su ordine dei servizi francesi”, il raiss di Tripoli avrebbe finanziato sottobanco, in modo cospicuo, la campagna elettorale di Sarkozy per le presidenziali del 2007 (in cambio di cosa?). Gli italiani ricordano ancora l’irridente impudenza con cui l’allora capo dell’Eliseo, insieme ad Angela Merkel, seppellì in mondovisione il moribondo Berlusconi, incalzato da mille inchieste e travolto dallo scandalo delle “olgettine”. Un sinistro preludio, per l’Italia, all’austerity di lì a poco imposta con il diktat della Bce firmato Draghi e Trichet, corroborato dal crollo delle azioni Mediaset e dall’esplosione pilotata dallo spread. «Gli italiani sono dei bambinoni deficienti, non si sono nemmeno accorti che siamo stati noi a inviargli il “fratello” Mario Monti, il nostro uomo», con l’incarico di sabotare l’economia del Belpaese, precipitandolo nel baratro della crisi: legge Fornero, pareggio di bilancio in Costituzione.
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Magaldi: Salvini e Di Maio scelgano l’Italia, non il rigore Ue
Le regole del rigore europeo «non stanno scritte sul tavole del monte Sinai: si possono e si devono cambiare». La domanda è: ce la faranno, Salvini e Di Maio, a indossare fino in fondo i panni dell’eresia per violare il dogma eurocratico? «Certo sarebbe interessante se i pentastellati e i leghisti trovassero il grande coraggio di unire il meglio dei rispettivi programmi», dice Gioele Magaldi: «Il reddito di cittadinanza e il taglio delle tasse sono di gran lunga le due proposte più gettonate dagli italiani che il 4 marzo si sono recati alle urne». Un verdetto a due facce – il centro-sud ai 5 Stelle, il nord alla Lega – ma dal tono univoco: rottamare i partiti della Seconda Repubblica, incarnata in modo bipartisan dal suo capostipite Berlusconi (ormai al tramonto) e dall’ultimo epigono di quella stagione così infausta per l’Italia, cioè il Pd di Letta, Renzi e Gentiloni. Riusciranno i nostri eroi a coniugare la “missione impossibile” di far stare, nello stesso governo, posizioni ritenute a lungo inconciliabili? Difficile fare previsioni, ammette Magaldi a “Colors Radio”: «Non è neppure certo che Di Maio e Salvini abbiano chiaro, loro per primi, il da farsi». Ma una cosa è certa: reddito di cittadinanza e Flat Tax non si possono applicare appieno senza prima scontrarsi con Bruxelles. Ed è esattamente di quello scontro, sostiene Magaldi, che l’Italia (come anche il resto dell’Europa) ha un disperato bisogno.Non da oggi, il presidente del Movimento Roosevelt (autore del saggio “Massoni”, che svela il ruolo mondiale delle 36 Ur-Lodges che dominano ogni aspetto della politica economica planetaria) presenta l’Italia non come periferia irrilevante dei giochi europei, ma come futuro campo di battaglia tra l’opzione dell’austerity e il Piano-B, cioè il recupero – decisivo – dell’impostazione keynesiana: la leva del deficit, in tempi di crisi, come volano dell’economia. Premessa: è proprio il rigore di bilancio ad aver provocato l’euro-crisi. Tra i gran sacerdoti della “teologia” affermatasi dagli anni ‘70 figurano gli economisti “neoclassici”, fautori nel neo-mercantilismo globalizzato basato sul super-export, ottenuto svalutando i salari e scatenando una guerra senza quartiere tra gli ex partner europei, trasformati in “competitor”. A truccare le regole ha provveduto l’ideologia neoliberista di Milton Friedman, che predica il taglio della funzione pubblica e la privatizzazione universale di cui si è fatta “gendarme” l’Unione Europea, dominata da oligopoli privati. Uno spettacolo dell’orrore, che ha precarizzato il vecchio continente: profitti stellari all’élite finanziaria e crollo dei diritti del lavoro, fino alla drammatica erosione del ceto medio che oggi si difende ricorrendo al “populismo”, tradotto in Italia nelle versioni grillina e leghista.«In questo quadro – aggiunge Magaldi – suscita sconcerto l’atteggiamento dei “giornaloni”, che oggi si affrettano a dare consigli (non richiesti) a Di Maio e Salvini: i grandi media, gli stessi che per vent’anni hanno sorretto Berlusconi e il sedicente centrosinistra, oggi continuano a ripetere che “non ci sono le coperture finanziarie” per procedere con le due riforme uscite vincitrici dalle urne, il reddito di cittadinanza e il dimezzamento del carico fiscale». Ovvio che non ci sono, oggi, le coperture. «La sfida, infatti, sta nel generarle domani, attivando lo strumento strategico del deficit: superando cioè il tetto di spesa del 3% che, dal Trattato di Maastricht, l’Ue impugna come un dogma, nemmeno fosse una vera regola economica. E’ solo una decisione politica: e i media mainstream continuano a fingere di non saperlo, nonostante l’esito delle elezioni». Sono gli stessi media che accusano Putin di essere il nuovo Zar, aggiunge Magaldi, anziché interrogarsi sulla “vita eterna” di Angela Merkel, sinonimo di crisi perenne per i non-tedeschi, sottoposti all’ordoliberismo teutonico. Il fantasma dello spread? «Ad annullarlo basterebbero gli eurobond garantiti dalla Bce, se solo si trovasse il coraggio di pretenderli». Salvini e Di Maio? Due punti interrogativi, ma comunque diversi dai loro predecessori. Non temano di sfidare Bruxelles: è esattamente quanto devono fare, se vogliono davvero rianimare l’economia resuscitando consumi e aziende, con il reddito sociale e il taglio delle tasse.Le regole del rigore europeo «non stanno scritte sul tavole del monte Sinai: si possono e si devono cambiare». La domanda è: ce la faranno, Salvini e Di Maio, a indossare fino in fondo i panni dell’eresia per violare il dogma eurocratico? «Certo sarebbe interessante se i pentastellati e i leghisti trovassero il grande coraggio di unire il meglio dei rispettivi programmi», dice Gioele Magaldi: «Il reddito di cittadinanza e il taglio delle tasse sono di gran lunga le due proposte più gettonate dagli italiani che il 4 marzo si sono recati alle urne». Un verdetto a due facce – il centro-sud ai 5 Stelle, il nord alla Lega – ma dal tono univoco: rottamare i partiti della Seconda Repubblica, incarnata in modo bipartisan dal suo capostipite Berlusconi (ormai al tramonto) e dall’ultimo epigono di quella stagione così infausta per l’Italia, cioè il Pd di Letta, Renzi e Gentiloni. Riusciranno i nostri eroi a coniugare la “missione impossibile” di far stare, nello stesso governo, posizioni ritenute a lungo inconciliabili? Difficile fare previsioni, ammette Magaldi a “Colors Radio”: «Non è neppure certo che Di Maio e Salvini abbiano chiaro, loro per primi, il da farsi». Ma una cosa è certa: reddito di cittadinanza e Flat Tax non si possono applicare appieno senza prima scontrarsi con Bruxelles. Ed è esattamente di quello scontro, sostiene Magaldi, che l’Italia (come anche il resto dell’Europa) ha un disperato bisogno.
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Si fa presto a dire Cottarelli, un alibi per tagliare il welfare
Non c’è dubbio che le politiche di austerity abbiano aggravato il tasso di disoccupazione e ridotto la sicurezza di spesa (e non solo) dei cittadini. Storicamente quando la disoccupazione è alta si crea una competizione al ribasso di diritti e salari, resa ancor più ingente in presenza di eccessiva immigrazione; e puntualmente in Italia un governo ha approvato il Jobs Act confermando quanto previsto da Gianni Agnelli (“la profezia del caro estinto”). In Italia infatti i sacrifici più controproducenti a livello socioeconomico li hanno imposti i governi di centro-sinistra rappresentati dal “combinato disposto” banche-apparato di partito, di cui il duo Matteo Renzi – Maria Elena Boschi è stato solo un esempio più eclatante rispetto ad altri meno appariscenti perché magari meglio protetti e ammanigliati (Ciampi, Prodi, D’Alema, Amato ecc). Prima della recessione, a riconsegnare al paese prezzi fuori misura furono le dinamiche eccessivamente inflazionistiche, mentre un po’ più recentemente fu il passaggio lira/euro gestito in modo scellerato dal governo Berlusconi che abolì il doppio prezzo nei negozi troppo frettolosamente (il modo più opportuno per evitare l’escalation non erano tanto i controlli, quanto il mantenere a lungo il doppio prezzo lira/euro).
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Giannuli: Di Maio, neoliberismo populista funzionale all’élite
Può sembrare un paradosso, ma il Movimento 5 Stelle è quello che sta messo peggio di tutti: in politica, contrariamente a quel che si crede, gestire i successi è molto più difficile che gestire le sconfitte. Secondo il politologo Aldo Giannuli, storico dell’unviersità di Milano, la cosa migliore per i grillini sarebbe «un governo di centrodestra appoggiato dal Pd». Stando all’opposizione, l’anno prossimo alle europee il M5S «supererebbe il 40%». Attenti al successo, dunque, che prepara i peggiori scivoloni: «Le vittorie spesso ingenerano sicurezze malfide». Il giorno dopo il voto, il vincitore infatti si sente dire: bene, a adesso fammi vedere quello che sai fare. In campagna elettorale, Giannuli ammette di esser stato «molto morbido», con i 5 Stelle, evitando di dire tutto quello che pensava. Oggi che elezioni sono ormai alle spalle, afferma di poter parlare «senza peli sulla lingua». Non che non le avesse espresse, Giannuli, le sue perplessità. Ora, semplicemente, ci torna sopra in modo più marcato. A cominciare dall’analisi del programma pentastellato: «Era molto poco tranquillizzante», sia in quanto «accozzaglia di luoghi comuni e proposte da bar dello sport», sia perché «era debolissimo su punti decisivi come la politica estera, le politiche sul lavoro», ma anche «la questione del debito pubblico». Grande imputato: il neoliberismo, presente nell’agenda grillina in salsa populista.«Aleggiava un certo odore neoliberista, che poi Di Maio provvedeva ad amplificare con dichiarazioni del tipo “dobbiamo metterci in testa che i governi devono accettare l’andamento dei mercati finanziari senza pretendere di influenzarli” o giù di lì». Il che, aggiunge Giannuli nel suo blog, «fa pensare che se il Pd (riposi in pace) fu la “socialdemocrazia neoliberista”, il M5S si candida ad essere il “populismo neoliberista”». E la scelta dei ministri, aggiunge il politologo, conferma purtroppo questa impressione. «I tre ministri dell’economia vengono dipinti come keynesiani o neo-keynesiani e si invocano le ombre di Krugman e di Stiglitz, ma sia l’uno che l’altro sono sostanzialmente dei neoliberisti che cercano di innestare quote di keynesismo nel neoliberismo, e non sono affatto fautori del superamento di questo sistema». Sempre che un governo Di Maio poi effettivamente nasca, continua Giannuli, staremo vedere come Fioramonti «pensa di abbattere del 40% il debito pubblico in 10 anni, di dare il reddito minimo di cittadinanza (che peraltro è una ricetta neoliberista), e di abbattere la pressione fiscale. Non è che le promesse son state troppe?». E poi, come ci si regola con l’Europa e con gli apparati ministeriali italiani?Quanto alla squadra di governo, Giannuli teme ci siano troppi “tecnici” (e di dubbia competenza), che farebbero tremendamente somigliare l’esecutivo Di Maio «ad un governo Monti in carta 5 Stelle» (Gioele Magaldi l’ha definito «un governo Monti senza Monti»). E al di là degli aspetti di linea politica, Giannuli ricorda che il Movimento 5 Stelle ha una serie di gravi handicap nel suo modello organizzativo: «Il debolissimo radicamento territoriale, il carattere di movimento di opinione assai volatile e il forte rischio di essere “scalato”», visti i meccanismi di selezione dei candidati: «Se il “controllo di qualità” è quello che abbiamo visto, la prossima volta nelle liste ci troviamo Dracula e Jack lo Squartatore!». Tutte cose che, per Giannuli, «minacciano la statica del Movimento, anzi del partito, che tale è al di là dei nominalismi». Un raggruppamento fortissimo sul piano elettorale ma assai fragile su quello politico. E quel che è peggio, con le idee tutt’altro che chiare sulla politica economica. Grosso rischio: l’entusiasmo degli elettori – 11 milioni di italiani, un votante su tre – potrebbe rapidamente trasformarsi in delusione, e quindi in rabbia. In altre parole: la vittoria è insidiosa, va maneggiata con cura.Può sembrare un paradosso, ma il Movimento 5 Stelle è quello che sta messo peggio di tutti: in politica, contrariamente a quel che si crede, gestire i successi è molto più difficile che gestire le sconfitte. Secondo il politologo Aldo Giannuli, storico dell’unviersità di Milano, la cosa migliore per i grillini sarebbe «un governo di centrodestra appoggiato dal Pd». Stando all’opposizione, l’anno prossimo alle europee il M5S «supererebbe il 40%». Attenti al successo, dunque, che prepara i peggiori scivoloni: «Le vittorie spesso ingenerano sicurezze malfide». Il giorno dopo il voto, il vincitore infatti si sente dire: bene, a adesso fammi vedere quello che sai fare. In campagna elettorale, Giannuli ammette di esser stato «molto morbido», con i 5 Stelle, evitando di dire tutto quello che pensava. Oggi che elezioni sono ormai alle spalle, afferma di poter parlare «senza peli sulla lingua». Non che non le avesse espresse, Giannuli, le sue perplessità. Ora, semplicemente, ci torna sopra in modo più marcato. A cominciare dall’analisi del programma pentastellato: «Era molto poco tranquillizzante», sia in quanto «accozzaglia di luoghi comuni e proposte da bar dello sport», sia perché «era debolissimo su punti decisivi come la politica estera, le politiche sul lavoro», ma anche «la questione del debito pubblico». Grande imputato: il neoliberismo, presente nell’agenda grillina in salsa populista.
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Europa privatizzata: non teme la sinistra, ma la democrazia
Non è possibile rimuovere il dato che il “popolo” «ritenga ormai la sinistra parte del problema e non della soluzione». Su “Contropiano”, che si definisce “giornale comunista online” e si è schierato con “Potere al Popolo”, Sergio Cararo ammette: il cosiddetto “popolo della sinistra”, «ormai residuo, residuale e limitato» (vedasi il pessimo risultato di “Liberi e Uguali”) «non è più sufficiente né credibile neanche per una dignitosa testimonianza istituzionale». Lo stesso “Potere al Popolo” «non è riuscito ad esprimersi fuori dal perimetro e dal linguaggio del popolo della sinistra». Per Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, la parola “sinistra” non è di per sé sinonimo di progressismo, come non lo è l’ideologia comunista, «che di fatto finisce sempre per affidare il potere a un’oligarchia (di burocrati, in questo caso)». Magaldi si definisce liberale e socialista: storicamente, il liberalismo ha rappresentato la rottura del monopolio politico dell’élite economica, e il socialismo ha offerto il know-how per mettere in pratica una giustizia sociale che non lasci indietro nessuno. Il dramma, in questa Italia – dice Magaldi a “Colors Radio” – è che abbiamo cestinato le ideologie utili, per tenerci solo quella, ipocrita e subdola, del neoliberismo disonesto, devastatore e privatizzatore, in nome del quale la super-casta finanziaria ha occupato militarmente le istituzioni, nazionali ed europee.«La statistica degli ultimi anni ci suggerisce che i mercati oggi sono sempre meno spaventati se un paese dell’area euro affronta un momento più o meno lungo di “non-governo”», scrive il “Sole 24 Ore” in un passo citato da Cararo su “Contropiano”. «È la prova che oggi i governi nazionali dell’area euro contano sempre meno», aggiunge il quotidiano di Confindustria. «Le regole dei trattati sovranazionali, sottoscritte attraverso cessioni parziali di sovranità, depotenziano – che piaccia o no – le iniziative “fuori dagli schemi” a livello nazionale». Per Cararo sono «parole pesanti come piombo, ma veritiere», che infatti «delineano uno scenario con cui fare inevitabilmente i conti». Sulla realtà dell’Italia post-elettorale, aggiunge Cararo, «incombono ipoteche già in scadenza come la manovra finanziaria aggiuntiva che l’Italia dovrà fare a primavera sulla base dei diktat dell’Unione Europea, poi c’è il Fiscal Compact da approvare entro l’anno, e poi ci sono i “mercati finanziari” che fino ad ora non sembrano molto preoccupati della instabilità politica in Italia, come non lo sono stati di quella post-elettorale in Belgio, Spagna, Germania». E questo, «nonostante siano stati sconfitti due partiti “di sistema” come Pd e Forza Italia e abbiano vinto due partiti percepiti – fino ad ora – come “antisistema e populisti”», vale a dire Movimento 5 Stelle e Lega.Se hanno vinto grillini e leghisti, dice Cararo, è per via della «composizione sociale “spuria” delle classi subalterne nel nostro paese», strati sociali che «avevano bisogno di un nemico sulla base del quale darsi – in negativo – una identità». Il “nemico” della Lega sono i migranti, quello dei 5 Stelle la “casta” dei partiti corrotti. Alle urne c’era un’Italia esasperata, «ma la “sinistra” non le ha offerto nulla di alternativo». Il cosiddetto antifascismo di oggi, tornato in auge come bandiera da sventolate contro CasaPound, per Cararo «va declinato nella sua attualità». Ovvero: «Il nesso tra le politiche antipopolari connaturate all’Unione Europea e la società del rancore che vota per vendetta, era la contraddizione che andava colta e agita a tutto campo». E se l’Europa del rigore produce l’Italia del rancore, quella è la faglia lungo la quale – per Magaldi – occorre predisporre una risposta democratica ampia e popolare, che potrebbe chiamarsi Pdp, Partito Democratico Progressista. «Partito, innanzitutto, fatto di militanti e dirigenti democraticamente selezionati: perché di quello c’è bisogno, non di cartelli elettorali velleitari che si squagliano come neve al sole dopo aver raccolto lo zero-virgola, alle urne». Progressista, in quanto «liberale e socialista come Olof Palme, il premier svedese assassinato nel 1986 anche per intimidire la socialdemocrazia europea».Al leader svedese, costruttore del miglior welfare europeo (nonché di una formula economica basata sulla partecipazione azionaria degli operai nelle aziende aiutate dallo Stato) il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno, in primavera, a Milano. «Con Palme, probabilmente, questa Disunione Europea non sarebbe mai nata», sostiene Magaldi, che nel bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere) ha messo a nudo la natura supermassonica del vero potere, che all’inizio degli anni ‘80 – con il patto “United Freemansons for Globalization” – ha imposto questa mondializzazione brutale e senza diritti. Primo step, all’epoca: liquidare la sinistra socialista. Con il piombo, come nel caso di Palme, o con la comparsa dei post-socialisti come Clinton e Blair, pronti a smantellare diritti (precariato, flessibilità) e procurare profitti stellari all’élite finanziaria, tra deregulation per i capitali e turbo-privatizzazioni a favore degli “amici”. Magaldi non è catastrofista: riconosce ai 5 Stelle e alla Lega di aver sostenuto istanze democratiche sacrosante. Il problema? La mancanza di una sintesi, puntualmente palesata dalla paralisi post-voto. «Lasciamo perdere la parola “sinistra”», propone Magaldi, «e rispolveriamo ideologie utili: quella liberale, democratica, e quella socialista». Unica possibilità: «Costruire insieme una via d’uscita largamente popolare, condivisa, per trovare la forza di smontare le regole truccate di quest’Europa “matrigna” e privatizzata».Non è possibile rimuovere il dato che il “popolo” «ritenga ormai la sinistra parte del problema e non della soluzione». Su “Contropiano”, che si definisce “giornale comunista online” e si è schierato con “Potere al Popolo”, Sergio Cararo ammette: il cosiddetto “popolo della sinistra”, «ormai residuo, residuale e limitato» (vedasi il pessimo risultato di “Liberi e Uguali”) «non è più sufficiente né credibile neanche per una dignitosa testimonianza istituzionale». Lo stesso “Potere al Popolo” «non è riuscito ad esprimersi fuori dal perimetro e dal linguaggio del popolo della sinistra». Per Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, la parola “sinistra” non è di per sé sinonimo di progressismo, come non lo è l’ideologia comunista, «che di fatto finisce sempre per affidare il potere a un’oligarchia (di burocrati, in questo caso)». Magaldi si definisce liberale e socialista: storicamente, il liberalismo ha rappresentato la rottura del monopolio politico dell’élite economica, e il socialismo ha offerto il know-how per mettere in pratica una giustizia sociale che non lasci indietro nessuno. Il dramma, in questa Italia – dice Magaldi a “Colors Radio” – è che abbiamo cestinato le ideologie utili, per tenerci solo quella, ipocrita e subdola, del neoliberismo disonesto, devastatore e privatizzatore, in nome del quale la super-casta finanziaria ha occupato militarmente le istituzioni, nazionali ed europee.
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Addio Pd, la finta sinistra può solo scegliere come suicidarsi
Il Pd è in un vicolo cieco e come la fa la sbaglia: se appoggia un governo M5S, perde almeno un quarto dei suoi elettori che non glielo perdonano; se appoggia il centrodestra (un inciucio a trazione leghista) perde la metà dei suoi elettori; se resta sull’Aventino, e si va ad elezioni anticipate, perde i due terzi dei suoi elettori. Come dire che ha tre scelte: spararsi nella tempia sinistra, spararsi un quella destra oppure spararsi sotto il mento. Fate voi. Il quadro della situazione è desolante: il Pd si trova più che dimezzato rispetto ai suoi risultati migliori, non ha candidati credibili di ricambio a Renzi, è condannato alla retrocessione fra i partiti di serie B, destinati a fare da “cespuglio”; è destinato a perdere larghe fette del suo potere locale, non ha più un blocco sociale di riferimento e quel che gli rimane è un elettorato in larga parte fatto da ultrasessantenni; qualsiasi cosa dicano non sono più credibili, e forse è avviato a nuove scissioni. Insomma, diciamola tutta: è un partito finito e senza prospettive di ripresa. Questa non è una Caporetto: è una Waterloo. Al solito i dirigenti del Pd non vedono più lontano del loro naso e pensano ad una campagna elettorale infelice, o al massimo a una legge elettorale sbagliata, e che ora si deve lavorare alla ripresa.Ma queste cose (campagna elettorale sbagliata e legge elettorale demenziale ed autolesionistica), che pure ci sono, sono solo una piccolissima parte delle ragioni del tracollo; quantomeno ci sarebbe da considerare la sconfitta del 4 dicembre 2016 sulla indecente riforma costituzionale, e poi ancora i 4 anni obbrobriosi di governo di Renzi. Ma anche questo non è sufficiente a spiegare il tutto. E’ una sconfitta che viene da lontano, da molto lontano, quantomeno da Occhetto. A volte per capire un quadro bisogna allontanarsi per vederlo nella sua interezza, e spesso le cause di una dinamica risalgono a molto tempo prima, perché i processi a volte sono molto lunghi nel loro svolgimento. In fondo la storia serve a questo (permettetemi di difendere l’utilità della mia disciplina contro lo scemenzaio recentista tipico del tempo del neoliberismo). Il Pci fu un partito popolare a trazione burocratica: la base era robustamente operaia, con fasce di piccolissima borghesia, guidata da un ceto funzionariale autoritario ma che sapeva aver cura del suo seguito. Dopo, a partire dalla metà anni settanta, iniziò una metamorfosi grazie all’espansione della sua base elettorale verso i ceti medi e medio-alti. Ma la svolta decisiva venne negli anni Ottanta e un ruolo decisivo lo ebbe “Repubblica”, la cui cultura politica era quella della destra azionista (La Malfa, Cianca, Tarchiani) ed il cui obiettivo era quello di una sorta di Pri di massa.L’operazione in gran parte riuscì e il risultato venne conclamato con Occhetto. Il Pds fu un partito sempre a base popolare (per quanto più ridotta) ma a trainarlo non era più l’apparato dei funzionari, quanto una certa borghesia professionale, accademica, giornalistica, manageriale. Fu il tempo della sinistra da salotto e da terrazza romana, che celebrò i suoi fasti al tempo di Veltroni. Si trattava di uno strato sociale di carrieristi, faccendieri, affaristi e, al bisogno, anche di tangentari grandi e piccoli. Gente priva di una sostanziale cultura politica, che non poteva sentir parlare di lotta di classe e che non aveva nessun senso della politica, ma che era in sintonia con lo spirito del tempo neoliberista. Pretendevano di essere loro la sinistra, anzi la nuova sinistra degli anni duemila, i blairiani d’Italia. Innamorati della finanza e allergici al lavoro, spinsero il partito a diventare il principale interlocutore del capitale finanziario in Italia.E anche questo era nello spirito dei tempi e rifletteva il nuovo compromesso socialdemocratico fra l’internazionale socialista e l’iper-capitalismo finanziario. La cosa ha funzionato per un quindicennio, poi… è venuta la crisi. Il modello si è incarognito e ha tagliato tutti gli spazi di mediazione riformistica, obbligando i partiti socialisti al governo (vale anche per Tsipras) a politiche apertamente antipopolari. E il meccanismo non ha più funzionato, come dimostrano i risultati ad una cifra di quasi tutti i partiti socialisti europei, dalla Spagna all’Austria, dalla Francia alla Grecia, dal Belgio alla Repubblica Ceca. La loro base popolare è risucchiata dall’ondata populista. Quel modello è fallito, in Europa e ora anche in Italia, nella quale la stagione renziana è stata solo una bizzarra anomalia subito normalizzata. E questa è la sorte odierna del Pd, destinato rapidamente a scendere a un risultato ad una cifra e all’assoluta irrilevanza politica: capolinea, signori si scende!(Aldo Giannuli, “Pd, la fine di un mondo”, dal blog di Giannuli del 9 marzo 2018).Il Pd è in un vicolo cieco e come la fa la sbaglia: se appoggia un governo M5S, perde almeno un quarto dei suoi elettori che non glielo perdonano; se appoggia il centrodestra (un inciucio a trazione leghista) perde la metà dei suoi elettori; se resta sull’Aventino, e si va ad elezioni anticipate, perde i due terzi dei suoi elettori. Come dire che ha tre scelte: spararsi nella tempia sinistra, spararsi un quella destra oppure spararsi sotto il mento. Fate voi. Il quadro della situazione è desolante: il Pd si trova più che dimezzato rispetto ai suoi risultati migliori, non ha candidati credibili di ricambio a Renzi, è condannato alla retrocessione fra i partiti di serie B, destinati a fare da “cespuglio”; è destinato a perdere larghe fette del suo potere locale, non ha più un blocco sociale di riferimento e quel che gli rimane è un elettorato in larga parte fatto da ultrasessantenni; qualsiasi cosa dicano non sono più credibili, e forse è avviato a nuove scissioni. Insomma, diciamola tutta: è un partito finito e senza prospettive di ripresa. Questa non è una Caporetto: è una Waterloo. Al solito i dirigenti del Pd non vedono più lontano del loro naso e pensano ad una campagna elettorale infelice, o al massimo a una legge elettorale sbagliata, e che ora si deve lavorare alla ripresa.
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L’Italia frana e il Pd le ha offerto solo la mistica del Jobs Act
«Ok, abbiamo perso. Volete i nostri voti, in Parlamento? Benissimo: preparatevi a sostenere alcune nostre proposte, quelle che in caso di vittoria avremmo attuato noi». Questo sarebbe un parlare politico, responsabile, incisivo. E invece il Pd, rottamato dalla catastrofe elettorale, tiene il muso. E si rifugia, per ora, in un Aventino che sarà anche «legittimo e coerente con l’esito delle urne», ma certo non utile a costruire futuro. Anche perché, a monte, manca il tassello fondamentale: «Renzi dovrebbe innanzitutto dire: abbiamo sbagliato», anziché lasciar credere che a “sbagliare” siano stati gli elettori, che non avrebbero compreso la qualità e la mole del lavoro svolto dal governo. “Non ci hanno compreso”, è il refrain. “Non siamo stati capaci di farci capire”. Per Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, «questa vicenda del Pd che non gioca più, che non vuole più giocare, racconta benissimo questa politica che ha abdicato al suo ruolo costruttivo, accontentandosi di un ruolo meramente rappresentativo e oleografico». Una mediocrità imbarazzante, nella quale peraltro affonda l’ex riformismo italiano, quello dei sedicenti “progressisti” che hanno votato il governo Monti e la legge Fornero, senza avere nemmeno il coraggio di rimettere in discussione almeno il pareggio di bilancio in Costituzione, inserendolo nel fatale referendum del dicembre 2016.La cifra del tenore politico in casa Pd, dice Magaldi ai microfoni di “Colors Radio”, la offrono le meste esternazioni dei renziani Orfini, Lotti, Martina, «non a caso incolori e privi di qualsiasi carisma, come tutti quelli del Giglio Magico», assolutamente anonimi, fatta eccezione per la Boschi (che si fa notare per «la notevole avvenenza e l’astuzia nella cura del suo “particulare”») e per il misterioso Carrai, «personaggio scaltro, che appare e scompare». Sconfitti, i renziani ripetono: «Lasciateci perdere, per il governo vedetevela voi. Noi abbiamo perso, non vogliamo governare: lo faccia chi ha vinto, cioè 5 Stelle e Lega, con o senza Forza Italia al seguito». Peccato, si rammarica Magaldi: «E’ una posizione formalistica», sterile, ma certo non inaspettata. «In tutta questa storia del renzismo prevale sempre il lato formale», rileva Magaldi. «Hanno prevalso gli slogan, le propagande, le affermazioni altisonanti che dovevano sostituire la realtà: la mistica del Jobs Act, la mistica della crescita del paese. Ho ascoltato esterrefatto Alessandra Moretti, l’ex “lady like”, dire che loro pensavano che la ripresa avrebbe premiato il Pd, invece il paese reale ha una percezione diversa».«Non è questione di percezione», obietta Magaldi: «E’ che sono stronzate quelle che vengono dichiarate a reti unificate sulla ripresa: gli indicatori economici utilizzati sono fasulli (ma finiscono per convincere anche i loro propagatori), mentre il paese continua a essere in ginocchio da troppi anni, la disoccupazione galoppa e l’economia gira poco e male». E anziché aprire gli occhi e ammettere i suoi errori (evidentissimi agli elettori) il Pd «continua la sua triste narrativa renziana, dove quello che conta non è la sostanza». Ben diverso, aggiunge Magaldi, se Renzi dicesse: «Ho capito dove ho sbagliato, quindi offro un supporto al governo 5 Stelle (o a un altro governo) sulla base di alcuni progetti, che sono nostri. Non li vogliono? Pazienza, ma noi facciamo politica perché vogliamo fare delle cose, abbiamo questi progetti che avremmo attuato se avessimo vinto, e quindi se qualcuno li vuole sostenere andiamo avanti insieme». Questo, conclude Magaldi, «sarebbe un ragionamento di sostanzialità politica, e cioè: tu testimoni quello che è il tuo progetto politico – sia che perdi, sia che vinci. E invece siamo al tatticismo. Si dice: abbiamo perso, ci lecchiamo le ferite».In più, aggiunge, dopo la Caporetto del 4 marzo, «nel Pd prevale ancora un’identificazione fortissima con il sentire personale di Renzi», l’ex rottamatore arrivato al capolinea. In realtà, secondo Magaldi, dovrebbe essere rottamato l’intero centrosinistra italiano: di fatto, ha consegnato l’Italia a poteri oligarchici privati, coronando il sogno antidemocratico dell’ultimo Kalergi, adottato da Jean Monnet e dagli altri padrini storici di quest’Europa “antieuropeista”, che rema contro i propri popoli mettendoli l’uno contro l’altro a colpi di mercantilismo e culto del rigore. Finisce nei guai un paese come l’Italia, che oggi – tra le altre cose – si ritrova senza una politica all’altezza della situazione «e senza uno straccio di ideologia, tranne l’unica rimasta in piedi: quella neoliberista». Tatticismi, appunto: «Compreso il peggiore in assoluto, ipotesi di cui nessuno parla: la possibilità teorica che il centrodestra, in silenzio, possa “pescare” seggi tra i tanti grillini neo-eletti, come auspicato dallo stesso Berlusconi». Niente male, come inizio, per l’ipotetica Terza Repubblica fondata sugli equivoci, mentre il paese continua a crollare.«Ok, abbiamo perso. Volete i nostri voti, in Parlamento? Benissimo: preparatevi a sostenere alcune nostre proposte, quelle che in caso di vittoria avremmo attuato noi». Questo sarebbe un parlare politico, responsabile, incisivo. E invece il Pd, rottamato dalla catastrofe elettorale, tiene il muso. E si rifugia, per ora, in un Aventino che sarà anche «legittimo e coerente con l’esito delle urne», ma certo non utile a costruire futuro. Anche perché, a monte, manca il tassello fondamentale: «Renzi dovrebbe innanzitutto dire: abbiamo sbagliato», anziché lasciar credere che a “sbagliare” siano stati gli elettori, che non avrebbero compreso la qualità e la mole del lavoro svolto dal governo. “Non ci hanno compreso”, è il refrain. “Non siamo stati capaci di farci capire”. Per Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, «questa vicenda del Pd che non gioca più, che non vuole più giocare, racconta benissimo questa politica che ha abdicato al suo ruolo costruttivo, accontentandosi di un ruolo meramente rappresentativo e oleografico». Una mediocrità imbarazzante, nella quale peraltro affonda l’ex riformismo italiano, quello dei sedicenti “progressisti” che hanno votato il governo Monti e la legge Fornero, senza avere nemmeno il coraggio di rimettere in discussione almeno il pareggio di bilancio in Costituzione, inserendolo nel fatale referendum del dicembre 2016.
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Reddito: come attuare (bene) la madre di tutte le promesse
Essere critici significa studiare una fenomenologia, cercare di comprenderla, prevederne i comportamenti fino a “fare inchiesta” (quando emergono prospettive non etiche) ed in questo modo ci si può trovare a ricevere invettive anche poco serene, compresi gli insulti, ma si resta certi di aver agito correttamente. Ho criticato asetticamente e aspramente la ricetta economica dei 5S definendola impraticabile e pericolosa, tuttavia in queste ore ho visto l’emergere di prese di posizione evitabili contro la componente programmatico-giuslavorista del programma 5S. Di Maio ha dichiarato che se sarà premier chiederà un anno di tempo per erogare il reddito di cittadinanza dato che, sostiene, dovrà prima riorganizzare i Centri per l’Impiego (Cpi), e questa posizione ha provocato diverse polemiche e ironie. Il 32.5% dei votanti, a tanto ammonta il risultato grillino, chiede a gran voce il Rdc, ma Pd e centrodestra, anziché recepire questa istanza, la sottovalutano; se il Rdc è la madre di tutte le promesse elettorali, come mai gli avversari non si chiedono “perché”? E’ vero, Di Maio questo “spread” temporale lo ha comunicato (sufficientemente) solo a urne chiuse, tuttavia ha riconfermato l’intenzione di realizzare il Rdc.Comprendo la malizia politica degli avversari dei 5S ma mi auguro che nelle accuse di Pd e centrodestra non si celi il tentativo miope di impedire la realizzazione in questo paese di un diritto (non avere reddito equivale ad essere privati di dignità) spacciandolo per impossibile.Detto questo penso che il Rdc dovrebbe essere costruito diversamente, fermo restando il grande merito del movimento fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio nell’averlo posto all’attenzione del grande pubblico (prima del 5S diffondevamo la bontà del “welfare universalistico” in specifiche associazioni che finivano per rimanere inascoltate). Vengo alle criticità del Ddl Catalfo: 1) Da quando una recente sentenza ha tolto la prima casa dal calcolo dell’Indicatore Situazione Economica Equivalente (il requisito per il Rdc è una Isee minore di 6500) la platea si è raddoppiata e il costo del Ddl Catalfo è salito a 29 miliardi annui (niente di irrealizzabile); il fatto che il 5S continui a parlare di 15 miliardi potrebbe indicare che almeno metà di chi dovrebbe riceverlo alla fine non lo riceverà perché il partito porrà ulteriori requisiti (magari computando un calcolo simile alla Isee riconsiderando la prima casa come reddito).2) Le proposte di lavoro dovrebbero essere due e non tre (perché tre?); può accadere che un lavoro non faccia proprio per noi, ma il secondo incarico è etico accettarlo (per non ricevere il sostegno pubblico troppo a lungo). Inoltre niente garantisce che la seconda proposta sia migliore della prima e quindi con 2 sole chances prima di considerare inaccettabile un lavoro ci si penserebbe con calma. 3) Il reddito di cittadinanza andrebbe erogato solo ai cittadini italiani per non generare viaggi della speranza da parte di stranieri in nome del peggior tipo di globalizzazione, quella della mercificazione (questo punto andebbe approfondito abbondantemente con un articolo mirato). Il punto sulla reciprocità inoltre è troppo vago. 4) Dovrebbe essere mantenuto un limite di distanza (50 km) tra sede di lavoro e abitazione evitando il fenomeno della “deportazione”, lo stesso che 5S criticò sulla Buona Scuola. 5) La proposta dovrebbe contenere l’obbligo di una sostanziale coerenza tra titoli di studio posseduti + mansioni e proposta di lavoro. I punti 4 e 5 sono stati “disattesi” da Di Maio in recenti interviste.6) Il Ddl Catalfo inoltre possiede il dispositivo del Salario Orario Garantito di 9 euro: studi empirici dimostrano che il Sog debba agire in un range tra il 40% e il 60% del salario orario mediano (tra 5 e 7 euro l’ora): sotto la prima soglia si ha esclusione sociale, sopra la seconda gli imprenditori preferiscono non assumere e quindi si favorisce la disoccupazione (si pensi inoltre che l’attuale panorama mondiale è di estremo mercantilismo). Uno standard di 9 euro è quindi palesemente esagerato e privo di basi scientifiche a sostegno. 7) Per evitare che il sostegno al reddito diventi “terreno di coltura” per il pizzo mafioso è necessario vincolarlo ad alcune clausole di sicurezza per le aree infiltrate dalla criminalità organizzata: se il prefetto riceve informazioni consistenti di questo tipo deve poterlo sospendere a tempo indeterminato su base provinciale; nelle aree di questo tipo vanno previste anche apposite carte di credito con le quali si possa acquistare ma che non consentano di ritirare denaro contante! Sempre a questo scopo nelle province interessate si può pensare a un limite di spesa giornaliero e settimanale.Il Rdc dovrebbe essere modulato in base al tenore di vita provinciale (stesso dicasi del salario orario garantito) e non dovrebbe essere identico su tutto il territorio visto che, per riportare un esempio, a Milano il costo della vita non è lo stesso che a Enna o Caltanissetta. 9) Per concludere sarebbe auspicabile che il Rdc fosse più simile a quello francese o a quello tedesco, i quali prevedono un quantitativo monetario minore ma garantiscono il pagamento di affitto, luce e gas agli aventi diritto. In conclusione un Reddito Minimo Garantito di Cittadinanza migliorabile che parte da una discreta base (il Ddl Catalfo) e che è osteggiato da politici, i quali, dovrebbero vivere la dialettica incidendo nei contenuti delle questioni e non alimentando la grancassa ed il “frastuono”.(Marco Giannini, “Come attuare – bene – la madre di tutte le promesse”, da “Libreidee” del 13 marzo 2018. Già attivista del Movimento 5 Stelle, Giannini è autore del saggio “Il neoliberismo che sterminò la mia generazione”, edito da Andromeda nel 2015, presentato anche alla Camera. Nel gennaio 2017 Giannini si è distanziato dal movimento fondato da Grillo dopo la tentata adesione del M5S al gruppo ultra-europeista dell’Alde in seno al Parlamento Europeo).Essere critici significa studiare una fenomenologia, cercare di comprenderla, prevederne i comportamenti fino a “fare inchiesta” (quando emergono prospettive non etiche) ed in questo modo ci si può trovare a ricevere invettive anche poco serene, compresi gli insulti, ma si resta certi di aver agito correttamente. Ho criticato asetticamente e aspramente la ricetta economica dei 5S definendola impraticabile e pericolosa, tuttavia in queste ore ho visto l’emergere di prese di posizione evitabili contro la componente programmatico-giuslavorista del programma 5S. Di Maio ha dichiarato che se sarà premier chiederà un anno di tempo per erogare il reddito di cittadinanza dato che, sostiene, dovrà prima riorganizzare i Centri per l’Impiego (Cpi), e questa posizione ha provocato diverse polemiche e ironie. Il 32.5% dei votanti, a tanto ammonta il risultato grillino, chiede a gran voce il Rdc, ma Pd e centrodestra, anziché recepire questa istanza, la sottovalutano; se il Rdc è la madre di tutte le promesse elettorali, come mai gli avversari non si chiedono “perché”? E’ vero, Di Maio questo “spread” temporale lo ha comunicato (sufficientemente) solo a urne chiuse, tuttavia ha riconfermato l’intenzione di realizzare il Rdc.
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Caldarola: perché i poteri forti tifano Di Maio e non Salvini
Il potere oggi punta sui 5 Stelle, perché il movimento fondato da Grillo «è terra di conquista di poteri forti, anche internazionali», a differenza della Lega di Salvini, finora respinto dai circoli di Bruxelles: «Il diniego che viene a Salvini dai poteri che contano nasce innanzitutto per evitare un suo asse con altre formazioni di destra europee, e dal fatto che si sa che il capo della Lega farebbe più o meno ciò che dice». Lo afferma Peppino Caldarola, già direttore de “L’Unità”, intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”. Gioco più facile, secondo Caldarola, con Di Maio e soci: «Una volta arrivato nella stanza dei bottoni, il M5S può schiacciarne diversi. Chi arriverà per primo a dare il suggerimento giusto – che loro cercheranno – potrà influenzarli». Napolitano, Scalfari, il “Corriere”? «Uomini come Napolitano e Scalfari ritengono che il M5S sia una pagina bianca su cui si possa scrivere in libertà, ma è solo un’illusione». Il vero grande dubbio sui 5 Stelle, riassume Ferraù, è che nessuno sa chi prende davvero le decisioni che contano. Puoi appoggiare i grillini in Parlamento e venirti poi a trovare di fronte a una scelta diversa, senza sapere chi l’ha imposta: Grillo, Casaleggio, Di Maio o qualcun altro. La verità, sospetta Caldarola, è che la chiave sia lontana da Roma: i veri “influencer”, capaci di pesare sul vertice pentastellato, siedono nel grande potere finanziario atlantico.E’ questa l’angolazione da cui Caldarola guarda alla parita post-elettorale in corso, a cominciare dallo psicodramma in casa Pd: «Devo riconoscere che il no di Renzi al patto con i 5 Stelle è stato un passaggio molto limpido», premette Caldarola. Il Pd continuerà a esistere? «Difficile dirlo. Un partito che ha meno voti degli altri può essere determinante solo se ha un leader forte e conosciuto, come è stato per Bettino Craxi». Anche se si è costruito una truppa di parlamentari fedeli, «che diminuirà strada facendo», oggi Renzi «è tragicamente azzoppato». Al massimo, il Pd può favorire uno dei due vincitori parziali, Lega o M5S, oppure non farlo (e in questo caso ogni verifica parlamentare andrà a sbattere contro il diniego del Pd). «Nel frattempo però il Partito Democratico può sempre scoppiare, perché le sue contraddizioni sono troppo grandi». C’è un dato su cui, nel Pd, secondo Caldarola nessuno sta riflettendo: «Il marchio si è logorato. Si è identificato non solo con Renzi, ma con tutte le esperienze di governo recenti, da Letta a Monti, che sono state giudicate negative dall’elettorato». Un grande equivoco: un partito teoricamente erede della sinistra, che ha avallato le peggiori politiche neoliberali imposte da Bruxelles. Rimpiazzare Renzi? «Non basta un nuovo leader, occorre ripensare il soggetto e il progetto politico.Si fa avanti l’ex ministro Carlo Calenda: «Ha delle qualità, ma non l’appeal elettorale necessario». Il vicesegretario Maurizio Martina? «Non credo che sia così ambizioso da proporre se stesso». Per Caldarola è più probabile il ritorno al fondatore, Walter Veltroni. «Un’altra strada è che l’assemblea trovi un personaggio capace di garantire più o meno tutte le aree», aggiunge Carladola, ricordando che Renzi controlla un gruppo di parlamentari, ma sa che finirà all’opposizione e gli conviene evitare la mischia. «Potrebbe anche venirgli in mente di fondare un partito, magari in vista del voto anticipato, presentandosi come il campione del no a M5S e a Salvini. Così facendo potrebbe acchiappare voti di centro, ex Pd ed ex Forza Italia». Andrea Orlando ha detto che il 90% dei dirigenti del partito non vuole andare col Movimento 5 Stelle: «E’ vero, la ferita è troppo fresca. Un Pd che facesse l’accordo coi 5 Stelle non si salverebbe», sostiene Caldarola: «Farebbe la fine dei partiti di sinistra eredi del Pci che si sono alleati alla “Rete” di Leoluca Orlando: il Dna populista di quest’ultimo li ha sciolti e assimilati. In ogni caso il Pd sarebbe fuori dalla decisione politica». Oggi, non a caso, i grandi poteri puntano invece sui 5 Stelle: «Tutti i fautori della “governabilità” ad ogni costo, che oggi è riconoscibile nel leitmotiv di politici, industriali, banche e grande stampa, dicono: “Perché non devono tentare? Davvero siamo disposti a lasciare il paese senza governo?”». Se Di Maio resterà in pole position, certo non sarà solo.Il potere oggi punta sui 5 Stelle, perché il movimento fondato da Grillo «è terra di conquista di poteri forti, anche internazionali», a differenza della Lega di Salvini, finora respinto dai circoli di Bruxelles: «Il diniego che viene a Salvini dai poteri che contano nasce innanzitutto per evitare un suo asse con altre formazioni di destra europee, e dal fatto che si sa che il capo della Lega farebbe più o meno ciò che dice». Lo afferma Peppino Caldarola, già direttore de “L’Unità”, intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”. Gioco più facile, secondo Caldarola, con Di Maio e soci: «Una volta arrivato nella stanza dei bottoni, il M5S può schiacciarne diversi. Chi arriverà per primo a dare il suggerimento giusto – che loro cercheranno – potrà influenzarli». Napolitano, Scalfari, il “Corriere”? «Uomini come Napolitano e Scalfari ritengono che il M5S sia una pagina bianca su cui si possa scrivere in libertà, ma è solo un’illusione». Il vero grande dubbio sui 5 Stelle, riassume Ferraù, è che nessuno sa chi prende davvero le decisioni che contano. Puoi appoggiare i grillini in Parlamento e venirti poi a trovare di fronte a una scelta diversa, senza sapere chi l’ha imposta: Grillo, Casaleggio, Di Maio o qualcun altro. La verità, sospetta Caldarola, è che la chiave sia lontana da Roma: i veri “influencer”, capaci di pesare sul vertice pentastellato, siedono nel grande potere finanziario atlantico.
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Formenti: e ora il potere annullerà questa rivolta elettorale
Dopo Trump, la Brexit e il referendum italiano sulla Costituzione, erano arrivate la vittoria di Macron e il recente, travagliato rilancio della “grande coalizione” Cdu-Spd in Germania, alimentando nell’establishment “liberal” l’illusione che la marea populista fosse sul punto di rifluire. Invece no: il risultato delle elezioni del 4 marzo l’onda prosegue e rischia di travolgere «la diga eretta da partiti tradizionali, media e istituzioni nazionali ed europee», scrive Carlo Formenti su “Micromega”. 5 Stelle e Lega triplicano le rispettive rappresentanze parlamentari e i loro voti sommati superano il 50%, «certificando che metà dei cittadini italiani sono euroscettici e non credono più alle narrazioni sulla fine della crisi e sui presunti benefici della globalizzazione». Per i media, siamo allo tsunami populista. Ma che radici sociali ha? Quali sono le differenze fra le sue due anime principali? E perché le sinistre (socialdemocratiche e radicali) stanno affondando nell’insignificanza politica? E poi: perché, malgrado tutto, l’establishment è ancora in grado resistere? Quali scenari si apriranno, se e quando la diga crollerà davvero?
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Sapelli: dalle macerie italiane risorge il popolo degli abissi
No al rigore, al precariato schiavistico, all’invasione-migranti. Vietato avere paura del verdetto elettorale: quello del 4 marzo è stato un voto “di speranza e di trasformazione”. Parola di Giulio Sapelli, economista sulle barricate contro l’euro-austerity all’epoca del governo Monti. «Il popolo degli abissi si è messo in marcia, ha reagito ad anni e anni di gioco di specchi e di disincanti», scrive Sapelli sul “Sussidiario”. «Niente è andato come previsto: come nel libro di Jack London, il popolo degli abissi si è levato, ha preso l’arma del voto come una bandiera e con calma risoluta ha detto basta a quattro mali che hanno disintegrato l’Europa e l’Italia». Il primo è l’ordoliberismo, «ossia l’austerity fondata su bassi salari e distruzione del welfare». Poi c’è la cosiddetta “liberalizzazione” del mercato del lavoro, «con il neoschiavismo dei contratti a termine e del precariato». E’ stata la sinistra blairiana, ricorda Sapelli, a inventare «questo infernale marchingegno, con schiere di devoti giuslavoristi in conflitto d’interessi». Pochi giorni fa, “El Pais” pubblicava l’articolo del presidente di “Ciudadanos” che illustrava la legge di iniziativa parlamentare in cui si abolisce il precariato «con una tranquilla enfasi sulla difesa degli interessi della nazione e del tessuto industriale e dei servizi del paese».Il terzo male, per Sapelli, è l’inerzia delle parti sociali, «che vedono spogliare questa nazione delle sue risorse e nulla fanno come le borghesie commerciali “sudamericane”». E i sindacati, pur essendo «l’ultima istituzione che tiene», di fatto «rinunciano alle battaglie sui punti fondamentali». E questo, ovviamente, implica il fatto di «correre il pericolo del nazionalismo della povera gente e della classe media in discesa, con i fantasmi fascisti che ritornano». Proprio le fasce più deboli sono quelle più esposte al “quarto male” a cui gli elettori avrebbero detto basta, cioè «l’immigrazione incontrollata e non gestita con l’intelligenza della sicurezza e del rispetto della persona, non solo dei migranti, ma anche dei poveri e degli anziani che si trascinano una vita di stenti e non ne possono più di forti giovanotti con cellulare e venti euro in saccoccia: gli esempi australiani e tedeschi di accoglienza sono lì, ma noi nulla facciamo». Per l’economista, letteralmente, «si è disgregato lo Stato». Ed è quindi inevitabile che forze come i 5 Stelle e la Lega di Salvini si presentino come alternative al sistema.Da anni, Sapelli rileva l’inversione della tradizionale rappresentanza partitica: «I ricchi votano la loro sinistra, ossia Pd, Pisapia, Bonino, eccetera, mentre i poveri votano a destra, come sta accadendo in tutto il vecchio mondo neo-industriale. Non c’è bisogno di scomodare Trump, basta guardare alla Germania e alla Francia. Lì non votano e Macron viene eletto dal 23% degli aventi diritto». In Italia la partecipazione elettorale è ancora alta, ma travolge il vecchio schema destra-sinistra. Beninteso: «Sinistra, destra e centro sono ben presenti nel sociale e nell’universo simbolico del “popolo degli abissi”, ma quel popolo ha già compreso che le vecchie casacche vestono i morti: “Le mort saisit le vif”, diceva il filosofo di Treviri». A parte Marx, secondo Sapelli non bisogna «perdere la speranza che i nuovi universi simbolici siano educati dalle istituzioni e da una rinascita del ruolo degli intellettuali, che ora pasolinianamente al popolo si avvicinino senza più tradirlo». Quello del 4 marzo, insomma, «è un voto di speranza e di trasformazione».No al rigore, al precariato schiavistico, all’invasione-migranti. Vietato avere paura del verdetto elettorale: quello del 4 marzo è stato un voto “di speranza e di trasformazione”. Parola di Giulio Sapelli, economista sulle barricate contro l’euro-austerity all’epoca del governo Monti. «Il popolo degli abissi si è messo in marcia, ha reagito ad anni e anni di gioco di specchi e di disincanti», scrive Sapelli sul “Sussidiario”. «Niente è andato come previsto: come nel libro di Jack London, il popolo degli abissi si è levato, ha preso l’arma del voto come una bandiera e con calma risoluta ha detto basta a quattro mali che hanno disintegrato l’Europa e l’Italia». Il primo è l’ordoliberismo, «ossia l’austerity fondata su bassi salari e distruzione del welfare». Poi c’è la cosiddetta “liberalizzazione” del mercato del lavoro, «con il neoschiavismo dei contratti a termine e del precariato». E’ stata la sinistra blairiana, ricorda Sapelli, a inventare «questo infernale marchingegno, con schiere di devoti giuslavoristi in conflitto d’interessi». Pochi giorni fa, “El Pais” pubblicava l’articolo del presidente di “Ciudadanos” che illustrava la legge di iniziativa parlamentare in cui si abolisce il precariato «con una tranquilla enfasi sulla difesa degli interessi della nazione e del tessuto industriale e dei servizi del paese».
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Il potere vota Di Maio. Scalfari: è il nuovo leader, a sinistra
Per Marco Travaglio, a dare spettacolo è il noto sport nazionale: correre in soccorso dei vincitori. Sempre che i soccorritori, in questo caso, non siano i terminali italiani degli azionisti-ombra dei 5 Stelle, tranquillizzati in anticipo da Luigi Di Maio nei santuari del sommo potere, da Londra a Washington, prima ancora di presentare una lista iper-rassicurante di possibili ministri tecnici, a partire dal neoliberista Fioramonti, il cui curriculum contempla nomi come Rothschild, Rockefeller e Soros. «I poteri forti si riposizionano», titola il “Fatto Quotidiano”. O meglio: forse rendono palese ciò che prima era nascosto, e cioè che il successo firmato Di Maio fosse, fin dall’inizio, il loro Piano-B. Ovvero: non l’imbarazzante avanzata di una forza “antisistema”, ma il prevedibile boom di un’ala “populista” del sistema stesso, adatta a drenare il dissenso sociale di un’Italia in crisi. Da Marchionne a Confindustria, la convergenza su Di Maio si è fatta aperta e spettacolare, quasi quanto quella di Eugenio Scalfari, decano del “quarto potere” italico. Per il fondatore di “Repubblica”, che pochi mesi fa ai 5 Stelle avrebbe preferito persino l’odiato Berlusconi, oggi di Di Maio non è solo il legittimo capo del prossimo ipotetico governo, ma addirittura il leader del nuovo, grande partito unico della sinistra italiana, destinato a inglobare e assorbire lo stesso moribondo Pd. Questione di parole: sostituendo “sinistra” con “potere”, il cerchio si chiude.