Archivio del Tag ‘Nazioni Unite’
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A chi giovano le sconcertanti minacce rivolte a Mentana?
Tutto si può imputare, a Enrico Mentana, tranne che la mancanza di cordialità e di umana empatia. E’ un affabile surfer, il direttore del telegiornale de La7, nel mare tempestoso delle fake news ufficiali: magari dribbla le verità più scomode e sta ben attento a non uscire mai dalla cornice disegnata dagli spin doctor dell’establishment, ma almeno non partecipa alle crocifissioni rituali che il sistema infligge, con acrimonia, a questo e a quello, attraverso propagandisti con la bava alla bocca, travestiti da giornalisti. Di tutto si sentiva la mancanza, oggi in Italia, fuorché di un bel costume da martire, tagliato su misura per l’Enrico nazionale. Alla bisogna ha prontamente provveduto la mano (anonima, ovviamente) che gli ha indirizzato minacce mafiose, evocando l’oscura escatologia della forca che attenderebbe, un giorno, i malfattori della disinformazione. La minaccia è stata accolta così seriamente da mobilitare nientemeno che il primo ministro, dichiaratosi preoccupato per l’incolumità della libera informazione – che evidentemente nel nostro paese esiste ancora, secondo Giuseppe Conte.Par di sentire l’eco di antiche, orrende canzoni. Del tipo: negli anni di piombo, giornalisti come Indro Montanelli finirono all’ospedale “gambizzati” (mentre altri, come Walter Tobagi e Carlo Casalegno, non ebbero altrettanta fortuna). Nel saggio “Gli stregoni della notizia”, Marcello Foa – ora presidente della Rai – accusa frontalmente la categoria a cui appartiene: l’autocensura quotidiana, praticata in ossequio al potere, mina il giornalismo. Gli toglie prestigio e credibilità, e alla fine indebolisce il sistema democratico stesso, privandolo delle verità indispensabili alla buona salute dell’opinione pubblica. Oggi ci si mette a ridere, al solo ricordo della fialetta agitata da Colin Powell alle Nazioni Unite, per sembrare più convincente nel vendere la bufala delle armi di sterminio di Saddam. Ma il sorriso sparisce subito, se solo si prova a far presente – anche a Mentana – che architetti e ingegneri americani hanno dimostrato, in modo ormai incontrovertibile, che le Torri Gemelle non possono essere crollate in quel modo solo per l’impatto di aerei dirottati.Con Enrico Mentana ha ingaggiato una sorta di leale duello a distanza, a viso aperto, un personaggio come il regista e video-reporter Massimo Mazzucco, autore del primo documentario d’inchiesta sull’11 Settembre, “Inganno globale”, trasmesso proprio da Mentana nel 2006 in prima serata, su Canale 5. Bei tempi, dice Mazzucco, quando l’Enrico faceva ancora il giornalista, e quindi dava spazio anche all’altra campana, la versione non ufficiale dei fatti. Col tempo, non ha solo silenziato le indagini indipendenti sull’11 Settembre. Si è allineato all’establishment su tutto: dalla politica all’economia, sposando in modo acritico la teologia dell’austerity. Vale anche per il cosiddetto complottismo declassato a gossip. Invece di indagare giornalisticamente sulle scie che stranamente imbrattano i cieli da alcuni anni, suscitando interrogativi nella popolazione (e persino interrogazioni in Parlamento), si preferisce ridere di “quelli che credono alle scie chimiche”. Le famiglie italiane sono state terremotate dall’obbligo vaccinale per bambini e neonati? E certo, lo vuole “la scienza”. E la sanità della Regione Puglia, che ha scoperto che il 40% dei bimbi vaccinati ha subito reazioni avverse? E non è “scienza” l’ordine dei biologi, che ha scoperto vaccini “sporchi” e inefficaci, perché privi degli agenti immunizzanti?Mazzucco si occupa anche di vaccinazioni – come tanti, sul web – cercando di mettere insieme notizie e ragionamenti logici. Consultando i maggiori fotografi internazionali, nel documentario “American Moon” ha dimostrato che le immagini del mitico allunaggio del 1969 furono girate in studio. Si è occupato anche di cannabis, Mazzucco, scoprendo che c’era la lobby del petrolio dietro la storica decisione di criminalizzare di punto in bianco l’uso della canapa, oggi rivalutata in campo oncologico. E sempre a proposito di salute, lo stesso Mazzucco si è occupato anche di cancro, rivelando che – da cent’anni – i medici che avrebbero imparato a guarire i pazienti colpiti da tumori vengono semplicemente ignorati e silenziati, quando non messi all’indice. Milanese come Mentana, Mazzucco è nato come fotografo, assistente di Oliviero Toscani. Poi è passato al cinema, lavorando per anni – da regista e sceneggiatore – negli studios della De Laurentiis, a Hollywood. Fino a quel maledetto lunedì 11 settembre 2001, quando ha visto il seguente spettacolo: due aerei hanno potuto centrare le Torri Gemelle senza che nessun F-16 si fosse levato il volo, quantomeno nell’eternità di tempo trascorsa tra il primo e il secondo impatto.Quella mattina, a proteggere la superpotenza più armata del mondo c’erano solo due velivoli pronti a decollare, muniti di missili, più altri due di riserva. Tutti gli altri – centinaia – erano stati trasferiti per esercitazioni concomitanti, lontanissimo da New York. Una circostanza più che anomala: mai prima verificatasi, nella storia degli Usa (né mai più ripetutasi, infatti). Nel saggio “La guerra infinita”, uscito nel 2003, Giulietto Chiesa ricorda che l’ordine di attacco per l’Afghanistan era sulla scrivania di George W. Bush già il 9 settembre 2001, lo stesso giorno in cui i terroristi del “signore della guerra” Gulbuddin Hekmatyar uccisero l’unico legittimo leader agfhano, Ahman Shah Massoud. Troppo ingombrante, Massoud: campione della resistenza nazionale, prima contro l’Urss e poi contro i Talebani, sarebbe stato facilmente acclamato come nuovo presidente, una volta riconquistata Kabul. Gli assassini di Massoud – disse Benazir Bhutto – erano protetti dall’Isi, l’intelligence militare del Pakistan, succursale della Cia. «Mi candido alle elezioni», annuciò la Bhutto, «per ristabilire la verità». Saltò in aria in piena campagna elettorale, il 27 dicembre 2007, dilaniata da una bomba.Spesso, Enrico Mentana ha espresso nostalgia per il suo primo amore, la politica estera. Che fine ha fatto, dopo tanti anni, la voglia di scavare dietro la verità ufficiale della geopoltica? Mentana ha fatto la storia del giornalismo televisivo italiano: giovane esponente del Psi approdato in Rai grazie a Bettino Craxi, nel 1991 – a soli 37 anni – accettò la grande scommessa prospettatagli da Berlusconi: creando l’allora rivoluzionario Tg5, mandò in pensione il letargico e paludato Tg1, imponendo un nuovo tipo di informazione, brillante e fulminea, che già anticipava la velocità attuale del web, l’immediatezza istantanea dei social. Una volta approdato a La7, Mazzucco gli rinfaccia di essersi sprofondato nella nuova poltrona: poteva essere “il primo degli ultimi”, la maggiore delle voci indipendenti (in piena coerenza con la sua storia professionale) e invece si è rassegnato a essere “l’ultimo dei primi”, mestamente allineato al coro.Le residue illusioni sono cadute dando uno sguardo allo strombazzatissimo giornale online che Mentana ha aperto, in proprio, con il lodevole intento di dare spazio ai giovani giornalisti. Sulla nuova testata, “Open”, le notizie di apertura sono però di questo tenore: “Suoni e visioni: Google lancia l’Interpreter Mode, è l’inizio della fine degli interpreti umani?”. Ora, Mentre Mazzucco e gli altri ex estimatori augurano la buonanotte al fu Enrico Mentana, c’è però chi gli augura tutt’altro: “Presto vi puniremo, sappiamo tutto di voi, punirvi è un dovere”. Questo il messaggio che Mentana ha ricevuto, firmato “Boia chi molla”, con tanto di svastica. L’Italia ribolle di risentimenti, in parte fuori controllo: il governo gialloverde ha provato a metterci una pezza, ma con risultati deludenti. La stessa Europa sta franando, dai Gilet Gialli alle convulsioni post-Brexit. La tensione è in aumento ovunque, dopo gli opachi attentati domestici di marca Isis. Si avvicinano le europee, insieme alla temuta recessione. Cresce il caos? Manca solo il fantasma peggiore: quello del terrorismo. Qualcuno – non si sa chi – lo rianima prontamente, riuscendo a trasformare in quasi-eroe persino lo sbiadito, reticente Enrico Mentana.Mala tempora currunt: su pressione dell’oligarca tedesco Günther Oettinger, commissario Ue, il Parlamento di Strasburgo ha gettato le basi per un vero e proprio bavaglio del web, che impone il filtro dei contenuti sulle maggiori piattaforme (Google, Facebook, YouTube) e mette virtualmente fine alla libera circolazione dei link. E’ di questo che ha paura, il mainstream, dopo le ultime sconfitte subite: il referendum di Renzi e l’euro-diserzione del Regno Unito, la vittoria di Trump e quella dei gialloverdi. Comunque vada a finire, se mai dovesse sciaguratamente prendere corpo una reale minaccia di tipo terroristico contro la cosiddetta libera informazione, ci ritroveremmo di fronte a un copione già scritto: ancora più potere ai media mainstream, e un’ulteriore emarginazione dei media indipendenti, comodamente criminalizzabili in blocco. Come ha da poco ricordato lo stesso Mazzucco, l’imbecille di turno non manca mai. Il problema non è lui, ma chi poi lo manipolerà. Storia: le prime Br erano un fenomeno spontaneo. Quelle che uccisero Moro, non più.Di tutte le guerre striscianti in corso oggi, quella per l’informazione è la più cruciale: senza l’appoggio “militare” del mainstream, uno come Monti sarebbe stato preso a pesci in faccia, nel 2011. I vari Cottarelli e Moscovici possono sfilare tranquillamente in passerella davanti alle telecamere: nessun grande giornale e nessun telegiornale prenderà mai in seria considerazione le voci, anche molto autorevoli, che smontano ogni giorno le loro tesi. E’ una vera e propria emergenza democratica, quella dell’informazione manipolata. Lo dimostra, ogni giorno di più, il deficit di credibilità che oggi colpisce i giornalisti, una categoria di cui ormai la maggioranza della popolazione non si fida più. Attaccarli in modo sgangherato e proditorio non può che rafforzarli, puntellandone la pericolante attendibilità. Saranno ancora loro a scendere nell’arena delle prossime europee, ciascuno scrupolosamente “embedded”, precisamente istruito dai club come l’Aspen, il Bilderberg e la Trilaterale, sempre così premurosi nel fabbricare il consenso quotidiano attorno all’oligarchia neoliberista che ha silenziosamente svuotato le nostre democrazie, appaltate a politici di cartone trasformati in star da ex giornalisti che di tutto si occupano, tranne che delle vere ragioni della grande crisi.(Giorgio Cattaneo, “A chi giovano le sconcertanti minacce rivolte a Enrico Mentana?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 17 gennaio 2019).Tutto si può imputare, a Enrico Mentana, tranne che la mancanza di cordialità e di umana empatia. E’ un affabile surfer, il direttore del telegiornale de La7, nel mare tempestoso delle fake news ufficiali: magari dribbla le verità più scomode e sta ben attento a non uscire mai dalla cornice disegnata dagli spin doctor dell’establishment, ma almeno non partecipa alle crocifissioni rituali che il sistema infligge, con acrimonia, a questo e a quello, attraverso propagandisti con la bava alla bocca, travestiti da giornalisti. Di tutto si sentiva la mancanza, oggi in Italia, fuorché di un bel costume da martire, tagliato su misura per l’Enrico nazionale. Alla bisogna ha prontamente provveduto la mano (anonima, ovviamente) che gli ha indirizzato minacce mafiose, evocando l’oscura escatologia della forca che attenderebbe, un giorno, i malfattori della disinformazione. La minaccia è stata accolta così seriamente da mobilitare nientemeno che il primo ministro, dichiaratosi preoccupato per l’incolumità della libera informazione – che evidentemente nel nostro paese esiste ancora, secondo Giuseppe Conte.
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Barnard: Julian Assange verso la morte. E voi codardi, zitti
Ci ha rivelato verità indicibili, rendendoci più consapevoli e quindi più liberi. Ma ora Julian Assange può crepare, nella sua stanzetta-prigione, senza che nessuno muova un dito per salvarlo: giornali, attivisti, intellettuali, politici, governi. Si è immolato per tutti, con le esplosive rivelazioni affidate a WikiLekas. Sperava di suscitare un’ondata di protesta capace di scuotere il potere. E immaginava che l’indignazione lo avrebbe protetto dalla vendetta dell’establishment. Ma si sbagliava: Julian Assange sta morendo giorno per giorno: l’ambasciata ecuadoregna di Londra, che finora l’ha tenuto al riparo dall’estradizione, potrebbe non tutelarlo più. È così forte, la pressione degli Usa – sull’Ecuador, e sulle autorità britanniche – che le teste di cuoio inglesi potrebbero fare irruzione nella sede diplomatica e caricare Assange, il martire dell’informazione libera, sul primo volo per Washington. È sconvolgente il report che Paolo Barnard fornisce da Londra, dove ha trascorso le feste natalizie presidiando il “carcere” di Assange, agitando vistosi cartelli. Desolazione e solitudine. Peggio: i giornalisti del “Guardian”, i primi a presentare Assange come un eroe, ora confessano di essere intimiditi e ricattati. Per questo nessuno rimetterà in prima pagina il direttore di WikiLeaks. Julian Assange è praticamente già morto. Alla faccia dei diritti civili e dei diritti umani di cui l’Occidente si vanta.Dopo aver fatto da sentinella per 11 giorni sotto la finestra dove il giornalista australiano è sostanzialmente detenuto, Paolo Barnard getta la spugna. La denuncia che affida al suo blog è tale da coprire di vergogna l’intera opinione pubblica mondiale, a cominciare da attivisti per molti aspetti valorosi – come lo stesso John Pilger – che, dopo aver santificato Assange, oggi (nel momento del bisogno) lo hanno di fatto abbandonato al suo destino. Nessuna seria mobilitazione è in corso – in nessun paese – per premere sui governi in modo da scongiurare il peggio, ovvero: evitare che sia sottoposto a un processo “medievale”, negli Stati Uniti, l’uomo che sperava di migliorare il mondo (per la maggior libertà di tutti noi) rischiando in prima persona pur di rendere pubblico il lato oscuro del potere. Dal 2007, WikiLeaks ha pubblicato oltre un milione e 200.000 documenti riservati: dalla guerra in Afghanistan fino alle rivelazioni sulla corruzione in Kenya. Grazie a WikiLeaks il mondo ha scoperto come vengono torturati i prigionieri catturati dagli Usa e detenuti a Guantanamo.Nel 2010, il network di Assange ha svelato alla grande stampa (“New York Times”, “The Guardian”, “Der Spiegel”) il contenuto di alcuni documenti riservati, dai quali emergono aspetti nascosti della guerra in Afghanistan: l’uccisione di civili, l’occultamento dei cadaveri, l’esistenza di un’unità segreta americana dedita a «fermare o uccidere» i Talebani anche senza un regolare processo. Inevitabile che Julian Assange venisse perseguitato con il più ovvio dei pretesti, come l’accusa di “stupro” spiccata contro di lui nel 2010 dal tribunale di Stoccolma. Strano stupro: avrebbe avuto rapporti sessuali “non protetti”, ma con donne consenzienti. Il 7 dicembre 2010, Assange si presentò spontaneamente a Scotland Yard, dove venne arrestato (su mandato di cattura europeo). Dopo nove giorni di carcere venne rilasciato su cauzione. Il vero pericolo, fin da allora, è la possibile richiesta di estrazione negli Usa, una volta che Assange fosse trasferito in Svezia: l’accusa per spionaggio, negli Stati Uniti, può costare l’ergastolo e anche la pena di morte.Il fondatore di WikiLeaks è segregato dal giugno del 2012 nell’ambasciata londinese dell’Ecuador, paese a cui aveva chiesto asilo politico. Lo status di rifugiato gli è stato concesso il 16 agosto 2012 dal governo di Rafael Correa, temendo che la Gran Bretagna lo arrestasse per estradarlo a Stoccolma. Nel gennaio 2016, il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla Detenzione Arbitraria ha decretato che la permanenza forzata di Assange nell’ambasciata è configurabile come “detenzione arbitraria e illegale” da parte di Gran Bretagna e Svezia. Anche per questo, l’11 gennaio 2018 l’Ecuador ha confermato di aver concesso ad Assange la propria cittadinanza. Ricapitolando: l’uomo che rappreasenta la miglior fonte giornalistica del mondo è costretto a vivere in una stanzetta, da sei anni, per sottrarsi al pericolo di subire un processo sommario e magari di essere condannato a morte, una volta estradato negli Usa dopo il trasferimento in Svezia. E intanto sta franando anche il fragile diaframma che finora lo ha protetto. Il problema? Non c’è più Rafael Correa, alla guida dell’Ecuador.Il nuovo governo del paese centramericano è oggi totalmente pro-Usa, ricorda Paolo Barnard: e il neo-eletto presidente Lenìn Moreno ha definito il direttore di WikiLeaks «un sasso che mi sono ritrovato nella scarpa», e gli è totalmente ostile. Ormai la vita di Assange, nei pochi metri quadri in cui è ospitato, è diventata «un vero inferno di proibizioni e limiti». Assange è isolato dal mondo, senza cure, vessato dagli agenti interni. «Lo stanno demolendo nella psiche e nel corpo per costringerlo ad arrendersi e a uscire». L’autorevole “British Medical Journal” ha mandato uno specialista a visitarlo e ha denunciato come «drammatiche» le sue condizioni di salute, fisiche e mentali, dopo 6 anni di questo tipo di prigionia. E la situazione sta precipitando, avverte Barnard: «Da poche settimane si è venuto a sapere che ora esiste ufficialmente in America un’imputazione (cosiddetta segreta), cioè un capo d’accusa, contro Assange, cosa che prima mai era stata rivelata, ma che tutti temevano».Ciò significa che ora «la Gran Bretagna è sotto un’enorme pressione per estradarlo», appena uscisse dall’ambasciata. Peggio: potrebbe essere addirittura «prelevato di forza, col permesso dell’Ecuador». Il timore dell’esistenza di questa imputazione tenuta nascosta aggiunge Barnard, è stato precisamente il motivo per cui Julian Assange da 6 anni è costretto a vivere segregato nell’unica ambasciata che gli ha dato asilo, ma che ora gli è nemica. Ce ne sarebbe abbastanza per mobilitare almeno l’opinione pubblica, attraverso la stampa. E invece, scrive Barnard, arriva un’altra amara sopresa: i giornali non parlano più di Assange, perché sono stati minacciati. «Il prestigiosissimo inglese “The Guardian” – scrive Barbard – è il quotidiano che sotto la direzione di Alan Rusbridger lanciò gli scoop di WikiLeaks nel mondo, vendendo oceani di copie e sventolando Assange come un eroe del giornalismo». Ma ora, aggiunge, accade qualcosa d’incredibile. «Dal 2013, il quotidiano adotta un altro “whistleblower” di fama mondiale, Edward Snowden, e inizia a mollare Assange».In altre parole: si rischia di meno a parlare di Snowden, l’uomo che ha smascherato lo spionaggio di massa della Nsa, e che ora vive comunque al sicuro, a Mosca, protetto dalla Russia di Putin. È probabilissimo che, senza l’esempio di Assange, Snowden non avrebbe mai trovato il coraggio di uscire allo scoperto. Ma il “Guardian” sembra averlo dimenticato. E c’è di peggio: Barnard cita un editorialista del quotidiano inglese, Luke Harding, che si era lanciato in una crociata per tentare di dimostrare la presunta collusione di Putin con Trump nelle presidenziali 2016. Harding, che era già stato screditato per non aver prodotto praticamente una singola prova (ma solo illazioni), ora pubblica ora uno “scoop” proprio sul “Guardian”: Paul Manafort, il gran manager elettorale di Trump, secondo Harding avrebbe visitato Assange all’ambasciata diverse volte, e questo proverebbe che in realtà WikiLeaks ha davvero subdolamente pubblicato le nefandezze della Clinton per aiutare Donald, sotto ordini di Mosca. «La stampa mondiale riprende il cosiddetto scoop di Harding, e questo sembra essere il colpo di grazia per Julian. Ma in meno di 48 ore il tutto cade a pezzi», scrive Barnard. «In una settimana Harding viene demolito, al punto che il “Washington Post” scrive che il suo scoop sembra sempre più “una bufala”».Il 1° gennaio, lo stesso Barnard ha piantonato la sede del “Guardian” con un cartello appeso al collo. Il testo: “Sono un giornalusta. Assange era l’eroe del Guardian. Ora lo hanno degradato a falsario. Perché?”. Il sit-in di Barnard, a tre metri dall’ingresso della redazione del giornale, non passa inosservato: reporter, segretarie e tecnici rallentano, per leggere il suo cartello. Il secondo giorno, scrive, le cose si mettono male: «La security diviene ostile (“abbiamo ordini”), i colleghi che entrano ed escono evitano il contatto visivo, vengo fotografato da una guardia “sotto richiesta della direzione”». Nonostante ciò, alcuni giornalisti inglesi si fermano a parlare con il collega italiano, co-fondatore di “Report” con Milena Gabanelli. Le loro ammissioni sono penose: «Sì, dicono, c’è un ordine di squadra di mollare e screditare Assange; è una questione decisa dal gruppo editoriale, al top; si parla di pressioni insostenibili da parte del ministero degli esteri britannico e degli Usa; c’è addirittura shock, fra i giornalisti del “Guardian”, per questa decisione».Questo gli dicono, i cronisti inglesi. Uno di loro, Damien Gayle, addirittura rilancia su Twitter l’appello di Barnard per Assange, e giorni dopo gli confesserà: «Sono stato in ansia a twittarti, ma dovevo farlo perché la libertà di dissenso dovrebbe essere l’anima stessa del mio giornale. Spero non mi licenzino». È amaro, Barnard, dopo la sua generosa missione londinese: unico giornalista italiano (senza più giornali che lo pubblichino) a interessarsi della sorte del “prigioniero” più famoso del mondo. Osserva: «Sono convinto che tentare d’incriminare un direttore di testata, Julian Assange e WikiLeaks, per aver rivelato al mondo documenti riservati o dei servizi segreti su alcune nefandezze e crimini contro l’umanità di vari poteri attraverso l’uso delle “soffiate” (i “whistleblowers”), per poi punirlo con pene devastanti, può essere la fine del giornalismo». Infatti, aggiunge, «nessun “whistleblower” mai più avrà il coraggio di farsi avanti per svelare le porcherie segrete dei governi o delle corporations, e senza di loro il giornalista diviene al meglio un testimone di fatti, ma mai sarà in grado di rivelare la vere e profonde fonti degli eventi».La verità sul motivo per cui oggi praticamente tutti i governi del mondo appoggiano l’estradizione di Assange negli Usa – dopo le rivelazioni di WikiLeaks sulle porcherie elettorali della Clinton, sulle stragi americane in Iraq e Afghanistan o sulle reti di spionaggio della Cia su civili e aziende – non è assolutamente quella che ci raccontano, cioè che WikiLeaks avrebbe irresponsabilmente pubblicato segreti di Stato e di fatto aiutato Trump o l’Isis. Macché: il vero motivo, sottolinea Barnard, è questo: «Il potere rimane forte quando resta nell’oscurità. Una volta esposto alla luce del sole, comincia a evaporare». La frase non è di Barnard, ma dall’insigne politologo americano Samuel Huntington, co-autore del famigerato saggio “La crisi della democrazia” con cui il committente, la Commissione Trilaterale, a metà degli anni Settanta detterà le regole per lo svuotamento delle nostre democrazie. La frase sul potere, che diventa fragile se viene fatto uscire allo scoperto, Huntington l’ha scritta nel libro “American Politics. The promise of disharmony”, uscito nel 1983. «E’ questo il peccato mortale per cui oggi stanno distruggendo Julian Assange», sottolinea Barnard. «E’ solo per questo».Nonostante le imprecisioni di cui è responsabile, infatti, «WikiLeaks è l’unica pubblicazione al mondo che davvero ha devastato questo principio di dominio dei poteri, pubblicandone alla luce del sole le azioni più inconfessabili. E lo ha fatto grazie ai “whistleblowers”, e solo grazie a loro». Quindi, insiste Barnard, «se Assange sarà estradato negli Usa – il paese che nel nome della Sicurezza Nazionale (sotto cui sarebbe processato Assange) tortura, stermina innocenti coi “drones”, nega ogni diritto di legge ai detenuti e straccia ogni singola convenzione Onu sui diritti umani – questo direttore di testata sarà macellato come nessun giornalista prima, secondo l’infame principio del “ne ammazzi uno per avvisarne cento”. Impossibile che riceva un giusto processo in America, oggi».Inutilmente, Barnard ha fatto appello a tutti gli attivisti fino a ieri schierati con Assange, suggerendo loro di battere due strade di enorme peso, riguardo all’esilio coatto (e precario) del fondatore di Wikileaks. Primo atto d’accusa: la violazione, da parte della Gran Bretagna, dei princìpi della Magna Carta e dell’Habeas Corpus, cioè «i due pilastri della giurisprudenza mondiale, nati 800 anni fa proprio in Inghilterra». Seconda strada: la possibilità di accusare Londra in base alla Convenzione dell’Onu contro la Tortura, ratificata dagli inglesi nel 1987. Il trattato dice esplicitamente dice che tortura è “estrema sofferenza, sia fisica che mentale, inflitta di proposito a un individuo”. Il che è esattamente «ciò che i governi britannici stanno facendo ad Assange da 6 anni, confinato in semi-isolamento, privato di cure mediche, senza luce naturale e sorvegliato con ferocia a ogni mossa». Risposte? Nessuna. Salvo l’onesta e penosa ammissione di Damien Gayle, del “Guardian”: abbiamo paura di essere licenziati, se solo proviamo a riparlare di Assange.Era il 2011 quando un parlamentare socialista norvegese, Snorre Valen, osò candidare Julian Assange al Premio Nobel per la Pace: «Wilikeaks – disse – è il paladino della libertà di espressione e della trasparenza nel XXI secolo». Parole oggi improponibili, impensabili. Lo conferma la costernazione di Paolo Barnard, dopo 11 giorni spesi a Londra nella solitaria difesa del “prigioniero”. «Torno a casa – scrive – con la conferma di ciò che ho sempre pensato: ha vinto la Commissione Trilaterale, quando nel 1975 decise che il popolo andava reso “apatico” con l’esplosione dei mass media sia ortodossi che “alternativi” (oggi i social), dove infuriano epiche leggende mentre nessuno davvero fa un cazzo nelle strade perché è fatica e rischio, dove si creano i miti Vip per il palcoscenico, e dove i veri eroi rimangono soli come cani». Ha vinto Huntington, ha perso Assange? Peggio: abbiamo perso tutti, in partenza, se non siamo capaci di muovere un dito per tutelare un campione dell’informazione. Ad Assange, peraltro, lo stesso Barnard non ha mai fatto sconti: certi “leak” possono davvero aver messo in pericolo alcuni esponenti dell’intelligence, violandone la segretezza. In cambio, però, il mondo ha potuto aprire gli occhi su realtà sconvolgenti. Non è strano che l’establishment tenti di soffocare Assange, in modo che la sua punizione sia d’esempio per chiunque altro volesse imitarlo. Lo scandalo vero è il silenzio assordante dell’opinione pubblica, per la quale Assage ha messo in gioco la sua vita.Ci ha rivelato verità indicibili, rendendoci più consapevoli e quindi più liberi. Ma ora Julian Assange può crepare, nella sua stanzetta-prigione, senza che nessuno muova un dito per salvarlo: giornali, attivisti, intellettuali, politici, governi. Si è immolato per tutti, con le esplosive rivelazioni affidate a WikiLekas. Sperava di suscitare un’ondata di protesta capace di scuotere il potere. E immaginava che l’indignazione lo avrebbe protetto dalla vendetta dell’establishment. Ma si sbagliava: Julian Assange sta morendo giorno per giorno: l’ambasciata ecuadoregna di Londra, che finora l’ha tenuto al riparo dall’estradizione, potrebbe non tutelarlo più. È così forte, la pressione degli Usa – sull’Ecuador, e sulle autorità britanniche – che le teste di cuoio inglesi potrebbero fare irruzione nella sede diplomatica e caricare Assange, il martire dell’informazione libera, sul primo volo per Washington. È sconvolgente il report che Paolo Barnard fornisce da Londra, dove ha trascorso le feste natalizie presidiando il “carcere” di Assange, agitando vistosi cartelli. Desolazione e solitudine. Peggio: i giornalisti del “Guardian”, i primi a presentare Assange come un eroe, ora confessano di essere intimiditi e ricattati. Per questo nessuno rimetterà in prima pagina il direttore di WikiLeaks. Julian Assange è praticamente già morto. Alla faccia dei diritti civili e dei diritti umani di cui l’Occidente si vanta.
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Rolling Stone: ma che rabbia, quel Rinaldi sempre in tivù
Ma come si permette, Antonio Maria Rinaldi, di dire quello che pensa? Come osa trascinare il suo ciuffo argenteo nei migliori salotti televisivi, da cui dispensare il suo sub-pensiero economico declinandolo sfrontatamente in romanesco? Non sa, Rinaldi, che negli studi di Giletti, di Floris e della Gruber, come in quelli di Mediaset e della Rai, devono avere accesso solo personaggi collaudati come Beppe Severgnini, Paolo Mieli, Massimo Cacciari e altri analoghi, rassicuranti esponenti del clero regolare? Se qualcuno si domandasse come mai l’Italia è classificata al 46esimo posto nella graduatoria di “Reporters sans frontières” sulla libertà d’informazione, forse una risposta potrebbe trovarla dando uno sguardo alla demolizione programmata di Antonio Maria Rinaldi, eseguita dal giovane Steven Forti sul magazine musicale “Rolling Stone”. Non vive di sola musica, “Rolling Stone”. Lo si capisce da titoli come questo: “Il troll di Salvini è meglio di Salvini”. Oppure: “Sapreste riconoscere il fascismo, se tornasse?”. O ancora, sotto una foto di Beppe Grillo: “La politica non fa più ridere”. Quanto all’autore della sommaria rottamazione cartacea di Rinaldi, per lui parlano titolazioni altrettanto eloquenti: “La bestia, ovvero del come funziona la propaganda di Salvini”. Va da sé: “Un fantasma si aggira per l’Europa: il rossobrunismo”, dal momento che “Piccoli Salvini crescono”.
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Moiso: ecco perché l’Italia è in coda, nella libertà di stampa
Secondo “Reporters sans frontières” l’Italia è solo al 46esimo posto, nel mondo, per libertà di espressione. Include la libertà di pensiero, spesso limitata da precise linee editoriali. Nel suo articolo su “Rolling Stone” contro Antonio Maria Rinaldi, a mio avviso l’autore – Steven Forti – sembra appartenere al pensiero unico, che vede sempre contrapposta una sedicente destra (che non si accorge di come il neoliberismo stia fagocitando le piccole e medie imprese) e una sedicente sinistra (che si occupa solo di diritti civili, ma si lamenta di chi rivendica la sovranità del popolo). Ora, vedendo per chi scrive Forti – riviste come “Left” e “Micromega” – mi viene in mente Che Guevara, che forse sarà proprio un idolo di Forti: mi viene in mente come proprio il Che rivendicasse la sovranità del popolo e delle Nazioni Unite. Curioso che oggi l’idea di sovranità venga criticata da chi scrive nel circuito dell’intellighenzia di sinistra. Mi sembra quasi un controsenso, anche perché senza sovranità non esiste democrazia: e se non è il popolo, a essere sovrano, sicuramente sarà sovrano qualcun altro. A una persona come Forti, che si dice appartenente a una certa corrente, mi viene da domandare: a chi, se non al popolo, dovrebbe appartenere la sovranità?Nel suo articolo, Forti rinfaccia a Rinaldi il fatto di aver criticato la gestione dell’obbligo vaccinale introdotta in Italia – quasi che di certi argomenti non ci si potesse occupare, come cittadini. Mi chiedo allora come mai, dalle pagine di “Rolling Stone”, che è una rivista di musica, ci si debba occupare di politica in maniera così superficiale. In realtà deve essere sempre possibile pronunciarsi liberamente su ambiti che non siano di specifica pertinenza professionale: si può parlare di vaccini, eccome, pur non essendo dei medici. E grazie a Dio, in Italia viene ancora data un’educazione che permette ai ragazzi di spaziare su diversi temi. Mi sembra che l’articolo di “Rolling Stone” sia frutto della solita incoerenza di un mondo, quello della sedicente sinistra, che ha smesso di avere senso critico. E ha smesso di avere la capacità di districarsi nella complessità del mondo attuale. Lo si vede sul tema dell’Europa, dove oggi chi si sente europeista non può che condannare delle istituzioni assolutamente tecnocratiche, economicistiche e antidemocratiche. Chi crede nell’Europa dei popoli non può non criticare questa Unione Europea. Idem come sopra: chi crede nella democrazia non può non rivendicare la sovranità del popolo.A luglio, in Europa, sembrò sventato il tentativo del commissario Oettinger di mettere un bavaglio al web con la scusa del copyright. In realtà poi a settembre – sempre con l’alibi della riforma del copyright – il Parlamento Europeo ha di fatto legalizzato una sorta di censura preventiva (con l’introduzione della cosiddetta “link tax” e della responsabilità assoluta per le piattaforme come YouTube e Facebook, nonché un meccanismo di filtraggio dei contenuti caricati dagli utenti). C’è chi ha considerato questo intervento una vera e propria pagina nera per la democrazia e la libertà dei cittadini, dal punto di vista dell’informazione. A livello europeo c’è quindi una vera e propria stretta, sul web. Quanto all’Italia, il nostro paese continua a non godere di una posizione privilegiata per ciò che riguarda la libertà d’informazione. Quest’anno si è attestata al 46° posto, su 180 paesi esaminati. E quando si parla di libertà di informazione non si parla solo di divieti come quelli imposti dall’Europa, ma anche di libertà di esprimere delle idee, uscendo da alcune linee editoriali.La settimana scorsa un parlamentare di spicco del Movimento 5 Stelle, Pino Cabras, faceva notare – dalla sua pagina Facebook – come alcune notizie, che pure susciterebbero grande interesse, non vengano assolutamente trattate. Un esempio: è stato dedicato pochissimo spazio al recente sbarco della Cina sul “lato oscuro” della Luna. Altra notizia: pare che degli hacker siano riusciti a entrare nel sito dell Fbi, abbiamo rubato dei documenti e li stiano pian piano divulgando (per quanto non contengano, al momento, grandi novità). Però sono tutte notizie delle quali non si parla minimamente. Come a dire che, comunque, ci sono dei temi più graditi. C’è da chiedersi in che stato sia, l’informazione italiana ed europea, di fronte ad articoli come quello di Steven Forti, che – parlando su “Rolling Stone” di Antonio Maria Rinaldi – denuncia il decadimento della politica italiana, in mano da una parte al sovranismo, e dall’altra al qualunquismo di chi, per esempio, si sente di criticare i vaccini senza avere alcuna competenza medica. Lo stesso Forti cita anche il “partito che serve all’Italia”, definendo Gioele Magaldi “complottista” e “fissato col pericolo massonico”, addirittura un vittimista convinto di essere censurato dai media. Ci sono tanti cortocircuiti, nella narrativa mediatica odierna. Davvero per Steven Forti non c’è un veto mediatico, nei confronti del Movimento Roosevelt e di Gioele Magaldi? Lo invito a fare un’intervista con noi: forse ci sono cose che scoprirebbe, che non si aspetta, e che meritano di essere considerate.(Marco Moiso, dichiarazioni pronunciate nella diretta web-streaming su YouTube con Gioele Magaldi il 19 gennaio 2019, dal titolo “Steven Forti e la scorrettezza dell’informazione”. Moiso è vicepresidente del Movimento Roosevelt).Secondo “Reporters sans frontières” l’Italia è solo al 46esimo posto, nel mondo, per libertà di espressione. Include la libertà di pensiero, spesso limitata da precise linee editoriali. Nel suo articolo su “Rolling Stone” contro Antonio Maria Rinaldi, a mio avviso l’autore – Steven Forti – sembra appartenere al pensiero unico, che vede sempre contrapposta una sedicente destra (che non si accorge di come il neoliberismo stia fagocitando le piccole e medie imprese) e una sedicente sinistra (che si occupa solo di diritti civili, ma si lamenta di chi rivendica la sovranità del popolo). Ora, vedendo per chi scrive Forti – riviste come “Left” e “Micromega” – mi viene in mente Che Guevara, che forse sarà proprio un idolo di Forti: mi viene in mente come proprio il Che rivendicasse la sovranità del popolo e delle Nazioni Unite. Curioso che oggi l’idea di sovranità venga criticata da chi scrive nel circuito dell’intellighenzia di sinistra. Mi sembra quasi un controsenso, anche perché senza sovranità non esiste democrazia: e se non è il popolo, a essere sovrano, sicuramente sarà sovrano qualcun altro. A una persona come Forti, che si dice appartenente a una certa corrente, mi viene da domandare: a chi, se non al popolo, dovrebbe appartenere la sovranità?
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Magaldi: altro che Global Compact, serve una rivoluzione
Global Compact? “Ma mi faccia il piacere”, avrebbe detto Totò. Chi dovrebbe globalizzarli, i diritti? L’élite neoliberista che ha imbrogliato i francesi imponendo loro un ducetto come Macron, al quale infatti oggi la Francia si ribella? Non è più tempo di buonismi pelosi, o di dichiarazioni di principio altisonanti e destinate a restare lettera morta. Secondo Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, c’è poco da scherzare: l’Italia gialloverde traballa ingloriosamente sotto la scure dell’Ue, proprio mentre i Gilet Gialli paralizzano Parigi e almeno 7 francesi su 10 parteggiano per la rivolta di strada. E’ lo specchio perfetto, dice Magaldi, del vero volto della globalizzazione-canaglia, a senso unico, messa in piedi a esclusivo beneficio delle multinazionali finanziarie. La stessa élite vorrebbe imporre l’accoglienza illimitata dei migranti col patrocinio dell’Onu? Ridicolo, anche perché le Nazioni Unite non sono più una cosa seria. «Hanno fallito, come prima di loro la Società delle Nazioni». Che fare? «Per esempio creare una Organizzazione Mondiale delle Democrazie, capace di gestire il mondo rimettendo al centro la politica». Sogni? Sì e no: dipende da quali meccanismi si mettono in moto. «E la situazione, oggi, per molti aspetti è pre-rivoluzionaria, non solo nella Francia di Macron».In una conversazione a ruota libera su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” all’indomani della “resa” di Macron alle richieste dei Gilet Gialli, che chiedono che il governo annulli tutte le misure di austerity annunciate, Magaldi parte proprio dalle polemiche sul Global Compact. Un’intesa solo pletorica e fondata su impegni non cogenti, peraltro già boicottata da vari pesi massimi della politica mondiale. Eppure c’è chi la indica come pericoloso cavallo di Troia dell’élite neoliberista, che promuove l’emigrazione di massa per abbassare il costo del lavoro in Occidente a spese dei lavoratori autoctoni. Sdoganare l’emigrazione come fenomeno fisiologico? Mai e poi mai, protesta – sempre in web-streaming con Frabetti – un altro “roosveltiano” come Gianfranco Carpeoro: «Vorrei vedere nelle nostre strade solo studenti africani e turisti africani, non africani che abbiamo costretto a scappare dai loro paesi». Magaldi concorda: il potere che oggi difende l’esodo di massa è il primo responsabile dell’impoverimento di milioni di persone, nel cosiddetto terzo mondo. L’immigrazione va controllata, è ovvio. Ma per scoraggiarla serve una riconversione globale della politica, ad esempio mettendo fine al saccheggio dell’Africa. A patto comunque che non si pretenda di alzare muri: impensabile isolare le popolazioni entro le gabbie nazionali, in un pianeta ormai completamente interconnesso (e spesso felicemente, grazie al contatto tra culture diverse).Il problema semmai è nel manico, insiste Magaldi: è impossibile far applicare un qualsiasi Global Compact, così come gli stessi innumerevoli trattati sul clima, perché manca un potere decisionale democratico mondiale. Manca, per lo spesso motivo per cui finora la mondializzazione non è stata certo democratica: è stata finora condotta da oligarchie private, ricorda Magaldi, a partire dall’inizio degli anni ‘90, subito dopo il crollo dell’Urss e la nascita dell’Ue, e poi con la deregulation finanziaria e l’ingresso del colosso cinese nel Wto. Ad oggi abbiamo visto solo una globalizzazione di merci e capitali. «La libera circolazione delle persone? Si è favorita un’immigrazione incontrollata, creando competizione tra poveri e abbassamento del costo della manodopera». Altri danni, ai sistemi sociali occidentali (leggasi: lavoratori) sono stati provocati dalle delocalizzazioni industriali. Fermare tutto e tornare ai dazi nazionali degli uni contro gli altri? Pessima idea: «In passato, le politiche protezionistiche sono sfociate in guerre sanguinose. E oggi si avrebbero comunque guerre economiche cruente, alla fine non convenienti per nessuno».Per Magaldi, serve «una globalizzazione di diritti, opportunità e democrazia». Facile a dirsi, certo. Ma intanto, chi lo dice, nel mainstream politico dominato da polemiche sempre più accese? «In Italia – aggiunge Magaldi – l’immigrazione rischia di diventare solo un mezzo, strumentale, per creare tensioni sociali (e in questo caos, poi, sappiamo che le solite “manine” si muovono in termini opachi)». Che fare? Semplice, in teoria: dobbiamo «mettere all’ordine del giorno mondiale una rivalutazione della politica, che deve tornare a essere il centro decisionale di ogni cosa che riguardi i livelli locali e globali». E cioè: «Ripensare gli interessi globali, valorizzando gli equilibri e le risorse locali». Sarebbe la migliore risposta a questa globalizzazione, «sorretta dall’ideologia neoliberista e gestita soprattutto da poteri privati». Al contrario, bisogna «puntare una globalizzazione gestita, a livello apicale, da poteri politici globali». Dovevano farlo prima la Società delle Nazioni e poi l’Onu. Due fallimenti storici. Una cosa è certa: così non si andrà lontano. Meglio allora «pensare a una trasformazione dell’Onu, verso una nuova politica democratica che abbia l’ultima parola nei grandi processi decisionali».Sbaglia, chi pensa di poter contrastare poteri sovranazionali e apolidi (cioè incarnati da avventurieri senza patria), rintanandosi «nel fittizio calduccio delle comunità nazionali». Quelle stesse comunità, sostiene Magaldi, le vedremmo «sempre scosse da poteri più ampi, di natura globale: che vanno contrastati e ricollocati nella loro giusta dimensione da poteri politici altrettanto globali». Poteri che – a quel punto – potrebbero anche costruire democraticamente un vero Global Compact, ben diverso da questa aleatoria dichiarazione d’intenti non vincolante («molto rumore per nulla, salvo enunciazioni sottoscrivibili, a favore dell’estensione dei diritti umani, se non sapessimo che sono soltanto parole»). In altri termini: «Se vogliamo essere concreti, bisogna che gli organi preposti ad attuare questi principi abbiano un potere cogente, però democratico e non calato dall’alto». Premessa: «Dobbiamo essere capaci di riflettere sulla natura del mondo che vogliamo». Prima di scrivere qualsiasi Global Compact, cioè, occorrerebbe disporre di una vera Organizzazione Mondiale delle Democrazie, «che sostituisca l’attuale Onu ed escluda anche dal circuito commerciale delle merci e dei capitali i paesi privi di standard democratici, premendo su di essi – anche con sanzioni economiche – perché i loro regimi evolvano verso forme democratiche».La verità, insiste Magaldi, è che questo tipo di globalizzazione – l’unica vista finora – ha deluso molti, perché al primo posto non c’è la diffusione mondiale della democrazia e dei diritti. Ultima cartina di tornasole: i francesi. «Alle elezioni sono stati obnubilati dalla mistificazione mediatica: bastava guardare cos’era Macron, consulente economico di Hollande e poi ministro del governo Valls voluto da Hollande». Appunto: «In che modo poteva rappresentare una soluzione di continuità rispetto a Hollande che, eletto a furor di popolo per rappresentare il campione anti-austerity e anti-Merkel in Europa, aveva tradito tutte le aspettative? Le ha tradite anche Macron». Al primo turno, Macron aveva ottenuto solo pochi decimali più dei concorrenti, «poi al ballottaggio contro Marine Le Pen avrebbe vinto chiunque». Oggi la democrazia francese appare bloccata: «Fintanto che un certo tipo di opposizione si radicalizzerà in gruppi politici infecondi, l’altro candidato avrà sempre la meglio». Vincerà sempre il più “moderato”, si sarebbe detto un tempo. Non è più vero: «In Francia come altrove, oggi la parola “moderazione” non significa più nulla», se è vero che Macron – dietro l’apparenza – era il candidato dell’élite economica più pericolosamente estremista, come dimostra l’esasperazione di massa dei Gilet Gialli.Insurrezione, la loro – non proprio rivoluzione, «che però ha un enorme valore per lo spirito messo in evidenza», sottolinea Magaldi: «Qui c’è un popolo, un’avanguardia popolare largamente sostenuta dal paese, che dice basta: denuncia l’insostenibilità di salari che, al netto delle tasse, non consentono di arrivare alla fine del mese. Ed è la fotografia, appunto, di una cattiva globalizzazione, dove i ricchi sono sempre più ricchi, mentre per la gran parte della popolazione la fetta da spartire si è ridotta, e la classe media è stata compressa persino nella ricca e opulenta Francia». Qualunque economista, oggi, ammette che è cresciuta enormemente la disuguaglianza: si è fatto enorme il divario tra ricchi e poveri, in questa «iniqua e stupida modalità di gestire la globalizzazione». Stupida ma, beninteso, «figlia di un’impostazione raffinata, perversa e intelligente nel produrre i suoi effetti, che spero – dice Magadi – saranno l’occasione per produrre una grande rivoluzione democratica».La stupidità di questi globalizzatori, spiega il presidente del Movimento Roosevelt, sta «nel pensare che si poteva impunemente gestire la globalizzazione in questi termini, e che in Francia – dopo il bluff e la delusione di Hollande – si poteva impunemente imporre al popolo francese un damerino, un cicisbeo inconsistente come il fratello massone Macron, fintamente progressista e fintamente europeista». Un personaggio che invece di proporsi come presidente della Francia, «propinando ricette economiche analoghe a quelle del suo più modesto alter ego italiano Matteo Renzi», avrebbe fatto meglio a «rimanere nella sua vita privata di collaboratore bancario», uomo di fiducia della filiera Rothschild. «Oggi più che mai – aggiunge Magaldi – gestire il futuro dell’Europa è un compito che richiede persone con uno spessore molto diverso. Purtroppo invece abbiamo una classe dirigente europea che è fatta di cialtroni e di mediocri. E infatti, «da bravo cialtrone», dopo aver sbagliato «adesso Macron fa atto di contrizione e torna sui suoi passi», rimangiandosi i provvedimenti che hanno provocato la rivolta dei Gilet Gialli.«Io credo che Macron dovrebbe invece dimettersi», taglia corto Magaldi. E già che c’è, all’ex enfant prodige dell’Eliseo converrebbe «confessare che stessa costruzione della sua presidenza è figlia di una visione sbagliata dei rapporti sociali ed economici». Lo stesso Magaldi ne approfitta per citare il filosofo statunitense John Rawls, massone progressista come i Roosevelt, i Kennedy e lo stesso Keynes, tutti sostenitori del libero mercato integrato nel welfare: «Non c’è niente di male nell’arricchirsi, purché non si tolga agli altri l’essenziale per una vita dignitosa e felice. Invece, la pretesa perversa che ha guidato sin qui la globalizzazione e la stessa Europa, sia a livello di tecnocrazie continentali che di singoli governi, è che i ricchi possano arricchirsi a dismisura, mentre masse di diseredati si debbono contendere le periferie e la stessa classe media, ormai scomparsa, vede ridotta sempre di più la propria capacità di spesa, in un mondo occidentale che peraltro è ricco di opulenza – altro che penuria di risorse! – ma sono sempre di meno quelli che possono approfittarne in modo adeguato». Questa, aggiunge Magaldi, «è la pretesa, la hybris, l’arroganza infingarda» dell’attuale élite neoliberista.Quanto ai Gilet Gialli, «sebbene questa non credo sia una rivoluzione ma un’insurrezione ancora scomposta», il clima generale – francese, ma anche europeo e mondiale (senza contare l’Italia, dove si gioca una partita importante) – secondo Magaldi «è quello che in qualche modo precede una rivoluzione, spero pacifica e democratica». Il governo italiano, fra l’altro, «ha il dovere di guardare a quello che accade in Francia, e di capire che – così come ha deluso le aspettative Macron – rischia di deludere le aspettative del popolo italiano (e anche di altri popoli, che guardano all’Italia come a una possibile avanguardia)». Stiano attenti, i gialloverdi: «Con una spallata potrebbero abbattere questo Mago di Oz collettivo, di cui Macron era parte». O meglio: “potevano”, con una spallata, «tener davvero fede a quell’atteggiamento muscolare che Salvini realizza soltanto a chiacchiere». E invece l’Italia «sta come uno scolaretto che si fa prendere per le orecchie e si fa riscrivere la manovra per restare dentro quegli stessi parametri astratti che adesso Macron, campione di quei parametri e di quella cattiva Europa, si appresta a violare in modo netto». Ora è “pentito” e “contrito”, Macron: ma se farà quello che oggi promette, cioè quello che chiedono i Gilet Gialli, andrà ben oltre i limiti imposti dall’Europa all’Italia. In altre parole: ne vedremo delle belle. Insiste Magaldi: fidatevi, tutto è in rapida evoluzione. E clima lascia presagire esiti rivoluzionari.Global Compact? “Ma mi faccia il piacere”, avrebbe detto Totò. Chi dovrebbe globalizzarli, i diritti? L’élite neoliberista che ha imbrogliato i francesi imponendo loro un ducetto come Macron, al quale infatti oggi la Francia si ribella? Non è più tempo di buonismi pelosi, o di dichiarazioni di principio altisonanti e destinate a restare lettera morta. Secondo Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, c’è poco da scherzare: l’Italia gialloverde traballa ingloriosamente sotto la scure dell’Ue, proprio mentre i Gilet Gialli paralizzano Parigi e almeno 7 francesi su 10 parteggiano per la rivolta di strada. E’ lo specchio perfetto, dice Magaldi, del vero volto della globalizzazione-canaglia, a senso unico, messa in piedi a esclusivo beneficio delle multinazionali finanziarie. La stessa élite vorrebbe imporre l’accoglienza illimitata dei migranti col patrocinio dell’Onu? Ridicolo, anche perché le Nazioni Unite non sono più una cosa seria. «Hanno fallito, come prima di loro la Società delle Nazioni». Che fare? «Per esempio creare una Organizzazione Mondiale delle Democrazie, capace di gestire il mondo rimettendo al centro la politica». Sogni? Sì e no: dipende da quali meccanismi si metteranno in moto. «E la situazione, oggi, per molti aspetti è pre-rivoluzionaria, non solo nella Francia di Macron».
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Hitler, Kennedy, 11 Settembre: è nera la storia dei Bush
Se c’è un motivo per cui si insiste sull’importanza dell’omicidio Kennedy, dopo oltre 50 anni dall’evento, non è certo per “cospirazionismo congenito”, ma per un fatto molto più semplice e tangibile: la stessa persona che era a Dallas il 22 novembre 1963 dormì alla Casa Bianca il 10 settembre 2001. E ciò per sua stessa ammissione, in ambedue i casi. Anzi, nel primo George Herbert Bush, padre-padrone del Nuovo Ordine Mondiale – oltre che del futuro presidente, George Walker Bush – si premurò di informare direttamente l’Fbi della sua presenza a Dallas quel giorno, proprio nelle ore in cui il corteo di Kennedy si presentava all’appuntamento con la storia in Dealey Plaza. Nelle stesse ore Richard Nixon, presente a Dallas da tre giorni per «motivi personali» – peraltro mai accertati – ripartiva alla volta di New York, dove avrebbe appreso dell’avvenuto omicidio di John Kennedy. Sarebbe diventato l’unico uomo al mondo a non ricordarsi del momento esatto in cui apprese la notizia, fornendone negli anni ben tre versioni differenti: all’aeroporto, durante il tragitto in taxi, sotto il portone di casa. «Diventano così tre, contando anche Johnson che lo sarebbe diventato quel pomeriggio, i futuri presidenti che erano a Dallas quel giorno. Un curioso crocevia della storia, se non altro».Lo afferma Massimo Mazzucco, riproponendo su “Luogo Comune” una scheda sulla dinastia dei Bush all’indomani della scomparsa di “Bush padre”, George H., spentosi a Houston il 30 novembre all’età di 94 anni. Dei Bush “segreti” parla diffusamente Gioele Magaldi nel bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014), svelando che – dopo la sconfitta subita da Reagan alle primarie repubblicane nel 1980 – Bush senior fondò la Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, detta anche “loggia del sangue e della vendetta”. Alla “Hathor”, nella sua ricostruzione fondata su un archivio massonico di 6.000 pagine, Magaldi attribuisce l’attentato a Reagan (cui seguì in modo simmetrico l’attentato a Papa Wojtyla), quindi l’incubazione della strage dell’11 Settembre e infine – ancora nel campo del terrorismo “false flag” – la fabbricazione dell’Isis, ultima incarnazione del “demonio” islamista partorito dallo schema (interamente occidentale) del cosiddetto “scontro di civiltà”, grazie al quale il gruppo di potere capeggiato dalla superloggia dei Bush decise di completare “a mano armata” la globalizzazione violenta del pianeta, attraverso guerre in Medio Oriente innescate da “fake news” come le inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.Dal canto suo, Mazzucco si concentra invece su “nonno Bush”, ovvero Prescott, il padre di George H. Lo definisce «la persona più importante di tutte, in questa vicenda», dati i clamorosi legami della famiglia col nazismo. Retroscena imbarazzanti, in grado di illuminare le origini del gruppo di potere che – con l’11 Settembre – ha cambiato la storia del pianeta. Tanto per cominciare, Prescott Bush era a Dallas il giorno dell’attentato a Kennedy. E oltre che ad aver avuto un ruolo determinante, dietro le quinte, in tutta la politica americana del dopoguerra, lo stesso Prescott è risultato esser stato implicato nei pesanti finanziamenti illeciti che contribuirono all’ascesa di Hitler al potere. La vicenda, aggiunge Mazzucco, merita di essere conosciuta per meglio inquadrare la potenza di una dinastia così determinante, nella storia degli Usa e del resto del mondo. Fin dall’inizio, la saga dei Bush è fondata sul fatale intreccio di politica e affari. Il nonno materno di Prescott, George Herbert Walker, aveva fondato a St.Louis, nel 1900, la società finanziaria G. H. Walker and Company. Tale fu il suo successo, che nel 1920 la società si trasferiva con tutti gli onori nella prestigiosa Wall Street di New York. Di lì a poco, il contatto con la Germania: nel 1924 George Walker conobbe l’industriale tedesco Fritz Tyssen, uno dei maggiori finanziatori del nascente partito nazista. «In poco tempo Walker divenne a sua volta il tramite di finanziamenti sempre più voluminosi che dall’America finivano direttamente nelle casse di Hitler».Un’altra compagnia che investiva denaro americano in Germania era la Sullivan & Cromwell di un certo Allen Dulles, che ritroveremo trent’anni dopo alla guida della Cia. Una terza società, la più importante di tutte, era la Harriman & Associates, di un certo Averill Harriman: «Un personaggio con forti legami col paritito nazista tedesco, che in seguito sarebbe divenuto ambasciatore Usa a Mosca, e poi ministro del commenrcio, sotto Truman». Nel 1931, prosegue Mazzucco, Harriman scelse George Walker alla guida della Union Banking Corporation, la banca che gli serviva da tramite per i suoi traffici monetari con la Germania. A sua volta, nel 1934, George Walker fece assumere il nipote Prescott come vicepresidente della Harriman & Associates, accanto al suo boss. Nel 1936 Harriman fondò la Brown Brothers Harriman, ne assunse alla guida legale Allen Dulles, del quale assorbiva nel frattempo la Sullivan & Cromwell. Nel 1937 Harriman entrò in società con i Rockefeller, dando origine alla Brown Brothers Harriman-Schroeder Rock. Già a quel tempo, Rockefeller significava Standard Oil.Come delfino di Harriman, Prescott Bush si era intanto venuto a trovare, prima della guerra, anche nel consiglio di amministazione della Union Banking. Ma nel 1942 – a guerra scoppiata – la banca si vide congelare dall’Fbi di Edgar J. Hoover tutti i beni, in seguito ad una legge che imponeva di interrompere ogni possibile relazione finanziaria con in paesi nemici. «Ma Prescott, con l’aiuto di Dulles, seppe congegnare un meccanismo finanziario che permise alla maggior parte dei capitali di sfuggire al congelamento, dirottandoli semplicemente in operazioni molto meno vistose, ma altrettanto lucrative. Per Prescott fu il trionfo, e per Dulles la garanzia di un futuro senza più limiti alle sue ambizioni». Naturalmente, aggiunge Mazzucco, «Hoover non era stato troppo rigoroso nell’indagare sulla Union Bank di Harriman, e molto probabilmente nacque proprio in quei giorni una reciproca simpatia fra i tre “ragazzi”, che avrebbe poi condizionato la storia per molti decenni a venire». Se Allen Dulles e Edgar Hoover si legano ai Bush già durante il secondo conflitto mondiale, l’uomo-chiave dell’ancoraggio della famiglia Bush nella politica americana del dopoguerra sarà Richard Nixon, «divenuto il pupillo di Prescott – altri direbbero il suo pupazzo». Bush ne aveva finanziato l’elezione al Parlamento, dopo averlo prelevato dai ranghi dell’Fbi.Risale a quegli anni, sostiene Mazzucco, un possibile collegamento fra Nixon e Jack Ruby, l’assassino di Oswald a Dallas. Sempre “nonno Bush” aveva poi piazzato Nixon accanto ad Eisenhower, alla vicepresidenza, facendogli sposare la nipotina dell’ex-generale. «Nixon era quindi diventato il candidato naturale alla presidenza, nel 1960, allo scadere del mandato di Eisenhower, ma aveva perso a sorpresa contro lo sconosciuto Kennedy». Con l’assassinio di Dealey Plaza, tre anni dopo, si riapriva per Nixon (e quindi per Prescott Bush) la strada della Casa Bianca. Il giorno seguente, infatti – come poi raccontò uno dei suoi più stretti collaboratori – si svolse a casa di Nixon una riunione segreta, nella quale vennero discusse le strategie per rientrare sulla scena politica, dopo la bruciante sconfitta del 1960. «Cuba era diventata nel frattempo una dolorosa spina nel fianco, dopo il fallimento dell’invasione della “Baia dei Porci”, che i repubblicani imputavano interamente a Kennedy. Ma il progetto originale, del ‘59, era dello stesso Nixon, il quale evidentemente “se lo era preparato” per ritrovarselo fresco sul tavolo, una volta divenuto presidente».Lo aveva elaborato subito dopo la rivoluzione castrista, collaborando con un certo Howard Hunt della Cia, uomo di Allen Dulles (il direttore Cia in quel periodo) sin dagli anni ‘30. La differenza era che il piano Hunt-Nixon-Dulles prevedeva che al momento giusto l’America avrebbe concesso il supporto militare richiesto dagli “invasori” di Cuba, mentre Kennedy “al momento giusto” si rifiutò di concederlo. Questo causò una crisi insanabile all’interno dell’amministrazione, con la frattura definitiva fra la Cia e Kennedy, che si permise addirittura di licenziare Dulles. «Meno di due anni dopo, Allen Dulles sedeva accanto al giudice Warren, nella famigerata commissione che prendeva il suo nome, e che riusciva in qualche modo ad insabbiare le indagini sull’omicidio più famoso della storia». Curiosamente, annota Mazzucco, anche Howard Hunt si trovava a Dallas il giorno dell’attentato: «Nonostante in seguito abbia tentato di negarlo, fu inchiodato in proposito dalla testimonianza dei suoi stessi figli». E così, «il crocevia texano si fa sempre più fitto». Nel ‘64 però Nixon scelse, saggiamente, di non candidarsi, poichè la popolarità di Johnson – succeduto a Kennedy dopo Dallas – in quel momento era alle stelle. Johnson infatti stracciò letteralmente il candidato repubblicano Barry Goldwater.Nixon sarebbe rientrato alla Casa Bianca solo nel ‘68, dopo la morte del nuovo candidato democratico, Robert Kennedy, anch’egli assassinato in circostanze mai chiarite, «ma di certo non da Shiran Shiran solamente». Una volta che Nixon fu presidente, Howard Hunt fece uno strepitoso balzo di carriera, passando da semplice agente Cia a capo dei servizi segreti della Casa Bianca. Contemporaneamente George H. Bush (“Bush padre”, il figlio di Prescott) veniva nominato da Nixon ambasciatore alle Nazioni Unite. «Ormai le redini del comando, in famiglia, erano passate a George H. Bush». Prescott però moriva, nel 1972, e non potè vedere il figlio diventare direttore della Cia nel 1976, poi vicepresidente sotto Reagan (1980-1988), ed infine presidente egli stesso, dal 1988 al 1992. Non vide nemmeno, peraltro, la sconfitta del figlio nel 1992, che perdeva inaspettatamente la sua rielezione contro uno sconosciuto Bill Clinton. La storia sembrava ripetersi, e fu questa volta George H. Bush a dover attendere la controversa decisione della Corte Suprema, nel 2000, per poter piazzare il figlio – George W. – fra le mura tanto amate. «Talmente amate, parrebbe, che il 10 di settembre del 2001, nonostante il figlio si trovasse in Florida, decise di fermarsi a dormire alla Casa Bianca, sulla via del ritorno da New York al Texas».Lo ha raccontato egli stesso in televisione, più di una volta. Sarebbe ripartito molto presto all’alba, venendo così a trovarsi già vicino a casa, al momento del blocco completo dei voli che seguì gli attentati dell’11 Settembre. «La sera del 10, a fare gli onori di casa c’era Dick Cheney, l’uomo che lo stesso Bush aveva messo accanto al figlio, come vicepresidente, un anno prima. Cheney era anche l’uomo che, in assenza del presidente in carica, avrebbe saldamente preso in mano la situazione durante gli attacchi terroristici, arrivando anche a far deviare, tramite i servizi segreti, i due caccia che si stavano finalmente dirigendo verso l’aereo diretto sul Pentagono, e mandandoli invece su un bersaglio fasullo». Aggiunge Mazzucco: «Che cosa abbia fatto George H. Bush a Dallas nel lontano 1963, e che cosa abbia fatto – o di cosa abbia parlato con Cheney – la notte del 10 settembre 2001, alla Casa Bianca, non lo sapremo probabilmente mai».Stranissima, poi, la telefonata che George H. Bush fece, il 22 novembre 1963, a un agente Fbi, Graham Kitchel. Nel suo report, Kitchel riporta due notizie. La prima: Bush senior gli ha segnalato il nome di un giovane, James Parrott, «forse studente dell’università di Houston». Naturalmente «in via confidenziale», Bush parla di «una voce» che «ha sentito girare» nelle settimane precedenti, secondo cui l’ipotetico Parrott «andava parlando di uccidere il Presidente», quando fosse arrivato a Houston. Sempre all’agente Fbi, Bush fornì indicazioni su come approfondire: due donne della direzione del partito repubbicano della contea di Harris avrebbero potuto fornire maggiori informazioni sull’identità di Parrott. Infine, lo stesso Kitchel scrive: «Bush ha dichiarato di essere in partenza per Dallas, Texas, dove avrebbe alloggiato allo Sheraton-Dallas, per tornare a casa sua il 23 novembre 1963», cioè il giorno seguente. Curioso, segnala Mazzucco: «Mentre Kennedy sta morendo all’ospedale di Dallas, Bush – allora privato cittadino, e presidente di una delle tante compagnie petrolifere di proprietà di famiglia – parte per la stessa città, e si premura di farlo sapere all’Fbi». Sembra proprio di leggere fra le righe «una strana voglia da parte sua di “farsi trovare” a tutti costi dalla stessa Fbi, a Dallas, quella sera».Ancora più curioso, dice Mazzucco, è che Bush utilizzi, come scusa per rendere nota la sua presenza in città, proprio la “voce di possibile attentato al presidente Kennedy, quando verrà a Huston”, visto che a Houston Kennedy c’era già stato. «Di certo si può supporre una cosa: se Bush quella sera è stato contattato dall’Fbi – come appare probabile – avrà sicuramente avuto da loro più informazioni sull’attentato appena avvenuto, di quante ne possa mai aver date sul suo fantomatico “James Parrott”». Curioso infine che l’ora in cui fu ricevuta la telefonata (13.45) corrisponda al momento in cui la notizia della morte di Kennedy, avvenuta intorno alle 13, iniziava a rimbalzare in tutte le agenzie del mondo. «Giusto per assicurarsi un “alibi” fuori città, nel caso estremo, ma anche giusto in tempo per saltare in macchina e raggiungere lo Sheraton di Dallas, dove potersi “rendere reperibile in serata”». Tutte coincidenze? «Può darsi. Ma che dire allora di questo documento, dal quale risulta che Jack Ruby – l’uomo su cui fece perno l’intera organizzazione dell’omicidio di Dallas, e che pensò poi a liberarsi fisicamente di Oswald, prima che potesse parlare – lavorava per Nixon già dal lontano 1947?».Si tratta di un documento dell’Fbi, desecretato qualche anno fa. «Giuro con questa dichiarazione che un certo Jacob Rubinstein di Chicago, potenziale testimone davanti al Comitato per le Attività Antiamericane [Commissione McCarthy], lavora come informatore per l’ufficio del deputato repubblicano della California, Richard M. Nixon. Si richiede di non interrogarlo pubblicamente nelle udienze sopra menzionate». La data: 14 novembre 1947. «E’ noto che in quel periodo Ruby lavorasse per la mafia di Chicago», osserva Mazzucco, «e il documento sembra quindi fornire l’anello mancante per il collegamento fra mondo “pulito” e mondo “sporco”, che fu assolutamente necessario per organizzare a Dallas un attentato che desse le massime garanzie di riuscita». Prescott Bush e la Germania di Hitler, la Cia di Allen Dulles, l’Fbi di Edgar Hoover, quindi Richard Nixon e infine George Herbert e George Walker, padre e figlio, direttamente alla Casa Bianca – l’ultimo sotto la tutela del potente Dick Cheney, emblema del Deep State. Le Torri Gemelle, l’Iraq, l’Afghanistan, l’incendio permanente in Medio Oriente. Potere, attentati, guerra e terrorismo: una dinastia in chiaroscuro, con ombre più che inquietanti attraverso svariati decenni, a tracciare una vera e propria storia parallela, accanto a quella ufficiale.Se c’è un motivo per cui si insiste sull’importanza dell’omicidio Kennedy, dopo oltre 50 anni dall’evento, non è certo per “cospirazionismo congenito”, ma per un fatto molto più semplice e tangibile: la stessa persona che era a Dallas il 22 novembre 1963 dormì alla Casa Bianca il 10 settembre 2001. E ciò per sua stessa ammissione, in ambedue i casi. Anzi, nel primo George Herbert Bush, padre-padrone del Nuovo Ordine Mondiale – oltre che del futuro presidente, George Walker Bush – si premurò di informare direttamente l’Fbi della sua presenza a Dallas quel giorno, proprio nelle ore in cui il corteo di Kennedy si presentava all’appuntamento con la storia in Dealey Plaza. Nelle stesse ore Richard Nixon, presente a Dallas da tre giorni per «motivi personali» – peraltro mai accertati – ripartiva alla volta di New York, dove avrebbe appreso dell’avvenuto omicidio di John Kennedy. Sarebbe diventato l’unico uomo al mondo a non ricordarsi del momento esatto in cui apprese la notizia, fornendone negli anni ben tre versioni differenti: all’aeroporto, durante il tragitto in taxi, sotto il portone di casa. «Diventano così tre, contando anche Johnson che lo sarebbe diventato quel pomeriggio, i futuri presidenti che erano a Dallas quel giorno. Un curioso crocevia della storia, se non altro».
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Onu: povero un inglese su 5, colpa del governo neoliberista
Mentre la classe politica inglese è lacerata a causa della Brexit, una crisi molto più grave continua a colpire i milioni di vittime dell’austerity voluta dai conservatori. Un devastante rapporto delle Nazioni Unite sulla povertà nel Regno Unito evidenzia in modo incontrovertibile che il vero nemico del popolo britannico è la sua stessa classe politica che negli ultimi anni ha fatto di tutto per convincerlo che è colpa della Russia. Il professor Philip Alston, nella sua veste di incaricato speciale delle Nazioni Unite per l’estrema povertà e i diritti umani, ha trascorso due settimane in giro per il Regno Unito per verificare l’impatto di otto anni di uno dei più radicali programmi di austerità tra le economie avanzate del G20 adottato in risposta al crollo finanziario del 2008 e alla conseguente recessione globale. Quello che ha riscontrato è l’evidenza di una guerra sistematica, intenzionale, concertata e brutale condotta dall’ala destra del partito conservatore contro la classe più povera e vulnerabile della società britannica, guerra che ha coinvolto la vita di milioni di persone che non erano responsabili del crollo finanziario ma che sono state costrette a pagarne il prezzo.Si legge nell’introduzione del rapporto: «Appare profondamente ingiusto e contrario ai valori britannici che così tante persone vivano in povertà. Ciò è di assoluta evidenza per chiunque apra gli occhi e veda l’impressionante moltiplicarsi dei banchi alimentari con le lunghe code all’esterno, le persone che dormono in strada, l’aumento dei senzatetto, il senso di profonda disperazione che porta perfino il governo a costituire un apposito ministero per la prevenzione dei suicidi con il compito di indagare a fondo gli inauditi livelli di solitudine e isolamento raggiunti». Sebbene cittadino del Regno Unito, rispettosamente mi dissocio dall’affermazione degli intellettuali che una tale carneficina sociale ed economica sia “contraria ai valori britannici” (mentre, al contrario, essa risulta perfettamente conforme ai valori del partito conservatore, un sistema politico nella cui ideologia la deumanizzazione dei poveri e della classe operaia è centrale), mentre è invece calzante l’osservazione che ciò appare ovvio “a chiunque apra gli occhi”.Poiché è vero che oggi in ogni città e in ogni centro abitato in Inghilterra è impossibile camminare in qualunque direzione per più di un minuto senza incrociare dei senzatetto che chiedono l’elemosina. E il fatto che circa 13.000 di loro siano ex soldati, reduci dalle varie avventure militari del paese degli ultimi anni, chiamati al servizio di Washington, qualifica le mere banalità spacciate dal governo e dai politici per apprezzamento e rispetto delle truppe e del loro “sacrificio” come ipocrita spazzatura. Complessivamente, nel Regno Unito vivono attualmente in povertà 14 milioni di persone, cifra che corrisponde a un quinto della popolazione. Quattro milioni di loro sono bambini, mentre – secondo il professor Alston – un milione e mezzo di persone sono in totale indigenza, cioè non in grado di soddisfare le elementari necessità della vita. E questo è ciò che la classe dirigente della quinta maggiore economia del mondo, un paese che si atteggia sulla scena mondiale a pilastro della democrazia e dei diritti umani, considera progresso.I valori responsabili di aver creato uno scenario sociale tanto cupo sono compatibili con il 18° e non con il 21° secolo. Sono la prova concreta che la rete delle scuole private elitarie – Eton, Harrow, Fettes College, ecc. – nelle quali i responsabili di questa carneficina umana sono stati inculcati con la convinzione del diritto acquisito per nascita a stabilire l’etica che li definisce, sono i focolai inglesi dell’estremismo. Ancora il professor Alston: «La compassione dell’Inghilterra per coloro che soffrono è stata sostituita da un approccio punitivo, gretto e spesso insensibile apparentemente volto a instillare disciplina dove serve di meno, a imporre un ordine rigido alle vite di quelli meno in grado di affrontare il mondo di oggi, privilegiando il proposito di indurre una cieca acquiescenza in luogo di una genuina preoccupazione di migliorare il benessere degli appartenenti ai livelli più bassi della società britannica». Questa è la barbarie, spacciata per intervento correttivo, che si accompagna all’economia capitalistica del libero mercato. E’la stessa barbarie responsabile di aver precipitato la Russia post sovietica in un abisso economico e sociale durato un decennio negli anni ’90; e sono questi i valori che hanno spinto 14 milioni di persone nel Regno Unito nello stesso abisso economico e sociale nei nostri tempi.L’austerità, va sottolineato, non è e non è mai stata una risposta economica praticabile alla recessione in una determinata economia. C’è invece un club ideologico, gestito a vantaggio del grande e ricco business in modo da assicurare che il prezzo pagato per la cosiddetta recessione economica gravi esclusivamente su quelli meno in grado di sostenerlo, vale a dire i poveri e i lavoratori. E’una guerra di classe, confezionata e presentata come legittima politica governativa. Comunque, nel caso dell’Inghilterra nel 2018, si è trattato di una guerra diversa da ogni altra poiché, come evidenzia il rapporto del professor Alston, uno schieramento di questa guerra ha sparato tutti i colpi e l’altro schieramento li ha subiti tutti. Con la stagione natalizia imminente, la portata della sofferenza umana in tutto il Regno Unito assicura che le elaborate campagne pubblicitarie che ci invitano a fare acquisti e indulgono a speranze e sentimenti – annunci che descrivono il sogno della classe media di benessere materiale – assumono il carattere di una provocazione. Secondo un vecchio detto, quando scoppiano le guerre il governo ti dice chi è il nemico; quando scoppiano le rivoluzioni combatti per te stesso. Nell’austerità, in Gran Bretagna, chi è il nemico non è mai stato chiaro.(John Wight, “Il nemico della Gran Bretagna non è la Russia ma la sua stessa classe dirigente, lo conferma un rapporto dell’Onu”, intervento pubblicato su “Rt” e tradotto da Maria Grazia Cappugi per “Come Don Chisciotte”, 21 novembre 2018. John Wight ha scritto per una varietà di giornali e siti web, tra cui “Independent”, “Morning Star”, “Huffington Post”, “Counterpunch”, “London Progressive Journal” e “Foreign Policy Journal”).Mentre la classe politica inglese è lacerata a causa della Brexit, una crisi molto più grave continua a colpire i milioni di vittime dell’austerity voluta dai conservatori. Un devastante rapporto delle Nazioni Unite sulla povertà nel Regno Unito evidenzia in modo incontrovertibile che il vero nemico del popolo britannico è la sua stessa classe politica che negli ultimi anni ha fatto di tutto per convincerlo che è colpa della Russia. Il professor Philip Alston, nella sua veste di incaricato speciale delle Nazioni Unite per l’estrema povertà e i diritti umani, ha trascorso due settimane in giro per il Regno Unito per verificare l’impatto di otto anni di uno dei più radicali programmi di austerità tra le economie avanzate del G20 adottato in risposta al crollo finanziario del 2008 e alla conseguente recessione globale. Quello che ha riscontrato è l’evidenza di una guerra sistematica, intenzionale, concertata e brutale condotta dall’ala destra del partito conservatore contro la classe più povera e vulnerabile della società britannica, guerra che ha coinvolto la vita di milioni di persone che non erano responsabili del crollo finanziario ma che sono state costrette a pagarne il prezzo.
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Scie chimiche? Il generale Mini: si decidano a spiegarle
Scie chimiche? «I cittadini pretendano un’inchiesta precisa, rigorosamente scientifica, per chiarire una volta per tutte la natura di un fenomeno ormai vistoso: cieli velati da centinaia di scie bianche rilasciate dagli aerei». Lo afferma il generale Fabio Mini, già comandante della missione Kfor in Kosovo, interpellato da Fabio Frabetti a “Border Nights”. Tema dell’intervista: clima “impazzito” e manipolato, sperimentazioni clandestine in corso, nuove armi segrete di distruzione di massa. Mentre l’attualità italiana propone eventi meteorologici di inaudita, devastante potenza – la distruzione delle foreste nelle Dolomiti, sradicate da trombe d’aria – da più parti ci si domanda se vi sia un nesso tra l’apocalisse del clima e il recente spettacolo dei cieli quotidianemente “sporcati” dai voli di linea. «Trovo inaccettabile e sospetto – dichiara Mini – l’atteggiamento di chi stronca in partenza queste voci, deridendo chi paventa una eventuale irrorazione dei cieli». Non è ammissibile, sottolinea Mini, che l’argomento venga sempre liquidato senza spiegazioni, facendo passare per pazzi visionari i cittadini preoccupati per la comparsa di quelle scie nel cielo. Ribadisce: è giusto pretendere spiegazioni finalmente esaurienti, da parte dei militari (a cominciare dall’aeronautica) e dagli stessi politici che hanno responsabilità di governo. E’ giunto il momento di chiarire cosa sta succedendo, lassù.Lo stesso Mini, che peraltro precisa di non disporre delle necessarie competenze tecnico-scientifiche in materia, dichiara di non credere alla “teoria della cospirazione”, secondo cui saremmo oggetto di una sorta di infernale esperimento progettato per nuocere deliberamente alla nostra salute e a quella dell’ambiente. Recente la denuncia di un ex operatore aeroportuale di Milano Malpensa, Enrico Gianini, che parla di aerei che una volta a terra perdono liquidi inquinati da metalli pesanti. «Credo alla buona fede di Gianini», afferma Mini: «Non condivido la conclusione che lui trae, ma certamente ha visto qualcosa di strano». Il vero problema? Mancano le spiegazioni, per quelle scie nel cielo. Vietato lamentarsi, quindi, se si moltiplicano le domande. Fabio Mini è stato il primo, in ambito militare, a parlare apertamente di guerra climatica. Fonti ufficiali: Nazioni Unite e aeronautica Usa, autrice quest’ultima del dossier “Owning the wheather”, che – prima ancora del Duemila – annuncia che entro il 2025 sarà raggiunto il pieno controllo del clima, a scopo militare. «Siamo nel 2018, cioè a oltre metà strada: ed è certo che test sono in corso, perché i militari non esitano a sperimentarle, le nuove tecnologie, anche se non sono ancora mature: non lo erano neppure le atomiche sganciate sul Giappone nel 1945».E’ questione di intendersi, ribadisce Mini: oggi disponiamo certamente di potenti dispositivi in grado di determinare cambiamenti climatici. Vari paesi, come la Cina, ne parlano apertamente: i “rainmaker” cinesi utilizzano aerei, razzi e cannoni per “bombardare” le nubi con ioduro d’argento e aumentare l’intensità delle precipitazioni. Possibile che qualcosa del genere stia accadendo anche in Italia, là dove si registrano eventi catastrofici? Mini è prudente: siamo nel campo del possibile, certo, ma si tratta di un’ipotesi altamente improbabile. Anche perché non è facile maneggiare certe tecnologie in spazi ristretti e densamente popolati: gli effetti potrebbero rivelarsi pericolosamente imprevedibili. Inoltre, aggiunge il generale, è impossibile affrettare conclusioni: prima bisognerebbe analizzare con estrema precisione statistica anche la ciclicità naturale degli eventi atmosferici “estremi”. Anche per questo, insiste Mini, probabilmente non è il caso di prendere alla lettera lo scienziato del Cnr, Antonio Raschi, che a “Porta a porta” ha detto che «è in corso un esperimento planetario», riguardo alla modificazione del clima. Solo una frase infelice, come ammesso dallo stesso Raschi? Intervistato da Massimo Mazzucco, il tecnico si è anche dichiarato all’oscuro di un dossier scientifico dello stesso Cnr, che documenta “l’aviodispersione” di sostanze chimiche condotta già nel 1966, per incrementare le precipitazioni nell’Italia centrale, alla vigilia della disastrosa alluvione dell’Arno.Oggi la realtà è sotto gli occhi di tutti: si assiste a violentissime piogge tropicali, mentre a cedere in modo rovinoso è un territorio iper-cementificato o in stato di degrado a causa dell’incuria, in preda a un gravissimo deterioramento idrogeologico. Purtroppo, aggiunge Mini, a essere ormai oltre la soglia di sicurezza è il livello di manipolazioni che stiamo progressivamente infliggendo all’ecostema nel suo complesso. «Non c’è un grande complotto, secondo me, ma ci sono tantissimi complotti, piccoli e grandi, che stanno seriamente compromettendo la stabilità ecologica del pianeta». I militari? «Fanno certamente la loro parte, ma la “guerra climatica” non è che una delle tante, in corso: Usa, Russia e Cina stanno inseguendo la super-arma che dia loro la supremazia assoluta». E poi c’è l’arma quotidiana per eccellenza, l’informazione: «Persino il web è diventato uno strumento di divisione e di odio. E l’odio è frutto di manipolazione: stimolare l’odio è facilissimo». L’obiettivo è sempre lo stesso: «Mettere le persone l’una contro l’altra», divide et impera. Aggiunge Mini: «Non ci vogliamo più bene, è venuto meno il rispetto per la dignità umana». Il movente? «L’avidità, la sete di denaro». Tutto il resto è valle, comprese le super-armi segrete e i misteri, forse “chimici”, dei nostri cieli. Vie d’uscita? Informarsi, protestare, pretendere spiegazioni.Scie chimiche? «I cittadini pretendano un’inchiesta precisa, rigorosamente scientifica, per chiarire una volta per tutte la natura di un fenomeno ormai vistoso: cieli velati da centinaia di scie bianche rilasciate dagli aerei». Lo afferma il generale Fabio Mini, già comandante della missione Kfor in Kosovo, interpellato da Fabio Frabetti a “Border Nights”. Tema dell’intervista: clima “impazzito” e manipolato, sperimentazioni clandestine in corso, nuove armi segrete di distruzione di massa. Mentre l’attualità italiana propone eventi meteorologici di inaudita, devastante potenza – la distruzione delle foreste nelle Dolomiti, sradicate da trombe d’aria – da più parti ci si domanda se vi sia un nesso tra l’apocalisse del clima e il recente spettacolo dei cieli quotidianamente “sporcati” dai voli di linea. «Trovo inaccettabile e sospetto – dichiara Mini – l’atteggiamento di chi stronca in partenza queste voci, deridendo chi paventa una eventuale irrorazione dei cieli». Non è ammissibile, sottolinea Mini, che l’argomento venga sempre liquidato senza spiegazioni, facendo passare per pazzi visionari i cittadini preoccupati per la comparsa di quelle scie nel cielo. Ribadisce: è giusto pretendere spiegazioni finalmente esaurienti, da parte dei militari (a cominciare dall’aeronautica) e dagli stessi politici che hanno responsabilità di governo. E’ giunto il momento di chiarire cosa sta succedendo, lassù.
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Moiso: via il Che da quelle magliette, metteteci Draghi
Che strana questa sedicente sinistra che critica coloro che parlano di sovranità, che pensa di dover organizzare le proprie iniziative politiche partendo dalla necessità assoluta e imprescindibile di tagliare il debito pubblico, e che crede che l’accoglienza indiscriminata di quelle povere persone che vengono dall’Africa e dal Medio Oriente possa essere una soluzione giusta e sostenibile. Che strana, questa sedicente sinistra che da giovane appendeva, vestiva e si tatuava “Che” Guevara, Marx e Sankara; avrebbe piuttosto dovuto vestire le maglie con la faccia di Mario Draghi, appendere i poster di Visco in cameretta affianco a quelli dei Guns’n’Roses e farsi i tatuaggi di Mattarella o Monti sulla spalla; questo sì che sarebbe stato coerente con le loro posizioni odierne! Viene da pensare, perché mi ricordo chiaramente Marx ed Engels scrivere di come l’immigrazione indiscriminata irlandese – in condizioni di scarsità di risorse – potesse danneggiare le condizioni dei lavoratori inglesi, nonché sottoporre i lavoratori irlandesi a condizioni disumane.Mi ricordo chiaramente come Sankara avesse smascherato platealmente, alle Nazioni Unite, come il debito pubblico fosse un’arma di controllo post-coloniale, rivendicando la necessità di aiutare il popolo africano in Africa; e mi ricordo ancora più chiaramente come Ernesto “Che” Guevara, sempre alle Nazioni Unite, rivendicò il principio della sovranità del popolo di fronte all’imperialismo del mondo finanziario. Ora… o mi ricordo male io, o gli elettori progressisti non sono progressisti (e in effetti tra i progressisti si nascondono molti conservatori e comunisti) o la classe politica sedicente progressista ha mantenuto la narrativa progressista ma si è completamente venduta al neoliberismo. Alcuni potrebbero guardare al nazionalismo e al comunismo con nostalgia, come reazione alle politiche neoliberiste dell’attuale sedicente sinistra… La verità è che nonostante “Che” Guevara e Sankara si dicessero comunisti, non è certo nel comunismo che troviamo l’esempio che hanno lasciato nella storia.Piuttosto, queste persone ci hanno insegnato che non c’è niente, nella vita, che valga più della lotta per il bene della collettività; della lotta per creare un mondo giusto ed equo. Oggi, ci sentiamo dire che dobbiamo fare i conti con l’economia e con la finanza, base imprescindibile di un sistema sociale che ha sostituito gli indicatori economici e finanziari ai diritti umani. Ma la storia insegna che nel XVII, XVIII e XIX secolo il popolo si sentiva dire che non si potesse lottare contro una monarchia reggente per volere di Dio. Ecco, personaggi come Sankara e “Che” Guevara non ci insegnano che il comunismo sia la filosofia economica sulla quale ricostruire la società, ma piuttosto ci insegnano che si può e si deve lottare anche oggi – e che la lotta vale una vita.(Marco Moiso, “Si sbiadiscono le magliette della sedicente sinistra”, dal blog del Movimento Roosevelt del 7 novembre 2018).Che strana questa sedicente sinistra che critica coloro che parlano di sovranità, che pensa di dover organizzare le proprie iniziative politiche partendo dalla necessità assoluta e imprescindibile di tagliare il debito pubblico, e che crede che l’accoglienza indiscriminata di quelle povere persone che vengono dall’Africa e dal Medio Oriente possa essere una soluzione giusta e sostenibile. Che strana, questa sedicente sinistra che da giovane appendeva, vestiva e si tatuava “Che” Guevara, Marx e Sankara; avrebbe piuttosto dovuto vestire le maglie con la faccia di Mario Draghi, appendere i poster di Visco in cameretta affianco a quelli dei Guns’n’Roses e farsi i tatuaggi di Mattarella o Monti sulla spalla; questo sì che sarebbe stato coerente con le loro posizioni odierne! Viene da pensare, perché mi ricordo chiaramente Marx ed Engels scrivere di come l’immigrazione indiscriminata irlandese – in condizioni di scarsità di risorse – potesse danneggiare le condizioni dei lavoratori inglesi, nonché sottoporre i lavoratori irlandesi a condizioni disumane.
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Foa in Rai: che succede quando un eretico sale al potere?
Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.C’è qualcosa di meta-politico, di profondamente eversivo, nella sola idea di aver pensato a un cavaliere solitario e coltissimo come Foa, giornalista di razza e gentiluomo, per la presidenza della televisione di Stato, vera e propria fabbrica del consenso, per decenni affidata il più delle volte a mani servili e mediocri. È antropologicamente eversiva, la figura del liberale Foa al vertice della Rai: è il bambino che non può fare a meno di svelare l’imbarazzante nudità del sovrano, del monarca che si gloria nel celebrare una pace apparente, mentre intorno infuria la peggiore delle guerre. La guerriglia di oggi, nella quale Marcello Foa si trova coinvolto – dopo aver dato la sua avventurosa disponibilità a quell’ipotesi democratica chiamata “governo gialloverde” – non è un conflitto come quelli che l’hanno preceduto: è un sordido massacro quotidiano perpetrato ovunque, senza frontiere, senza più neppure le bandiere di un tempo. È una guerra orwelliana, affidata a mercenari. Navi corsare, che combattono (per lo più in incognito) per conto di padroni potentissimi, protetti dall’anonimato. Non c’è più neppure il triste onore della battaglia: si viene sopraffatti in modo subdolo, sistematicamente sommersi da menzogne spacciate per verità di fede, che il sistema mediatico non si cura più di verificare. Ed è proprio per questo che l’attuale sistema mediatico italiano detesta, e teme, Marcello Foa.Ascoltando solo e sempre un’unica campana, il sistema mainstream ci ha raccontato in questi anni che le poderose, ciclopiche Torri Gemelle di Manhattan sono crollate su se stesse, come se fossero state di cartone anziché di acciaio, solo perché colpite – con una manovra proibitiva persino per i migliori “top gun” – da normalissimi e leggerissimi jet di linea fatti di alluminio, dirottati da apprendisti piloti arabi, di cui tuttora non si sa nulla: non un’immagine, al fatale imbarco, di nessuno dei 19 presunti dirottatori (salvo poi rintracciare i loro passaporti, nientemeno, nell’inferno fumante di Ground Zero). Finge di credere sempre e soltanto alla versione ufficiale, il mainstream media, anche quando dimentica di ricordare che furono gli Usa a incoraggiare Saddam Hussein a invadere il Kuwait, dopo averlo spinto a combattere contro l’Iran. Dà retta unicamente al super-governo universale, il club dei telegiornali, anche quando assicura che Saddam disponeva di micidiali armi di distruzione di massa. E tace, invece, quando l’Onu dimostra che quelle armi erano pura fantasia, come i gas siriani di Assad, le fosse comuni di Gheddafi, le violenze della polizia di Yanukovich in Ucraina. E poi applaude a reti unificate, la consorteria mediatica, quando in Italia appaiono i cosiddetti salvatori della patria – i Monti, i Cottarelli – armati del bisturi che useranno per amputare carne viva, risparmi e pensioni, economia italiana di aziende e famiglie, oscurando il futuro dei giovani.All’epoca in cui Marcello Foa lavorava al “Giornale” di Indro Montanelli, il mondo probabilmente appariva infinitamente più semplice – più chiaro, più visibile nei suoi errori e orrori: la guerra fredda, il Medio Oriente e gli sconquassi africani della decolonizzazione, la strategia della tensione organizzata per gambizzare l’Italia e impedirle di prendere il volo come autonoma potenza euromediterranea fondata sulla forza formidabile dell’economia mista, pubblico-privata. In quella redazione milanese, dove Foa è cresciuto professionalmente, su una parete c’era appesa una carta geografica di Israele che indicava come capitale Gerusalemme, già allora, anziché Tel Aviv. Se Enrico Berlinguer impiegò anni per ammettere che si sentiva più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che tra i carri armati del Patto di Varsavia, Marcello Foa e il suo maestro Montanelli non avevano mai avuto dubbi sul fatto che niente di buono potesse venire, per l’Occidente, da un’oligarchia sedicente comunista che aveva soppresso sul nascere i primi vagiti democratici della Russia, cambiando semplicemente look all’antico dispotismo zarista. L’eroico sacrificio dell’Unione Sovietica, decisivo nell’abbattere il nazifascismo, non poteva cancellare né i Gulag di Stalin né l’esilio di Aleksandr Solženicyn. Era fatto di certezze, il mondo di Foa e Montanelli: la libertà (inclusa quella d’impresa) come fondamento irrinunciabile di qualsiasi comunità civile degna di chiamarsi democratica.Ed è questo che rende Foa insopportabile al potere economico di oggi, dove la libertà d’impresa cede il passo al dominio di immensi oligopoli finanziari globalizzati, privilegiati da legislazioni truccate come quelle dell’Unione Europea ordoliberista. È tanto più sgradevole e insidioso, Foa, perché non proviene – come invece molti anchorman televisivi – dalla contestazione giovanile del capitalismo: credeva, Foa, negli stessi valori professati dall’élite economica di un tempo, orientata pur sempre alla promozione della mobilità sociale, in sostanziale accordo con le forze sindacali dell’allora sinistra. Una dialettica anche aspra, ma vocata in ogni caso al miglioramento complessivo del sistema-paese. E mediata – sempre – dalla politica, letteralmente scomparsa dai radar italiani per 25 lunghissimi anni. Solo oggi, alla distanza, ci si mette le mani tra i capelli nel rivedere il film dell’euforia generale con la quale i cittadini avevano accolto il Trattato di Maastricht e, dieci anni dopo, l’ingresso nell’Eurozona disegnata dalle banche e governata dalla Bce con modalità feudali, imperiali, senza la supervisione di alcun controllo democratico. Succedeva negli anni cui, con la caduta del Muro di Berlino benedetta da Gorbaciov, l’umanità si era illusa che il fantasma della guerra sarebbe stato semplicemente cancellato dalla storia del pianeta.Magari fosse un comune complottista, Marcello Foa: sarebbe più comodo liquidarlo, come velleitario chiacchierone. Chi oggi gli promette guerra, invece, sa benissimo che l’ex caporedattore del “Giornale”, nonché docente universitario, nonché feroce critico del sub-giornalismo odierno, è un vero e proprio disertore. Non era un eretico: lo è diventato negli ultimi anni, disgustato dallo spettacolo al quale è stato costretto ad assistere. Per questo, al di là del reale potere che gli conferisce la carica di presidente Rai, Marcello Foa rappresenta un vero pericolo, per i malintenzionati che oggi gli danno del traditore. Nell’Italia corporativa delle caste, ha osato “sparare” contro la sua – quella dei giornalisti – definendoli “stregoni della notizia”, bugiardi e omertosi spacciatori di “fake news” di regime. E non c’è niente di peggio, per i servi, che l’ex schiavo che si libera delle catene: la sua rivolta personale, intellettuale, suona umiliante per chi si ostina a raccontare che la Terra è piatta, e che è il Sole a orbitarle attorno.Chi l’avrebbe detto? Oggi l’Italia riesce incredibilmente a piazzare una persona autorevole, onesta e competente, alla guida della televisione pubblica. Marcello Foa non è infallibile: ma quando ha sbagliato – anche di recente, prendendo per buona la notizia di presunte istruzioni che il governo tedesco avrebbe impartito alla polizia, per enfatizzare il terrorismo “casereccio” targato Isis – non ha esitato ad ammetterlo, tempestivamente. Quanti, al suo posto, avrebbero avuto lo stesso coraggio? E ora, questo volto pulito del nostro giornalismo è alle prese con una sfida estremamente impegnativa. È davvero impossibile fare molta strada, in politica, se non si è almeno in parte ricattabili, e quindi controllabili, in quanto complici dell’apparato da cui si è stati promossi? Così almeno ebbe a dire un protagonista della vita pubblica italiana come Giuliano Ferrara. Qualcuno – sincero o meno – obietterà che questa regola non vale necessariamente per tutti. Ma è sicuro che, una volta entrati in cabina di regia, le proprie virtù possono trasformarsi in problemi: in un ambiente non esattamente cristallino, le qualità naturali dell’eretico diventano un’enorme seccatura, se non un ostacolo da rimuovere prima che possa mettere in pericolo la sopravvivenza del sistema stesso.Questa è la sfida di Marcello Foa, nella quale è in gioco l’Italia intera: restare fedeli alla propria coscienza significa contribuire a riaccendere la luce sulle notizie. Senza un’informazione trasparente, lo sappiamo, non c’è neppure vera democrazia. Lo sostiene con vigore, Marcello Foa, che resta innanzitutto un uomo leale e garbato – anche quando si permette di dissentire in modo netto sull’operato del presidente della Repubblica: chi oggi lo accusa di aver addirittura insolentito Sergio Mattarella, dopo la bocciatura di Paolo Savona al ministero dell’economia, più che il prestigio del capo dello Stato sembra aver a cuore la disciplina sociale dell’ossequio, da imporre al popolo nei confronti di chiunque rivesta funzioni di potere. Non è questa la democrazia per la quale il giovane liberale Foa tifava, quando polemizzava con quel comunismo da cui provengono moltissimi dei suoi attuali, smemorati detrattori. Non sappiamo come si svilupperà, la sua avventura negli uffici della Rai. Ma sappiamo che – contro ogni previsione – è tornata sotto i riflettori, in Italia, un’antropologia che si credeva estinta. Quella delle persone per bene, a cui il governo in carica affida addirittura la guida della televisione.(Giorgio Cattaneo, “Marcello Foa alla guida della Rai: che succede quando un eretico sale al potere?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 27 settembre 201).Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.
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Moni Ovadia: accuso Israele, infame chiamarmi antisemita
Chi critica la politica di Israele e in particolare le violazioni dei diritti umani dei palestinesi viene spesso tacciato di anti-semitismo. Come si può sfatare questa accusa? Innanzitutto denunciandola per quello che è: un’infamia, una bieca propaganda per tappare la bocca degli uomini liberi. Una viltà per impedire qualsiasi discorso sull’ingiustizia subita dal popolo palestinese e anche una forma di corto-circuito psicopatologico, di paranoia. E’ come se chi la formula vivesse nella Berlino del 1935 e non in un paese armato fino ai denti, dotato anche di armi nucleari e alleato non solo degli Stati Uniti, ma anche di fatto dell’Egitto, della Giordania e dell’Arabia Saudita. L’unico paese che fa quello che vuole e ignora le risoluzioni dell’Onu senza che la comunità internazionale muova un dito. Io stesso ho subito questa infamia. Siccome l’antisemitismo in Italia è un reato, ho sfidato i miei accusatori a trascinarmi in tribunale, così vedremo come stanno davvero le cose. Inoltre li ho invitati a farsi vedere da uno psichiatra per una lunga terapia. Come giudico la legge approvata un mese fa dal Parlamento israeliano, che dichiara Israele “Stato nazionale del popolo ebraico”? La considero una legge che istituisce “de iure” l’apartheid e il razzismo, che esisteva già “de facto”, ed esprime una logica e una mentalità colonialista. E’ una follia, quando il 20% della popolazione è arabo-palestinese e dunque Israele è già uno stato bi-nazionale.Non sto dicendo che tutti gli israeliani abbiano questa mentalità: ci sono quelli attanagliati dalla paura e preda del mito dell’accerchiamento, quelli che preferiscono non vedere la realtà e quelli che criticano questa politica e pagano le conseguenze del loro coraggio. Purtroppo questi ultimi sono una minoranza, ma nella storia sono state spesso le minoranze a redimere e salvare. La maggioranza ha il diritto di governare, ma non quello di avere ragione. Organizzazioni come “Combatants for Peace” riuniscono israeliani e palestinesi passati alla nonviolenza dopo aver partecipato ad azioni militari gli uni contro gli altri. La Marcia delle Madri ha coinvolto migliaia di donne ebree, musulmane e cristiane per esigere una soluzione nonviolenta del conflitto accettabile dalle due parti. Sono iniziative coraggiose e ammirevoli, portate avanti da persone che vengono boicottate dal governo e accusate di essere contro gli interessi di Israele. Vorrei citare anche i giovani obiettori di coscienza che preferiscono andare in carcere, piuttosto che servire come militari nei territori occupati, e associazioni per i diritti umani come B’Tselem.Due anni fa il suo direttore Hagai El-Ad ha auspicato “azioni immediate” contro gli insediamenti di Israele durante una sessione speciale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sull’occupazione e ha denunciato «l’invisibile, burocratica violenza quotidiana» che i palestinesi subiscono «dalla culla alla tomba». Cosa possiamo fare, come europei e in particolare italiani, per contribuire a una soluzione pacifica del conflitto tra Israele e Palestina? La prima cosa è il lavoro culturale di cui parlavo prima: non smettere mai di ribadire che la denuncia delle ingiustizie e delle sopraffazioni subite dai palestinesi non c’entra niente con l’antisemitismo e la Shoà. In secondo luogo, fare pressione sui governi perché prendano posizione ed esigano il rispetto delle risoluzioni dell’Onu sempre violate da Israele. Terzo, appoggiare il movimento Bds, una campagna globale di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele, chiedendo all’Europa di sequestrare (in quanto illegali) le merci prodotte nei territori occupati e negli insediamenti dei coloni. Il messaggio è semplice, ma molto forte: “Non sono terre vostre, pertanto queste sono merci di contrabbando, fuorilegge, e noi non le vogliamo”.(Moni Ovadia, dichiarazioni rilasciate ad Anna Polo per l’intervista “Accusare di antisemitismo chi critica la politica di Israele è un’infamia”, pubblicata da “Pressenza” e ripresa da “Contropiano” il 9 settembre 2018).Chi critica la politica di Israele e in particolare le violazioni dei diritti umani dei palestinesi viene spesso tacciato di antisemitismo. Come si può sfatare questa accusa? Innanzitutto denunciandola per quello che è: un’infamia, una bieca propaganda per tappare la bocca degli uomini liberi. Una viltà per impedire qualsiasi discorso sull’ingiustizia subita dal popolo palestinese e anche una forma di corto-circuito psicopatologico, di paranoia. E’ come se chi la formula vivesse nella Berlino del 1935 e non in un paese armato fino ai denti, dotato anche di armi nucleari e alleato non solo degli Stati Uniti, ma anche di fatto dell’Egitto, della Giordania e dell’Arabia Saudita. L’unico paese che fa quello che vuole e ignora le risoluzioni dell’Onu senza che la comunità internazionale muova un dito. Io stesso ho subito questa infamia. Siccome l’antisemitismo in Italia è un reato, ho sfidato i miei accusatori a trascinarmi in tribunale, così vedremo come stanno davvero le cose. Inoltre li ho invitati a farsi vedere da uno psichiatra per una lunga terapia. Come giudico la legge approvata un mese fa dal Parlamento israeliano, che dichiara Israele “Stato nazionale del popolo ebraico”? La considero una legge che istituisce “de iure” l’apartheid e il razzismo, che esisteva già “de facto”, ed esprime una logica e una mentalità colonialista. E’ una follia, quando il 20% della popolazione è arabo-palestinese e dunque Israele è già uno stato bi-nazionale.
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Sdoganare la pedofilia: vogliono far cadere l’ultimo tabù
La pedofilia è l’ultimo grande tabù della civiltà occidentale: orientamento sessuale innato per alcuni, perversione immorale e criminale da punire duramente con il carcere per altri, o ancora una malattia mentale da curare. È necessario discutere oggi di pedofilia, perché il suo sdoganamento – con conseguente legalizzazione e decriminalizzazione sociale – con molta probabilità avverrà nel prossimo futuro; e non si tratta di complottismo spicciolo, ma di una presa di coscienza basata sulla lettura degli eventi attuali. Prima di parlare di cosa stia succedendo a livello propagandistico e pubblico in tema di pedofilia, occorre ripercorrere le origini di un movimento ben definito, organizzato e diffuso capillarmente in tutto l’Occidente, che ambisce a normalizzare le relazioni sessuali tra adulti e minori, nel nome della libertà di scelta e di un presunto diritto dei bambini ad amare. I movimenti per la legalizzazione della pedofilia sorgono nel contesto della rivoluzione controculturale sessantottina che dilagò nei paesi occidentali fra gli anni ’60 e ’70, simultaneamente e nell’alveo delle lotte di liberazione femministe e omosessuali.I più grandi ideologi e pensatori della rivoluzione sessuale scoppiata nell’epoca della grande contestazione sono stati anche degli strenui sostenitori della caduta degli ultimi tabù sessuali, come incesto e pedofilia, ritenuti dei lasciti dell’eteronormatività fallocentrica e patriarcale: Jacques Derrida, il coniatore del termine fallocentrismo, Michael Warner, colui che ha popolarizzato il concetto di eteronormatività, Jack Halberstam, autore prolifico sulle identità di genere e sulla mascolinità tossica, e in generale i maggiori esponenti del postmodernismo francese come Michel Foucault, Guy Hocquenghem, Jean Danet, Françoise Dolto, e la controversa coppia Simone de Beauvior-Jean Paul Sartre. Nel 1977 i capofila della critica esistenzialista e del postmodernismo francesi, tra i quali Foucault, Derrida, de Beauvior, Sartre, Gilles Deleuze e Louis Althusser, inviarono una petizione al Parlamento per chiedere l’abolizione dell’età del consenso e la depenalizzazione di ogni rapporto sessuale consenziente tra adulti e minori di 15 anni. Foucault, inoltre, infervorò il dibattito pubblico intervenendo insieme a Hocquenghem nel programma “Dialogue” dell’emittente radiofonica “France Culture”, spiegando le ragioni del suo sostegno alla causa pedofila.Contemporaneamente a Londra fu fondato il Paedophile Information Exchange da Michael Manson, un piccolo gruppo pro-pedofilia dipendente dall’Outright Scotland, una delle più grandi e longeve sigle presenti nella galassia lgbt britannica. Sebbene numericamente esiguo e ufficialmente isolato dalle maggiori organizzazioni omosessuali, il Pie riuscì a trasformare in un dibattito nazionale l’abolizione dell’età del consenso e curò la pubblicazione di un proprio periodico, “Understanding Paedophilia”, riuscendo ad ottenere finanziamenti pubblici per circa 70 mila sterline dall’Home Office (secondo una recente inchiesta del “Daily Mirror”) e ad ottenere l’affiliazione al National Council for Civil Liberties, oggi noto semplicemente come Liberty, una delle più importanti organizzazioni per i diritti civili e umani presenti in Inghilterra. Nello stesso periodo, negli Stati Uniti, David Thorstad, ex troskista poi divenuto il più importante attivista pro-pedofilia della storia occidentale recente, fonda la North American Man/Boy Love Association (Nambla), il più grande ed influente gruppo di pressione attivo nell’abolizione dell’età del consenso e nella promozione delle relazioni sessuali tra adulti e minori.Le posizioni estremiste della Nambla hanno causato la sua scomunica dall’International Lesbian and Gay Association nel 1994, a seguito di una controversia giunta in sede di Nazioni Unite, e nonostante le numerose inchieste federali e gli scandali sessuali che hanno coinvolto diversi membri, non è mai stata sciolta dalla giustizia statunitense. La Nambla ha avuto il merito di realizzare contatti con le principali sigle della galassia pro-pedofilia, riuscendo nell’obiettivo di trasformare l’International Pedophile and Child Emancipation in una vera e propria internazionale della pedofilia, composta da più di 80 fra organizzazioni e partiti politici di Canada, Stati Uniti ed Europa occidentale. La situazione organizzativa e associativa dei movimenti pro-pedofilia in Europa occidentale è comparabile a quella statunitense, sebbene il dibattito sia meno acceso per via del minore spazio garantito dai grandi media a questa ala estrema della più vasta galassia Lgbt. La Germania è il paese europeo con più organizzazioni pro-pedofilia del Vecchio Continente, oltre 15, e ha ospitato fra gli anni ’70 e ’90 un dibattito politico molto serio inerente l’abolizione dell’età del consenso, la depenalizzazione dei rapporti tra adulti e minori e la decriminalizzazione sociale della pedofilia, che ha coinvolto anche attori politici di spessore come il partito dei Verdi, e vanta una triste, quanto sconosciuta, storia di esperimenti sociali miranti a capire gli effetti dei rapporti pedofili sulla psiche degli adolescenti.Negli anni ’70 il dipartimento di sociologia dell’università di Hannover guidò una serie di ricerche sotto l’egida del professore Helmut Kentler, luminare noto nell’ambiente accademico nazionale per le sue innovative idee di ingegneria sociale. Il programma di Kentler prevedeva l’affidamento di adolescenti senzatetto o senza famiglia con problemi comportamentali, di tossicodipendenza o di alcolismo, presso pedofili noti, ossia con precedenti penali per abusi su minori o segnalati alle autorità, con il duplice obiettivo di fornire alle cavie una figura genitoriale e ai pedofili una possibilità di trasformarsi in modelli comportamentali positivi. Il programma fu finanziato con fondi pubblici e fu scoperto soltanto alla morte di Kentler avvenuta nel 2008. La giustizia tedesca non è stata capace di appurare il numero di giovani tedeschi, soprattutto berlinesi, affidati a pedofili come parte del cosiddetto esperimento Kentler, sebbene le indagini abbiano concluso possano essere stati più di mille.I Paesi Bassi hanno ospitato le attività dell’organizzazione Vereniging Martijn e del partito politico Carità, Libertà e Diversità, impegnati nella revisione dell’età del consenso, nell’inserimento della pedofilia tra i temi affrontati dall’educazione sessuale nelle scuole, e nella depenalizzazione della pedopornografia. Sebbene questi due movimenti siano stati dissolti dalla giustizia olandese, anche per via dei crimini sessuali che hanno visti coinvolti i loro membri, il contesto intellettuale nel quale sono sorti, ossia la Società Olandese per la Riforma Sessuale, è ancora in fermento e continua a propagandare la normalizzazione di ogni perversione sessuale, dalla pedofilia alla zoofilia. Il dibattito pubblico e accademico sulla pedofilia nei Paesi Bassi inizia nell’immediato secondo dopoguerra con la fondazione dell’Enclave Kring, il primo movimento pro-pedofilia del mondo, da parte dell’eminente psicologo e attivista omosessuale Frits Bernard.Bernard sfruttò la sua notorietà per tentare di sdoganare questo tabù, portando la sua battaglia anche nel vicino mondo omosessuale, in quanto collaboratore del Coc, la più longeva organizzazione per i diritti omosessuali del mondo. Il movimento pro-pedofilia nazionale riuscì a riscuotere ulteriore visibilità tra gli anni ’50 e ’80 per via dell’intenso attivismo di Edward Brongersma, senatore appartenente al Partito del Lavoro poi convertitosi in un prolifico autore di opere sulla sessualità infantile e sui rapporti adulto-bambino. Brongersma lottò durante la sua intera carriera politica per revisionare l’età del consenso e sdoganare la pedofilia, dando vita ad una fondazione avente il suo nome con l’obiettivo di realizzare i suoi progetti politici in tema di sessualità. Coerentemente con il suo credo anticattolico e progressista, nel 1998 decise di porre fine alla sua esistenza tramite eutanasia volontaria.La pedofilia, intesa come rapporto sessuale consenziente tra adulti e bambini, gode quindi di un supporto ideologico e di una rete organizzativa molto più vaste di quanto si creda comunamente e la lotta per il suo sdoganamento sarà un importantissimo terreno di scontro della guerra culturale tra le forze tradizionaliste-conservatrici e progressiste-liberali d’Occidente. Attingendo dalle principali teorie sulla costruzione del consenso e sul condizionamento delle opinioni e del comportamento è facile capire in che modo i tabù vengono normalizzati e i loro detrattori accusati di oscurantismo e retrogradezza: il sociologo Joseph Overton, il teorico della Finestra di Overton, ha illustrato quanto sia semplice trasformare un’idea impensabile o radicale in una diffusa e legalizzata attraverso un processo di accettazione e razionalizzazione, la Scuola di Francoforte ha illustrato il potere persuasivo dei grandi media sugli spettatori attraverso le teorie della spirale del silenzio, dell’agenda setting o del falso consenso.I grandi media anglofoni, come il “The Telegraph”, il “The Independent”, la “Bbc”, la “Cnn” o il “New York Times”, producono periodicamente degli approfondimenti pro-pedofilia, da titoli accattivanti come “We Have Met the Pedophiles and They Are Us”, “Pedophilia: A Disorder, Not a Crime”, “Paedophilia is natural and normal”, “Paedophilia a sexual orientation – like being straight or gay”, dando voce ad accademici, politici, opinionisti ed intellettuali che attraverso discutibili presentazioni basate sul disconoscimento delle conseguenze, sul ridimensionamento, sul giustificazionismo morale, o sull’idea del progresso, tentano di aprire un dibattito pubblico su questo tabù. Negli ultimi anni Ted, l’internazionale delle conferenze sulle società del futuro, finanziata tra gli altri dalla famiglia Clinton, da Bill Gates, da Jimmy Wales e da Google, ha organizzato diversi eventi sul tema della pedofilia, della sessualità contemporanea e delle questioni di genere. Il 5 maggio 2018 nell’ambito di un convegno all’università di Würzburg, l’intervento di Mirjam Heine intitolato “Why our perception on pedophilia must change: pedophilia is a natural sexual orientation”, registrato e pubblicato su YouTube, ha avuto una eco mediatica globale e attirato forti critiche verso gli organizzatori.Negli Stati Uniti il dibattito sulla pedofilia è tornato in auge con l’affermazione della cosiddetta “alt-right”, alimentato da personaggi pubblici come Milo Yiannopoulos e Nathan Larson, mentre nel resto del mondo occidentale proliferano le partecipazioni delle sigle pro-pedofilia ai gay pride, dopo un ventennio di damnatio memoriae, assume sempre più importanza il 25 aprile, la data scelta annualmente per celebrare l’Alice Day, ossia la giornata dell’orgoglio pedofilo, e dei bambini come Desmond Napoles o Nemis Quinn, sono diventati dei giovanissimi drag queen ed icone culturali idolatrate dalla comunità gay occidentale, dai media e dall’establishment dello spettacolo. L’insieme di questi accadimenti lascia supporre che la guerra culturale per l’accettazione della pedofilia sia molto viva ed intensa e ben lontana dal finire. La costruzione dell’Occidente del futuro passerà anche da questo: dal rendere socialmente accettabile la perversa convinzione che anche i bambini abbiano il diritto a sperimentare la sessualità, meglio se con adulto, e che in un mondo ruotante attorno al sesso, alla concupiscenza edonistica e al soddisfacimento di ogni desiderio secondo una visione distopica huxleyana non ci sia nulla di sbagliato nell’educare i fanciulli alla normalità della pedofilia.(Emanuel Pietrobon, “Guerra all’ultimo tabù”, da “L’intellettuale dissidente” del 19 agosto 2018).La pedofilia è l’ultimo grande tabù della civiltà occidentale: orientamento sessuale innato per alcuni, perversione immorale e criminale da punire duramente con il carcere per altri, o ancora una malattia mentale da curare. È necessario discutere oggi di pedofilia, perché il suo sdoganamento – con conseguente legalizzazione e decriminalizzazione sociale – con molta probabilità avverrà nel prossimo futuro; e non si tratta di complottismo spicciolo, ma di una presa di coscienza basata sulla lettura degli eventi attuali. Prima di parlare di cosa stia succedendo a livello propagandistico e pubblico in tema di pedofilia, occorre ripercorrere le origini di un movimento ben definito, organizzato e diffuso capillarmente in tutto l’Occidente, che ambisce a normalizzare le relazioni sessuali tra adulti e minori, nel nome della libertà di scelta e di un presunto diritto dei bambini ad amare. I movimenti per la legalizzazione della pedofilia sorgono nel contesto della rivoluzione controculturale sessantottina che dilagò nei paesi occidentali fra gli anni ’60 e ’70, simultaneamente e nell’alveo delle lotte di liberazione femministe e omosessuali.