Archivio del Tag ‘nazioni’
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Avidi, stupidi e bugiardi: stiamo perdendo anche gli oceani
Sono un ammiratore delle inchieste di Dahr Jamail. Nell’articolo “Oceani in crisi”, Jamail ci dice che stiamo perdendo gli oceani. Parla della distruzione degli oceani da parte dell’uomo. È una distruzione reale, con conseguenze ad ampio spettro. Il fatto è inequivocabile. Dal mio punto di vista la distruzione degli oceani da parte dell’uomo è un ulteriore sintomo della natura rovinosa del capitalismo privato. Nel capitalismo non c’è alcun pensiero volto al futuro del pianeta e dell’umanità, solo per i bonus e i profitti a breve termine. Di conseguenza i costi sociali sono ignorati. Il capitalismo può funzionare se i costi sociali ed esterni possono essere inclusi nei costi di produzione. Però le compagnie più potenti possono bloccare un capitalismo socialmente funzionante grazie ai loro contributi alle campagne politiche. Di conseguenza, sono i capitalisti stessi a fare del capitalismo un sistema disfunzionale. Potremmo aver raggiunto il punto in cui i costi esterni di produzione sono maggiori del valore del tornaconto capitalista. L’economista Herman Daly ha fatto un caso studio su questo punto.Mentre i potenti capitalisti usano l’ambiente per se stessi come una discarica gratuita, i costi accumulati minacciano la vita di tutti. Sembra che nulla possa essere fatto, poichè gli oceani sono “proprietà comune”. Nessuno ne è proprietario, per cui nessuno può proteggere la loro integrità ed il loro contenuto. Ci stiamo confrontando con la forza più distruttiva della storia: la miopia dell’umanità. L’uomo vuole distruggere l’ambiente in cui vive, le leggi che lo regolano, le verità che lo sostengono. Senza dubbio l’uomo è disposto a distruggere tutto ciò che garantisce la vita in cambio di incrementare i propri introiti nel trimestre o nell’anno successivo. Ho un amico che mi diverte raccontandomi storie su come l’essere umano sia un alieno sul pianeta terra, esiliato qui da un governo intergalattico che involontariamente si è sbarazzato dei rifiuti su un pianeta brulicante di vita. Gli inumani, non gli umani, sono stati impegnatissimi fin dal principio a sterminare una dopo l’altra le altre specie e la vita sul pianeta stesso.Nel mondo occidentale la verità sta morendo. I soldi delle aziende e dei governi hanno comprato molti scienziati, così come i media ed i politici. Gli scienziati indipendenti che restano incontrano grandissime difficoltà ad ottenere fondi per le loro ricerche, ma quelli prezzolati ne hanno di illimitati per corroborare le loro bugie. Gli scienziati, come i giornalisti, migliorano la loro posizione mentendo per l’establishment. Quelli che dicono la verità e le talpe sono definiti “estremisti domestici”, “terroristi” e sono sotto stretta sorveglianza. Alcuni sono stati arrestati con il sospetto che avrebbero potuto commettere un crimine in futuro. Qui negli Usa abbiamo la strategia di Jeremy Bentham di arrestare i “sospetti” prima che commettano un crimine sulla base del fatto che possano commetterlo in futuro. Il tutto mentre i governi di Usa e Gran Bretagna, Australia e Canada stanno compiendo crimini efferati contro altre nazioni nel mondo, in cui le popolazioni, come quelle di Iraq, Libia, Siria, Afghanistan, Palestina, Somalia, Yemen, Pakistan, Ucraina, non contano nulla. Queste persone sono sacrificabili, mediocri, come i vietnamiti, laotiani, Cherokee, Sioux, Apache, etc. Queste persone non contano. Siamo noi statunitensi a contare. Noi siamo “eccezionali”. Noi siamo “indispensabili”.(Paul Craig Roberts, “La distruzione degli oceani”, dal blog di Craig Roberts del 1° aprile 2015, ripreso da “Come Don Chisciotte”).Sono un ammiratore delle inchieste di Dahr Jamail. Nell’articolo “Oceani in crisi”, Jamail ci dice che stiamo perdendo gli oceani. Parla della distruzione degli oceani da parte dell’uomo. È una distruzione reale, con conseguenze ad ampio spettro. Il fatto è inequivocabile. Dal mio punto di vista la distruzione degli oceani da parte dell’uomo è un ulteriore sintomo della natura rovinosa del capitalismo privato. Nel capitalismo non c’è alcun pensiero volto al futuro del pianeta e dell’umanità, solo per i bonus e i profitti a breve termine. Di conseguenza i costi sociali sono ignorati. Il capitalismo può funzionare se i costi sociali ed esterni possono essere inclusi nei costi di produzione. Però le compagnie più potenti possono bloccare un capitalismo socialmente funzionante grazie ai loro contributi alle campagne politiche. Di conseguenza, sono i capitalisti stessi a fare del capitalismo un sistema disfunzionale. Potremmo aver raggiunto il punto in cui i costi esterni di produzione sono maggiori del valore del tornaconto capitalista. L’economista Herman Daly ha fatto un caso studio su questo punto.
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Rella: guerra alla memoria, per dominarci definitivamente
Benjamin ha scritto che ogni documento di cultura è anche un documento di barbarie. Una passeggiata nei Fori Imperiali a Roma ne è una straordinaria illustrazione. Certo, con il passare del tempo il monumento, eretto per celebrare una vittoria, e di converso una sconfitta, si allontana dall’occasione che lo ha generato. Non testimonia più un potere attuale, ma piuttosto l’opera del tempo che si deposita su di esso, lo modifica, spesso lo risignifica. Accanto al Monumentum, vale a dire a ciò che deve essere ricordato, c’è la damnatio memoriae, ciò che deve essere dimenticato. Dall’antichità ai nostri giorni la gestione della memoria e la gestione dell’oblio sono state strumenti politici, strumenti di potere. Nella distruzione dei monumenti di Mosul c’è però qualcosa che va oltre la damnatio memoriae. È una operazione di barbarie, ma di barbarie ultramoderna, addirittura postmoderna. I capolavori a cui l’uomo dovrebbe legare la sua memoria o addirittura la sua identità vengono spostati di qui e di là scopi turistici ed economici, o addirittura promozionali, o propagandistici, come lo sono le distruzioni di Mosul.Su Botticelli all’Expo non caleranno magli e martelli, ma orde di turisti a decretarne la sostanziale insignificanza culturale. Ancora una volta la barbarie dell’Isis è ultramoderna, spettacolare, cinematografica, o meglio da serie Tv. Ha scritto Arjun Appadurai che nel periodo della globalizzazione si sono moltiplicati episodi di violenza immane, che è penetrata con ferocia chirurgica all’interno dei corpi, dilaniandone le carni. Dalla Bosnia negli anni Novanta del secolo scorso, al Ruanda, e via via fino agli orrori attuali è stata una catena di delitti, una striscia ininterrotta di sangue. L’Isis è andato oltre. Ha massacrato centinaia e migliaia di persone, ma ha spettacolarizzato la singolarità. Una vittima, un coltello, un carnefice, un corpo senza testa. È una gestione sapiente dell’orrore. Si pensi come l’uccisione con una lama implichi un rapporto diretto, inequivocabile, carnale, tra i corpi della vittima e del carnefice.Bush è colpevole di molte cose. Già Bush padre con la Guerra del Golfo aveva trasformato, come aveva scritto Asor Rosa, un piccola guerra locale in una guerra mondiale: una guerra senza conflitto effettivo, una guerra dell’epoca della globalizzazione. Bush figlio ha proseguito. Ma non solo lui. Tutto l’Occidente si è trovato – dopo l’Iraq e dopo l’Afghanistan – a gestire conflitti per delega, anche quando, come in Libia, c’è stato intervento diretto. E ovunque ha lasciato dietro di sé caos e violenza. Oggi c’è chi chiede un intervento di polizia internazionale contro l’Isis. I pacifisti ironizzano sull’elmetto indossato dai fautori dell’intervento. Ora, al di là del pericolo paventato dall’Occidente, assistiamo a veri e propri etnocidi: intere tribù e intere popolazioni eliminate per il loro credo religioso o per la loro etnia. Era giusto intervenire contro Hitler e cercare di fermare l’Olocausto? Non era forse giusto magari intervenire anche prima?Il potere strega, affascina: chi lo esercita e chi lo subisce. Penso all’immane sforzo di Pier Paolo Pasolini per fronteggiare il potere in “Petrolio”, facendo stuprare il suo personaggio, trasformandolo in donna, sgretolando la forma stessa del romanzo, per concludere che anche organizzando il mondo in un’opera d’arte si esercita una forma di potere. Penso a Kafka che, come dice Canetti, ha combattuto il potere in tutte le sue forme, per riconoscere nelle lettere alla fidanzata, Felice, che egli era bensì, come lei, vittima, ma al tempo stesso era anche carnefice. Dunque esercitiamo sempre una qualche forma di potere, e sempre in qualche forma lo subiamo. Si tratta di essere costantemente vigili. Non piegarsi ad esso, riconoscerlo, resistere alla sua seduzione. Direi che la conoscenza è ormai così diffusa che rischia di diventare un rumore di fondo, di ottundere la nostra percezione dei conflitti e della loro durezza. Diventa perfino difficile, nell’iterazione degli omicidi dell’Isis, convincerci che quello che vediamo è sangue vero. Ho parlato della gestione del tempo e della memoria come un atto di potere e di dominio. Qual è il potere che gestisce oggi l’immane memoria della rete? A quale fine?Posso citare i nomi dei proprietari di Google, di Amazon, di Facebook. Non mi dicono nulla. Questa è l’epoca in cui uno dei più formidabili strumenti di potere della storia dell’umanità scivola nell’anonimato, si fa oscuro e indecifrabile. Si fa neutro. proprio come le operazioni di Borsa computerizzate che distruggono l’economia di una nazione, o creano profitti scandalosamente osceni per i singoli. Inoltre la rete spinge a vivere il tempo in istanti submicroscopici, tempi segmentati fatti solo di “ora”: da un’“ora” a un’altra “ora”, senza che questo tempo possa diventare una memoria individuale. Mi chiedo se non sia in atto un processo di desoggettivazione, in quanto il soggetto può dirsi tale soltanto se in possesso di una propria memoria e di un proprio tempo. La damnatio sarebbe in questo caso la cancellazione della memoria individuale. Foucault concludeva il suo ultimo seminario invitando alla “cura di sé”, a costruirsi come soggetti e a mantenersi soggetti. Foucault sapeva come questo processo di soggettivazione fosse sempre a rischio.(Franco Rella, dichiarazioni rilasciate a Monica Pepe per l’intervista “Morte della civiltà?” pubblicato da “ZeroViolenza” il 9 aprile 2015. Filosofo e saggista, Rella ha insegnato estetica allo Iuav di Venezia. È autore di saggi su arte, letteratura e filosofia, come “L’enigma della bellezza”, “La responsabilità del pensiero”, “Interstizi. Tra arte e filosofia”, “Ai confini del corpo”, “Forme del sapere. L’eros, la morte, la violenza” e “Figure del tempo”, introduzione al secondo volume dell’Enciclopedia delle Arti Contemporanee, a cura di Achille Bonito Oliva).Benjamin ha scritto che ogni documento di cultura è anche un documento di barbarie. Una passeggiata nei Fori Imperiali a Roma ne è una straordinaria illustrazione. Certo, con il passare del tempo il monumento, eretto per celebrare una vittoria, e di converso una sconfitta, si allontana dall’occasione che lo ha generato. Non testimonia più un potere attuale, ma piuttosto l’opera del tempo che si deposita su di esso, lo modifica, spesso lo risignifica. Accanto al Monumentum, vale a dire a ciò che deve essere ricordato, c’è la damnatio memoriae, ciò che deve essere dimenticato. Dall’antichità ai nostri giorni la gestione della memoria e la gestione dell’oblio sono state strumenti politici, strumenti di potere. Nella distruzione dei monumenti di Mosul c’è però qualcosa che va oltre la damnatio memoriae. È una operazione di barbarie, ma di barbarie ultramoderna, addirittura postmoderna. I capolavori a cui l’uomo dovrebbe legare la sua memoria o addirittura la sua identità vengono spostati di qui e di là scopi turistici ed economici, o addirittura promozionali, o propagandistici, come lo sono le distruzioni di Mosul.
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Barnard: come asfaltare chi osa negare i crimini di Israele
Quando, il 22 luglio 1946, il terrorismo sionista fece esplodere l’hotel King David di Gerusalemme che ospitava il quartier generale britannico uccidendo 86 funzionari e 5 passanti, e mandando all’ospedale altre 58 persone, Winston Churchill dichiarò testualmente: «Se i nostri sforzi per il futuro del sionismo devono produrre un nuovo gruppo di delinquenti degni della Germania nazista, molti come me dovranno riconsiderare le posizioni tenute così a lungo». Nella stessa epoca, 1948, Albert Einstein e Hannah Arendt scrissero di loro pugno sul “New York Times” una protesta veemente contro la brutale ferocia sionista verso i palestinesi, definendola «simile, in organizzazione e metodi, ai partiti nazisti e fascisti». Lo stesso anno, fu addirittura un ministro del primo governo dello Stato d’Israele, Aharon Cizling, a dichiarare: «Adesso anche gli ebrei si sono comportati come i nazisti, e io sono sotto shock». Parole che tutti dovrebbero ricordare sempre, sottolinea Paolo Barnard, autore di uno studio – basato su prove e documenti storici – che accerta le spaventose e sistematiche atrocità (preventive) commesse da Israele contro i palestinesi.E’ sempre Israle che sferra il primo colpo, e si tratta di un colpo mortale: pulizia etnica, aggressioni terroristiche, omicidi, campagne militari, stragi, stupri di massa, persecuzioni di ogni genere. Tramortiti da tanta violenza, i palestinesi impiegarono oltre 50 anni a reagire, portando il loro caso di fronte alle Nazioni Unite. Tutto inutile, però: Israele continua a uccidere, e il mainstream lo dipinge regolarmente come vittima della storia e della violenza araba. Una montagna sanguinosa di mistificazioni, che Barnard prova a demolire pubblicando il mini-saggio “Come ‘asfaltare’ chi difende Israele con 10 autorevoli risposte”. Fonti: libri di storia di ogni provenienza, relazioni di organi internazionali, documenti ufficiali di governi occidentali. Autore di libri scomodi come “Perché ci odiano”, che indaga le reali cause della (recente) ostilità del mondo islamico verso l’Occidente imperialista, Barnard definisce questo nuovo studio una «guida imbattibile per distruggere uno per uno gli argomenti usati dai personaggi mediatici asserviti alla menzogna quando difendono il terrorismo d’Israele e il genocidio dei palestinesi».Premessa: «Anti-sionismo non significa antisemitismo. Sionisti = élite ebrea criminale genocida dominante in Palestina dall’800 a oggi. Semiti sono i normali ebrei e palestinesi, d’Israele, della Palestina o del mondo. Solo gli ignoranti, o i falsari amici dei sionisti, spacciano un anti-sionista per antisemita». Primo luogo comune: “Sono gli arabi ad aver sempre attaccato gli ebrei emigrati in Palestina per sfuggire alle persecuzioni europee”. Falso: «Menzogna storica totale. Per tutto il XIX secolo e oltre, i palestinesi accolsero l’emigrazione ebraica europea con favore, amicizia ed entusiasmo. Al punto che le massime autorità religiose ebraiche d’Europa lo testimoniarono». Lo disse il 16 luglio del 1947 l’eminente rabbino Yosef Tzvi Dushinsky, alle Nazioni Unite: prima del sionismo, «non vi fu mai un momento, nell’immigrazione degli ebrei ortodossi europei in Palestina, nel quale gli arabi abbiano opposto resistenza alcuna. Al contrario, quegli ebrei erano i benvenuti per via dei benefici economici e del progresso che ricadevano sugli abitanti locali, che mai temettero di essere sottomessi. Era risaputo che quegli ebrei giungevano solo per motivi religiosi e non ebbero difficoltà a stabilire rapporti di fiducia e di vera amicizia con le comunità locali».Vent’anni prima, si esprimeva nello stesso modo un altro rabbino di grande fama, Baruch Kaplan, già a capo della “Beis Yaakov Girls School” di Brooklyn, in giovinezza attivo nella Yeshiva (scuola religiosa) di Hebron. «Gli arabi – dichiarò Kaplan – furono sempre assai amichevoli, e noi ebrei condividemmo la vita con loro a Hebron secondo relazioni di buona amicizia». Lo stesso religioso riferì che il rabbino polacco Avraham Mordechai Alter aveva compiuto una ricognizione in Palestina per «capire che tipo di persone erano i palestinesi, così da poter poi dire alla sua gente se andarci o no». In una lettera, «scrisse che gli arabi erano un popolo amichevole e assai apprezzabile». Lo conferma la Commissione Shaw del governo inglese, a proposito delle violenze fra arabi e sionisti nel 1929: «Prima della Grande Guerra (1915-18) gli arabi e gli ebrei vivevano fianco a fianco, se non in amicizia, almeno con tolleranza». Negli 80 anni precedenti, cioè in epoca precedente al fenomeno sionista, «non ci sono memorie di scontri violenti fra i due popoli». Due popoli? Secondo la vulgata sionista, non esisteva un vero popolo Si trattava di “tribù sparse”, con “pochi individui che vivevano sulle terre bibliche”. Un leader storico del movimento sionista europeo, Israel Zangwill, dichiarò a inizio secolo che «la Palestina è una terra senza popolo», al contrario degli ebrei, «popolo senza terra». Una menzogna, scrive Barnard, smentita di nuovo dall’interno dello stesso movimento sionista europeo, che iniziò la colonizzazione su larga scala della Palestina alla fine del XIX secolo.Al 7° congresso sionista del 1905, un leader di nome Yitzhak Epstein si alzò e lasciò agli atti questa frase: «Diciamoci la verità. Esiste nella nostra cara terra d’Israele un’intera nazione palestinese, che vi ha vissuto per secoli, e che non ha mai pensato di abbandonarla». La narrazione filo-sionista condanna chi considera colonialisti gli israeliani? Peccato, perché «il movimento sionista europeo nacque razzista, violento e prevaricatore (come è oggi). All’arrivo in Palestina trattarono subito i palestinesi come bestie, perché li consideravano poco più che bestie. Furono i sionisti a iniziare violenze e atrocità contro i palestinesi pacifici». A inizio ‘900, in uno scambio fra un fondatore del movimento sionista ebreo europeo, Chaim Weizmann (che sarà il primo presidente d’Israele nel 1948) e gli allora padroni coloniali inglesi, si legge: «Gli inglesi ci hanno detto che in Palestina ci sono qualche migliaio di negri (“kushim”), che non valgono nulla». Parole inequivocabili, e indelebili. Il più celebre umanista sionista della storia, Ahad Ha’am, lanciò un allarme contro la violazione dei diritti dei palestinesi da parte dei sionisti: gli ex “servi nelle terre della Diaspora” «d’improvviso si trovano con una libertà senza limiti, e questo cambiamento ha risvegliato in loro un’inclinazione al dispotismo».«Essi – continua Ha’am – trattano gli arabi con ostilità e crudeltà, gli negano i diritti, li offendono senza motivo, e persino si vantano di questi atti. E nessuno fra di noi si oppone a queste tendenze ignobili e pericolose». Era il 1891, osserva Barnard, mezzo secolo prima di Hitler: già allora il razzismo e la violenza sionista faceva questo a palestinesi innocenti. «Per quasi 50 anni prima dell’Olocausto – continua Barnard – i sionisti che emigravano in Palestina aggredirono i palestinesi e programmarono nei dettagli la pulizia etnica della Palestina, con metodi feroci e terroristici. Ripeto: 50 anni prima di Hitler». Il padre del movimento sionista, Theodor Herzl, aveva dichiarato: «Tenteremo di sospingere la popolazione (palestinese) in miseria oltre le frontiere, procurandogli impieghi nelle nazioni di transito, mentre gli negheremo qualsiasi lavoro sulla nostra terra… Sia il processo di espropriazione che l’espulsione dei poveri devono essere condotti con discrezione e di nascosto». Un’altra personalità sionista di fine ‘800, Leo Motzkin, sancì: «La colonizzazione della Palestina si fa colonizzando tutta l’Israele biblica, e deportando i palestinesi da altre parti».E’ quindi ovvio che il destino di pulizia etnica del palestinesi fu progettato 50 anni prima della Shoah. E anche nelle decadi successive alla fine ‘800, «il razzismo e la pulizia etnica contro i palestinesi rimasero priorità», per lo Stato ebraico. Alla fine degli anni ’30, ricorda Barnard, «il leader sionista Yossef Weitz aveva anticipato gli infami protocolli nazisti di Wannsee (che, fra le altre cose, listavano gli ebrei d’Europa da deportare) scrivendo i ‘Registri dei Villaggi’ dove si indicavano tutte le famiglie palestinesi da cacciare a forza». Peggio: «Addirittura Ephraim Katzir (che diventerà presidente di Israele, pensate) arrivò a lavorare in laboratorio per trovare un veleno per accecare i palestinesi». Il leader storico sionista, David Ben Gurion, aveva redatto il Piano Dalet per la completa pulizia etnica della Palestina ben prima dell’arrivo in Palestina dei profughi dai campi di sterminio tedeschi. Nel suo stesso diario, Ben Gurion scrisse cose atroci su come colpire i palestinesi innocenti: «Dobbiamo essere precisi su coloro che colpiamo. Se accusiamo una famiglia palestinese non c’è bisogno di distinguere fra colpevoli e innocenti. Dobbiamo fargli del male senza pietà, altrimenti non sarebbe un’azione efficace».E allora, l’aggressione araba contro gli ebrei del 1948? “Tutte le nazioni arabe attorno alla Palestina – dice il mainstream sionista – tentarono di sterminare gli ebrei, che per fortuna vinsero quella guerra, se no sarebbe stato un altro Olocausto!”. Infatti, i leader arabi “incitarono via radio i palestinesi ad abbandonare i loro villaggi per permettere lo sterminio degli ebrei!”. Per questo, “i palestinesi se ne andarono volontariamente”. «Menzogna completa», protesta Barnard. Intanto, allo scoppio della guerra arabo-ebraica del 1948, gli ebrei sionisti avevano già inflitto 50 anni di atrocità, pulizia etnica e stragi ai civili palestinesi, «per cui la reazione araba aveva una giustificazione pluri-decennale». Ma la tanto millantata guerra del 1948 fu «una messa in scena totale, una vera bufala già organizzata affinché i sionisti vincessero, grazie ad accordi segreti fra Ben Gurion e il Re arabo della Transgiordania, Abdullah». La “guerra bufala”, la chiamò nelle sue memorie il comandante delle truppe arabe, l’ufficiale arabo-inglese Glubb Pasha.Il re Abdullah e Ben Gurion finsero di combattersi per poi spartirsi la Palestina. Le altre truppe arabe non potevano impensierire Israele: «Gli egiziani erano per la metà Fratelli Musulmani con le ciabatte ai piedi, i libanesi non combatterono mai, i siriani erano armati ma erano quattro gatti, e gli iracheni erano sotto gli ordini del traditore Abdullah, per cui fecero nulla». Infatti, dai diari di Ben Gurion, risulta che in piena guerra del ’48 raccomandò al suo esercito: «Tenete il meglio delle truppe per la pulizia etnica della Palestina, secondo il Piano Dalet». Quanto alle “trasmissioni radio” dei leader arabi per incitare i palestinesi ad abbandonare la regione, si tratta di un falso storico sonoramente smentito dalla Bbc, che monitorò l’intera massa di comunicazioni circolate in Medio Oriente nel 1948. Tutte le trascrizioni sono custodite al British Museum di Londra: in esse, scrive Barnard, non vi è traccia di un singolo ordine di evacuazione da parte di alcuna radio araba dentro o fuori dalla Palestina.Al contrario, si possono leggere gli appelli ai civili palestinesi affinché rimanessero a presidiare le loro case. E lo si può ben capire: nel 1948, alla vigilia della guerra “fondativa” del mito dell’invincibilità militare di Davide che si batte per difendersi dal gigante Golia, «la pulizia etnica sionista aveva già espulso 750.000 palestinesi, tutti civili». Ma la menzogna è tenace, si replica puntualmente con la Guerra dei Sei Giorni del 1967, quando gli arabi “tentarono di sterminare gli israeliani”, i quali “in una prova di eroismo militare riuscirono ad evitare un altro Olocausto”. «Questa versione è una farsa, distrutta vergognosamente dai documenti segreti del governo americano e della Cia», annota Barnard. «Non solo gli israeliani non corsero alcun reale pericolo nella cosiddetta Guerra dei Sei Giorni, ma gli arabi tentarono di tutto per non combattere, e furono ignorati da Tel Aviv e dagli Usa. Il governo israeliano invece terrorizzò la popolazione ebraica in quell’occasione, sapendo perfettamente che avrebbe attaccato per primo e avrebbe stravinto».Lo rivelano i documenti americani “declassificati” nel 2005: fu Israele ad aggredire gli arabi, non il contrario. La Cia sapeva che Israele avrebbe annientato gli arabi. Il 3 giugno 1967, al Pentagono, il ministro della difesa statunitense Robert McNamara incontrò il capo del Mossad, Meir Amit. «Quanto durerà questa guerra?», gli chiese. «Durerà sette giorni», rispose il capo dell’intelligence israeliana. Tutto questo mentre il presidente egiziano Nasser, teoricamente nemico di Israele, «disperatamente tentava i contatti con gli inglesi e con gli americani per evitare la guerra», inviando a Washington il suo ministro degli esteri Zakariya Mohieddin per cercare di mediare la pace. «Mentre Mohieddin sta per partire per l’America, gli israeliani attaccano l’Egitto e distruggono l’esercito egiziano».Il premier israeliano Menahem Begin, molti anni dopo confessò tutto: l’aggressione araba era una ‘bufala’. Fu Israele ad aggredire, disse al “New York Times”: «Nel giugno del 1967 di nuovo affrontammo una scelta. Le armate egiziane nel Sinai non erano per nulla la prova che Nasser ci stesse attaccando. Dobbiamo essere onesti con noi stessi. Noi decidemmo di attaccare lui». Questa, conclude Barnard, è un’altra grande bugia che ci hanno raccontato, ed è un modello della storiografia su Israele: «Ci raccontano sempre questa cosa, che Israele è la vittima, che sta per soccombere agli arabi cattivi, mentre la realtà è esattamente diametralmente l’opposto». Perché tante menzogne? Semplice: «L’élite bellica sionista-israeliana ha bisogno delle finte aggressioni arabe, ha bisogno dei pericoli, ha bisogno della minaccia inventata o gonfiata per mantenersi al potere».Per questo, aggiunge Barnard, l’élite israeliana ha così tanta paura della pace, e lavora da sempre – anche all’Onu – per sabotarla in ogni modo, a partire dalla storica risoluzione 181 del 1947. «La leadership sionista visse, e sopravvive oggi, solo grazie alla strategia della tensione che loro creano provocando violenze, proprie o palestinesi, continue». Se la leadership sionista accettasse la pace, continua Barnard, «dovrebbe confrontarsi con un paese, Israele, che essa gestisce da cani». A quel punto, «gli israeliani li caccerebbero». Sono vittime del loro governo, debitamente disinformate. Come valutare, del resto, lo stesso piano di pace del 1947? Consegnava agli ebrei, minoranza assoluta, il 56% delle terre. Il Negev andava a Israele, benché abitato da 90.000 arabi e appena 600 ebrei, ai quali andava anche l’unico porto commerciale vitale, Haifa. Poi andava agli ebrei l’86% delle terre fertili, aranceti, ulivi. Ai palestinesi erano anche negati i confini con la Siria, dove vi sono le fonti di acqua. E Gerusalemme rimaneva “internazionale”, ma di fatto in mano ebraica. «Questa è la vergognosa realtà. Come potevano i palestinesi accettare?».Lord Alan Cunningham, l’ultimo Alto Commissario inglese in Palestina, scrisse a Ben Gurion nel marzo 1948: «I palestinesi sono calmi e ragionevoli, voi sionisti fate di tutto per provocare violenza». Il diplomatico americano Mark Ethridge, inviato alla conferenza di Pace di Losanna nel 1949, dichiarò furioso: «Se non siamo arrivati alla pace è primariamente colpa d’Israele». Nel 1971 il presidente egiziano Sadat aveva offerto la pace a Israele in cambio del suo Sinai illegalmente occupato. Tel Aviv reagì mandando Ariel Sharon a fare la pulizia etnica del Sinai, dove l’esercito israeliano fece orrende stragi condannate dall’Onu e causò la Guerra del Kippur, del 1973. Inoltre, «la criminosa invasione israeliana del Libano nel 1982 (19.000 morti civili arabi) fu causata non da minacce a Israele, ma dall’esatto contrario». Massima rivelazione dell’orrore, il massacro dei civili rifugiati nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, sterminati da miliziani su ordine dello stesso Sharon.La vera crisi, per Israele, è la pace: Tel Aviv andò in tilt nel 1982, di fronte alla clamorosa proposta di pace avanzata da Yasser Arafat. Il leader dell’Olp, futuro capo dell’Autorità Nazionale Palestinese, fece di tutto per fermare gli estremisti islamici. Lo ammise lo stesso capo dei servizi segreti ebraici Shab’ak, cioè Ami Ayalon, in una relazione al governo: «Arafat sta facendo un ottimo lavoro, si è lanciato anima e corpo contro i terroristi». La massima occasione per la pace? Fu l’incontro a Camp David nel luglio del 2000 fra Clinton, Arafat e il premier israeliano Ehud Barak. «La stampa mondiale riportò che fu Arafat a rifiutare la pace, ma è falso. Fu il contrario. Ai palestinesi non fu presentata alcuna proposta scritta, gli fu chiesto di cedere un 9% di terre, e di ricevere un misero 1%, gli fu negata ogni discussione sul ritorno dei profughi cacciati dalla pulizia etnica pre 1948 (come invece sancisce la Risoluzione Onu 194) e non gli fu concesso nulla su come dividersi Gerusalemme. Come poteva Arafat accettare?».E’ provato che, mentre Israele predicava la pace, in segreto pianificava altra pulizia etnica della Palestina, nonché l’uccisione di Arafat e la guerra ai civili. Sono stati scoperti 5 piani segreti della difesa israeliana a questo scopo, racconta Barnard: nel 1996 il piano “Field of Thorns”, nel 2000 il secondo piano “Field of Thorns”, nel 2001 il piano Dagan, nel luglio 2001 il piano di Shaul Mofaz chiamato “La Distruzione dell’Anp di Arafat”, che in quel momento collaborava con Tel Aviv, e nel 2002 il piano “Eitam” con gli stessi scopi. Nel 2003 gli Usa propongono la pace nel documento “The Road Map”, dove si parla anche di un “Israele che cessi ogni violenza contro i civili palestinesi”. I palestinesi l’accettarono e dichiararono il cessate il fuoco. Tel Aviv portò 14 emendamenti alla proposta americana e di fatto la distrusse. Ma non solo. Ariel Sharon intensificò gli assassinii di sospetti (ma non processati) membri di Hamas, ammazzandogli spesso anche mogli e bambini, ovviamente esacerbando le tensioni. Fine della “Road Map”.Stessa musica con i cessate il fuoco di Hamas, «praticamente sempre violati da Israele, al punto che nel 2006 in una conversazione segreta fra i leader di Hamas in Gaza e Damasco, si sente dire “Non abbiamo ricevuto nessun beneficio dal nostro cessate il fuoco di un intero anno, Israele continua la violenza contro i civili, e stiamo perdendo la reputazione coi civili palestinesi”». Nel famoso rapimento da parte di Hamas del soldato israeliano Gilad Shalit, viene omessa una verità scomoda, e cioè che «il giorno prima Israele aveva rapito due medici palestinesi senza alcun mandato legale, e li ha fatti sparire “incommunicado” (mai rilasciati né processati). La provocazione fu quindi israeliana». Eppure, in un articolo sul “Washington Post” del luglio 2006, il leader di Hamas Ismail Haniyeh riconobbe pienamente il diritto d’Israele di esistere, nonché il diritto alla pace fra «tutti i popoli semiti dell’area». Haniyeh lo fece «nonostante sapesse che quando Arafat riconobbe Israele nel 1993 non ottenne assolutamente nulla, solo violenza». Così, Tel Aviv ignorò anche l’offerta di Haniyeh.Nel 2007 gli Stati Uniti offrono la pace nel Trattato di Annapolis. Ma poiché il testo della Casa Bianca contiene la frase “cessare il terrorismo sia da parte palestinese che israeliana”, Israele boicottò tutto l’accordo. Fine del Trattato di Annapolis. Persino da dentro l’establishment militare d’Israele arriva l’ammissione che è Tel Aviv che boicotta la pace. L’ex capo del Mossad, Efraim Halevy, dicharò nel 2009: «Se Israele volesse veramente eliminare la minaccia dei razzi di Hamas», rudimentali aggeggi, «dovrebbe permettere ai civili di Gaza di sopravvivere consentendo loro di ricevere i beni vitali attraverso la frontiera con l’Egitto, non strangolarli alla fame. Questo garantirebbe la pace a Israele per decenni». Lo conferma Robert Pastor, docente all’American University, già inviato dell’ex presidente Usa Jimmy Carter nei Territori Occupati, cioè Cisgiordania e Gaza. Parole esplicite: è Israele che boicotta la pace. «Hamas – dice Pastor – aveva fermato il lancio dei razzi dal giugno al novembre 2008, ma Tel Aviv non solo rinnegò la promessa di allentare lo strangolamento dei civili di Gaza per cibo, medicinali, e acqua, ma bombardò un “tunnel della disperazione”, quelli che fanno passare poche cose dall’Egitto ai palestinesi. Comunicai chiaramente al governo israeliano che Hamas avrebbe esteso il cessate il fuoco se l’assedio di Gaza si fosse allentato, ma mi ignorarono totalmente».Scrive il mitico reporter d’inchiesta americano Seymour Hersh: «L’attacco a Gaza (2008) da parte d’Israele, e i massacri conseguenti, vennero guarda caso quando il governo turco era riuscito a mediare con diplomatici di Tel Aviv un accordo completo per il ritiro israeliano dal Golan occupato illegalmente da Israele. Ma è ovvio che l’assalto a Gaza distrusse tutta la mediazione. Non fu una coincidenza». Lo sostiene anche l’“Huffington Post”: «Il cessate il fuoco di Hamas del 2008 reggeva benissimo. Fu Israele a uccidere per primo, il 4 novembre. Poi sempre un raid aereo israeliano uccise altri 6 palestinesi, nonostante il cessate il fuoco. Abbiamo fatto un seria ricerca su chi, fra Israele e Hamas, ha rotto più volte il cessate il fuoco in quasi 10 anni, con l’aiuto dell’organizzazione israeliana B’Tselem. E’ indubbiamente Israele che uccide per primo durante un cessate il fuoco, nel 78% dei casi precisamente. Hamas ha violato le tregue solo nell’8% dei casi. Ma se parliamo di tregue lunghe più di 9 giorni, Israele le ha violate per primo nel 100% dei casi».Come si può affermare di fronte a queste prove che sono i palestinesi a rifiutare la pace? A spezzare le tregue? E’ l’esatto contrario, protesta Barbnard. «Questo, senza dimenticare che anche in tempi di cessate il fuoco, Israele continua la sua politica di pulizia etnica palestinese e di violenze gratuite e distruttive contro i villaggi palestinesi, contro il loro diritto di nutrirsi, con rapimenti di minori che spariscono “incommunicado”, torture di prigionieri senza processo e senza tutele legali». Nonostante ciò, la narrazione filo-sionista ha il coraggio di ripetere che “Israele è l’unico Stato democratico della zona”, e quindi “è vergognoso chiamarlo Stato razzista”. In realtà, proprio il razzismo «fu ed è la linfa vitale di tutto il movimento sionista: oggi Israele è l’unico Stato moderno che mantiene un sistema di apartheid feroce contro i palestinesi, talmente rivoltante da essere stato condannato in tutto il mondo». La democrazia in Israele? «Riguarda solo la popolazione ebraica, e neppure tutta».Pochi sanno che le leggi emanate nei decenni dal Jewish National Fund sulle terre di Palestina, da loro occupate attraverso la pulizia etnica, sanciscono che tali terreni sono riservati al 90 agli ebrei; ai palestinesi è proibito affittare o comprare quei terreni che una volta erano loro, prima della colonizzazione sionista. Nel 2003 l’Istituto Israeliano per la Democrazia fece un sondaggio fra gli ebrei israeliani che diede questi risultati: il 53% sostenne che i palestinesi non avevano diritto all’eguaglianza civica con gli ebrei, e il 57% disse che andavano semplicemente cacciati a forza. Il Comitato dell’Onu sui diritti economici, sociali e culturali ha denunciato in termini tragici la mancanza di democrazia in Israele: anche i cittadini israeliani di origine araba sono esclusi dalla residenza nel 93% delle terre; sono esclusi dalla maggior parte dei sindacati, dei servizi pubblici come acqua, elettricità, alloggi, sanità, e sono relegati alle scuole peggiori. I loro salari sono sempre inferiori a quelli degli ebrei. Infine, dice il rapporto dell’Onu, il trattamento da parte israeliana dei beduini è al limite dei crimini contro l’umanità. Bella democrazia, no?«Non c’è Stato ebraico senza la cacciata dei palestinesi e l’espropriazione della loro terra», schiarì Sharon. Razzismo, apartheid. Lo disse anche un famoso giurista sudafricano, John Dugard, esperto di segregazione razziale, inviato dalle Nazioni Unite in Israele e Territori Occupati. Dugard consegnò all’Onu le seguenti parole: «Le leggi e le azioni d’Israele nei Territori Occupati (illegalmente), certamente rispecchiano parti dell’apartheid sudafricana. Si può forse negare che lo scopo di tali azioni e di tali leggi è di mantenere il dominio di una razza (ebrei) su un’altra razza (palestinesi), per schiacciarli sistematicamente?». La democrazia israeliana, inoltre, tollera fra i partiti dell’arco costituzionale il “National Union Party”, che chiede apertamente la distruzione della popolazione palestinese e nega ai palestinesi il diritto di esistere. «Israele – scrive Barnard – è l’unico Stato al mondo dove nel 1995 il governo ha introdotto il concetto di “gruppi di popolazione”, distinguendo il gruppo “ebrei e altri” dal gruppo “arabi”. Il primo comprende ebrei e cristiani non arabi, il secondo musulmani e arabi cristiani. L’unico altro Stato al mondo che aveva questa distinzione settaria era il Rwanda».E c’è di peggio: una rappresentante del partito israeliano “Jewish Home”, la giovane Ayelet Shaked, insieme all’accademico israeliano Mordechai Kedar dell’università di Bar Ilan, ha scritto che le famiglie, cioè bambini, mogli e nonni dei “terroristi” di Hamas «vanno sterminate», e che le loro sorelle e madri «vanno stuprate», dopo 80 anni di orrori ebraici contro quelle famiglie, quelle madri e quelle sorelle. E’ esplicito il professor Joel Beinin, docente di storia alla Stanford University, negli Usa: ha intitolato un suo saggio “Il razzismo è il pilastro dell’operazione Protective Edge di Israele”. Davide e Golia? Sì, ma bisogna invertire le parti:«Il primo attacco suicida palestinese contro Israele è dell’aprile 1994 ad Afula, esattamente dopo un secolo di terrore e di crimini sionisti-israeliani contro i civili palestinesi», chiosa Barnard, che nel suo dossier documenta in modo millimetrico lo sterminato bilancio dell’orrore israeliano. «Uno dei più gravi atti terroristici commessi dal regime di Tel Aviv, in violazione di ogni norma morale e di legalità internazionale, è l’indiscriminato attacco armato agli operatori medici e paramedici che vanno in soccorso ai civili e ai militari palestinesi feriti o uccisi durante gli scontri».Anche questa indicibile pratica è documentata oltre ogni dubbio. «Le Forze di Difesa Israeliane hanno sparato sui veicoli che tentavano di raggiungere gli ospedali, con conseguenti morti e feriti. Medici e personale paramedico sono stati uccisi da colpi di arma da fuoco mentre viaggiavano sulle ambulanze, in chiara violazione della legalità internazionale». Da anni Israele sferra attacchi mostruosi su Gaza, sterminando i civili, col pretesto di difendersi dai rudimentali razzi di Hamas, sparati per disperazione. In 14 anni, i razzi Kassam hanno ucciso dai 33 ai 50 civili israeliani, mentre in soli 6 anni Israele ha assassinato un totale di 2.221 civili palestinesi di Gaza, donne e bambini. Norman Finkelstein, ebreo americano e professore di scienze politiche, aggiunge un dettaglio agghiacciante: «Per reprimere la resistenza palestinese, un ufficiale israeliano di alto rango ha sollecitato l’esercito ad analizzare e a far proprie le lezioni su come l’armata tedesca combatté nel Ghetto di Varsavia». Finkelstein è figlio di vittime dell’Olocausto. «Se gli israeliani non vogliono essere accusati di essere come i nazisti – scrive – devono semplicemente smettere di comportarsi da nazisti».Quando, il 22 luglio 1946, il terrorismo sionista fece esplodere l’hotel King David di Gerusalemme che ospitava il quartier generale britannico uccidendo 86 funzionari e 5 passanti, e mandando all’ospedale altre 58 persone, Winston Churchill dichiarò testualmente: «Se i nostri sforzi per il futuro del sionismo devono produrre un nuovo gruppo di delinquenti degni della Germania nazista, molti come me dovranno riconsiderare le posizioni tenute così a lungo». Nella stessa epoca, 1948, Albert Einstein e Hannah Arendt scrissero di loro pugno sul “New York Times” una protesta veemente contro la brutale ferocia sionista verso i palestinesi, definendola «simile, in organizzazione e metodi, ai partiti nazisti e fascisti». Lo stesso anno, fu addirittura un ministro del primo governo dello Stato d’Israele, Aharon Cizling, a dichiarare: «Adesso anche gli ebrei si sono comportati come i nazisti, e io sono sotto shock». Parole che tutti dovrebbero ricordare sempre, sottolinea Paolo Barnard, autore di uno studio – basato su prove e documenti storici – che accerta le spaventose e sistematiche atrocità (preventive) commesse da Israele contro i palestinesi.
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Afd: liberiamo la Grecia e l’Europa dall’orrore dell’euro
Alternative für Deutschland (“Alternativa per la Germania”) è un partito pro-europeo che sostiene fondamentalmente i principi della competitività, della sussidiarietà e dei buoni rapporti reciproci tra le nazioni europee, convinto che ciascuna nazione dovrebbe avere il controllo del proprio destino economico. A tale scopo, Afd constata con inquietudine che la politica fatta per salvare l’euro a qualsiasi costo (politica sostenuta dal governo tedesco) ha portato ad una forte reazione anti-tedesca in Grecia. Sottolinea che una moneta sopravvalutata ha deteriorato senza speranze di miglioramento la competitività dell’economia greca, ha contribuito a generare disoccupazione di massa e ha chiuso un’intera “generazione perduta” in una situazione senza via d’uscita. Ritiene che il mantenimento dell’unione monetaria nella sua forma attuale è in contrasto con gli interessi della società e dell’economia greca, economia che ha bisogno di una forte svalutazione per ritrovare la strada della ripresa.Afd condanna l’attuale situazione che costringe i contribuenti europei a pagare e a portare sulle proprie spalle il peso di un’unione monetaria fallita, che sta prolungando le sofferenze della popolazione greca. Questa politica non ha alcun genere di giustificazione economica o morale. Sottolinea che non si può aspettare che la Germania riduca il suo livello di competitività per risolvere la crisi dell’Eurozona, mentre la “svalutazione interna” non può riuscire a migliorare la competitività della Grecia. Sostiene con forza che l’Europa nel suo insieme dovrebbe concentrarsi sul miglioramento della competitività per assicurarsi una posizione di leadership a livello mondiale. Insiste sul fatto che è nell’interesse comune dei contribuenti europei e della popolazione greca che si metta fine all’unione monetaria nella sua forma attuale. Più essa prolunga la sua esistenza, più pesanti saranno le perdite subite sia dai contribuenti europei che dalla popolazione greca, che ha già sofferto gli effetti distruttivi della politica di austerità.Sostiene che qualsiasi piano di ristrutturazione del debito greco deve essere accompagnato da un sistema di uscita concordata della Grecia dall’Eurozona. Ribadisce che tale uscita non deve significare l’uscita dall’Unione Europea, come dimostrano gli esempi di diversi paesi dell’Unione Europea che hanno un’economia fiorente ma non fanno parte dell’Eurozona. Sostiene che, visto il danno permanente che la partecipazione all’unione monetaria ha inflitto alla Grecia, è necessario favorire un ritorno dell’economia greca alla crescita. Invita i leader europei a preparare tutte le misure giuridiche ed economiche per ridurre il costo dell’uscita dall’euro, sia per la Grecia che per tutti i paesi dell’Eurozona. Invita i partiti europei centristi a cooperare per l’attuazione di una procedura di uscita concordata per i paesi che si trovano attualmente in condizioni di grave crisi economica; in mancanza di ciò i partiti estremisti, sia di sinistra che di destra, si affermeranno sempre più sullo scenario europeo.(Alternative für Deutschland, “Manifesto per la ripresa economica della Grecia” pubblicato dalla formazione politica no-euro tedesca e ripresa dal blog “Vox Populi” il 2 aprile 2015).Alternative für Deutschland (“Alternativa per la Germania”) è un partito pro-europeo che sostiene fondamentalmente i principi della competitività, della sussidiarietà e dei buoni rapporti reciproci tra le nazioni europee, convinto che ciascuna nazione dovrebbe avere il controllo del proprio destino economico. A tale scopo, Afd constata con inquietudine che la politica fatta per salvare l’euro a qualsiasi costo (politica sostenuta dal governo tedesco) ha portato ad una forte reazione anti-tedesca in Grecia. Sottolinea che una moneta sopravvalutata ha deteriorato senza speranze di miglioramento la competitività dell’economia greca, ha contribuito a generare disoccupazione di massa e ha chiuso un’intera “generazione perduta” in una situazione senza via d’uscita. Ritiene che il mantenimento dell’unione monetaria nella sua forma attuale è in contrasto con gli interessi della società e dell’economia greca, economia che ha bisogno di una forte svalutazione per ritrovare la strada della ripresa.
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L’euro sarà la vostra tomba, parola di Godley (era il 1992)
Molte persone in tutta Europa hanno improvvisamente realizzato di non sapere quasi nulla sul Trattato di Maastricht, mentre giustamente si rendono conto che questo trattato può fare una grande differenza nella loro vita. La loro legittima ansia ha portato Jacques Delors a dare l’indicazione che il punto di vista della gente comune in futuro dovrebbe essere consultato con più attenzione. Avrebbe potuto pensarci prima. Anche se sono favorevole a procedere verso un’integrazione politica in Europa, credo che il progetto di Maastricht presenti gravi carenze, e anche che il dibattito pubblico su di esso sia stato stranamente povero. Con un rifiuto danese, con la Francia che ci è andata vicino, e con l’esistenza stessa dello Sme messa in discussione dopo i saccheggi da parte dei mercati valutari, questo è un buon momento per fare il punto. L’idea centrale del Trattato di Maastricht è che i paesi della Ce dovrebbero muoversi verso una unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma come deve essere gestito il resto della politica economica?Dato che il trattato non propone nessuna nuova istituzione oltre alla banca europea, i suoi sponsor devono supporre che non sia necessario nient’altro. Ma questo potrebbe essere corretto solo se le economie moderne fossero dei sistemi che si auto-regolano e che non hanno nessun bisogno di essere gestite. Sono giunto alla conclusione che una tale visione – che le economie siano organismi capaci di auto-regolazione che mai in nessun caso necessitano di una qualche forma di gestione – ha di fatto determinato il modo in cui il Trattato di Maastricht è stato costruito. Si tratta di una versione rozza ed estrema di quel punto di vista che da qualche tempo incarna la saggezza convenzionale dell’Europa (anche se non quella degli Stati Uniti o del Giappone), secondo la quale i governi sono incapaci di perseguire gli obiettivi tradizionali della politica economica, come la crescita e la piena occupazione, e quindi non dovrebbero nemmeno provarci. Tutto ciò che si può legittimamente fare, secondo questo punto di vista, è controllare l’offerta di moneta e tenere il bilancio in pareggio.C’è voluto un gruppo composto in gran parte di banchieri (il Comitato Delors) per giungere alla conclusione che una banca centrale indipendente sia l’unica istituzione sovranazionale necessaria a governare un’Europa integrata e sovranazionale. Ma c’è anche molto di più. Bisogna sottolineare sin dall’inizio che la creazione di una moneta unica nella Ce è veramente destinata a segnare la fine della sovranità delle nazioni che la compongono e del loro potere di agire in modo indipendente sulle grandi questioni. Come ha sostenuto in modo molto convincente Tim Congdon, il potere di emettere la propria moneta, e di intervenire tramite la propria banca centrale, è il fatto principale che definisce l’indipendenza di una nazione. Se un paese rinuncia a questo potere, o lo perde, acquisisce lo status di ente locale o di colonia. Le autorità locali e le regioni ovviamente non possono svalutare. Ma perdono anche il potere di finanziare i deficit con emissione di moneta, e gli altri metodi per ottenere finanziamenti sono soggetti a regolamentazione da parte dell’autorità centrale. Né possono modificare i tassi di interesse.Dato che le autorità locali non possiedono nessuno degli strumenti di politica macroeconomica, la loro scelta politica è limitata alle questioni relativamente minori – un po’ più di istruzione qui, un po’ meno di infrastrutture là. Penso che quando Jacques Delors enfatizza la novità del principio di ‘sussidiarietà’, in realtà ci sta solo dicendo che saremo autorizzati a prendere decisioni su un maggior numero di questioni relativamente poco importanti rispetto a quanto potevamo supporre in precedenza. Forse ci permetterà di avere i cetrioli ricurvi, dopo tutto. Veramente un grande affare! Permettetemi di esprimere un punto di vista diverso. Credo che il governo centrale di qualsiasi Stato sovrano dovrebbe impegnarsi con continuità per determinare il livello generale ottimale di servizi pubblici, l’imposizione fiscale complessiva più corretta, la corretta allocazione delle spese tra obiettivi concorrenti e la equa ripartizione della pressione fiscale. Il governo deve anche determinare in che misura qualsiasi disavanzo tra spesa e tassazione debba esser finanziato da un intervento della banca centrale e quanto debba essere finanziato dal prestito pubblico e a quali condizioni.Il modo in cui i governi decidono tutte queste questioni (e alcune altre), e la qualità della loro leadership, in interazione con le decisioni degli individui, delle imprese e del settore estero, determinerà cose come i tassi di interesse, il tasso di cambio, il tasso di inflazione, il tasso di crescita e il tasso di disoccupazione. Questo influenzerà anche profondamente la distribuzione del reddito e della ricchezza, non solo tra gli individui ma tra intere regioni, fornendo assistenza, si spera, alle persone colpite dai cambiamenti strutturali. Non si può semplificare troppo sull’utilizzo di questi strumenti, con tutte le loro interdipendenze, volti a promuovere il benessere di una nazione e a proteggerla al meglio possibile dagli shock di varia natura a cui inevitabilmente può andare soggetta. Non vuol dire molto, per esempio, dire che i bilanci dovrebbero essere sempre in pareggio, nel momento in cui un bilancio in pareggio con spesa e tassazione entrambe al 40% del Pil avrebbe un impatto completamente diverso (e molto più espansivo) di un bilancio in pareggio al 10%.Per immaginare la complessità e l’importanza delle decisioni macro-economiche di un governo, basta solo chiedersi quale sarebbe la risposta adeguata, in termini di politica di bilancio, monetaria e valutaria, per un paese che produce grandi quantità di petrolio, ad un aumento del prezzo del petrolio di quattro volte. Sarebbe giusto non fare niente? E non si dovrebbe mai dimenticare che in periodi di fortissima crisi, può anche essere appropriato per un governo centrale peccare contro lo Spirito Santo di tutte le banche centrali e invocare la ‘tassa da inflazione’ – appropriandosi deliberatamente delle risorse e riducendo, attraverso l’inflazione, il valore reale della ricchezza di carta di una nazione. Dopo tutto, era proprio mediante la tassa da inflazione proposta da Keynes che avremmo dovuto fare i pagamenti di guerra. Enumero tutti questi argomenti non per suggerire che la sovranità non dovrebbe essere ceduta per la nobile causa dell’integrazione europea, ma che se i singoli governi rinunciano a tutte queste funzioni, semplicemente queste devono essere assunte da qualche altra autorità.La lacuna incredibile nel programma di Maastricht è che, mentre contiene un progetto per l’istituzione e il modus operandi di una banca centrale indipendente, non esiste nessun progetto per l’analogo, in termini comunitari, di un governo centrale. Eppure dovrebbe semplicemente esistere un sistema di istituzioni che svolgano a livello comunitario tutte quelle funzioni che sono attualmente esercitate dai governi dei singoli paesi membri. La contropartita per rinunciare alla sovranità dovrebbe essere che i paesi membri siano costituiti in federazione, a cui sia affidata la loro sovranità. E il sistema federale, o il governo, come sarebbe meglio chiamarlo, dovrebbe esercitare nei confronti dei suoi membri e del mondo esterno tutte quelle funzioni che ho brevemente descritto sopra. Consideriamo due esempi significativi di ciò che un governo federale, che amministra un bilancio federale, dovrebbe fare. I paesi europei sono attualmente bloccati in una grave recessione. Allo stato attuale, dato che anche le economie degli Stati Uniti e del Giappone sono deboli, non è affatto chiaro quando si potrà avere una ripresa significativa.Le implicazioni politiche di questa situazione stanno diventando spaventose. Eppure l’interdipendenza delle economie europee è già così forte che nessun singolo paese, con l’eccezione teorica della Germania, si sente in grado di perseguire politiche espansive per conto suo, perché ogni paese che cercasse di espandersi per proprio conto incontrerebbe presto un vincolo della bilancia dei pagamenti. La situazione attuale richiede con forza una reflazione coordinata, ma non esistono né le istituzioni né un quadro di pensiero condiviso che potranno condurre a questo desiderabile risultato, che sarebbe di per sé ovvio. Si dovrebbe riconoscere con franchezza che se la depressione dovesse volgere seriamente al peggio – per esempio, se il tasso di disoccupazione dovesse attestarsi in modo permanente intorno al 20-25%, come negli anni Trenta – i singoli paesi prima o poi eserciterebbero il loro diritto sovrano di dichiarare che il movimento di integrazione nel suo insieme è stato un disastro e ritornare al controllo dei cambi e al protezionismo – a un’economia da stato d’assedio, se volete. Ciò equivarrebbe a una riedizione del periodo tra le due guerre.In un’unione economica e monetaria in cui il potere di agire in maniera indipendente venisse effettivamente abolito, una reflazione ‘coordinata’ come quella che adesso sarebbe così urgente e necessaria potrebbe essere intrapresa solo da un governo federale europeo. Senza un’istituzione del genere, la Uem impedirebbe azioni efficaci da parte dei singoli paesi, senza sostituirle con alcunché. Un altro ruolo importante che qualsiasi governo centrale deve svolgere è quello di garantire una rete di sicurezza sui livelli di sussistenza delle regioni che ne fanno parte, che siano in crisi per ragioni strutturali – a causa del declino di alcune industrie, per esempio, o a causa di alcuni cambiamenti demografici economicamente sfavorevoli. Attualmente questo accade nel corso naturale degli eventi, senza che nessuno in realtà ne accorga, perché gli standard comuni dei finanziamenti pubblici (ad esempio, la salute, l’istruzione, le pensioni e le indennità di disoccupazione) e un sistema fiscale comune (auspicabilmente, progressivo) sono entrambi istituiti in via generale su tutte le singole regioni.Di conseguenza, se un settore soffre un grado insolito di declino strutturale, il sistema fiscale genera automaticamente i trasferimenti netti in suo favore. In extremis, una regione che non potesse produrre nulla, non morirebbe di fame perché sarebbe titolare di pensioni, indennità di disoccupazione e reddito dei dipendenti pubblici. Che cosa succede se un intero paese – una potenziale ‘regione’ di una comunità completamente integrata – subisce una battuta d’arresto strutturale? Finché si tratta di uno Stato sovrano, può svalutare la sua moneta. Può quindi commerciare con successo al livello di pieno impiego, a patto che il popolo accetti i necessari tagli dei redditi reali. Con l’unione economica e monetaria, questa strada è ovviamente sbarrata, e la sua prospettiva è veramente grave, a meno che un bilancio federale non adempia a una funzione redistributiva. Come è stato chiaramente riconosciuto nella relazione MacDougall, pubblicata nel 1977, per rinunciare all’opzione della svalutazione ci deve essere una contropartita in termini di redistribuzione fiscale.Alcuni autori (come Samuel Brittan e Sir Douglas Hague) hanno seriamente sostenuto che l’Uem, abolendo il problema della bilancia dei dei pagamenti nella sua forma attuale, in realtà abolirebbe il problema, laddove esso esista, di un persistente fallimento nella competizione sui mercati mondiali. Ma, come sottolineato dal professor Martin Feldstein in un suo importante articolo sull’Economist (13 giugno), questo argomento è pericolosamente errato. Se un paese o una regione non ha il potere di svalutare, e se non è beneficiario di un sistema di perequazione fiscale, allora non c’è nulla che possa impedirgli di subire un processo di irrimediabile tracollo che porterà, alla fine, all’emigrazione come unica alternativa alla povertà o alla fame. Sono solidale con la posizione di coloro (come Margaret Thatcher), che, di fronte alla perdita di sovranità, desiderano scendere all’istante dal treno della Uem. Sono solidale anche con coloro che perseguono l’integrazione nel quadro giuridico di una sorta di costituzione federale, che disponga di un bilancio federale molto più grande del bilancio comunitario. Quello che trovo assolutamente sconcertante è la posizione di coloro che stanno puntando all’unione economica e monetaria, senza la creazione di nuove istituzioni politiche (a parte una nuova banca centrale), e che alzano le mani con orrore alle parole ‘federale’ o ‘federalismo’. Questa è la posizione attualmente adottata dal governo e dalla maggior parte di coloro che prendono parte al pubblico dibattito.(Wynne Godley, “Su Maastricht e tutto il resto”, profetico intervento apparso sulla “London Review of Book” nel lontano 1992, l’8 marzo, ora riproposto dal blog “Vox Populi”. Economista e autore di svariati saggi, Godley è stato consulente del Tesoro britannico, poi docente del King’s College e direttore di dipartimento all’Università di Cambridge).Molte persone in tutta Europa hanno improvvisamente realizzato di non sapere quasi nulla sul Trattato di Maastricht, mentre giustamente si rendono conto che questo trattato può fare una grande differenza nella loro vita. La loro legittima ansia ha portato Jacques Delors a dare l’indicazione che il punto di vista della gente comune in futuro dovrebbe essere consultato con più attenzione. Avrebbe potuto pensarci prima. Anche se sono favorevole a procedere verso un’integrazione politica in Europa, credo che il progetto di Maastricht presenti gravi carenze, e anche che il dibattito pubblico su di esso sia stato stranamente povero. Con un rifiuto danese, con la Francia che ci è andata vicino, e con l’esistenza stessa dello Sme messa in discussione dopo i saccheggi da parte dei mercati valutari, questo è un buon momento per fare il punto. L’idea centrale del Trattato di Maastricht è che i paesi della Ce dovrebbero muoversi verso una unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma come deve essere gestito il resto della politica economica?
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E Draghi getta la maschera: è il capo dei barbari europei
Qualche giorno fa, riflettendo sul caso greco, abbiamo constatato come oggettivamente alcuni figuri abbiano già di fatto abolito la democrazia in alcune nazioni d’Europa. Draghi, Schaeuble e Merkel, per esempio, sul punto sono molto chiari e diretti: «I cittadini non possono cambiare attraverso il voto l’indirizzo politico dei rispettivi governi». Anziché inviare i carri armati a reprimere nel sangue eventuali proteste, Mario Draghi può semplicemente schiavizzare un paese intero minacciando di interrompere la liquidità che tiene in piedi le barcollanti finanze elleniche. Le forme divergono, ma la sostanza non cambia: in Grecia si è instaurata una evidente dittatura. Nessuno può quindi più fare finta di non sapere che un manipolo di oligarchi, capitanati dal “venerabile maestro” Mario Draghi, promuove e realizza nel vecchio continente un golpe strisciante e continuo. Ora, la situazione di fatto appena dipinta si presta ad una lettura bivalente: da un lato la consapevolezza di essere governati da nuovi fuhrer che non possono fermati attraverso libere elezioni incute timore; dall’altro il consolidarsi di un simile equilibrio pone gli odierni torturatori in una posizione scomoda e in prospettiva decisamente pericolosa.
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Guerra civile internazionale, contro le città. Il bersaglio? Noi
Con la caduta dell’Unione Sovietica e la fine dell’equilibrio tra potenze, è scomparsa anche la nozione classica di guerra, sostituita da conflitti locali permanenti che hanno l’obiettivo di seminare il panico nelle grandi città. La dissuasione, ricorda Paul Virilio, si poneva ancora sul piano strettamente militare: gli Stati praticavano una dissuasione reciproca, favorendo l’equilibrio del terrore. Venticinque anni dopo, sono costretti ad ammettere che la corsa agli armamenti tipica della “guerra pura” ha cancellato non soltanto l’Unione Sovietica, che è implosa, ma anche l’idea stessa della “grande guerra classica”, la guerra clausewitziana, prolungamento della politica con altri mezzi. «Questa dissoluzione ha condotto il nostro mondo direttamente tra le braccia del terrore, del disequilibrio terrorista e della proliferazione nucleare che, purtroppo, impariamo a conoscere ogni giorno di più». La copertura antimissilistica globale degli americani, quella sorta di ombrello o parafulmine che Bush andava proponendo a tutti nel mondo, esemplifica bene «il grado di squilibrio e il delirio geostrategico di cui siamo vittime».Surreale, aggiunge Virilio in un post su “Tysm”, anche la risposta che diede Putin a Bush: benissimo, il vostro scudo anti-missile potete installarlo in Russia e in Azerbaigian. «Così, dopo la “grande guerra classica” e politica ci ritroviamo adesso alle prese con una guerra asimmetrica e transpolitica». Sostenere che una guerra è asimmetrica e transpolitica al tempo stesso, secondo Virilio «significa affermare che esiste una condizione di totale disequilibrio fra gli eserciti nazionali, quello internazionale, l’esercito della guerra mondiale e i gruppuscoli di tutti gli ordini e gradi che praticano la guerra asimmetrica, dalle semplici gang di quartiere ai paramilitari». Ed esiste «un parallelismo fra la decomposizione degli Stati avvenuta in Africa e quello che sta succedendo ora nell’America del Sud – in Colombia, tanto per fare un esempio – dove nessun esercito nazionale può nulla contro la proliferazione di gang, mafie locali, paramilitari e guerriglieri alla “Sendero Luminoso”». Persino un esercito potentissimo come quello di Israele fu costretto a impantanarsi, in Libano, contro le milizie “artigianali” e inafferrabili di Hezbollah.Non esistono più “guerre pure”, insiste Virilio, ma c’è ormai una guerra totale e “impura”, nata dalle diverse esigenze e dalla diversa struttura della dissuasione armata: «Questa dissuasione non ha più di mira i soli militari, anzi direi che si indirizza essenzialmente ai civili». Vengono proprio da questo «salto di paradigma nella natura della dissuasione» i recenti fenomeni «inconcepibili, solo venti o venticinque anni fa, quali il “Patriot Act” o le prigioni di Guantanamo». Un fatto da non sottovalutare è il disequilibrio imposto dall’emergere di un nuovo terrorismo. «Nell’era della “guerra impura” ci si sforzava di resistere riportando il sistema al suo punto di equilibrio. Ma tutto questo è diventato impossibile, con la continua proliferazione di “nemici asimmetrici”. Siamo di fronte a una enorme minaccia che incombe sulla democrazia di ogni paese, non soltanto sulla testa dei regimi dell’est, del sud, del nord, di dove vi pare, ma anche sui paesi ritenuti “democratici”, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti. Esiste una dissuasione civile – il “Patriot Act” ne rappresenta il segno più tangibile, ma ce ne sono molti altri, pensiamo a certe leggi contro gli immigrati che rischiano di passare in Europa – che rende la situazione molto più incerta».Virilio denuncia l’esistenza di «una strategia contro le città». Certo, gli esperti sostengono che si debba “ristabilire l’ordine”, «ma ristabilire l’ordine nella società civile è come aprire una finestra sul caos, è una minaccia assoluta, una sfida lanciata vis-à-vis nei confronti di qualsiasi democrazia: su questo punto ci si accorge di avere a che fare con i sintomi di un vero e proprio delirio». La strategia militare, continua Virilio, sembra essersi dislocata nel cuore stesso delle città: «Si potrebbe parlare di un proseguimento della strategia anti-città iniziata durante la Seconda Guerra Mondiale, con i bombardamenti di Guernica, Oradour, Berlino, Dresda, Hiroshima, Nagasaki. La strategia anti-città è stata una delle innovazioni introdotte durante la Seconda Guerra Mondiale, guerra che ha però introdotto anche un equilibrio del terrore: ricordiamoci che le testate nucleari, a est come a occidente, erano puntate direttamente sul cuore delle città. Oggigiorno, assistiamo però a un dislocamento di questa strategia. Siamo passati dall’equilibrio del terrore all’iperterrorismo». Attenzione: «L’iperterrorismo ha un solo campo di battaglia, e questo campo di battaglia è, appunto, la città». Motivo? «Nelle moderne città si concentra il maximum della popolazione e, con un minimo di armi, può essere raggiunto il massimo risultato, il massimo disastro possibile. Non importa con quali armi si può raggiungere questo risultato: niente più bisogno di panzer, nessuna necessità di portaerei, sottomarini imponenti e via discorrendo».La guerra asimmetrica, oramai sinonimo del disequilibrio terrorista, «cancella il teatro delle operazioni esterne a tutto vantaggio della concentrazione metropolitana». Così, «il luogo della guerra diventa, appunto, la città: l’affollamento urbano trascina guerra e terrorismo nel solco di una geostrategia territoriale, portandolo direttamente sulla linea del fronte». Nella Seconda Guerra Mondiale, «la geopolitica si giocava sui campi di battaglia, a Verdun, attorno a Stalingrado, sulle spiagge della Normandia». Ora, nel mirino sono essenzialmente le metropoli. Quando Putin invita Bush a installare in Russia i super-radar, mette a nudo il problema: contro chi dovremmo difenderci? «Oggi, quasi senza accorgercene, ci ritroviamo preda di ciò che i fisici chiamano principio di indeterminazione: i nostri piedi poggiano su terreni incerti, scossi dalla globalizzazione economica e dalla guerra globale eppure “locale”. Questo apparente paradosso è determinato dal fatto che l’estensione del campo e del fronte non contano più in rapporto all’immediatezza della minaccia».«Quando si arriva a collocare un ordigno nucleare direttamente nella metropolitana di New York, di Parigi o Londra – continua Virilio – allora dobbiamo comprendere che non siamo più nella logica totale, ma in quella locale. L’obiettivo è una città, preferibilmente una grande città, per ottenere il massimo disastro». La “guerra impura” nasce dal globalismo inteso come cambiamento di scala: «Il globalismo riduce tutto al più piccolo fra i comuni denominatori possibili: è così che anche un singolo individuo può significare una guerra totale – e quando dico uno, possono ovviamente essere due, tre, dieci. Quando si pensa al World Trade Center, sono stati undici uomini a fare duemila e ottocento vittime, quasi quante a Pearl Harbor. Stesso risultato. Quanto meno il rapporto tra costi ed efficacia è stato straordinario! Le grandi divisioni, le macchine, la portaerei “Eisenhower” restano lì in attesa di una disfatta che non è determinata dal conflitto di un campo contro l’altro, ma dalla dissoluzione del campo stesso che alimentava la guerra “politica”».La guerra politica, conclude Virilio, aveva di mira un territorio o uno Stato delimitato, che da par suo rispondeva arroccandosi attorno alle proprie frontiere. Ora assistiamo a una confusione babelica tra la guerra civile terrorista e la guerra internazionale. A partire dall’11 Settembre la si potrebbe chiamare “guerra civile internazionale”, propone Virilio. «Fino a quel momento, c’erano state guerre civili nazionali, ma quella era la prima vera guerra civile mondiale». Certo, è ancora possibile premere un bottone e far partire dei missili – la Corea e l’Iran possono farlo – ma in realtà, «con la grande dislocazione della strategia, con la fusione fra guerra civile iperterrorista e guerra internazionale, non è più possibile fare troppe distinzioni», perché «non c’è più alcun equilibrio da ristabilire, solo caos da creare», anche grazie alla crisi degli Stati-nazione esplosa in Europa e ai trattati commerciali “dettati” dalle multinazionali, dal Nafta al Ttip. «La guerra legata alla mera territorialità non è più possibile». Avanza un’altra guerra: sporca, asimmetrica, impura, basata sul terrorismo contro le città e i loro abitanti. «Ne va della nostra esistenza, proprio mentre un enorme punto di domanda leva la sua ombra sulla Storia».Con la caduta dell’Unione Sovietica e la fine dell’equilibrio tra potenze, è scomparsa anche la nozione classica di guerra, sostituita da conflitti locali permanenti che hanno l’obiettivo di seminare il panico nelle grandi città. La dissuasione, ricorda Paul Virilio, si poneva ancora sul piano strettamente militare: gli Stati praticavano una dissuasione reciproca, favorendo l’equilibrio del terrore. Venticinque anni dopo, sono costretti ad ammettere che la corsa agli armamenti tipica della “guerra pura” ha cancellato non soltanto l’Unione Sovietica, che è implosa, ma anche l’idea stessa della “grande guerra classica”, la guerra clausewitziana, prolungamento della politica con altri mezzi. «Questa dissoluzione ha condotto il nostro mondo direttamente tra le braccia del terrore, del disequilibrio terrorista e della proliferazione nucleare che, purtroppo, impariamo a conoscere ogni giorno di più». La copertura antimissilistica globale degli americani, quella sorta di ombrello o parafulmine che Bush andava proponendo a tutti nel mondo, esemplifica bene «il grado di squilibrio e il delirio geostrategico di cui siamo vittime».
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Fine della crisi? Via la Germania dall’Ue, e addio alla Nato
A mio modo di vedere, una valuta internazionale non è più necessaria. All’indomani della II Guerra Mondiale quando tutte le altre grandi nazioni industriali avevano economie distrutte e strutture industriali distrutte: solo il dollaro aveva valore e quindi poteva diventare la moneta mondiale. Oggi chiaramente ci sono molte zone sviluppate del mondo con valute legittime e quindi è possibile condurre scambi tra nazioni tramite le loro proprie valute. Avete l’euro, avete il rublo, avete la valuta cinese, avete la giapponese, la canadese, l’australiana, ognuna già ora con un grande volume di attività economica sulla faccia del pianeta che non esisteva nel 1945. E quindi una valuta di riserva non è veramente più necessaria. Una valuta di riserva connessa a una nazione assicura a quella nazione un potere, le dà l’egemonia finanziaria sopra altre nazioni. Stiamo osservando come Washington faccia un cattivo uso di questo potere. Un altro problema è il modo in cui Washington usa la valuta di riserva per pagare i suoi conti. Se sei la nazione con valuta di riserva puoi rilassarti, perché puoi pagare i tuoi conti emettendo moneta di credito.Negli anni recenti ciò che è successo è stato che Washington ha espanso oltre misura la sua disponibilità monetaria e il dollaro ha denominato il debito. Washington inflaziona la sua valuta come ha fatto, anno dopo anno, col “quantitative easing”. Una politica che, strettamente parlando, non è finita. Ciò costringe le altre nazioni a inflazionare le proprie valute, altrimenti il valore di scambio delle loro valute aumenta e le esportazioni vengono tagliate, e quindi per proteggere i mercati di esportazioni tutti devono inflazionare se lo fanno gli Stati Uniti. Così la conseguenza è che il mondo ora è sommerso da “fiat money”, ma la produzione di merci e di servizi non è cresciuta in modo commensurabile alla crescita del denaro. Ci aspettiamo una seria inflazione mondiale per molte ragioni. Molta di questa moneta è sotto chiave nel sistema bancario. C’è comunque una situazione molto instabile, ogni volta che la creazione di “fiat money” superi la produzione di beni e servizi.Penso che la situazione abbia raggiunto il punto in cui molte nazioni, parlo di nazioni potenti come la Russia e la Cina, si rendono conto che il sistema del dollaro, il sistema di pagamenti basato sul dollaro, si sta frantumando, ed è anche il sistema che può essere usato per imporre sanzioni su nazioni che non seguono le imposizioni di Washington. Avete sanzioni se vi comportate indipendentemente da Washington. Quindi si possono già vedere movimenti per abbandonare il sistema, e ciò certamente avverrà. La Cina è il più grande creditore del Tesoro statunitense: possiede la parte maggiore del debito Usa e ha legato la sua valuta al dollaro per dimostrare che la sua valuta è buona quanto il dollaro. E ciò che vediamo è che la valuta cinese è meglio del dollaro. Io penso che l’obiezione della Cina è il modo in cui gli Stati Uniti usano la loro valuta come un’egemonia finanziaria sopra tutte le altre nazioni. La usano per minare la sovranità delle altre nazioni.Lo vediamo con le sanzioni contro la Russia. Questo è il modo per costringere la Russia a sottomettersi al volere di Washington. Ma stanno ottenendo il risultato opposto. La Russia sta lasciando il sistema dei pagamenti basati sul dollaro. E inoltre, a causa della stupidità dei governi europei, la Russia sta riorientando il suo commercio dall’Europa all’Oriente. Lo vediamo oggi con gli sviluppi in campo energetico. Così ciò manderà in frantumi il sistema di pagamento basato sul dollaro. Le nazioni europee sono i grandi facilitatori dell’egemonia di Washington. Se le nazioni europee fossero davvero sovrane e fossero in grado di condurre politiche internazionali indipendenti non sarebbero stati vassalli degli Stati Uniti e questo limiterebbe lo strapotere degli Usa e priverebbe gli Stati Uniti della copertura per le sue guerre di aggressione. Cosa può fare l’Europa? Può disimpegnarsi dalla Nato. Essere un membro della Nato vuol dire assoggettarsi al controllo di Washington. La Nato esisteva per proteggersi dall’invasione dell’Europa da parte dell’Armata Rossa, l’esercito sovietico. Questa minaccia è spartita da almeno vent’anni. Eppure la Nato continua ad espandersi e viene usata dagli Stati Uniti per le sue guerre in Africa e nel Medio Oriente.Cosa ci guadagna l’Europa da tutto ciò? Niente. E adesso viene trascinata in un confronto militare con la Russia. Che cosa ne uscirà da tutto ciò? Nulla di buono per l’Europa. E’ quindi necessario che i paesi europei riacquistino la loro sovranità. Ma non sono sovrani, sono colonie. Sono regimi fantoccio. Non hanno politiche estere indipendenti. Sono assoggettate al volere di Washington. E ciò costituisce una grande facilitazione per l’egemonia di Washington. Senza ciò gli Stati Uniti sarebbero solo un altro paese tra tanti. Magari un paese molto forte, certo, ma un paese tra tanti. Quando però uno ha tutta l’Europa, il Canada, l’Australia e il Giappone come regimi fantoccio e Stati vassalli, diventa strapotente. Quindi, ciò che l’Europa può fare? Lasciare la Nato. La Nato non protegge più l’Europa, ma la mette in pericolo perché la coinvolge nelle guerre di Washington.Perché gli Usa riescono ad assoggettare le nazioni europee? Ci sono vari motivi. Uno è che dopo la Seconda Guerra Mondiale il dollaro è diventato la moneta di riserva, e ciò dà un potere enorme agli Stati Uniti. Un’altra ragione è stata la lunga Guerra Fredda con l’Unione Sovietica e la propaganda secondo cui l’Europa poteva essere invasa dall’Urss, con la conseguente dipendenza dell’Europa, che dura da decenni, dalla protezione americana. Se tu dipendi dalla protezione di un altro paese finisci per dover seguire le politiche di quel paese perché dipendi da quel paese. E’ il ruolo che assumi col tempo. Tutto ciò avrebbe dovuto finire con il collasso dell’Unione Sovietica. Sfortunatamente il collasso dell’Unione Sovietica ha portato alla ribalta negli Stati Uniti l’ideologia dei neoconservatori, che dice che la storia ha scelto gli Stati Uniti per dominare il mondo. Sarebbe la “Nazione Eccezionale”, la “Nazione Indispensabile”. E il collasso del comunismo, del socialismo, avrebbe provato che gli Stati Uniti dovevano esercitare la loro egemonia sul mondo.Questa ideologia è stata istituzionalizzata nella politica estera e militare degli Stati Uniti. Abbiamo la dottrina Brzezinski e la dottrina Wolfowitz. E in sostanza queste dottrine dicono che gli Stati Uniti devono prevenire l’ascesa di ogni altro paese che abbia il potere e la capacità di bloccare i propositi di Washington nel mondo. Questi due Stati, oggi, sono la Russia e la Cina. E quindi questa ideologia è estremamente pericolosa, perché mette il mondo in conflitto con la Russia e la Cina. E questi sono tra i principali paesi nucleari, e sono grandi economie ed enormi aree geografiche. E quindi l’ideologia dell’egemonia americana è una minaccia alla stessa esistenza della vita sulla Terra. La possibile alternativa rappresentata dalla Germania? Temo che la Merkel sia solo un pupazzo di Washington. E’ molto difficile per un leader europeo alzarsi in piedi e rappresentare il proprio popolo invece che gli Stati Uniti. Tutti i leader europei rappresentano gli Stati Uniti e non rappresentano il popolo della Francia, della Germania o il popolo britannico. Rappresentano gli Stati Uniti. E certamente sono ben remunerati per questo. E quindi i leader che mostrano una qualche disposizione a non stare al gioco sono sempre rovinati.Immaginatevi se la Germania dovesse semplicemente lasciare l’Ue . Restare non serve agli interessi della Germania. Perché la Germania verrebbe munta e pagherebbe i debiti dell’Ue, e dell’Ucraina. O se la Germania lasciasse la Nato: perché la Germania dovrebbe stare nella Nato? La Germania ha grandi collegamenti economici con la Russia. Ma questi stanno per essere sacrificati per far piacere agli americani. Quindi, sì, la Germania potrebbe fare molto. Potrebbe lasciare la Ue, potrebbe lasciare la Nato. Questo sarebbe la fine dell’egemonia statunitense. Ma non succederà, perché i paesi occidentali non hanno più, a mio avviso, la democrazia: i loro leader non rappresentano il popolo. Negli Stati Uniti rappresentano ideologie e rappresentano potenti gruppi di interessi, come ad esempio il complesso militare e di sicurezza, Wall Street e le grandi banche, e poi l’agribusiness, la lobby israeliana, le industrie estrattive, il petrolio, le miniere, l’industria del legno. Tutti questi sono interessi potentissimi, le cui donazioni determinano chi viene eletto. E le persone che traggono beneficio da questi contributi alle campagne elettorali sono alleate alle fonti del denaro. Quindi tutto il processo viene rimosso dalla rappresentazione del popolo. Il popolo non fornisce i soldi che eleggono i candidati. E quindi si ha una situazione in cui l’Europa è solo un vassallo degli Stati Uniti.Questi leader non possono nemmeno rappresentare gli interessi del loro popolo ma devono conformarsi alle politiche degli Stati Uniti. Perciò si può solamente dire che la democrazia in fin dei conti non esiste. E’ solo una copertura perché i governi sono incapaci di rappresentare gli interessi del popolo. Cosa dovrebbero fare i lavoratori e le persone comuni per ribilanciare lo squilibrio nei confronti del capitale? E’ chiaro che non possono fare nulla all’interno di questo sistema. Ciò che ha distrutto il potere dell’uomo comune negli Stati Uniti è stato la delocalizzazione all’estero dei posti di lavoro dell’industria manifatturiera. Quando l’industria è stata delocalizzata all’estero, i sindacati sono stati distrutti. E quando i sindacati sono stati smantellati, la fonte indipendente di finanziamento del Partito Democratico è stata distrutta. Di conseguenza, i Democratici ora devono rivolgersi agli stessi gruppi di interesse che finanziano i Repubblicani. Devono rivolgersi al complesso militare-sicurezza, a Wall Street, alle banche. E così, entrambi i partiti sono finanziati dalle medesime fonti. A tutti gli effetti, c’è un unico partito.L’unica cosa che possono fare i lavoratori spossessati è contestare la legittimità del governo e ribellarsi. E’ l’unica alternativa che hanno. Non c’è nessuna possibilità di cambiare il sistema dall’interno. Fin quando protestare vuol dire protestare pacificamente vuol dire che la gente accetta la struttura e semplicemente cerca di convincere coloro che hanno il potere che devono cambiare le proprie idee. Ma questo non avverrà. Non succede mai. Abbiamo raggiunto un punto in cui i lavoratori sono spinti ai margini. Non hanno nessuna influenza, nessuna rappresentanza. Quanto all’Europa, tutto quello che posso dire è che paesi che hanno una così lunga storia non devono rinunciare alla loro sovranità, per Washington. Devono riconquistare la loro sovranità per proteggere il mondo dall’aggressione di Washington. Devono ridiventare indipendenti, per costringere gli Usa a mollare questa ideologia della supremazia mondiale, perché è molto pericolosa – pericolosa per gli americani, per gli europei, per i cinesi, per i russi, per tutti. Potete vedere i morti e le distruzioni nel Medio Oriente da tredici anni. E l’ingerenza irresponsabile del governo degli Stati Uniti in Ucraina, le accuse irresponsabili contro la Russia, contro la Cina, la costruzione di basi militari sulle frontiere della Russia e in Asia per bloccare l’accesso della Cina alle risorse. Tutto questo ci porterà alla guerra. Ma la Russia e la Cina non sono la Libia o l’Iraq.(Paul Craig Roberts, dichiarazioni rilasciate a Piero Pagliani per un’intervista su “Pandora Tv”, ripresa da “Megachip” il 13 febbraio 2015).A mio modo di vedere, una valuta internazionale non è più necessaria. All’indomani della II Guerra Mondiale quando tutte le altre grandi nazioni industriali avevano economie distrutte e strutture industriali distrutte: solo il dollaro aveva valore e quindi poteva diventare la moneta mondiale. Oggi chiaramente ci sono molte zone sviluppate del mondo con valute legittime e quindi è possibile condurre scambi tra nazioni tramite le loro proprie valute. Avete l’euro, avete il rublo, avete la valuta cinese, avete la giapponese, la canadese, l’australiana, ognuna già ora con un grande volume di attività economica sulla faccia del pianeta che non esisteva nel 1945. E quindi una valuta di riserva non è veramente più necessaria. Una valuta di riserva connessa a una nazione assicura a quella nazione un potere, le dà l’egemonia finanziaria sopra altre nazioni. Stiamo osservando come Washington faccia un cattivo uso di questo potere. Un altro problema è il modo in cui Washington usa la valuta di riserva per pagare i suoi conti. Se sei la nazione con valuta di riserva puoi rilassarti, perché puoi pagare i tuoi conti emettendo moneta di credito.
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Kapò tedeschi e pagliacci europei? Usciamo dalla barbarie
L’Europa si è bruscamente risvegliata sotto il tallone della Germania. Oramai i nazisti che guidano il governo tedesco, Merkel e Schaeuble su tutti, non rispettano più neppure le forme. La Commissione Europea così come l’Eurogruppo o la Bce appaiono finalmente per quello che in realtà sono: paraventi buoni per mascherare l’assoluto dominio teutonico su tutti i popoli del Vecchio Continente. L’antico sogno hitleriano si è realizzato in pieno senza neppure dover ricorrere all’utilizzo di fucili e carri armati. Come abbia potuto la signora Merkel uccidere impunemente la democrazia in Europa resta un mistero. Una nazione sconfitta e umiliata, messa nelle condizioni di non nuocere all’indomani della seconda guerra mondiale, decide oggi per tutti, scegliendo di fatto arbitrariamente chi è degno di ricevere i fondi e chi no. Siamo all’assurdo. Il neoeletto premier greco Tsipras è costretto ad andare a Berlino con il cappello in mano nella speranza di ammorbidire la posizione dell’arcigna Germania. Ma chi ha deciso che la Germania è il nostro indiscusso nume tutelare? Nessun cittadino europeo ha mai conferito alla signora Merkel un mandato democratico.I tedeschi quindi stanno palesemente violando la sovranità di nazioni ancora oggi formalmente libere e indipendenti. L’Europa ha imboccato una deriva terribile, tenuta brutalmente al laccio da un manipolo di fanatici che dimostrano di non tenere la democrazia in nessun conto. I vari Renzi, Hollande e Rajoy sono poco più che valletti nelle mani del feroce gabinetto germanico, burattini che tradiscono il mandato ricevuto per guadagnare sul campo la benevolenza dei conquistatori. E’ perciò inutile sperare in un sussulto d’orgoglio da parte di simili soggetti, anime nere che mentono continuamente sapendo di mentire. L’unica prospettiva possibile è quella che punta a creare e sedimentare una solidarietà pan-europea organizzata dal basso. C’è bisogno cioè di un nuovo movimento trans-nazionale che raccolga all’interno di un unico contenitore tutti i sinceri democratici ovunque dislocati. Un contenitore libero e plurale, cementato però dalla radicale avversione nei confronti del totalitarismo finanziario e tecno-fascista oggi incarnato da un triumvirato famelico composto da Angela Merkel, Wolfang Schaeuble e Mario Draghi.Questa è la strada giusta. E’ sbagliato invece fomentare contrapposizioni di tipo prettamente nazionalistico. L’élite che oggi sovraintende lo svuotamento della democrazia sostanziale in Europa è apolide. I tedeschi, per indole e costituzione, si limitano soltanto a recitare meglio degli altri la parte dei kapò. Ma Hollande e Renzi, pavidi comprimari, non sono migliori di Angela Merkel, aggiungendo un pizzico di ignavia condita di ipocrisia alla conclamata e unanime predisposizione al sopruso e al raggiro. Nel frattempo in Italia come in Francia proseguono le controriforme di stampo neoliberista approvate da governi formalmente progressisti e di sinistra. Rileggendo i punti della lettera scritta nell’agosto del 2011 dalla Bce di Trichet e Draghi c’è da restare sbalorditi. I governi Monti, Letta e Renzi hanno palesemente applicato l’indirizzo politico deciso d’imperio da un istituto sprovvisto di mandato democratico.Siamo tornati al Medioevo, quando il potere promanava da Dio e i sudditi erano chiamati a non turbare un immutabile ordine costituito. Il nuovo Dio si chiama mercato finanziario e Mario Draghi è il suo profeta. Gli uomini liberi che non intendono arrendersi all’oscurantismo di ritorno si preparino a combattere un battaglia decisiva in difesa del progresso e contro la barbarie. Noi non permetteremo a nessuno di fondare sulla nostra pelle una nuova aristocrazia dello spirito desiderosa di dominare masse informi e abbrutite. Noi combatteremo a viso aperto, con coraggio e spirito di servizio, orgogliosi di stare senza dubbio dalla parte giusta della Storia. Alla lunga, trionferemo!(Francesco Maria Toscano, “Uniti sconfiggeremo il rigurgito nazista che opprime l’Europa”, dal blog “Il Moralista” del 20 febbraio 2015. Insieme a Gioele Magaldi, fondatore del Grande Oriente Democratico e autore del libro “Massoni”, Toscano è tra i promotori dell’assemblea costitutiva del “Movimento Roosevelt”, in programma a Perugia il 21 marzo 2015, per dare impulso a una riconversione democratica dell’assetto europeo).L’Europa si è bruscamente risvegliata sotto il tallone della Germania. Oramai i nazisti che guidano il governo tedesco, Merkel e Schaeuble su tutti, non rispettano più neppure le forme. La Commissione Europea così come l’Eurogruppo o la Bce appaiono finalmente per quello che in realtà sono: paraventi buoni per mascherare l’assoluto dominio teutonico su tutti i popoli del Vecchio Continente. L’antico sogno hitleriano si è realizzato in pieno senza neppure dover ricorrere all’utilizzo di fucili e carri armati. Come abbia potuto la signora Merkel uccidere impunemente la democrazia in Europa resta un mistero. Una nazione sconfitta e umiliata, messa nelle condizioni di non nuocere all’indomani della seconda guerra mondiale, decide oggi per tutti, scegliendo di fatto arbitrariamente chi è degno di ricevere i fondi e chi no. Siamo all’assurdo. Il neoeletto premier greco Tsipras è costretto ad andare a Berlino con il cappello in mano nella speranza di ammorbidire la posizione dell’arcigna Germania. Ma chi ha deciso che la Germania è il nostro indiscusso nume tutelare? Nessun cittadino europeo ha mai conferito alla signora Merkel un mandato democratico.
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Che gioia scoprire che Obama legge le mie email (e le tue)
Qualche giorno fa ho presenziato a un incontro insolito per gli standard italiani: una conferenza pubblica con il capo dei servizi segreti svizzero Markus Seiler. A Bellinzona, senza particolari misure di sicurezza, con la consueta semplicità elvetica, introdotto dal direttore del Dipartimento delle Istituzioni, Norman Gobbi (il ministro degli interni ticinese, tradotto nel gergo italiano). Serata interessante, pacata nei toni, durante la quale Seiler ha dichiarato, testuale: «Oggi l’80% delle email fanno una rapida tappa a Washington e a Londra dove vengono copiate e archiviate. Solo le email criptate o protette da particolari misure di sicurezza sfuggono a questo gigantesco setaccio». Seiler si è ovviamente ben guardato dall’esprimere valutazioni politiche, però il tono del suo intervento era chiaro. Era come se chiedesse al pubblico presente: a voi va bene? Non sono un diplomatico ma un giornalista. E posso permettermi di rispondere. No, non va bene.Mi fa molto piacere che il presidente Obama si interessi alla mia vita privata e professionale, coinvolgendo il premier britannico Cameron, ma non è accettabile che tutti i miei messaggi, come i tuoi, caro lettore, siano copiati istantaneamente e memorizzati in un gigantesco database. In questi giorni sto rileggendo, a distanza di trent’anni, “1984” di Orwell e pagina dopo pagina rabbrividisco: alcune delle misure di controllo sociale del Grande Fratello, immaginate dal grande scrittore inglese, oggi sono realtà. Schedare tutto quel che viene scritto da un cittadino, mappare la sua rete di contatti (sanno a chi scrivo le email, sanno quali sono i miei amici su Facebook, hanno accesso alla mia agenda telefonica tramite WhatsUp) era il sogno di qualunque dittatore, da Hitler a Stalin a Mao; ora è diventata realtà per mano di una potenza che fino a ieri era il baluardo contro la dittatura e ora, con il pretesto della lotta al terrorismo, si sta trasformando in un invasivo inquisitore.E’ un gioco da ragazzi affinare la ricerca nel database e mappare fino a “targetizzare” ognuno di noi. I dati selezionati e affinati possono essere usati per fini impropri o politici da parte di un paese che non dimostra più grande considerazione per lo Stato di diritto, né in patria né fuori. Snowden, l’agente della Nsa che ha svelato la gigantesca rete di spionaggio dell’intelligence americana, ci aveva avvertiti. Ora il capo dei servizi segreti svizzero Markus Seiler conferma l’esistenza di una silenziosa, sistematica violazione della libertà e della sovranità di tutti gli Stati. Altro che Isis. La vera minaccia è altrove. Ci stanno portando via tutto, con la silenziosa compiacenza di masse che nemmeno si rendono conto del pericolo e del regresso di civiltà. State all’erta. Il Grande Fratello è proprio lì nel vostro computer. E un giorno tutto quel che scrivete potrà essere usato contro di voi. Rilancio la domanda: va bene così?(Marcello Foa, “Che gioia sapere che Obama spia le mie email, e anche le tue”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 22 febbraio 2015).Qualche giorno fa ho presenziato a un incontro insolito per gli standard italiani: una conferenza pubblica con il capo dei servizi segreti svizzero Markus Seiler. A Bellinzona, senza particolari misure di sicurezza, con la consueta semplicità elvetica, introdotto dal direttore del Dipartimento delle Istituzioni, Norman Gobbi (il ministro degli interni ticinese, tradotto nel gergo italiano). Serata interessante, pacata nei toni, durante la quale Seiler ha dichiarato, testuale: «Oggi l’80% delle email fanno una rapida tappa a Washington e a Londra dove vengono copiate e archiviate. Solo le email criptate o protette da particolari misure di sicurezza sfuggono a questo gigantesco setaccio». Seiler si è ovviamente ben guardato dall’esprimere valutazioni politiche, però il tono del suo intervento era chiaro. Era come se chiedesse al pubblico presente: a voi va bene? Non sono un diplomatico ma un giornalista. E posso permettermi di rispondere. No, non va bene.
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Barnard: cosa sono gli speculatori e quanto male ci fanno
«Welcome to the crazed world of “The Masters of the Universe”». Benvenuti nel mondo allucinante dei “Padroni dell’Universo”. E’ un’espressione coniata a Wall Street dai collaboratori del super-speculatore John Meriwether, padrone dell’hedge fund Ltcm, una macchina per fare soldi fittizi truffando con numeri fittizi per miliardi di dollari l’intero mondo. Lavoravano, questi avvoltoi, con una tale feroce maniacalità che all’apice del successo e delle piramidi di coca che gli passarono nel sangue, una notte stapparono un rosso da 7.000 dollari a bottiglia e gridarono: «Siamo i Padroni dell’Universo!». Ltcm collassò nell’orgia finanziaria suicida nel 1998, e si rischiò il collasso della finanza mondiale. Dopo di loro, l’America e l’Europa si accorsero del pericolo nucleare che ’sta gente rappresentava, e corsero ai ripari: ne crearono di peggio.
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Ida Magli: governati da servi ignoranti che ci disprezzano
C’è un’indifferenza a qualsiasi fatto che possa far ripensare a quello che hanno progettato. Sento citare di nuovo Romano Prodi come candidato alla presidenza della Repubblica: il responsabile del nostro ingresso nella moneta unica. Oggi, con l’euro, siamo tutti più poveri. Ci arrabattiamo. L’Europa unita? Era un progetto sbagliato. L’Europa è giunta a essere quella che è per la storia delle varie nazioni che la compongono, che è storia di civiltà, di arte, di lingua. C’è un itinerario di identità dei singoli popoli e non si può sommare l’Italia con la Francia, l’Inghilterra con il Belgio. Ogni popolo la propria letteratura, la propria arte, la propria lingua. E che facciamo? Buttiamo Goethe? Perché Goethe non è europeo, è tedesco! Scrive in tedesco! Il punto è che non esisteva un’idea di Europa. Ho fatto tante ricerche ma non ho mai trovato il delinearsi di un popolo europeo. Fin dalle origini. Nemmeno nell’Impero Romano che era lo stesso a Parigi, a Londra, a Francoforte come a Roma, c’era questa idea. Semmai, appunto, potrebbe essere l’Italia a rivendicare qualcosa in questo senso. È che siamo governati da gente che ci disprezza e che è veramente fuori dalla storia.Unificare è stato un errore. Non era possibile farlo se non perdendo tutte le ricchezze europee. Quale lingua parleremo negli Stati Uniti d’Europa? Nella testa dei politici sarà l’inglese, cioè l’americano. E allora perderemo la ricchezza delle letterature nelle varie lingue del Vecchio continente, da Voltaire a Cervantes, da Kafka a Pirandello. Si pensa di poter fare l’unità così. Così come si è pensato di fare lo stesso con la moneta unica, dimenticando che la moneta è lo strumento di un popolo e non la si può imporre fuori dall’economia dei singoli Stati. Lo dicevo da antropologa ma l’hanno detto anche molti economisti. L’obiezione è che questo processo lo hanno fatto gli americani, certo con meno storia sulle spalle? Gli americani non avevano storia letteralmente, erano tutti immigrati e gli indigeni sono stati annientati quasi subito. Annientati con la violenza di chi conquista. E poi avevano un territorio immenso. Ho spesso detto che quello dell’unificazione è un progetto massonico. E ora c’è un libro di un massone, Gioele Magaldi, che lo conferma (“Massoni, società a responsabilità illimitata”, Chiarelettere). L’ho letto e riletto.E’ anche un’operazione intrigante. La tesi è la seguente: la massoniera ha vinto, tutti i suoi progetti sono stati realizzati, ora esca allo scoperto e lavori con trasparenza. Secondo quel libro, tutti sarebbero massoni. Certo fa dei nomi: Romano Prodi, Enrico Letta, Mario Monti. Che non hanno neppure sentito il bisogno di replicare. Si saranno messi d’accordo per non reagire in alcun modo. Comunque, prescindendo da questo, noto che Prodi torna in un momento in cui lo si dava per politicamente finito. E Matteo Renzi è al servizio della Commissione. Le sue riforme, come ammette Pier Carlo Padoan, sono dettate dai commissari. Un esempio, tratto dalla Legge di Stabilità: la depenalizzazione di alcuni reati. Il reato di omissione di soccorso in Congo non c’è. La coscienza individuale sta anche in un codice. Avere valori significa avere un codice. Depenalizzare i piccoli furti che opprimono le persone, rubare la borsetta dove ci sono gli affetti più cari sarebbe un limpida conquista? Se la giustizia è intasata, che si aumenti il numero dei magistrati. Depenalizzare, amnistiare non è una giustificazione delle civiltà ma mancanza dello Stato. Si vuole l’imbarbarimento degli italiani, dei belgi, degli inglesi.Uno Stato non ha l’obbligo di essere umanitario. Deve difendere i cittadini, il territorio, l’indipendenza. Sono convinta che gli Italiani siano all’ultima fase. Perché nessuno li difende. Silvio Berlusconi vuol salvare se stesso e s’è messo a praticare le larghe intese, che sono la fine della democrazia. Ha portato alla fine del suo partito, benché all’interno di Forza Italia ci fosse chi lo metteva sull’avviso. Beppe Grillo? All’inizio ci contavo, e invece… si barcamena pure lui: oggi dice una cosa, domani un’altra. Ecco, su di lui mi sono sbagliata. La selezione fatta sul web: errore clamoroso, mettendo insieme gente che non sa quello che fa, trapiantati dal nulla si trovano serviti e riveriti, con stipendi incredibili. Matteo Salvini? Forse ha delle idee, forse. Ma ha anche una presunzione tale che ralizzarle sarà difficile. Qui non si sono fatte le elezioni e, come ha dimostrato la Consulta, sono tutti illegittimi, compreso Giorgio Napolitano, che è stato eletto da quel Parlamento. E invece di preoccuparsi di legittimare, hanno tutti approfittato dello sgangheramento delle democrazia per cambiare la Costituzione a quattro mani.La riforma del Senato e del Titolo V: è fatta da un governo ignorante, nel senso che nessuno dei ministri di Renzi ha una competenze specifica per quello che è chiamato a fare. I politici di una volta venivano fuori dalle scuole della Dc e del Pci, facevano anni di commissioni interne e di governi ombra. Ora abbiamo un ministro della sanità, Beatrice Lorenzin, che non è laureata: è umiliante per medici, ricercatori, biologi. Renzi è una persona furba, non intelligente. Che butta lì ogni tanto delle battute, un po’ sbruffone. E dicono che è il suo stile. Ma nessun capo di Stato fa cose simili. Per stare nel mondo di Bruxelles devi essere stupido, nel senso di essere obbediente alla lettera. Il progetto europeo punta a tenere al guinzaglio la Germania e quei paesi che sono il serbatoio della civiltà. Anche Renzi finge di essere indipendente. E non c’è nessun complotto, è tutto alla luce del sole.(Ida Magli, dichiarazioni rilasciate a Goffredo Pistelli per l’intervista “L’Europa è un continente inventato”, pubblicata da “Italia Oggi” il 27 dicembre 2014).C’è un’indifferenza a qualsiasi fatto che possa far ripensare a quello che hanno progettato. Sento citare di nuovo Romano Prodi come candidato alla presidenza della Repubblica: il responsabile del nostro ingresso nella moneta unica. Oggi, con l’euro, siamo tutti più poveri. Ci arrabattiamo. L’Europa unita? Era un progetto sbagliato. L’Europa è giunta a essere quella che è per la storia delle varie nazioni che la compongono, che è storia di civiltà, di arte, di lingua. C’è un itinerario di identità dei singoli popoli e non si può sommare l’Italia con la Francia, l’Inghilterra con il Belgio. Ogni popolo la propria letteratura, la propria arte, la propria lingua. E che facciamo? Buttiamo Goethe? Perché Goethe non è europeo, è tedesco! Scrive in tedesco! Il punto è che non esisteva un’idea di Europa. Ho fatto tante ricerche ma non ho mai trovato il delinearsi di un popolo europeo. Fin dalle origini. Nemmeno nell’Impero Romano che era lo stesso a Parigi, a Londra, a Francoforte come a Roma, c’era questa idea. Semmai, appunto, potrebbe essere l’Italia a rivendicare qualcosa in questo senso. È che siamo governati da gente che ci disprezza e che è veramente fuori dalla storia.