Archivio del Tag ‘‘ndrangheta’
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Tribunale dei Popoli, la valle di Susa si appella al mondo
Sicuri che sia accettabile la legge imposta alla valle di Susa in nome dell’opaco business finanziario chiamato Tav? Sicuri che il trattamento inflitto alla popolazione sia conforme alle prescrizioni dei trattati internazionali? Nel silenzio delle autorità italiane – caduti nel vuoto tutti gli appelli alle istituzioni romane, da Palazzo Chigi al Quirinale – da oggi se ne occuperà il Tribunale Permanente dei Popoli, fondato nel 1979 su iniziativa del senatore Lelio Basso per tutelare i diritti delle genti calpestate dalla storia. L’appello degli amministratori valsusini, che si rivolge a questa prestigiosa tribuna internazionale di giuristi, è stato subito sottoscritto da personaggi mondiali di prima grandezza, da Dario Fo al brasiliano Leonardo Boff, fondatore della teologia della liberazione, dal profeta francese della decrescita Serge Latouche al regista cinematografico inglese Ken Loach, insieme a docenti universitari di tutto l’Occidente. Domanda: il mondo civile può accettare che una popolazione sia maltrattata per vent’anni e costretta a subire una maxi-opera completamente inutile, pericolosa e devastante per il territorio?A firmare l’esposto è Livio Pepino, già alto magistrato italiano, insieme a Sandro Plano, presidente della Comunità Montana, appena rieletto primo cittadino di Susa. Con loro i sindaci dei principali centri della valle, da Avigliana a Bussoleno. Tra i firmatari, celebrità internazionali come l’economista Riccardo Petrella e l’archeologo Salvatore Settis, combattenti per i diritti come Alex Zanotelli, grandi giornalisti del calibro di Paolo Rumiz. Insieme a nomi da sempre accanto alla battaglia civile della valle di Susa – dal professor Marco Revelli al climatologo Luca Mercalli – condividono l’appello al Tribunale dei Popoli la presidente di Emergency Cecilia Strada e popolari vignettisti come Ellekappa e Sergio Staino. Con la valle di Susa si schierano l’Associazione Nazionale Giuristi Democratici (avvocato Roberto Lamacchia), l’omologa International Association of Democratic Lawyers e la European Association of Lawyers for Democracy & World Human Rights. Aderiscono autorevolissimi magistrati: Domenico Gallo, consigliere presso la Corte di Cassazione, e Paolo Maddalena, vicepresidente emerito della Corte Costituzionale. Firma anche il giurista Giovanni Palombarini, già procuratore generale aggiunto della Cassazione.Mentre il movimento No-Tav è alla sbarra in seguito agli scontri con la polizia susseguitisi a partire dal 2011 a Chiomonte, sito dell’unico mini-cantiere finora attivato (solo una galleria esplorativa, nulla a che vedere con l’ipotetico traforo ferroviario), i media mainstream e la politica al potere evitano accuratamente, da vent’anni, di accettare la sfida democratica ingaggiata dai valsusini. I tecnici universitari scesi in campo accanto al movimento – centinaia di professori e ingegneri – dimostrano che la grande opera in progettazione è un attentato alla salute (rischio tumori, a causa delle polveri di amianto e uranio), una garanzia di devastazione del territorio (catastrofe abitativa e idrogeologica), un bagno di sangue per il debito pubblico italiano (almeno 20 miliardi di euro, mentre l’Ue ha appena dimezzato il già irrisorio contributo europeo). Sacrifici ritenuti intollerabili, soprattutto per una ragione: la linea Tav italo-francese, destinata alle merci, sarebbe completamente inutile.Il traffico lungo l’asse est-ovest è infatti crollato, e l’attuale linea internazionale valsusina che già collega Torino a Lione è praticamente deserta, nonostante l’Italia abbia recentemente speso 400 milioni di euro per migliorare la capacità del traforo del Fréjus. Il tunnel, tra Bardonecchia e Modane, oggi è in grado di accogliere treni con a bordo Tir e grandi container navali. Secondo la Svizzera, cui Bruxelles ha affidato il monitoraggio dei trasporti alpini, oggi la valle di Susa potrebbe incrementare del 900% il trasporto Italia-Francia. Perché costruire un inutile doppione, costosissimo e da vent’anni avversato dalla popolazione? A rendere particolarmente odiosa la grande opera più contestata d’Italia, il sospetto che l’ombra della mafia si allunghi sulle operazioni di cantiere: i No-Tav hanno inutilmente sottoposto al tribunale di Torino il corposo dossier del Ros inerente l’indagine “Minotauro” sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Piemonte. In base al lavoro antimafia dei carabinieri, i militanti denunciano collegamenti pericolosi tra le cosche del Canavese e alcune imprese coinvolte nei lavori di movimento terra in valle di Susa.Molti aspetti della crisi scoppiata attorno alla Torino-Lione vanno ben oltre la valle di Susa, sostengono i firmatari, che denunciano «questioni di evidente rilevanza generale»: dalle crescenti devastazioni ambientali, «lesive dei diritti fondamentali dei cittadini attuali e delle generazioni future», fino alla «drastica estromissione dalle relative scelte delle popolazioni», anche in violazione di trrattati internazionali come la Convenzione di Aarhus del 1998. Ecco il punto: la valle di Susa è «espressione e simbolo» del grande male odierno, cioè l’esproprio antidemocratico del futuro, sotto forma di «trasferimento a poteri economici e finanziari nazionali e internazionali di decisioni di primaria importanza per la vita di intere popolazioni». I firmatari segnalano «situazioni in cui la violazione dei diritti fondamentali di persone e popolazioni avviene in modo meno brutale di quanto accaduto in altre vicende prese in esame dal Tribunale», che si è occupato delle maggiori tragedie umanitarie, da Timor Est all’Afghanistan. Ma la valle di Susa segna «la nuova frontiera dei diritti a fronte di attacchi che mettono in pericolo lo stesso equilibrio (ecologico e democratico) del pianeta».Ne sono convinti attivisti internazionali di prima grandezza: dal boliviano Oscar Olivera, paladino dell’acqua di Cochabamba, premio Goldman per l’ambiente, alla canadese Laura Westra, presidente dell’Ecological Integrity Group. Con la valle di Susa anche l’olandese Rembrandt Zegers di Greepeace International, lo statunitense David Bollier (Commons Strategy Group per i beni comuni) e il messicano Gustavo Esteva, economista, fondatore dell’Universidad de la Tierra a Oaxaca. Imponente il parterre universitario italiano: Marco Aime (Genova), Gaetano Azzariti, Piero Bevilacqua e Gianni Ferrara (Roma), Luciano Gallino e Angelo Tartaglia (Torino), Tomaso Montanari (Napoli) e Danilo Zolo (Firenze). E poi universitari di mezzo mondo, uniti per la causa valsusina: Weston Burns (Iowa, Usa), Fritjof Capra e Herbert Walther (Vienna), Vito De Lucia (Norvegia), Ugo Mattei (California), Laura Nader (Berkeley), Simon Read (Londra) e Anna Grear (Waikato, Nuova Zelanda). Fortissima anche la presenza dei cattolici latinoamericani, che come Leonardo Boff si sono riavvicinati al Vaticano con il pontificato di Papa Francesco: firmano per la valle di Susa il domenicano brasiliano Frei Betto, il connazionale benedettino Marcelo Barros, celebre biblista e scrittore, e il teologo Waldemar Boff che in Brasile dirige “Água Doce Serviços Populares”.Sicuri che sia accettabile la legge imposta alla valle di Susa in nome dell’opaco business finanziario chiamato Tav? Sicuri che il trattamento inflitto alla popolazione sia conforme alle prescrizioni dei trattati internazionali? Nel silenzio delle autorità italiane – caduti nel vuoto tutti gli appelli alle istituzioni romane, da Palazzo Chigi al Quirinale – da oggi se ne occuperà il Tribunale Permanente dei Popoli, fondato nel 1979 su iniziativa del senatore Lelio Basso per tutelare i diritti delle genti calpestate dalla storia. L’appello degli amministratori valsusini, che si rivolge a questa prestigiosa tribuna internazionale di giuristi, è stato subito sottoscritto da personaggi mondiali di prima grandezza, da Dario Fo al brasiliano Leonardo Boff, fondatore della teologia della liberazione, dal profeta francese della decrescita Serge Latouche al regista cinematografico inglese Ken Loach, insieme a docenti universitari di tutto l’Occidente. Domanda: il mondo civile può accettare che una popolazione sia maltrattata per vent’anni e costretta a subire una maxi-opera completamente inutile, pericolosa e devastante per il territorio?
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Scarpinato: la crisi aumenta il potere del sistema-mafia
Pensare un’azione antimafia realmente efficace in un contesto di sgretolamento dei diritti è una contraddizione in termini. Si potrebbero arrestare tutti i giorni centinaia di affiliati con la certezza che il giorno dopo verrebbero prontamente sostituiti. La storia italiana è una storia diversa da quella degli altri paesi di democrazia europea avanzata, perché nei paesi come la Francia, come l’Inghilterra, come la Gemania quasi non esiste una questione criminale, o meglio, la questione criminale è un capitolo assolutamente marginale e secondario della storia nazionale, di cui si occupano soltanto gli specialisti, i magistrati e i criminologi, perché tranne poche eccezioni le gesta criminali sono quelle della criminalità comune: rapine, omicidi e traffico di stupefacenti. In Italia non è così. Perché in Italia la questione criminale è sempre stata inestricabilmente intrecciata con la storia nazionale, la storia con la S maiuscola. I protagonisti delle vicende criminali non sono stati soltanto esponenti delle classi disagiate e popolari, ma anche pezzi importanti della classe dirigente.L’oscenità del potere? E’ l’impostura culturale che la mafia è solo una storia di brutti sporchi e cattivi, di cui sono protagonisti personaggi come Riina, Provenzano o i casalesi. La realtà è che, tranne un breve periodo che dura dal 1980 al 1990, i più grandi capi della mafia sono sempre stati borghesi. Il capo della mafia di Corleone, prima di Riina e Provenzano, era un medico chirurgo: il dottor Michele Navarra. La lezione della storia ci insegna che in questo paese nessuno – fosse di centro, destra o sinistra – ha mai potuto governare senza venire a patti con questo blocco sociale che è anche il principale responsabile del sottosviluppo del Mezzogiorno, della privazione sistematica delle risorse. Situazione che oggi è più grave: a causa di fattori macrosistemici come l’avanzare del federalismo fiscale, il tetto massimo stabilito alla spesa pubblica dopo il Trattato di Maastricht e altri fattori di crisi economica, il Sud precipita sempre di più in una situazione di degrado economico, la forbice del differenziale tra Nord e Sud aumenta, una parte del Nord tende a staccarsi per seguire la locomotiva del Nord Europa e abbandonare il Sud al suo destino.Questo Sud privato di risorse avrà il problema di garantire a milioni di persone di mettere insieme il pranzo e la cena. In assenza di spesa pubblica, il pericolo è che per evitare che il Sud diventi una polveriera sociale ci si affida all’economia alternativa del crimine, cioè che il Sud diventi un’enorme zona di no-tax, una sorta di Singapore del Mediterraneo, dove l’economia si genererà grazie al porto franco, all’afflusso di capitali sporchi, alle case da gioco, alla benzina defiscalizzata e quant’altro. Noi continuiamo ad avere un Parlamento, consigli regionali, governi e organi rappresentativi affollati di persone che sono state condannate per mafia, e che nonostante ciò restano degli “intoccabili”. Continuiamo ad avere quella che poco fa ho chiamato borghesia mafiosa, che è un pezzo importante di classe dirigente, ed è il vero terreno su cui si gioca il futuro della lotta alla mafia.Nel libro “Il ritorno del Principe” leggo il sistema di potere mafioso attraverso la lente dei “Promessi sposi”: non ci si può illudere di sconfiggere la mafia arrestando solo i Bravi. Rispetto a quella legale dello Stato, l’offerta sociale mafiosa prospera quando le persone non hanno la possibilità di vedere riconosciuti i propri diritti, quando sono costrette a piegarsi per avere un lavoro, per avere un minimo di dignità sociale, quando uno Stato non è in grado di offrire occupazione e pari dignità ai cittadini. È allora che molta gente è spinta a mettersi nelle mani della mafia, che quantomeno garantisce una sopravvivenza economica.(Roberto Scarpinato, dichiarazioni rilasciate ad Antonello Castellano per l’intervista “Il lato osceno del potere”, apparsa su “Narcomafie” e ripresa da “Megachip” il 22 aprile 2014. Magistrato antimafia, Scarpinato ha firmato con Saverio Lodato il libro “Il ritorno del Prinicipe”, edito da Chiarelettere).Pensare un’azione antimafia realmente efficace in un contesto di sgretolamento dei diritti è una contraddizione in termini. Si potrebbero arrestare tutti i giorni centinaia di affiliati con la certezza che il giorno dopo verrebbero prontamente sostituiti. La storia italiana è una storia diversa da quella degli altri paesi di democrazia europea avanzata, perché nei paesi come la Francia, come l’Inghilterra, come la Germania quasi non esiste una questione criminale, o meglio, la questione criminale è un capitolo assolutamente marginale e secondario della storia nazionale, di cui si occupano soltanto gli specialisti, i magistrati e i criminologi, perché tranne poche eccezioni le gesta criminali sono quelle della criminalità comune: rapine, omicidi e traffico di stupefacenti. In Italia non è così. Perché in Italia la questione criminale è sempre stata inestricabilmente intrecciata con la storia nazionale, la storia con la S maiuscola. I protagonisti delle vicende criminali non sono stati soltanto esponenti delle classi disagiate e popolari, ma anche pezzi importanti della classe dirigente.
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Gratteri? Troppo pulito, l’Italia non può permetterselo
Con il suo piano organico di riforme, divenendo ministro Nicola Gratteri «minacciava di far funzionare la giustizia per davvero: ma una giustizia che funziona – dice Marco Travaglio – il nostro sistema di potere non se la può permettere». Secondo il fondatore del “Fatto Quotidiano”, «basta una ripresa dall’elicottero o dal satellite di tutti i politici nazionali o locali, banchieri, imprenditori, manager, faccendieri, lobbisti, massoni, boiardi, alti ufficiali e alti dirigenti delle forze dell’ordine e dei servizi sotto processo per cogliere la portata destabilizzante, eversiva di una giustizia rapida ed efficiente». Per Travaglio, «con una classe dirigente così corrotta e collusa, basterebbe una riforma di stampo europeo della prescrizione (che dappertutto smette di correre dopo il rinvio a giudizio, mentre qui galoppa fino in Cassazione) per fare una rivoluzione pacifica molto più devastante di quelle cruente».Pur occupandosi dell’ala militare della ‘ndrangheta, scrive Travaglio in un editoriale ripreso da “Micromega”, Gratteri ha maturato sul campo una conoscenza approfondita e dunque “tridimensionale” dei sistemi criminali italiani: «Chi avesse dubbi dia un’occhiata alle facce e alle fedine penali dei dirigenti calabresi di Pd, Pdl, Ncd e Udc». Infatti, il pm antimafia che Napolitano non ha voluto al governo «non fa mistero di considerare questa classe politica, trasversalmente, un focolaio di infezione». Per questo, il magistrato chiedeva “mani libere”, e – nel caso – sarebbe andato fino in fondo, senza guardare in faccia a nessuno, «mettendo a repentaglio non la sua carriera (non ci ha mai tenuto), ma la stabilità e la sopravvivenza del Sistema».E’ per questo che «l’Imbalsamatore ha subito sventato la minaccia: chiunque altro, ma non Gratteri. Infatti è toccato a un Chiunque Altro, il povero Andrea Orlando», che Travaglio definisce «un onesto e innocuo orecchiante», uno che «ha assorbito a sua insaputa l’intero armamentario berlusconiano: confonde la riforma della giustizia con quella dei giudici (azione penale facoltativa, separazione delle carriere, più politici nel Csm) e vuole abolire l’ergastolo come fossimo la Norvegia, non il paese delle mafie e delle trattative». Per Travaglio, il siluramento di Gratteri resta «il peccato originale del nuovo governo». Napolitano era «disposto a scaricare persino i suoi protetti Saccomanni, Bonino e Cancellieri, ma non a lasciar passare un pm antimafia alla giustizia».Con il suo piano organico di riforme, divenendo ministro Nicola Gratteri «minacciava di far funzionare la giustizia per davvero: ma una giustizia che funziona – dice Marco Travaglio – il nostro sistema di potere non se la può permettere». Secondo il fondatore del “Fatto Quotidiano”, «basta una ripresa dall’elicottero o dal satellite di tutti i politici nazionali o locali, banchieri, imprenditori, manager, faccendieri, lobbisti, massoni, boiardi, alti ufficiali e alti dirigenti delle forze dell’ordine e dei servizi sotto processo per cogliere la portata destabilizzante, eversiva di una giustizia rapida ed efficiente». Per Travaglio, «con una classe dirigente così corrotta e collusa, basterebbe una riforma di stampo europeo della prescrizione (che dappertutto smette di correre dopo il rinvio a giudizio, mentre qui galoppa fino in Cassazione) per fare una rivoluzione pacifica molto più devastante di quelle cruente».
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Renzi, il tradimento al potere: impossibile credergli
È fatale: una volta che hai scelto Tony Blair come modello, per forza approdi al tradimento. Tradimento della sinistra e dell’Europa che pretendi risuscitare, tradimento di promesse fatte nelle primarie o nei congressi. Non dimentichiamo il nomignolo che fu dato al leader laburista, negli anni della guerra in Iraq: lo chiamarono il “poodle di Bush jr”, il barboncino-lacchè sempre scodinzolante davanti alla finte vittorie annunciate dal boss d’oltre Atlantico. Non dimentichiamo, noi che ci siamo imbarcati nel bastimento della Lista Tsipras, come Blair lavorò, di lena, per distruggere il poco di unione europea che esisteva e il poco che si voleva cambiare. Fu lui a non volere che i Trattato di Lisbona divenisse una vera Costituzione, di quelle che cominciano, come la Carta degli Stati Uniti, con le parole: «Noi, il popolo….». Fu lui che si oppose a ogni piano di maggiore solidarietà dell’Unione, e rifiutò ogni progetto di un’Europa politica, che controbilanciasse il potere solo economico esercitato dai mercati e in modo speciale dalla city.Renzi è consapevole di queste cose, o parla di Blair tanto per parlare? E il ministro degli esteri Mogherini in che cosa è meglio di Emma Bonino, che al federalismo europeo ha dedicato una vita e possiede una vera competenza? Federica Mogherini ha concentrato i suoi interessi sulla Nato innanzitutto, e poi sull’Europa. Chissà se è consapevole della degradazione dell’Alleanza atlantica, nei catastrofici dodici anni di guerra antiterrorista. Ma ancor più inquietante è la rinuncia, in extremis, a Nicola Gratteri ministro della giustizia. Questo sì sarebbe stato un segnale di svolta. La sua battaglia contro il malcostume politico e le mafie è la risposta più seria che l’Italia possa dare ai rapporti dell’Unione che ci definiscono il paese più corrotto d’Europa.Non è ancora chiaro chi abbia lavorato contro la nomina di Gratteri. Forse il Quirinale, per fedeltà alle larghe intese; di certo le destre di Alfano e Berlusconi, con il quale Renzi vuol negoziare le riforme della Costituzione. È stato detto che non è bene che un pm diventi guardasigilli. Anche qui, la rimozione e l’oblio regnano indisturbati: nel 2011, il Quirinale firmò la nomina del magistrato di Forza Italia Nitto Palma, vicino al premier Berlusconi e Cosentino. Evidentemente quel che valeva per Nitto Palma è tabù per Gratteri. Il veto al suo nome è ad personam, e accoglie la richiesta della destra di avere un ministro “garantista” (garantista degli imputati di corruzione, di voto di scambio, di frode fiscale, ecc). Al suo posto è stato scelto un uomo di apparato, Andrea Orlando, che solo da poco tempo si occupa di giustizia, che ha fatto la sua scalata prima nel Pci, poi nel Pds, poi nei Ds, poi nel Pd. Nel governo Letta era ministro dell’ambiente. Auspica – in profonda sintonia con Berlusconi – la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale e la separazione delle carriere dei magistrati.Infine il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan. Recentemente ha preconizzato l’allentamento delle politiche di austerità, che aveva difeso per anni. Non ha neppure escluso l’utilità di una patrimoniale. Ma di questi tempi tutti, a parole, sono contro l’austerità. Vedremo cosa Padoan proporrà in Europa: come passerà – se passerà – dalle parole agli atti. Al momento non vedo discontinuità tra lui e Fabrizio Saccomanni. Naturalmente può darsi che Renzi farà qualcosa di utile per l’Italia: prima di tutto su lavoro e fisco. Non mi aspetto niente di speciale sull’Europa, per i motivi che ho citato prima. Non credo nemmeno che creda in quel che è andato dicendo per mesi: «Niente più larghe intese!», o «Mai a Palazzo Chigi senza un passaggio elettorale». Altrimenti non avrebbe guastato tante parole nel giro di poche ore, giusto per andare a Palazzo Chigi e presentarsi – terzo premier nominato – in un Parlamento di nominati.(Barbara Spinelli, “Renzi, il potere e il tradimento”, dal sito “Lista Tsipras” del 23 febbraio 2014).È fatale: una volta che hai scelto Tony Blair come modello, per forza approdi al tradimento. Tradimento della sinistra e dell’Europa che pretendi risuscitare, tradimento di promesse fatte nelle primarie o nei congressi. Non dimentichiamo il nomignolo che fu dato al leader laburista, negli anni della guerra in Iraq: lo chiamarono il “poodle di Bush jr”, il barboncino-lacchè sempre scodinzolante davanti alla finte vittorie annunciate dal boss d’oltre Atlantico. Non dimentichiamo, noi che ci siamo imbarcati nel bastimento della Lista Tsipras, come Blair lavorò, di lena, per distruggere il poco di unione europea che esisteva e il poco che si voleva cambiare. Fu lui a non volere che i Trattato di Lisbona divenisse una vera Costituzione, di quelle che cominciano, come la Carta degli Stati Uniti, con le parole: «Noi, il popolo….». Fu lui che si oppose a ogni piano di maggiore solidarietà dell’Unione, e rifiutò ogni progetto di un’Europa politica, che controbilanciasse il potere solo economico esercitato dai mercati e in modo speciale dalla city.
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Scanzi: il governo antani del gattopardo Matteo Letta
E menomale che Renzi era quello coraggioso, quello furbo: quello del cambiamento. Macché: nient’altro che un democristiano 2.0, un Enrico Renzi, un Matteo Letta. Un serial bugiardo che mira a cambiare affinché nulla cambi. Un Gattopardo ibridato con Peppa Pig. Un rottamatore, sì, ma intenzionato a desertificare non il “vecchio” quanto la buona politica, la credibilità e la competenza. Parafrasando due delle sue poetesse preferite, Jo Squillo e Sabrina Salerno, “oltre l’ambizione non c’è di più”. Il suo governo è uno strazio così evidente che non ha senso infierire. C’è la Mogherini, quella che a “L’aria che tira” si vantava che loro (il Pd) mai e poi mai avrebbero ridato i soldi pubblici del finanziamento-rimborso ai partiti. C’è la Madia, nota inesperta di tutto. C’è la Boschi, nota (ma poco) e basta. Ci sono Alfano, Lupi e Lorenzin, giustamente felicissimi (solo Renzi poteva allungargli la vita) e vicini al “cambiamento” come Povia a Jimi Hendrix. C’è Franceschini, uno che c’è sempre, e la sua sola presenza inamovibile rende pressoché impossibile votare Pd (a meno che non si sia intrisi di un masochismo bulimico).Ci sono le lobby: Confindustria, Coop, Cl. C’è un dalemiano nel ruolo chiave dell’economia. C’è la Pinotti, che un anno fa votava Bersani, come tutti gli attuali ministri piddini (tranne Boschi). C’è la civatiana Lanzetta buttata là senza preavviso, giusto per isolare Civati e applicare alla perfezione il Manuale Cencelli, garantendosi quindi i voti di tutte le 812 correnti Pd. E c’è soprattutto Orlando, il carismatico e guizzante Andrea Orlando, uno che vorrebbe abolire ergastolo e 41 bis, uno che ha un’idea di giustizia al cui confronto Ghedini è antiberlusconiano. Uno che non ci doveva essere, perché Renzi (in una delle sue 2 o 3 idee di pregio avute negli ultimi mesi) voleva il “magistrato in servizio” Gratteri, ma con coraggio di Don Abbondio ha poi obbedito pure lui a Re Giorgio.Renzi, renziani (verso cui siamo sempre più solidali) e stampa folgorata sulla via di San Matteo da Rignano la meneranno nei prossimi giorni con il 50% di quota rosa, l’esiguo numero dei ministeri che “una roba così solo De Gasperi nel secolo scorso” e l’età mediapiù bassa nella storia della Repubblica Italiana. Tutte cose buone per glorificare le pagliuzze e nascondere le travi. La verità è che Renzi era e rimane un restauratore, un gattopardo: un Craxi-Berlusconi senza avere la bravura – anche maligna – di entrambi. Più che un Renzi I, questo è un Letta 2 o un Napolitano 3. Un rimpasto alla democristiana con supercazzola annessa, scappellamento a destra e qualche antani prematurato per indorare la pillola a un elettorato sempre più vilipeso (che pare accettare tutto o quasi). Renzi voleva essere il nuovo Blair, ma sembra più che altro il vecchio Rumor. Meno preparato, però.(Andrea Scanzi, “Il governo antani del gattopardo Renzi”, da “Il Fatto Quotidiano” del 22 febbraio 2014, ripreso da “Micromega”).E menomale che Renzi era quello coraggioso, quello furbo: quello del cambiamento. Macché: nient’altro che un democristiano 2.0, un Enrico Renzi, un Matteo Letta. Un serial bugiardo che mira a cambiare affinché nulla cambi. Un Gattopardo ibridato con Peppa Pig. Un rottamatore, sì, ma intenzionato a desertificare non il “vecchio” quanto la buona politica, la credibilità e la competenza. Parafrasando due delle sue poetesse preferite, Jo Squillo e Sabrina Salerno, “oltre l’ambizione non c’è di più”. Il suo governo è uno strazio così evidente che non ha senso infierire. C’è la Mogherini, quella che a “L’aria che tira” si vantava che loro (il Pd) mai e poi mai avrebbero ridato i soldi pubblici del finanziamento-rimborso ai partiti. C’è la Madia, nota inesperta di tutto. C’è la Boschi, nota (ma poco) e basta. Ci sono Alfano, Lupi e Lorenzin, giustamente felicissimi (solo Renzi poteva allungargli la vita) e vicini al “cambiamento” come Povia a Jimi Hendrix. C’è Franceschini, uno che c’è sempre, e la sua sola presenza inamovibile rende pressoché impossibile votare Pd (a meno che non si sia intrisi di un masochismo bulimico).
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Vedrete, Renzicchio riuscirà a farci rimpiangere Letta
Bando alle ciance sul premier più giovane e sul governo più rosa della storia italiana. Chissenefrega della propaganda: il governo Letta vantava il record dell’età media più bassa, infatti è durato meno di una gravidanza. Fino a oggi avevamo concesso a Matteo Renzi – come sempre facciamo, senza preconcetti – il sacrosanto diritto di fare le sue scelte prima di essere giudicato. Ora che le ha fatte possiamo tranquillamente dire che il suo governicchio è un Letta-bis, cioè un Napolitano-ter che potrebbe addirittura riuscire nell’ardua impresa di far rimpiangere quelli che l’hanno preceduto. Già la lista con cui è entrato al Quirinale presentava poche novità vere, anzi una sola: quella del magistrato antimafia Nicola Gratteri alla Giustizia. Quella che ne è uscita dopo due ore e mezza di cancellature a opera di Napolitano è un brodino di pollo lesso che delude anche le più tiepide aspettative di svolta.E il fatto che la scure di Sua Maestà si sia abbattuta proprio su Gratteri la dice lunga sul livello di non detto dei patti inconfessabili che Renzi ha voluto o dovuto stringere col partito trasversale del Gattopardo. Se il premier fosse quello che dice di essere, avrebbe dovuto tener duro su Gratteri o mandare tutto a monte. Invece s’è democristianamente genuflesso a baciare la pantofola e ha nominato il ragionier Orlando, ultimamente parcheggiato all’Ambiente («Orlando chi?», avrebbe detto Renzi qualche giorno fa), rinunciando a dare una sterzata alla Giustizia. Complimenti vivissimi a lui e a Giorgio Napolitano, che si conferma il peggior presidente della storia repubblicana: se Scalfaro nel ‘94 usò il potere di nominare i ministri per sbarrare la strada a Previti, lui l’ha usato per fermare un pm competente, efficiente, onesto ed estraneo alle correnti. E non per un’allergia congenita ai Guardasigilli togati: nel 2011 firmò l’incredibile nomina del magistrato forzista Nitto Palma, amico di B. e di Cosentino.Il veto è proprio ad personam contro Gratteri, che la Giustizia minacciava di farla funzionare sul serio, senza più indulti, amnistie, svuota carceri e leggi vergogna. Davvero troppo per lo Stato che tratta con la mafia e per il suo capo. Accettando senza batter ciglio i veti del Colle, della Bce e di Bankitalia, Renzicchio si candida al ruolo di rottamatore autorottamato. Poteva tentare una svolta, costi quel che costi: s’è prontamente fatto fagocitare dalla “palude” che rinfacciava a Letta. Voleva essere il primo premier della Terza Repubblica: sarà il terzo premier a sovranità limitata, circondato da un accrocco di partitocrati di nuova generazione che non danno alcuna garanzia di esser meglio degli antenati. Con due sole eccezioni: il ministro dell’Economia Padoan, finto tecnico che rassicura le autorità europee e mastica politica da una vita, infatti era consigliere di D’Alema (Renzi voleva Delrio, poi anche lì ha alzato bandiera bianca); e l’addetta allo Sviluppo Federica Guidi, che ha soprattutto il merito di essere una turbo berlusconiana e la figlia di papà Guidalberto.Alfano, che Renzi voleva cacciare dal Viminale per l’affare Shalabayeva, resta a pie’ fermo al Viminale. Lupi, che persino il renziano De Luca accusava di farsi gli affari suoi alle Infrastrutture, rimane imbullonato dov’è. Un altro formidabile conflitto d’interessi porta con sé Giuliano Poletti, ras delle coop rosse, al Lavoro. Notevole anche la Pinotti, genovese come Finmeccanica, alla Difesa. La catastrofe Lorenzin farà altri danni alla Salute. Il multiuso Franceschini passa dai Rapporti col Parlamento alla Cultura. La Giannini, segretaria di quel che resta di Scelta civica, va all’Istruzione. Il cerchietto magico renziano si aggiudica gli Esteri con la Mogherini, le Riforme con la Boschi, la Pubblica amministrazione con la Madia (avete capito bene: Madia). Un po’ di fumo negli occhi con la sindaca antimafia Lanzetta alle Regioni, poi due figuranti come Martina all’Agricoltura e il casiniano Galletti che, essendo commercialista, va all’Ambiente. “Ora mi gioco la faccia”, ha detto Renzi. Già fatto.(Marco Travaglio, “Il Renzicchio”, da “Il Fatto Quotidiano” del 22 febbraio 2014, ripreso da “Micromega”).Bando alle ciance sul premier più giovane e sul governo più rosa della storia italiana. Chissenefrega della propaganda: il governo Letta vantava il record dell’età media più bassa, infatti è durato meno di una gravidanza. Fino a oggi avevamo concesso a Matteo Renzi – come sempre facciamo, senza preconcetti – il sacrosanto diritto di fare le sue scelte prima di essere giudicato. Ora che le ha fatte possiamo tranquillamente dire che il suo governicchio è un Letta-bis, cioè un Napolitano-ter che potrebbe addirittura riuscire nell’ardua impresa di far rimpiangere quelli che l’hanno preceduto. Già la lista con cui è entrato al Quirinale presentava poche novità vere, anzi una sola: quella del magistrato antimafia Nicola Gratteri alla Giustizia. Quella che ne è uscita dopo due ore e mezza di cancellature a opera di Napolitano è un brodino di pollo lesso che delude anche le più tiepide aspettative di svolta.
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Giorno: Val Susa e finti terroristi, tragico film già visto
Allarme rosso, in valle di Susa, dopo l’ultimo colpo di scena nel “romanzo criminale” che qualcuno sta cercando di scrivere, attorno alla lotta popolare dei No-Tav contro l’inutile ecomostro chiamato Torino-Lione. Una fantomatica sigla terroristica – Noa, nuclei operativi armati – avverte l’Ansa che meritano la “condanna a morte” un funzionario della Digos di Torino, un politico pro-Tav come il senatore Pd Stefano Esposito e due dirigenti di Ltf, la società Lyon-Turin Ferroviaire che sta scavando a Chiomonte il contestato “cunicolo esplorativo”, propedeutico all’eventuale, futuro tunnel ferroviario – quello che la Francia ha dichiarato che non prenderà neppure in considerazione prima del 2030, dal momento che la Torino-Lione (crollato il traffico Italia-Francia) non è più una priorità, né per Parigi né per l’Ue. Se il movimento No-Tav respinge con sdegno quella che considera una provocazione inquinante, non manca chi – come Claudio Giorno – denuncia il possibile ritorno di una sorta di strategia della tensione, per criminalizzare l’opposizione alla grande opera.«I No Tav – scrive Giorno nel suo blog – sono cittadini normali, che hanno dato vita a un movimento che si è messo di traverso alla spartizione di un malloppo che oggi è stimato, a preventivo, poco meno di 30 miliardi di euro». Una lotta che, «nonostante tutto e tutti», dura da un quarto di secolo: 25 anni, «nei quali è finita, dicono, una repubblica (la prima), si sono estinti la democrazia cristiana, i socialisti e tutti i vassalli del pentapartito, anche se gli sono sopravvissuti tutti i ladri, trovando ospitalità nei “non-partiti” che nel frattempo sono stati inventati». Anni di frustrazioni, continua Giorno, in cui «sono stati vanificati gli esiti di quasi tutti i referendum popolari e si sono spenti gli occupy di mezzo mondo», mentre le “rivoluzioni” del Nord Africa «sono servite all’avvicendamento di regimi più o meno teocratici, direttamente o indirettamente sostenuti manu militari». Nel loro piccolo, i militanti della valle di Susa – che hanno appena raccolto la solidarietà degli italiani per fronteggiare una causa civile da 220.000 euro – sentono di costituire «una speranza, un orizzonte di resistenza in un panorama di rese incondizionate».«L’irrigidimento dello Stato – continua Giorno – ci ha posto “nostro malgrado” in condizione di rappresentare un livello di antagonismo che non avremmo neanche lontanamente immaginato possibile, alla fine degli anni ‘80 quando alcuni “reduci della lotta all’autostrada del Frejus” cominciammo a intravedere un nuovo pericolo – quello definitivo, il Tav – affacciarsi all’orizzonte affollato del nostro esiguo e fragile territorio». Soprattutto, aggiunge l’esponente No-Tav, «non avremmo mai immaginato che avremmo potuto mantenere così a lungo la posizione senza arretrare di un millimetro». Pertanto, in una condizione così “estrema”, «sarebbe molto stravagante se non fossimo stati “debitamente” infiltrati». Nonostante la disinformazione dilagante, secondo Giorno non manca «qualche coraggiosa iniziativa editoriale» che documenta «i primi tentativi di inquinare la lotta in difesa della nostra terra». Ne parla Luca Rastello, in un capitolo del libro-denuncia “Binario morto”, scritto con Andrea De Benedetti per “Chiarelettere”.Il libro rievoca la tragedia di due giovani anarchici, “Sole e Baleno”, morti in stato di detenzione prima di poter essere scagionati, in tribunale, dalle accuse per la strana serie di attentati dinamitardi che colpirono la valle di Susa negli anni ‘90, coperti da sigle fantomatiche come quella dei “Lupi Grigi”. Già allora, i giornali si affrettarono a parlare di “ecoterrorismo” e “pista anarco-insurrezionalista” in relazione alla nascente opposizione No-Tav, trascurando un’altra indagine, sempre della Procura di Torino, che aveva appena individuato il ruolo dei servizi segreti “deviati” in un traffico di armi tra un’armeria di Susa e una cosca della ‘ndrangheta. «Le “prove “granitiche” raccolte attraverso indagini svolte anche da inquirenti che si riveleranno attivamente coinvolti nella fabbricazione delle medesime – scrive Giorno – non reggeranno oltre l’istruttoria», ma nel frattempo Edoardo Massari e Maria Soledad Rosas non giungeranno vivi alla fine del processo. «Un errore che dovrebbe pesare come un macigno sulla coscienza di chi indagò in un’unica direzione ma che – a quanto pare – non ha insegnato nulla», conclude Claudio Giorno, pensando a chi oggi criminalizza il movimento No-Tav addebitandogli anche attentati incendiari, sulla cui parternità non è finora emersa alcuna prova. Sabotaggi «attribuiti sempre e comunque al movimento, sino ai processi e agli arresti preventivi per reati di terrorismo».E ora irrompono sulla scena i “Noa” – i nuovi “Lupi Grigi”? – che «decretano condanne a nome del popolo e indicano la strada al movimento No-Tav, romanticamente affezionato a criteri nonviolenti pur nella radicalità dello scontro». Rivendicazione «rispedita al mittente», anche perché «sa di déja vu». Uno, dieci, cento “mittenti”, sostiene Giorno, che in questi anni «non solo non hanno fatto quanto in loro potere (e soprattutto dovere) per disinnescare gli “ordigni esplosivi”», ma in alcuni casi «li hanno “messi a dimora” – qualcuno manualmente sotto un viadotto, altri virtualmente in conferenze dei servizi-burla, confronti truccati, procedure umilianti prima ancora che scorrette». In altre parole: «Chi doveva risolvere ha complicato, chi doveva indagare non pare aver sempre finito il lavoro».In sostanza, è come se anche la periferica valle di Susa concorresse e delineare i retroscena delle strane connessioni tra servizi “deviati” e mafia («l’onorata società sta agli appalti come le api al miele») sui cui indagano «i coraggiosi magistrati di Palermo», perché probabilmente la “trattativa” «ha tanti fautori e a tutte le latitudini». Tutto questo, mentre è in fiamme una città come Kiev, fino a ieri capolinea Ue dell’ipotetico “corridoio 5 Kiev-Lisbona” di cui la Torino-Lione avrebbe dovuto essere lo snodo alpino. «Oggi – chiosa Giorno – c’è davvero qualcosa di inquietante all’orizzonte-est non solo della val di Susa, ma dell’Europa SpA dei finanzieri e dei lobbysti». Come dire: di fronte a certi appetiti, da noi come in Ucraina, si può arrivare senza problemi anche alla macelleria. Con debito corredo di disinformazione.Allarme rosso, in valle di Susa, dopo l’ultimo colpo di scena nel “romanzo criminale” che qualcuno sta cercando di scrivere, attorno alla lotta popolare dei No-Tav contro l’inutile ecomostro chiamato Torino-Lione. Una fantomatica sigla terroristica – Noa, nuclei operativi armati – avverte l’Ansa che meritano la “condanna a morte” un funzionario della Digos di Torino, un politico pro-Tav come il senatore Pd Stefano Esposito e due dirigenti di Ltf, la società Lyon-Turin Ferroviaire che sta scavando a Chiomonte il contestato “cunicolo esplorativo”, propedeutico all’eventuale, futuro tunnel ferroviario – quello che la Francia ha dichiarato che non prenderà neppure in considerazione prima del 2030, dal momento che la Torino-Lione (crollato il traffico Italia-Francia) non è più una priorità, né per Parigi né per l’Ue. Se il movimento No-Tav respinge con sdegno quella che considera una provocazione inquinante, non manca chi – come Claudio Giorno – denuncia il possibile ritorno di una sorta di strategia della tensione, per criminalizzare l’opposizione alla grande opera.
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Val Susa, Italia: Pd e Pdl insieme, per conquistare Avigliana
A prima vista, sembra una qualsiasi campagna elettorale locale, di rango comunale. Non lo è, se è vero che scomoda nientemeno che Nichi Vendola, accanto all’altro leader nazionale impegnato nella contesa, Beppe Grillo. Due pesi massimi, in difesa di una cittadina di nemmeno quindicimila abitanti? Ebbene sì: perché il Comune in questione è Avigliana, dinamico capoluogo produttivo della valle di Susa “ribelle”, a metà strada fra Torino e le Alpi. Vent’anni fa, quando l’epopea No-Tav era alle primissime battute, ancora lontana dall’attuale dimensione popolare, Avigliana punì il “partito trasversale degli affari” premiando una lista di outsider, dal nome inequivocabile: Piazza Pulita. Da allora, la “dinastia” della trasparenza ha sfornato sindaci-contro. Ultimo esponente Carla Mattioli, nel 2005 in prima linea sulle barricate della storica rivolta pacifica che costrinse il governo a sospendere il progetto Torino-Lione, rivelando all’Italia la profetica “resistenza” della valle di Susa, avamposto della Grande Crisi.
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Rivoluzione all’Onu: basta carcere, legalizziamo la droga
“Legalize it”, cantava il grande Bob Marley. E adesso, tanti anni dopo, a dargli ragione è addirittura l’Onu. Fine della repressione: cinquant’anni di guerra alla droga hanno fallito e non resta che prenderne atto. Meglio dire basta alla criminalizzazione e trattare l’emergenza mondiale per quello che è: una questione sanitaria. Via d’uscita: legalizzare il commercio delle sostanze stupefacenti, a partire dalla cannabis. Firmato: l’ex presidente dell’Onu, Kofi Annan, uno dei responsabili dell’inutile crociata mondiale contro le droghe. Con lui ora si schierano i grandi della politica, dell’economia e della cultura: Ferdinando Cardoso, George Schultz, George Papandreu, Paul Volcker, Mario Vargas Llosa. Il nuovo slogan: “Trattare i tossicodipendenti come pazienti e non come criminali”. I criminali, quelli veri, fanno della droga – proibita – un business planetario, che sta mettendo in ginocchio interi Stati, dal Messico al Kosovo, con i “narcos” che ormai entrano nella finanza e fanno politica.
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Attenti alla mafia: ha già in mano le chiavi del mondo
Scordatevi la mafia dei brutti ceffi, quella che campava di estorsioni e droga: oggi è un sistema criminale misto, legale e illegale, che solo in Italia “vale” qualcosa come 60 miliardi di euro, coinvolgendo imprese, banche, finanza e pubblica amministrazione. Se non si interviene con nuove leggi internazionali, domani a dettare le regole della politica mondiale potranno essere la mafia russa o quella cinese, in affari con gli eredi ormai evolutissimi degli antichi capiscuola italiani, che ora dirigono fiorenti aziende, pilotano deputati e manovrano colletti bianchi. Un’emergenza planetaria: la mafia investe e inquina l’economia globalizzata. E’ la nuova vera superpotenza. Un virus, con migliaia di complici al di sopra di ogni sospetto.
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Bufera sul Kosovo: traffico d’organi, 470 scomparsi
Predatori di organi, espiantati dal corpo di prigionieri serbi. L’accusa coinvolge l’attuale premier kosovaro Hashim Thaci, già leader dell’Uck, ora sospettato di essere un gangster travestito da politico. All’indomani delle prime elezioni legislative del Kosovo indipendente, divenuto area-rifugio per cartelli criminali, una bomba a orolgeria si infrange sulla già contestatissima vittoria del riconfermato Thaci, accusato dal dossier che il deputato svizzero Dick Marty presentarà al Consiglio d’Europa sul presunto traffico di organi a danno di quasi 500 prigionieri di guerra. Nell’estate 1999, terminato il conflitto serbo-kosovaro, l’Uck avrebbe fatto sparire prigionieri in una località segreta nel nord dell’Albania espiantandone gli organi, dopo averli sottoposti a «trattamenti inumani e degradanti».
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Organizzare il coraggio: l’amara lezione di Pino Màsciari
Aveva un lavoro, una casa, la sua terra. A nemmeno trent’anni era già un imprenditore affermato, nel ramo edilizio. Fatturati alle stelle, più di 200 dipendenti, un avvenire florido. Poi, l’inizio della maledizione: il racket del “pizzo”. «Ho sempre dato lavoro a tutti, fatto lavorare anche altre aziende nei miei cantieri. Ma il pizzo, no». Non solo non l’ha pagato, ma ai “picciotti” ha risposto a muso duro: «Io vi denuncio, vi mando in galera». Piccolo dettaglio geografico: tutto questo è avvenuto in Calabria. I “picciotti” erano affiliati alla ‘ndrangheta, e l’imprenditore da quel giorno ha praticamente smesso di vivere. Non è stato ucciso: è stato fatto scomparire. Non dalla mafia calabrese, ma dallo Stato. “Testimone d’ingiustizia”, lo ha ribattezzato lo storico Nicola Tranfaglia.