Archivio del Tag ‘Nato’
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Sapelli: i giudici, Conte e gli omini-Lego comandati da fuori
«Perché a volte abbiamo la sensazione che chi comanda nel governo è Salvini?». «Se all’esterno o a voi stranieri richiama di più l’attenzione il ruolo o l’immagine di Salvini, che ha una grande capacità comunicativa, e credete che nel governo comandi lui, è una vostra illusione ottica. Alla guida del governo ci sono io. E Salvini, come Di Maio, è vicepresidente e leader di una delle due forze politiche». Giuseppe Conte ha risposto così alla domanda di “El País”. Chi comanda politicamente in Italia? Sì, politicamente e basta. Perché la grande innovazione dei sistemi poliarchici con alto gradiente di classi politiche eterodirette, com’è nel caso italico, è quella di autonomizzare sempre più fortemente le classi politiche medesime dalla società civile hegelianamente intesa. Per Hegel – e per Ferguson – la società civile costituisce lo spazio sociale di formazione della proprietà di qualsivoglia forma e dei mercati. Le classi politiche tradizionalmente intese mantenevano e mantengono con la società civile un rapporto costante, che è l’essenza del sistema poliarchico costruito dalle volizioni elettorali che si compongono in un parallelogramma di forze con la logica delle lobby e dei soft power che promanano dalla società civile.La politica economica ordoliberista (Fiscal Compact, deflazione, pilota automatico, debito come peccato irredimibile, distruzione dello Stato sociale) disgrega la società civile ed esalta il ruolo dell’eterodirezione delle classi politiche in qualche modo sempre presente in qualsivoglia sistema politico. La specificità italiana risiede nella frantumazione e debolezza della società civile, colpita dalla bassa dimensione dell’impresa in forma dominante e quindi con scarsissima capacità lobbistica, che tracima nell’aumento di potere delle classi politiche. Ma esse, le classi politiche, non hanno più potere proprio. Donde lo traggono, allora, se vogliono preformare in modo compulsivo, tramite la macchina parlamentare, la società secondo i loro fini? Non lo traggono solo dall’eterodirezione internazionale, com’è tipico del movimento pentastellato, ma altresì dalle vertebre statali rimaste attive.Nel caso italico, se si escludono le forze armate e i servizi segreti (tra i migliori al mondo e per questo estranei al gioco politico), l’unico potere vertebrato è quello giurisprudenziale, sempre più manifesto e attivo, soprattutto in prossimità delle prove elettorali. Pizzorno fu buon profeta, preconizzando lo strapotere compulsivo della magistratura come elemento attivo del parallelogramma delle forze poliarchiche. Accanto a esso vige il soft power internazionale. Nel governo italiano vi è a riguardo uno sbilanciamento delle forze. Il ruolo anglo-cinese è fortissimo e minaccia lo stesso profilo atlantico, che deve essere invece proprio del nostro storico interesse prevalente. Per questo l’intervista del premier Conte a “El País” è disarmante nella sua chiarezza. Esprime non il ruolo dominante di un mediatore, ma il certificato dello sbilanciamento del parallelogramma delle forze di ciò che rimane della società civile e il nuovo profilo delle forze politiche prevalentemente eterodirette. Ciò che rimane della società civile, ossia il lavoro dipendente e soprattutto le imprese piccole e medie, è sempre più escluso dall’azione di governo.Del resto, una classe politica peristaltica senza base sociale, ma con segmenti di relazione elettronica istantanea e volatile e molto limitata numericamente nei processi selettivi, non può condurre a termine nessun processo decisionale complesso. I gradi di libertà che questo segmento della classe politica eterodiretta una volta eletta detiene in misura rilevante (e questo è il dato democratico liberale che ancora pervade questo nuovo sistema del comando sociale italico) alimentano la fibrillazione continua di ciò che rimane del potere: nulla infatti si decide. L’altro segmento delle classi politiche con gradienti di eterodirezione assai minori, tanto al governo quanto all’opposizione, si trova incapace di esprimere un potere condizionante dinanzi all’attivismo eterodiretto. La follia shakespeariana domina così le italiche terre che son tornate al tempo dei goti, visigoti e longobardi. Dove sono i Boezio?«Perché a volte abbiamo la sensazione che chi comanda nel governo è Salvini?». «Se all’esterno o a voi stranieri richiama di più l’attenzione il ruolo o l’immagine di Salvini, che ha una grande capacità comunicativa, e credete che nel governo comandi lui, è una vostra illusione ottica. Alla guida del governo ci sono io. E Salvini, come Di Maio, è vicepresidente e leader di una delle due forze politiche». Giuseppe Conte ha risposto così alla domanda di “El País”. Chi comanda politicamente in Italia? Sì, politicamente e basta. Perché la grande innovazione dei sistemi poliarchici con alto gradiente di classi politiche eterodirette, com’è nel caso italico, è quella di autonomizzare sempre più fortemente le classi politiche medesime dalla società civile hegelianamente intesa. Per Hegel – e per Ferguson – la società civile costituisce lo spazio sociale di formazione della proprietà di qualsivoglia forma e dei mercati. Le classi politiche tradizionalmente intese mantenevano e mantengono con la società civile un rapporto costante, che è l’essenza del sistema poliarchico costruito dalle volizioni elettorali che si compongono in un parallelogramma di forze con la logica delle lobby e dei soft power che promanano dalla società civile.
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La droga gestita della Cia, uno strumento di politica globale
Sulla scia della Seconda Guerra mondiale, le élite politiche statunitensi e britanniche si ritrovarono ad affrontare la minaccia del socialismo su scala globale. Nonostante le incombenti perplessità circa il futuro, decisero di reagire mobilitando risorse – pubbliche e nascoste – al fine di implementare un programma di “Roll Back” atto a invertire l’avanzata comunista mondiale. Un vero e proprio blocco sulla strada della mobilitazione anti-comunista era rappresentato dal fatto che la maggior parte della popolazione statunitense era diffidente verso un progetto di politica estera di così ampia portata. Per lo statunitense medio il mondo era rappresentato unicamente dall’America del Nord e l’interesse per la politica estera era minimo. A causa di questo radicato isolazionismo, negli Stati Uniti, agli esordi della Guerra Fredda, spese governative ingenti nella politica estera erano fuori questione. Inoltre la Cia, principale fonte economica nel reame della politica estera americana, rappresentava, per la maggioranza degli americani nell’epoca post-bellica, un’agenzia come un’altra, mentre in realtà questa stava diventando un protagonista chiave. Pur perseguendo l’impegno di portare a termine massicce operazioni mondiali, la Cia chiese alla Casa Bianca una licenza per inserirsi in fonti di finanziamento alternativi.La droga figurava come il business più remunerativo tra quelli più noti. La natura criminale del business dettava quindi le regole del gioco. Mentre alcuni dei guadagni erano effettivamente utilizzati a supporto di operazioni sotto copertura, altri erano deviati verso l’arricchimento personale di agenti e dirigenti dell’agenzia, oppure rimanevano nelle mani di gruppi finanziari con potere di lobby nell’amministrazione statunitense. Di conseguenza, la complicità nel business della droga iniziò a diffondersi verso il livello più alto dell’establishment nordamericano… Il primo caso rappresentante le connessioni tra la Cia e il business della droga risalgono al 1947, anno in cui Washington, preoccupata dell’ascesa del movimento comunista nella Francia post-bellica, si associò con la nota e spietata mafia corsa nella lotta contro la sinistra. Dal momento che il denaro non poteva essere riversato nella sgradevole alleanza attraverso canali ufficiali, una grossa fabbrica di eroina venne istituita a Marsiglia con l’assistenza della Cia, che alimentava l’affare. L’iniziativa imprenditoriale impiegava abitanti del posto, mentre la Cia organizzava il ciclo degli approvvigionamenti, ed il terrore fisico e psicologico contro i comunisti in Francia alfine impedì loro di raggiungere il potere.Successivamente lo schema adottato è stato replicato nel mondo. All’inizio degli anni ’50 la Cia dirigeva un network di fabbriche di eroina nel Sud Est Asiatico e con parte dei guadagni sosteneva Chiang Kai-shek, che combatteva contro la Cina comunista. La Cia iniziò quindi a patrocinare il regime militare in Laos, rafforzando i propri legami nella regione del Triangolo d’Oro comprendente Laos, Thailandia e Birmania, paesi che hanno contribuito per il 70% della fornitura globale di oppio. La maggior parte della merce era diretta a Marsiglia e in Sicilia per il trattamento effettuato dalle fabbriche gestite dalla mafia corsa e siciliana. In Sicilia, l’associazione criminale che gestiva diverse fabbriche di droga era stata fondata da Lucky Luciano, un gangster americano nato in Italia e rideportatovi dopo la Seconda Guerra Mondiale. Le informazioni non classificate non lasciano alcun dubbio circa il lavoro che Luciano svolgeva per l’intelligence americana. L’uomo è stato, senza grosse motivazioni, rilasciato dalla prigione americana nel 1946 prima di aver scontato la sua condanna; l’associazione criminale italiana che operava sotto il controllo statunitense condivideva i guadagni con i patroni americani, i quali utilizzavano il denaro per portare avanti una guerra segreta contro il partito comunista italiano.La Cia continuò a prelevare denaro dal Triangolo d’Oro durante la Guerra del Vietnam. La droga proveniente da questa regione veniva trafficata illegalmente negli Stati Uniti e distribuita a basi militari americane all’estero. Ne deriva che molti dei veterani della Guerra del Vietnam sono rimasti segnati non solo dalla guerra, ma anche dall’uso di narcotici. Le attività legate al traffico della droga portate avanti dalla Cia dovevano rimanere segrete, ma evitare di venire a conoscenza di azioni così gravi era difficile. Uno scandalo enorme scoppiò infatti negli anni ’80 coinvolgendo la banca Nugan Hand di Sydney, con filiali registrate alle isole Cayman, e il precedente direttore della Cia William Colby avente funzione di consigliere legale. La Cia ha utilizzato la suddetta banca per operazioni di riciclaggio di denaro sporco nella gestione dei proventi derivanti dal traffico di droga e armi in Indocina. La geografia dei traffici di droga appoggiati dalla Cia si ampliò costantemente. Negli anni ’80, lo scambio “armi per droga” è stato replicato per finanziare i Contras del Nicaragua; ma dopo essere stato scoperto, il Comitato delle relazioni estere del Senato americano ha dovuto aprire un’inchiesta. Una frase del rapporto del Senato sul famoso accadimento affermava: «I decisori statunitensi non erano immuni all’idea che i soldi della droga fossero una soluzione ideale al problema del finanziamento del Contras».Questa dichiarazione, in linea generale, potrebbe dimostrare che le attività della Cia erano strettamente collegate alla politica estera americana. Il business della Cia nel narcotraffico si è diffuso senza precedenti quando gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica entrarono indirettamente in conflitto in Afghanistan. La comunità dell’intelligence americana finanziò generosamente i Mujahiddin, in parte con i soldi derivanti dal narcotraffico. Gli aerei statunitensi che consegnavano armi alla nazione rientravano carichi di eroina. Secondo giudizi indipendenti, all’epoca, circa il 50% del consumo di eroina negli Stati Uniti proveniva dall’Afghanistan. “La mafia, la Cia e George Bush” di Pete Brewton (New York: S.P.I. Books, 1992) offre una serie di dati concreti che provano i legami esistenti tra il direttore della Cia e il presidente americano Bush e la mafia. Lo stesso presidente, in certe fasi della sua carriera, combinò la propria funzione pubblica con la politica e il business della droga. L’establishment americano ha concluso che la droga, oltre ad essere stata impiegata per circostanze politiche, potrebbe tornare utile nel raggiungimento di obiettivi geopolitici di lungo termine.Quando Paul Brenner divenne capo di Baghdad con un’autorità che nemmeno Saddam Hussein si sognava, non fece alcun tentativo per innalzare una barriera contro l’ondata del narcotraffico che travolse l’Iraq. Inoltre è importate notare che il business della droga, durante il governo di Saddam, era un problema inesistente nel paese. «Questa è la panacea di ogni rivolta. Drogateli, rendeteli dipendenti come pesci affamati. In seguito, dopo aver preso il controllo della loro radio e televisione, storditeli con la propaganda». Baghdad, la città che non aveva mai visto l’eroina fino a marzo del 2003, ora è sommersa di stupefacenti, inclusa l’eroina. Secondo un rapporto pubblicato dal giornale “The Indipendent” di Londra, i cittadini di Baghdad si lamentavano che la droga, come l’eroina e la cocaina, erano smerciate per le strade delle metropoli irachene. «Alcune relazioni suggeriscono che il traffico di droga e armi era sostenuto dalla Cia, al fine di finanziare le sue operazioni segrete internazionali», scrive Brenda Stardom. Nel suo rapporto, un abitante di Baghdad spiegava: «Saresti stato impiccato, per il traffico di droga. Ma ora si può ottenere eroina, cocaina, qualsiasi cosa». I civili tossicodipendenti non hanno nessuna volontà di resistere, mentre la trionfante Washington, che ottenne le risorse del paese, è incurante del fatto che questa gente è condannata all’estinzione.L’operazione anti-terroristica lanciata immediatamente dopo il dramma dell’11 Settembre è giunta a conclusione in Afghanistan 11 anni dopo. Washington tratta la questione come un successo, ma evitare l’opinione pubblica genera gravi effetti collaterali. L’Afghanistan è stato abbandonato in uno stato di distruzione, con interi villaggi annientati, migliaia di persone decedute, prigionieri, campi di concentramento e rifugiati in tutto il paese. Sconfiggere il business della droga era l’obiettivo più pubblicizzato dell’intera “guerra al terrore” americana, ma il risultato e gli obiettivi della campagna erano completamente diversi. Nelle mani della coalizione occidentale, l’Afghanistan si è trasformato nel principale produttore mondiale di droga. Gli Usa e il business della droga si sono intrecciati sin dalla fine del secondo conflitto mondiale. Per Washington, la droga è stata a lungo un elemento strutturale della politica estera, oltre all’enorme mercato nero mondiale che alimenta l’economia “legittima” dell’Occidente… Un dollaro destinato al commercio della droga rende fino a 12.000 dollari, nella migliore delle ipotesi. Il costo dell’eroina afghana aumenta nettamente man mano che ci si sposta a nord del paese – in Pakistan ammonta a circa 650 dollari al chilo, 1.200 in Kyrgyzstan, raggiungendo i 70 dollari al grammo nella città di Mosca. Un chilo di eroina equivale a 200.000 dosi, e una dipendenza disperata inizia dopo 3 o 4 dosi.Il capitale “legittimo” sarebbe temporaneamente insostenibile senza il trascinante mercato nero globale. Entrambi i componenti dell’economia mondiale sono incentrati sugli Stati Uniti. Washington è consapevole che la produzione di droga può essere messa in atto solo dopo aver soddisfatto il requisito principale, cioè che gli utili finali non creino un effetto a cascata sul produttore. Diversamente, il mercato nero si sgretolerebbe all’istante. La mafia che gestisce il traffico di droga “in linea” riesce ad ottenere il 90% dei ricavi dall’eroina. Accanto ad altri soggetti coinvolti nel traffico, coloro che lavorano la materia prima ricevono il 2% del guadagno, gli agricoltori di papavero il 6% e i commercianti di oppio il 2%. La produttività del mercato nero utilizza anche aree coltivate a prezzi marginali. Promuovere un conflitto armato nella zona agricola è il modo più semplice per attenuare i costi richiesti dagli agricoltori, considerando che le armi sono la merce con più alto valore equivalente. La formula è che più sanguinoso è il conflitto e più alti sono i ricavi dalle vendite di armi e droga. L’instabilità, associata al controllo del disordine, rappresenta il motore del mercato nero. I due fattori armonizzano la domanda e l’offerta, tuttavia per assottigliare i costi e non avere difficoltà occorre diffondere aspirazioni separatiste. Il comandante della situazione dovrebbe impegnarsi con gruppi etnici, clan o fazioni religiose piuttosto che con enti statali.L’Afghanistan ha distribuito un totale di circa 50 tonnellate di oppio durante la metà degli anni ’80, ma la cifra è balzata a 600 tonnellate entro il 1990, un anno dopo il ritiro dei sovietici. Dopo aver sequestrato il 90% del territorio afgano e preso controllo della coltivazione di papavero locale, i Talebani si sono scrollati di dosso la presa della Cia e del Dipartimento di Stato americano, causando la perdita della quota statunitense dei circa 130 miliardi di dollari di profitto che la mafia poteva ottenere se le forniture venivano incanalate con successo in Asia centrale. Riprendere il controllo della produzione di eroina dal potere dei Talebani era l’obiettivo fondamentale dietro la campagna statunitense in Afghanistan. Al momento la missione è compiuta, gran parte dell’eroina viene acquistata e trasmessa dalla Cia e dal Pentagono ad altri paesi. Dopo aver costruito le basi militari in Kyrgyzstan, Uzbekistan e Tagikistan e insediato il governo di Hamid Karzai, Washington ha aperto nuove rotte di approvvigionamento, eliminando i concorrenti e facendo sì che la capacità degli stabilimenti di trasformazione dell’oppio in eroina non siano mai privi di lavoro. Al momento, l’Afghanistan rappresenta il 75% del mercato globale di eroina, l’80% del mercato europeo e il 35% del mercato statunitense. Circa il 65% del rifornimento di droga dell’Afghanistan attraversa l’Asia centrale post-sovietica, e anche se questa disposizione sarà leggermente modificata, il traffico persisterà anche dopo il ritiro della coalizione occidentale dall’Afghanistan.L’alleanza criminale tra la Cia e i Talebani è un fatto noto e non svanirà. Attualmente, i gruppi criminali albanesi del Kosovo possiedono un ruolo di primo piano nel commercio internazionale della droga. L’indipendenza del Kosovo dalla Serbia ha permesso agli Stati Uniti di pianificare un nuovo punto di appoggio per il business della droga, con particolare riguardo all’Europa. Oltre un milione di albanesi risiedono in Europa occidentale e la maggior parte di loro sopravvive grazie a diversi affari illegali, soprattutto quello della droga. Senza dubbio, gli Stati Uniti hanno deliberatamente presentato all’Europa un problema che d’ora in poi aumenterà. Secondo l’agenzia anti-narcotici russa, circa 100.000 persone in tutto il mondo – più di quante uccise dall’esplosione nucleare che distrusse Hiroshima – muoiono ogni anno a causa degli stupefacenti provenienti dall’Afghanistan. In questo contesto, in Russia, il bilancio è di circa 30.000 vittime. L’agenzia russa sul controllo della droga afferma che la produttività è raddoppiata negli ultimi dieci anni e ad oggi il 90% delle dosi di droga consumate globalmente – un totale di 7 miliardi – rappresentano eroina. La tossicodipendenza sta invadendo l’odierna Russia e nel mix con l’abuso di alcool sta mettendo in pericolo l’esistenza stessa della nazione.La Russia è molto attiva nell’incoraggiare la lotta internazionale contro la droga – il ministro degli esteri Sergej Lavrov, per esempio, ha ricordato al forum anti-droga 2010 che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite osserva il problema della droga come una minaccia alla pace e alla sicurezza globale. Il suo punto di vista era che il mandato della coalizione in Afghanistan dovrebbe essere aggiornato per includere delle misure ben più robuste, incluso lo sradicamento dei campi di oppio e lo smantellamento delle fabbriche di droga. I passi per contrastare la produzione di stupefacenti in Afghanistan dovrebbero essere altrettanto decisi di quelli scattati in America Latina contro il traffico di cocaina, afferma Lavrov, sottolineando anche che un coordinamento in tempo reale tra la Russia e la Nato, lungo il confine con l’Afghanistan, potrebbe essere di grande aiuto. Mosca ha mandato per anni segnali in merito, ma l’atteggiamento della Nato sembra essere impassibile. Il capo dell’agenzia russa del controllo della droga Viktor Ivanov ha affermato nel 2010 che la Russia ha fornito delle informazioni riservate agli Stati Uniti e all’amministrazione afghana riguardo 175 stabilimenti di droga in Afghanistan, eppure nessuno di questi è stato smantellato. I fondi continuano quindi ad accumularsi sui conti bancari di coloro che gestiscono questi traffici ed è chiaro che questa condizione richiede un fronte anti-narcotico molto più ampio. Mosca perderà solo tempo e vedrà sempre più russi morire se attende una mossa dell’Occidente per sottoscrivere tali iniziative. È giunto il momento di adottare misure drastiche contro coloro che diffondono la morte confezionata in dosi.(“La droga, uno strumento di politica globale”, da “La Crepa nel Muro” del 9 aprile 2019).Sulla scia della Seconda Guerra mondiale, le élite politiche statunitensi e britanniche si ritrovarono ad affrontare la minaccia del socialismo su scala globale. Nonostante le incombenti perplessità circa il futuro, decisero di reagire mobilitando risorse – pubbliche e nascoste – al fine di implementare un programma di “Roll Back” atto a invertire l’avanzata comunista mondiale. Un vero e proprio blocco sulla strada della mobilitazione anti-comunista era rappresentato dal fatto che la maggior parte della popolazione statunitense era diffidente verso un progetto di politica estera di così ampia portata. Per lo statunitense medio il mondo era rappresentato unicamente dall’America del Nord e l’interesse per la politica estera era minimo. A causa di questo radicato isolazionismo, negli Stati Uniti, agli esordi della Guerra Fredda, spese governative ingenti nella politica estera erano fuori questione. Inoltre la Cia, principale fonte economica nel reame della politica estera americana, rappresentava, per la maggioranza degli americani nell’epoca post-bellica, un’agenzia come un’altra, mentre in realtà questa stava diventando un protagonista chiave. Pur perseguendo l’impegno di portare a termine massicce operazioni mondiali, la Cia chiese alla Casa Bianca una licenza per inserirsi in fonti di finanziamento alternativi.
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Magaldi: giù le mani da Armando Siri (e dai suoi giudici)
Giù le mani da Armando Siri, e anche dalla magistratura: la si smetta di strumentalizzare l’operato dei Pm per silurare gli avversari politici. In un paese civile non ci si dimette neppure per un rinvio a giudizio o magari una condanna in primo grado, figurarsi per un avviso di garanzia. «I magistrati devono poter operare liberamente, senza il sospetto che svolgano indagini a orologeria». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, attacca il giustizialismo dei 5 Stelle, che pretendono le dimissioni del sottosegretario leghista ai trasporti solo perché indagato (per presunte agevolazioni verso imprese del settore dell’energia eolica). «Vorrei stigmatizzare l’analfabetismo costituzionale e politico di Luigi Di Maio, che non perde occasione per mostrare la sua inadeguatezza ad essere il capo politico di un soggetto importante come il Movimento 5 Stelle», afferma Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Intonando la cantilena che negli ultimi decenni hanno cantato tanti politici, Di Maio ha detto che Siri, in attesa che la magistratura appuri se è innocente o colpevole, dovrebbe intanto dimettersi “per opportunità politica e morale”. E se Siri è innocente – protesta Magaldi – quale moralità gli dovrebbe imporre di essere eliminato dallo scenario politico solo perché sottoposto a un’inchiesta che magari alla fine si riconoscerà sbagliata?».Cattiva politica, made in Italy, inaugurata da Tangentopoli: quello fu un golpe bianco, in cui finiva sul rogo qualsiasi politico colpito da un semplice avviso di garanzia. La vittima veniva isolata «dai colleghi di partito, pusillanimi, che si illudevano di farla franca», senza capire che quel sistema «sarebbe crollato per la sua stessa fragilità». Mani Pulite ha spazzato via la Prima Repubblica fondata sul patto atlantico: fare da argine rispetto all’Urss. Ma nella Seconda Repubblica – a lungo dominata da Berlusconi – quel male oscuro è rimasto: l’ombra dell’uso politico della giustizia. «Io non voglio nemmeno essere sfiorato dal sospetto che un’indagine, anziché essere mirata ad accertare la verità, persegua invece finalità improprie», dice Magaldi: «Questi dubbi sono perniciosi per lo stesso prestigio della magistratura, che resta uno dei cardini della democrazia». In altre parole: si deve poter indagare tranquillamente Armando Siri, per appurare se è innocente o colpevole, lasciando però che nel frattempo svolga il suo ruolo di sottosegretario. Se così fosse, nessuno a quel punto penserebbe più che ti mandano un avviso di garanzia perché c’è qualcosa di losco nel tuo operato: la magistratura farebbe semplicemente il suo dovere, senza che questo possa turbare l’agenda politica.Con un simile approccio, nessuno avrebbe più il minimo interesse a tentare di usare la carta giudiziaria per far fuori i rivali. E invece «si è creato un clima improprio, corrotto moralmente e politicamente, da quando l’opportunità politica e morale si è opposta allo Stato di diritto». Era la famosa “questione morale”, agitata innanzitutto da Berlinguer: «Come si fa ad anteporre una presunta morale allo Stato di diritto? La moralità pubblica è proprio quella che promana dallo Stato di diritto», sottolinea Magaldi, che denuncia lo «stile inappropriato», usato da Di Maio e anche dal ministro Toninelli, che ha tolto le deleghe a Siri: «Un atto improprio, becero e inopportuno, in un momento così delicato nei rapporti tra 5 Stelle e Lega». Pur critico sull’operato del governo Conte, troppo timido con Bruxelles, il presidente del Movimento Roosevelt apprezza l’impegno di Siri: ha dato più spessore e più maturità all’ex Carroccio, ispirando la scuola politica del partito e lanciando l’idea della Flat Tax. Una misura – il taglio della pressione fiscale – che va nella direzione giusta: «Non sarà risolutiva, ma contribuisce comunque ad aggredire la malattia socio-economica dell’Italia, che è il rigore imposto dal neoliberismo».Coincidenze: si attacca Siri proprio ora che si riparla di Flat Tax. Un modo per colpire Salvini e affondare il governo, in un momento così delicato per il precario “matrimonio” gialloverde? «Dobbiamo liberare i magistrati da qualunque ombra», insiste Magaldi. «E quindi bisogna che il ceto politico la smetta di pensare che si possa sovrapporre una seconda morale alla morale pubblica, già garantita per principio dalla presunzione di innocenza». Per Magaldi, si tratta di «metodologia costituzionale in ambito democratico, in uno Stato di diritto». Come tutelarsi dal sospetto che vi possa essere una giustizia eterodiretta o deviata verso finalità politiche improprie? «Basta mantenere il presupposto – tipico dell’ordinamento democratico e liberale – che ciascuno di noi è innocente fino a prova contraria». Purtroppo, aggiunge Magaldi, da Tangentopoli in poi «abbiamo vissuto un rigurgito di cultura inquisitoriale – di tempi bui, antichi e pre-moderni», in un’Italia «vessata per secoli da una cultura clericale, da una brutta versione del cristianesimo: quella che considera tutti peccatori, in attesa di redenzione».Meglio partire invece dall’idea di dignità umana come riflesso divino, «rilanciata da un grande cristiano come Giovanni Pico della Mirandola». Le democrazie hanno raccolto proprio questa idea: siamo dotati di dignità e di innocenza presunta, e il potere «appartiene agli uomini, non a un dio interpretato da caste sacerdotali o da aristocrazie laiche». Se è così, «si resta innocenti anche di fronte a una condanna non definitiva». Applicare questa regola, sottolinea Magaldi, sarebbe la migliore salvaguardia, sul piano politico, da qualunque sospetto di interferenza impropria della magistratura. Tutti innocenti fino a prova contraria, dunque, incluso Armando Siri: «Qualunque giurista democratico non potrebbe che sottoscrivere questo principio, che invece è stato pervertito dagli anni di Tangentopoli». Aggiunge Magaldi: «Dobbiamo liberarci di questa immoralità istituzionale. La cultura del sospetto appartiene ai regimi liberticidi. In democrazia invece i magistrati fanno il loro dovere, svolgono inchieste in modo libero e senza essere sospettati di lavorare a orologeria, sapendo che il ceto politico non metterà in discussione un soggetto solo perché è sottoposto a indagine».In questa vicenda emergono «ostilità e doppiopesismo», continua Magaldi: «Giustamente Salvini ha fatto notare che anche Virginia Raggi è stata ed è nuovamente indagata, e nessuno – nella Lega – si è sognato di chiedere le sue dimissioni. Semmai la Raggi dovrebbe dimettersi per la sua conclamata incapacità di governare Roma». Per Magaldi ci sono molti motivi per criticare lo scarso coraggio politico del governo, che anziché puntare al cambiamento «tira a campare, con pannicelli caldi per curare una malattia – quella economico-sociale dell’Italia – che ha bisogno di ben altre cure». Quello che non è accettabile, però, è che si strumentalizzi il lavoro della magistratura per colpire Salvini e seminare zizzania tra 5 Stelle e Lega». In questo, svetta il cinismo di Di Maio: «Un ipocrita, che tuona pubblicamente contro la massoneria ma poi fa il giro delle sette chiese per chiedere in segreto di essere accolto nei peggiori circuiti massonici sovranazionali, di segno neo-aristocratico, fingendo anche di non sapere che il governo Conte è affollato di massoni, sia tra i ministri che fra i sottosegretari». E ora si mette a far la morale ad Armando Siri, “colpevole” di aver trasmesso al governo le istanze di alcuni imprenditori?Decisamente sconcertante, l’harakiri gialloverde imposto da Di Maio: anziché serrare i ranghi per fronteggiare l’avversario comune, l’oligarchia di Bruxelles che impedisce all’Italia di crescere, il leader dei 5 Stelle preferisce “speronare” l’alleato leghista in vista delle europee, traguardo temutissimo dai grillini. Anche in questo, Di Maio ha brillato per doppiezza: prima ha omaggiato in modo clamoroso e irrituale i Gilet Gialli facendo infuriare Macron, poi s’è genuflesso davanti ad Angela Merkel, che di Macron è l’interfaccia in salsa prussiana. Una manfrina indecorosa, secondo Magaldi, per sperare di essere accolto nella Golden Eurasia, la superloggia massonica della Cancelliera. A che gioco sta giocando, Di Maio? Il presidente del Movimento Roosevelt, massone progressista, ha le idee chiare: il capo dei pentastellati ha ormai capito che il governo Conte ha fallito l’obiettivo del cambiamento, e spera – con l’aiuto delle superlogge – di sopravvivere politicamente al declino del Movimento 5 Stelle. Comunque la si veda, il risultato non cambia: la guerra intestina indebolisce l’Italia, cioè il paese che avrebbe dovuto sfidare la “dittatura” tecnocratica di Bruxelles. I guai per il Belpaese – aggredito dai poteri forti europei, con la complicità del Deep State italico – cominciarono con Tangentopoli: uso politico della giustizia. Non è un caso, forse, che dopo un quarto di secolo sia lo stesso Di Maio a ricorrere, ancora e sempre, al giustizialismo sommario che ha “suicidato” l’economia italiana, trasformando il paese in terra di conquista per le potenze straniere.Giù le mani da Armando Siri, e anche dalla magistratura: la si smetta di strumentalizzare l’operato dei Pm per silurare gli avversari politici. In un paese civile non ci si dimette neppure per un rinvio a giudizio o magari una condanna in primo grado, figurarsi per un avviso di garanzia. «I magistrati devono poter operare liberamente, senza il sospetto che svolgano indagini a orologeria». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, attacca il giustizialismo dei 5 Stelle, che pretendono le dimissioni del sottosegretario leghista ai trasporti solo perché indagato (per presunte agevolazioni verso imprese del settore dell’energia eolica). «Vorrei stigmatizzare l’analfabetismo costituzionale e politico di Luigi Di Maio, che non perde occasione per mostrare la sua inadeguatezza ad essere il capo politico di un soggetto importante come il Movimento 5 Stelle», afferma Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Intonando la cantilena che negli ultimi decenni hanno cantato tanti politici, Di Maio ha detto che Siri, in attesa che la magistratura appuri se è innocente o colpevole, dovrebbe intanto dimettersi “per opportunità politica e morale”. E se Siri è innocente – protesta Magaldi – quale moralità gli dovrebbe imporre di essere eliminato dallo scenario politico solo perché sottoposto a un’inchiesta che magari alla fine si riconoscerà sbagliata?».
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Magaldi: ipocriti e invidiosi, i nemici dell’accordo Italia-Cina
Bei sepolcri imbiancati, i nemici dell’accordo Italia-Cina: di loro, par di capire, “il più pulito ha la rogna”. Francia e Germania friggono d’invidia: ma come possono rinfacciare a Roma il fatto di aver scavalcato Bruxelles, se Parigi e Berlino sono reduci dal Trattato di Aquisgrana, stipulato come se l’Unione Europea non esistesse neppure? Una discreta faccia tosta anche da parte dell’alleato americano: furono proprio gli Usa ad aprire alla Cina le porte del mercato globale, ricorda Gioele Magaldi in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti. Sempre in video-chat con il conduttore di “Border Nights”, lo stesso Gianfranco Carpeoro (che del Movimento Roosevelt è un dirigente) rincara la dose: «Ha fatto benissimo, il governo Conte, a fare l’accordo con la Cina: tutela i legittimi interessi dell’Italia. Gli Usa strepitano? Pazienza, capiranno: anche loro mirano all’interesse nazionale. Ci rinfacciano che stringiamo un’alleanza con un paese non democratico? Prima ci spieghino la loro alleanza con monarchie autoritarie come l’Arabia Saudita». Aggiunge Carpeoro: «Dopo l’accordo con la Cina, ora l’Italia passi oltre: faccia fronte comune con paesi come la Spagna e la Grecia. E’ ora di metter fine al domino abusivo nord-europeo, finora esercitato da nazioni come la Germania, la Francia e l’Olanda».La verità è che siamo attaccati in modo pretestuoso da politici invidiosi e smemorati, sintetizza Gioele Magaldi. Sono ipocriti, i bellimbusti come Macron che vorrebbero imporre proprio all’Italia una cabina di regina europea per la gestione del commercio con Pechino. Quanto ai rimbrotti degli Usa, irritati dal fatto che l’Italia stringa accordi con un paese non esattamente democratico, Magaldi ricorda che fu proprio il massimo potere statunitense – ben incarnato da una struttura come la Trilaterale, guidata dai vari Kissinger, Rockefeller e Brzezinski – ad accogliere la Cina nel Wto, senza pretendere da Pechino né una svolta democratica né la tutela dei diritti sindacali del lavoro, pur sapendo che in quel modo la Cina avrebbe potuto immettere sul mercato globale prodotti a bassissimo costo. Del resto, sostiene Magaldi, questa è la natura dell’attuale globalizzazione progettata dalla massoneria sovranazione di segno reazionario: un club opaco, che ha anteposto il business ai diritti umani e alla sovranità democratica. Nessuno, oggi, ha le carte in regola per criticare l’Italia: chi dice di pretendere democrazia da Pechino non gestisce affatto in modo democratico la stessa governance europea, preferendo il neoliberismo mercantile al libero mercato, e la post-democrazia alla sovranità effettiva delle istituzioni, completamente piegate all’ordoliberismo dell’élite finanziaria.Pur ribadendo la propria fede atlantista, Magaldi critica la stessa Nato, che in passato supportò in Grecia il regime dittatoriale dei colonnelli. La Cina, ribadisce Magaldi, non è certo un modello di democrazia. E l’aspetto peggiore del suo turbo-capitalismo, che pure ha fatto progredire rapidamente il paese garantendo un crescente benessere, sono i protagonisti del boom cinese: grandi magnati che hanno acquisito posizioni dominanti, in patria e all’estero, in quanto provenienti dalla ristretta oligarchia del partito comunista. Da qui a contestare l’Italia, però, ne corre: tra i grandi gestori mondiali del vero potere – conclude Magaldi – nessuno è estraneo alla vorticosa ascesa della Cina, con la quale l’Italia ha giustamente stretto il suo recente accordo. Secondo Magaldi, il nostro paese dovrebbe insistere proprio nell’interpretare il suo ruolo naturale di “ponte”: non solo verso Pechino ma anche verso la Russia, l’Africa e il Medio Oriente, impegnandosi a sviluppare relazioni che, accanto ai commerci, producano un’evoluzione democratica dei partner. Tutto questo, per arrivare infine a pretendere – come il Movimento Roosevelt chiederà nel suo convegno il 30 marzo a Londra – un “New Deal Rooseveltiano” per l’Europa, basato sul recupero del capitalismo sociale keynesiano: un forte investimento pubblico per sostenere l’economia e, al tempo stesso, la conquista di istituzioni comunitarie finalmente democratiche.Bei sepolcri imbiancati, i nemici dell’accordo Italia-Cina: di loro, par di capire, “il più pulito ha la rogna”. Francia e Germania friggono d’invidia: ma come possono rinfacciare a Roma il fatto di aver scavalcato Bruxelles, se Parigi e Berlino sono reduci dal Trattato di Aquisgrana, stipulato come se l’Unione Europea non esistesse neppure? Una discreta faccia tosta anche da parte dell’alleato americano: furono proprio gli Usa ad aprire alla Cina le porte del mercato globale, ricorda Gioele Magaldi in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti. Sempre in video-chat con il conduttore di “Border Nights”, lo stesso Gianfranco Carpeoro (che del Movimento Roosevelt è un dirigente) rincara la dose: «Ha fatto benissimo, il governo Conte, a fare l’accordo con la Cina: tutela i legittimi interessi dell’Italia. Gli Usa strepitano? Pazienza, capiranno: anche loro mirano all’interesse nazionale. Ci rinfacciano che stringiamo un’alleanza con un paese non democratico? Prima ci spieghino la loro alleanza con monarchie autoritarie come l’Arabia Saudita». Aggiunge Carpeoro: «Dopo l’accordo con la Cina, ora l’Italia passi oltre: faccia fronte comune con paesi come la Spagna e la Grecia. E’ ora di metter fine al domino abusivo nord-europeo, finora esercitato da nazioni come la Germania, la Francia e l’Olanda».
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Carpeoro: nelle mie logge non c’erano magistrati né politici
Anziché escludere i massoni dalla politica, non sarebbe meglio se fosse la massoneria stessa, a monte, a chiudere le porte a chi ha incarichi pubblici? Si eviterebbero tanti equivoci, incluse le tempeste giudiziarie come quella che sta travolgendo il mondo politico siciliano, con il recentissimo caso della loggia “coperta” di Castelvetrano. Lo afferma l’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, saggista e dirigente del Movimento Roosevelt. «In alcune regioni italiane – dice – la contiguità tra mafia e massoneria è particolarmente vistosa». Nel 2005 Carpeoro arrivò a sciogliere l’intera obbedienza di cui era “sovrano gran maestro” (storica espressione del Rito Scozzese italiano) dopo aver chiuso innanzitutto le logge siciliane e calabresi. «Della mia massoneria – dichiara in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” – per mia esplicita disposizione non potevano essere ammessi nemmeno magistrati ed esponenti della forze dell’ordine», proprio per evitare che li si potesse accusare, un giorno, di essere tentati di favorire “confratelli” nei guai con la giustizia. «L’aiuto massonico deve avere carattere privato», sottolinea Carpeoro: «Se un “fratello” finisce in carcere, se necessario si deve sostenere finanziariamente la sua famiglia, ma certo non gli si può evitare la galera».Osservatore privilegiato della scena politica italiana, un tempo vicino a Bettino Craxi, Carpeoro è autore di saggi particolarmente scomodi: “Dalla massoneria al terrorismo”, edito nel 2016 da Revoluzione, imputa a settori dei servizi segreti Nato la “sovragestione” degli attentati condotti dall’Isis in Europa, rilevaldone la chiara matrice simbolica non islamica, ma templarista e massonica. Quanto alla massonofobia di facciata esibita in modo ipocrita dal Movimento 5 Stelle, Carpeoro conferma l’appartenenza massonica di Gianroberto Casaleggio, da poco segnalata dal presidente del Movimento Roosevelt, Gioele Magaldi. Su Casaleggio senior, Carpeoro aggiunge: «Era affiliato alla massoneria inglese, e anche a una Ur-Lodge attualmente di segno reazionario, anch’essa radicata nel mondo britannico». Come svelato da Magaldi nel saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014), le superlogge sovranazionali sono 36 organismi che reggono di fatto i destini mondo, al di sopra dei governi. Quello di Casaleggio era dunque un cenacolo oligarchico? «Sì, ma Casaleggio era un visionario, non un reazionario: e ogni visionario punta sempre al bene dell’umanità, non al suo male», fa notare Carpeoro, spesso critico con i grillini.Lo stesso Carpeoro ha spesso denunciato l’influenza del politologo statunitense Michael Ledeen su Luigi Di Maio: «E’ stato lui a organizzargli i tour alla vigilia dello scorso anno nei santuari supermassonici della finanza atlantica». Secondo Carpeoro, Ledeen – membro di spicco del potente Jewish Institute – è un tipico esponente della “sovragestione” della politica italiana: «Fu accanto a Craxi ma al tempo stesso anche a Di Pietro, poi a Renzi e contemporaneamente a Di Maio». Lobby ebraica? Supermassoneria reazionaria? Carpeoro diffida del complottismo, preferisce dosare rivelazioni precise e proporre analisi. La scorsa estate denunciò le manovre francesi per bloccare la nomina di Foa in Rai tramite Napolitano, Tajani e Berlusconi. Ora avverte: persa la partita contro Foa, sarebbe stato proprio il supermassone Jacques Attali, “padrino” di Macron, a premere (insieme al consueto Ledeen) perché il governo gialloverde cambiasse il vertice dei servizi segreti italiani, finora distinisi per essere riusciti a proteggere il nostro paese dal terrorismo.Dettagli che fanno pensare, specie se si alza il volume sull’infiltrazione della mafia nelle logge siciliane, ma si tace sul resto. Come dire: si strepita per piccole questioni locali, senza mai voler vedere le trame della vera massoneria di potere, quella sovranazionale. «Lo stesso dicasi per il caso Mps: il Montepaschi era una struttura interamente massonica, e il massone David Rossi – precipitato dalla finestra del suo ufficio, nel 2013 – è morto per aver scoperto una verità imbarazzante». E cioè che era stato Mario Draghi, allora governatore di Bankitalia, a manovrare perché la banca di Siena si esponesse a operazioni spericolate, eseguendo ordini di scuderia provenienti dal gotha della finanza massonica mondiale. Quanto alla massoneria nazionale italiana, Carpeoro ormai se ne tiene alla larga: reputa tramontata la sopravvivenza della sua eredità culturale, e sconsiglia chiunque dall’avvicinarsi alle logge, ormai – a suo dire – in completo declino. L’insidia della malavita? «Risolvibile anche quella, volendo – conclude l’avvocato – nella misura in cui sono risolvibili anche gli altri mali storici italiani». A patto che, ovviamente, si smetta di fingere di non vederli.Anziché escludere i massoni dalla politica, non sarebbe meglio se fosse la massoneria stessa, a monte, a chiudere le porte a chi ha incarichi pubblici? Si eviterebbero tanti equivoci, incluse le tempeste giudiziarie come quella che sta travolgendo il mondo politico siciliano, con il recentissimo caso della loggia “coperta” di Castelvetrano. Lo afferma l’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, saggista e dirigente del Movimento Roosevelt. «In alcune regioni italiane – dice – la contiguità tra mafia e massoneria è particolarmente vistosa». Nel 2005 Carpeoro arrivò a sciogliere l’intera obbedienza di cui era “sovrano gran maestro” (storica espressione del Rito Scozzese italiano) dopo aver chiuso innanzitutto le logge siciliane e calabresi. «Nella mia massoneria – dichiara in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” – per mia esplicita disposizione non potevano essere ammessi nemmeno magistrati ed esponenti della forze dell’ordine», proprio per evitare che li si potesse accusare, un giorno, di essere tentati di favorire “confratelli” nei guai con la giustizia. «L’aiuto massonico deve avere carattere privato», sottolinea Carpeoro: «Se un “fratello” finisce in carcere, se necessario si deve sostenere finanziariamente la sua famiglia, ma certo non gli si può evitare la galera».
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Stiamo diventando sempre più stupidi: crolla il Qi in Europa
Gli esseri umani starebbero diventando sempre più stupidi. Il nostro quoziente intellettivo (Qi), infatti, risulta letteralmente in caduta libera rispetto a quello misurato nei giovani degli anni ‘70. Basti pensare che dal 1975 ad oggi, in media, sono andati perduti 7 punti per ogni generazione. Una vera e propria ecatombe di materia grigia, scrive “Fanpage”: a portarla alla luce sono due ricercatori norvegesi del Centro Ragnar Frisch per la Ricerca Economica di Oslo, Bernt Bratsberg e Ole Rogeberg. I due hanno condotto un approfondito studio statistico sui dati di 730.000 giovani uomini, raccolti tra il 1970 e il 2009. «Tutti i partecipanti si preparavano a iniziare il servizio militare per il paese nordico, e sono stati così sottoposti ai test standard per valutare il loro quoziente intellettivo», spiega “Fanpage”. «Mettendo a confronto i risultati dei test, è emerso che i ragazzi di oggi sono sensibilmente più “stupidi” di quelli di 40-50 anni fa». In pratica, gli scienziati hanno dimostrato una inversione a U del cosiddetto “effetto Flynn”, dal nome del professor James Flynn: è lo scienziato (statunitense, emigrato in Nuova Zelanda) che per primo osservò l’aumento nel valore medio del quoziente intellettivo nella popolazione di alcuni paesi, che era salito di circa tre punti ogni decennio a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.Secondo gli studiosi norvegesi, le ragioni dell’incremento nell’intelligenza fino agli anni ‘70 sarebbero legate a un miglioramento di diversi fattori e condizioni di vita, dall’istruzione alla sanità, passando per l’alimentazione e il benessere generale. Ma a cosa è dovuto il preoccupante crollo del Qi avviatosi negli anni ‘70? Secondo gli scienziati di Oslo, la colpa sarebbe principalmente dei media, che avrebbero allontanato i giovani dalla lettura “intrappolandoli” davanti alla televisione e ai videogiochi, fino a indurli – negli ultimi anni – a trascorrere moltissime ore sui social network. I risultati dello studio, pubblicati sull’autorevole rivista scientifica “Pnas”, seguono quelli di un’altra ricerca condotta dallo stesso Flynn, nella quale emerse che il Qi medio degli adolescenti britannici era sceso di 2 punti in 28 anni. Poi, la caduta è diventata ancora più vistosa: in soli dieci anni, fra il 1999 e il 2009, gli inglesi avrebbero perso 14 punti di quoziente intellettivo, mentre i francesi 4 punti. In base a uno studio della rivista “Intelligence”, i britannici avevano un Qi medio di 114 punti nel 1999, e oggi invece sono appena 100 (dal canto loro, i francesi sarebbero ancora più in basso: appena 98 punti).“Vox News” cita una recente segnalazione di Maurizio Blondet: tutti gli studi ormai confermano che il Qi medio delle popolazioni occidentali sta scemando vistosamente da una quindicina d’anni. «Il calo è tanto più allarmante – sottolinea lo stesso Blondet – perché tutto il ventesimo secolo, al contrario, ha visto un aumento del Qi in Occidente, forse a causa del miglioramento generale della salute e dell’accesso all’educazione». Sulle cause del fenomeno, però, non c’è ancora nessuna certezza scientifica. «C’è chi chiama in causa i perturbatori endocrini, molecole contenute nella plastica che hanno l’effetto (fra gli altri) di ostacolare l’azione dello iodio, così importante nello sviluppo cerebrale: ricordiamo il “cretinismo alpino” di un tempo, che colpiva popolazioni carenti di sale iodato». “Vox News” punta il dito contro l’immigrazione, sostenendo che staremmo “importando” individui dall’intelligenza meno pronta: «Il mulatto è mediamente più intelligente del subsahariano ma meno dell’europeo. Mischiate Europa e Africa e avrete le favelas brasiliane». Proprio sicuri, che la spiegazione possa essere etno-lombrosiana? «Quando ti stai instupidendo – scrive “Vox” – figurati se ti accorgi del tuo instupidimento».Paolo Barnard, impietoso analista della contemporaneità, nel saggio “Il più grande crimine” punta il dito contro quella che chiama “esistenza commerciale”, l’avvento della mercificazione universale che ha spazzato via di colpo molti valori fondanti del vivere civile. Risultato: il mondo distopico di oggi, fatto di mera apparenza e popolato di individui resi apatici, indifferenti a tutto e ormai incapaci di lottare, sul piano sociale e politico. La generazione ruggente della rivolta studentesca del Sessantotto? Liquidata con un sapiente dosaggio di droghe immesse sul mercato. Poi il resto l’hanno fatto la globalizzazione e i signori del Wto, ma anche il web di massa, lo smartphone, lo stupidario di Facebook. Si legge meno: per questo si diventa stupidi? «Ha vinto Walt Disney, quindi abbiamo perso tutti», ebbe a sentenziare il sempre laconico Bob Dylan. Come dire: il dominio dell’apparenza è ormai planetario, non abbiamo scampo. Davvero? Punti di vista, sostiene a “Border Nights” l’eccentrico Fausto Carotenuto, approdato allo spiritualismo dopo anni di ruvido lavoro nell’intelligence Nato. La sua tesi: se inorridiamo di fronte alle tante aberrazioni cui ci tocca assistere, è perché i grandi poteri ricorrono sempre più spesso ai colpi bassi, puntando alla manipolazione di massa. Ma la buona notizia è che lo farebbero perché preoccupati dal nostro “risveglio” collettivo.Da qualche anno, Carotenuto ripete – in solitaria – la medesima diagnosi: i padroni della Terra scatenano guerre anche per abbassare il tono vitale delle moltitudini che si starebbero letteralmente ribellando al mainstream. La riprova? Almeno un cittadino su tre non crede più a quello che gli viene raccontato, da chi comanda. Per questo, aggiuge Carotenuto, sta salendo l’intensità del “bombardamento” cui siamo sottoposti: terrorismo, stragi, cibo inquinato, vaccini imposti a tappeto, scie chimiche. Tutto fa brodo, per spegnere l’energia dei singoli (e magari abbassare anche la loro intelligenza, il famoso quoziente intellettivo). Una tesi originale ma mai convalidata, ad esempio, dal saggista Gianfranco Carpeoro, che si domanda: dove mai sarebbero tutti questi indizi di risveglio coscienziale? Prendiamo le elezioni: votiamo sempre con odio, contro qualcuno – mai per qualcosa. Dove pensiamo di andare, per questa strada? La caccia alle streghe è sempre in voga: il nemico è l’Uomo Nero, non il sistema che lo produce. Morto un mostro, se ne fa un altro. Ma difficilmente ci accorgiamo del trucco: ci basta poter sparare contro il cattivone del momento. E’ così che il sistema, la fabbrica dei mostri, finisce sempre per farla franca.Se Carotenuto evoca il ruolo di un antagonista esterno, annidato in quelli che chiama “mondi spirituali”, Carpeoro resta sul terreno del visibile: possibile, dice, che non ci rendiamo conto che facciamo tutto da soli? E dire che non ci mancherebbe niente. Le doti fondamentali sono già in noi: e si chiamano conoscenza, fiducia e coraggio. Siamo capaci di imparare e di amare. Il problema? Costa fatica. Bisogna impegnarsi, studiare, crescere. E per farlo ci serve la risorsa più preziosa: il tempo. Se corri dal mattino alla sera, non ti resta il tempo per niente. Hai bisogno di informazioni? C’è Google, sullo smartphone: tutto e subito, senza sforzo. Risulato immediato: la memoria si addormenta, e alla lunga si atrofizza. Un guaio: senza memoria non c’è conoscenza. Non puoi fare confronti tra ieri e oggi, finisci per ripetere gli stessi errori, non riesci a collegare fatti lontani nel tempo. Come uscirne? Lottando, per riconquistare il tempo. E’ l’unica chance, per diventare più consapevoli, quindi più liberi. E inevitabilmente, alla fine, anche più intelligenti.Gli esseri umani starebbero diventando sempre più stupidi. Il nostro quoziente intellettivo (Qi), infatti, risulta letteralmente in caduta libera rispetto a quello misurato nei giovani degli anni ‘70. Basti pensare che dal 1975 ad oggi, in media, sono andati perduti 7 punti per ogni generazione. Una vera e propria ecatombe di materia grigia, scrive “Fanpage”: a portarla alla luce sono due ricercatori norvegesi del Centro Ragnar Frisch per la Ricerca Economica di Oslo, Bernt Bratsberg e Ole Rogeberg. I due hanno condotto un approfondito studio statistico sui dati di 730.000 giovani uomini, raccolti tra il 1970 e il 2009. «Tutti i partecipanti si preparavano a iniziare il servizio militare per il paese nordico, e sono stati così sottoposti ai test standard per valutare il loro quoziente intellettivo», spiega “Fanpage”. «Mettendo a confronto i risultati dei test, è emerso che i ragazzi di oggi sono sensibilmente più “stupidi” di quelli di 40-50 anni fa». In pratica, gli scienziati hanno dimostrato una inversione a U del cosiddetto “effetto Flynn”, dal nome del professor James Flynn: è lo scienziato (statunitense, emigrato in Nuova Zelanda) che per primo osservò l’aumento nel valore medio del quoziente intellettivo nella popolazione di alcuni paesi, che era salito di circa tre punti ogni decennio a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
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Scuola di golpe: è nato in Serbia l’oscuro progetto Guaidò
Prima della data fatidica del 22 gennaio, meno di un venezuelano su 5 aveva mai sentito parlare di Juan Guaidó. Solo pochi mesi fa, il trentacinquenne era un personaggio oscuro in un gruppo di estrema destra di scarsa influenza politica, strettamente associato a macabri atti di violenza di strada. Anche nel suo stesso partito, Guaidó era una figura di medio livello nell’Assemblea Nazionale dominata dall’opposizione, che sta ora agendo in maniera incostituzionale. Ma dopo una sola telefonata dal vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, Guaidó si è proclamato presidente del Venezuela. Unto come capo del suo paese da Washington, uno sguazzatore di bassifondi politici precedentemente sconosciuto è stato fatto salire sul palcoscenico internazionale, selezionato dagli Stati Uniti come il leader della nazione con le maggiori riserve petrolifere del mondo. Facendo eco al consenso di Washington, il comitato editoriale del “New York Times” ha definito Guaidó un «rivale credibile» per il presidente Nicolás Maduro, con uno «stile rinfrescante e una visione per portare avanti il paese». Il comitato editoriale di “Bloomberg” lo ha applaudito per aver cercato «il ripristino della democrazia», e il “Wall Street Journal” lo ha dichiarato «un nuovo leader democratico».Al contempo il Canada, numerose nazioni europee, Israele e il blocco dei governi latinoamericani di destra, conosciuti come il Gruppo di Lima, hanno riconosciuto Guaidó come il leader legittimo del Venezuela. Mentre Guaidó sembra essersi materializzato dal nulla, è in realtà il prodotto di oltre un decennio di coltivazione attenta da parte delle “fabbriche di cambio di regime” del governo degli Stati Uniti. Accanto a un gruppo di attivisti studenteschi di destra, Guaidó è stato coltivato per minare il governo socialista, destabilizzare il paese e un giorno prendere il potere. Sebbene sia stato una figura minore nella politica venezuelana, ha passato anni a dimostrare la sua “dignità” nelle sale del potere di Washington. «Juan Guaidó è un personaggio creato per questa circostanza», ha detto a “Grayzone” Marco Teruggi, sociologo argentino e tra i principali cronisti della politica venezuelana. «È la logica di laboratorio: Guaidó è come una miscela di diversi elementi che creano un personaggio che, in tutta onestà, oscilla tra il risibile e il preoccupante».Diego Sequera, giornalista e scrittore venezuelano per l’agenzia investigativa “Mision Verdad”, concorda: «Guaidó è più popolare fuori dal Venezuela che dentro, specialmente nelle élite Ivy League e nei circoli di Washington. È un personaggio conosciuto lì, è prevedibilmente di destra ed è considerato fedele al programma». Mentre Guaidó è oggi venduto come il volto della restaurazione democratica, ha trascorso la sua carriera nella fazione più violenta del partito di opposizione più radicale del Venezuela, posizionandosi in prima linea in una campagna di destabilizzazione dopo l’altra. Il suo partito è stato ampiamente screditato in Venezuela, ed è ritenuto in parte responsabile della frammentazione di un’opposizione fortemente indebolita. «Questi leader radicali non hanno più del 20% nei sondaggi d’opinione», scrive Luis Vicente León, il principale sondaggista del Venezuela. Secondo Leon, il partito di Guaidó rimane isolato perché la maggioranza della popolazione non vuole la guerra: «Quello che vogliono è una soluzione».Ma questo è precisamente il motivo per cui Guaidó è stato scelto da Washington: non è previsto che guidi il Venezuela verso la democrazia, ma che faccia collassare un paese che negli ultimi due decenni è stato un baluardo di resistenza all’egemonia degli Stati Uniti. La sua improbabile ascesa segna il culmine di un progetto durato due decenni per distruggere un solido esperimento socialista. Dall’elezione del 1998 di Hugo Chavez, gli Stati Uniti hanno combattuto per ripristinare il controllo sul Venezuela e le sue vaste riserve petrolifere. I programmi socialisti di Chavez hanno in parte ridistribuito la ricchezza del paese e aiutato a sollevare milioni dalla povertà, ma gli hanno anche dipinto un bersaglio sulle spalle. Nel 2002, l’opposizione di destra venezuelana lo depose con un colpo di Stato che aveva il sostegno e il riconoscimento degli Stati Uniti, ma l’esercito ripristinò la sua presidenza dopo una mobilitazione popolare di massa. Durante le amministrazioni dei presidenti degli Stati Uniti George W. Bush e Barack Obama, Chavez è sopravvissuto a numerosi tentativi di omicidio, prima di soccombere al cancro nel 2013. Il suo successore, Nicolás Maduro, è sopravvissuto a tre attentati.L’amministrazione Trump ha immediatamente elevato il Venezuela al vertice della lista dei cambi di regime di Washington, dandogli il marchio di leader di una “troika della tirannia”. L’anno scorso, la squadra di sicurezza nazionale di Trump ha cercato di reclutare membri dell’esercito venezuelano per istaurare una giunta militare, ma questo sforzo è fallito. Secondo il governo venezuelano, gli Stati Uniti erano anche coinvolti in una trama chiamata “Operazione Costituzione” per catturare Maduro nel palazzo presidenziale di Miraflores, e un’altra chiamata “Operazione Armageddon” per assassinarlo a una parata militare nel luglio 2017. Poco più di un anno dopo, i leader dell’opposizione esiliata hanno cercato di uccidere Maduro, usando droni-bomba durante una parata militare a Caracas. Più di un decennio prima di questi intrighi, un gruppo di studenti dell’opposizione di destra fu selezionato e curato da un’accademia di formazione d’élite per il cambio di regimi, finanziata dagli Stati Uniti per rovesciare il governo venezuelano e ripristinare l’ordine neoliberista.Il 5 ottobre 2005, con la popolarità di Chavez al suo apice e il suo governo che pianifica vasti programmi socialisti, cinque “leader studenteschi” venezuelani arrivarono a Belgrado, in Serbia, per iniziare l’addestramento per un’insurrezione. Gli studenti erano arrivati dal Venezuela per gentile concessione del Centro per le azioni e strategie nonviolente applicate, o Canvas. Questo gruppo è finanziato in gran parte attraverso il National Endowment for Democracy, un cut-out della Cia che funziona come il braccio principale del governo degli Stati Uniti per promuovere i cambi di regime, e propaggini come l’International Republican Institute e il National Democratic Institute for International Affairs. Secondo le e-mail interne trapelate da Stratfor, una società di intelligence nota come “la Cia-ombra”, «Canvas potrebbe aver ricevuto finanziamenti e addestramento dalla Cia durante la lotta anti-Milosevic del 1999-2000».Canvas è uno spin-off di Otpor, un gruppo di protesta serbo fondato da Srdja Popovic nel 1998 all’Università di Belgrado. Otpor, che significa “resistenza” in serbo, è stato il gruppo studentesco che ha guadagnato fama internazionale – e la pubblicità di Hollywood – mobilitando le proteste che alla fine hanno fatto cadere Slobodan Milosevic. Questa piccola cellula di specialisti del cambio di regime operava secondo le teorie del defunto Gene Sharp, “il Von Clausewitz della lotta non violenta”. Sharp aveva lavorato con un ex analista della Defense Intelligence Agency, il colonnello Robert Helvey, per ideare le linee guida per l’utilizzo della protesta come una forma di guerra ibrida, mirata agli Stati che resistevano alla dominazione unipolare di Washington. Otpor è stato sostenuto dal National Endowment for Democracy, dall’Usaid e dall’Istituto Albert Einstein di Sharp. Sinisa Sikman, uno dei creatori di Otpor, una volta ha detto che il gruppo ha persino ricevuto finanziamenti diretti della Cia.Secondo un’e-mail trapelata dallo staff di Stratfor, dopo aver eliminato Milosevic dal potere, «i ragazzi che gestivano Otpor sono cresciuti, si sono vestiti bene e hanno progettato Canvas, o in altre parole un gruppo “export-a-revolution” che ha gettato i semi delle varie altre “rivoluzioni colorate”. Sono ancora legati ai finanziamenti degli Stati Uniti e fondamentalmente vanno in giro per il mondo cercando di rovesciare dittatori e governi autocratici (quelli che agli Usa non piacciono)». Stratfor ha rivelato che Canvas «ha rivolto la sua attenzione al Venezuela» nel 2005, dopo aver addestrato i movimenti di opposizione che hanno portato le operazioni di cambio di regime pro-Nato in tutta l’Europa orientale. Mentre monitorava il programma di formazione Canvas, Stratfor ha delineato il suo programma insurrezionalista in un linguaggio straordinariamente chiaro: «Il successo non è affatto garantito, e i movimenti studenteschi sono solo l’inizio di quello che potrebbe essere uno sforzo di anni per innescare una rivoluzione in Venezuela, ma i formatori sono le persone che si sono fatte le ossa col “Macellaio dei Balcani”. Hanno delle abilità pazzesche. Quando vedrete studenti in cinque università venezuelane tenere dimostrazioni simultanee, saprete che la formazione è finita e il vero lavoro è iniziato».Il “vero lavoro” è iniziato due anni dopo, nel 2007, quando Guaidó si è laureato presso l’Università Cattolica Andrés Bello di Caracas. Si è trasferito a Washington per iscriversi al corso di governance e gestione politica presso la George Washington University sotto la guida dell’economista venezuelano Luis Enrique Berrizbeitia, uno dei principali economisti neoliberali latinoamericani. Berrizbeitia è un ex direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale, che ha trascorso oltre un decennio lavorando nel settore energetico venezuelano sotto il vecchio regime oligarchico poi estromesso da Chavez. Quell’anno, Guaidó contribuì a guidare i raduni anti-governativi dopo che il governo venezuelano rifiutò di rinnovare la licenza di “Radio Caracas Televisión” (Rctv). Questa stazione privata svolse un ruolo di primo piano nel colpo di Stato del 2002 contro Hugo Chavez. “Rctv” aiutò a mobilitare i manifestanti anti-governativi, diffondendo informazioni false che incolpavano i sostenitori del governo di atti di violenza, compiuti in realtà dai membri dell’opposizione, e censurò tutte le dichiarazioni pro-governative in occasione del colpo di Stato.Il ruolo di “Rctv” e di altre stazioni di proprietà degli oligarchi nel guidare il fallito tentativo di colpo di Stato è stato ben descritto nell’acclamato documentario “La rivoluzione non sarà trasmessa”. Nello stesso anno, gli studenti rivendicarono il merito di aver soffocato il referendum costituzionale di Chavez per “un socialismo del XXI secolo” che prometteva di «impostare il quadro legale per la riorganizzazione politica e sociale del paese, dando un potere diretto alle comunità organizzate come prerequisito per lo sviluppo di un nuovo sistema economico». Dalle proteste su “Rctv” e referendum, nacque un gruppo specializzato di attivisti del cambio di regime sostenuto dagli Stati Uniti. Si sono definiti “Generation 2007”. I formatori di Stratfor e Canvas di questa cellula hanno identificato un organizzatore chiamato Yon Goicoechea, alleato di Guaidó – quale “fattore chiave” nel soffocamento del referendum costituzionale. L’anno seguente, Goicochea fu ricompensato per i suoi sforzi con il Milton Friedman Prize for Advancing Liberty del Cato Institute, insieme a un premio di 500.000 dollari, che investì prontamente nella costruzione della sua rete politica “Prima la Libertà” (Primero Justicia).Friedman, naturalmente, era il padrino del famigerato think-tank neoliberista dei Chicago Boys che fu importato in Cile dal leader della giunta dittatoriale Augusto Pinochet per attuare politiche di radicale austerità fiscale in stile “shock-doctrine”. E il Cato Institute è il think-tank neoliberista di Washington, fondato dai fratelli Koch, due grandi donatori del partito repubblicano che sono diventati aggressivi sostenitori della destra in tutta l’America Latina. WikiLeaks ha pubblicato un’e-mail del 2007 che l’ambasciatore americano in Venezuela William Brownfield ha inviato al Dipartimento di Stato, al Consiglio di sicurezza nazionale e al Comando meridionale del Dipartimento della difesa elogiando «la Generazione del ‘07» per aver «costretto il presidente venezuelano, abituato a fissare l’agenda politica, a reagire spropositatamente». Tra i «leader emergenti» identificati da Brownfield c’erano Freddy Guevara e Yon Goicoechea. Ha applaudito quest’ultima figura come «uno dei difensori più articolati delle libertà civili». Riempiti di denaro dagli oligarchi neoliberali, i quadri radicali venezuelani hanno portato le loro tattiche Otpor nelle strade, insieme a una loro particolare versione del logo del gruppo.Nel 2009, gli attivisti giovanili di “Generation 2007” hanno messo in scena la loro dimostrazione più provocatoria, calandosi i pantaloni nelle strade e scimmiottando le “scandalose” tattiche di “guerrilla” delineate da Gene Sharp nei suoi manuali sul cambio di regime. I manifestanti si erano mobilitati contro l’arresto di un alleato di un altro gruppo giovanile, chiamato Javu. Questo gruppo di estrema destra «raccolse fondi da una varietà di fonti governative degli Stati Uniti, che gli permisero di acquisire rapida notorietà come l’ala più dura dei movimenti di opposizione», secondo il libro dell’accademico George Ciccariello-Maher, “Building the Commune”. Mentre i video della protesta non sono disponibili, molti venezuelani hanno identificato Guaidó come uno dei suoi partecipanti chiave. Sebbene l’accusa non sia confermata, è certamente plausibile; i manifestanti con le natiche nude erano membri del nucleo interno di “Generazione 2007” a cui apparteneva Guaidó e indossavano le T-shirt col loro marchio di fabbrica “Resistencia!”.Quell’anno, Guaidó si espose al pubblico in un altro modo, fondando un partito politico per catturare l’energia anti-Chavez che la sua “Generazione 2007” aveva coltivato. Il partito, chiamato “Volontà popolare”, fu guidato da Leopoldo López, un purosangue di destra educato a Princeton, pesantemente coinvolto nei programmi del National Endowment for Democracy ed eletto sindaco di un distretto di Caracas tra i più ricchi del paese. Lopez era un ritratto dell’aristocrazia venezuelana, direttamente discendente dal primo presidente del suo paese. È anche cugino di Thor Halvorssen, fondatore della Human Rights Foundation, con sede negli Stati Uniti, che funge da facciata pubblicitaria per gli attivisti anti-governativi sostenuti dagli Stati Uniti in paesi presi di mira da Washington. Sebbene gli interessi di Lopez fossero allineati perfettamente con quelli di Washington, i documenti diplomatici statunitensi pubblicati da WikiLeaks mettevano in luce le tendenze fanatiche che avrebbero portato alla marginalizzazione dal consenso popolare.Un comunicato identificava Lopez come «una figura di divisione all’interno dell’opposizione, spesso descritta come arrogante, vendicativa e assetata di potere». Altri hanno evidenziato la sua ossessione per gli scontri e il suo «approccio intransigente» come fonte di tensione con altri leader dell’opposizione, che davano priorità all’unità e alla partecipazione alle istituzioni democratiche del paese. Nel 2010 “Volontà Popolare” e i suoi sostenitori stranieri si sono mossi per sfruttare la peggiore siccità che avesse colpito il Venezuela, da decenni. La grande carenza di energia elettrica aveva colpito il paese a causa della scarsità d’acqua, necessaria per alimentare le centrali idroelettriche. La recessione economica globale e un calo dei prezzi del petrolio aggravarono la crisi, provocando il malcontento pubblico. Stratfor e Canvas – i principali consiglieri di Guaidó e dei suoi quadri anti-governativi – escogitarono un piano scandalosamente cinico per pugnalare al cuore la rivoluzione bolivariana. Il piano prevedeva un crollo del 70% del sistema elettrico del paese già nell’aprile 2010.«Questo potrebbe essere l’evento spartiacque, poiché c’è poco che Chavez possa fare per proteggere i poveri dal fallimento di quel sistema», dichiara il memorandum interno di Stratfor. «Questo avrà probabilmente l’effetto di galvanizzare i disordini pubblici in un modo che nessun gruppo di opposizione potrebbe mai sperare di generare. A quel punto, un gruppo di opposizione potrebbe servirsene per approfittare della situazione e scagliare l’opinione pubblica contro Chavez». In quel momento l’opposizione venezuelana riceveva 40-50 milioni di dollari l’anno da organizzazioni governative statunitensi come Usaid e National Endowment for Democracy, secondo un rapporto di un think-tank spagnolo, l’Istituto Frude. Aveva anche una grande ricchezza da attingere dai suoi conti, che erano per lo più al di fuori del paese. Ma lo scenario immaginato da Statfor non si realizzò, gli attivisti del partito “Volontà Popolare” e i loro alleati misero quindi da parte ogni pretesa di non violenza e si unirono in un piano radicale di destabilizzazione del paese.Nel novembre 2010, secondo le e-mail ottenute dai servizi di sicurezza venezuelani e presentate dall’ex ministro della giustizia Miguel Rodríguez Torres, Guaidó, Goicoechea e diversi altri attivisti studenteschi hanno partecipato ad un corso di formazione segreto di cinque giorni presso l’hotel Fiesta Mexicana di Città del Messico. Le sessioni sono state condotte da Otpor, i formatori del cambio regime a Belgrado appoggiati dal governo degli Stati Uniti. Secondo quanto riferito, l’incontro aveva ricevuto la benedizione di Otto Reich, un esiliato cubano fanaticamente anticastrista che lavorava nel Dipartimento di Stato di George W. Bush, e dall’ex presidente colombiano di destra Alvaro Uribe. All’hotel Fiesta Mexicana, Guaidó e i suoi compagni attivisti hanno ordito un piano per rovesciare Hugo Chavez generando il caos attraverso spasmi prolungati di violenza di strada.Tre personaggi dell’industria petrolifera – Gustavo Tovar, Eligio Cedeño e Pedro Burelli – hanno a quanto pare pagato il conto di 52.000 dollari dell’albergo. Torrar è un autoproclamato “attivista per i diritti umani” e “intellettuale”, il cui fratello minore Reynaldo Tovar Arroyo è il rappresentante in Venezuela della società petrolifera messicana privata Petroquimica del Golfo, che ha un contratto con lo Stato venezuelano. Cedeño, da parte sua, è un fuggitivo uomo d’affari venezuelano che ha chiesto asilo negli Stati Uniti, e Pedro Burelli un ex dirigente della Jp Morgan ed ex direttore della compagnia petrolifera nazionale venezuelana Petroleum of Venezuela (Pdvsa). Lasciò la Pdvsa nel 1998 mentre Hugo Chavez prendeva il potere, e faceva parte del comitato consultivo del programma di leadership in America Latina della Georgetown University. Burelli ha insistito sul fatto che le e-mail che dettagliavano la sua partecipazione erano state inventate, e ha persino assunto un investigatore privato per dimostrarlo. L’investigatore dichiarò che i registri di Google mostravano che le e-mail che si presumeva fossero sue non vennero mai trasmesse.Eppure oggi Burelli non fa mistero del suo desiderio di vedere deposto l’attuale presidente venezuelano, Nicolás Maduro, e anche di volerlo «trascinato per le strade e sodomizzato con una baionetta», come accaduto al capo libico Muhammar Gheddafi, così trattato dai miliziani sostenuti dalla Nato. La presunta trama di Fiesta Mexicana è confluita in un altro piano di destabilizzazione, rivelato in una serie di documenti mostrati dal governo venezuelano. Nel maggio 2014, Caracas ha rilasciato documenti che descrivono un complotto di omicidio contro il presidente Nicolás Maduro. Le fughe di notizie hanno identificato Maria Corina Machado, con sede a Miami, come leader del piano. Estremista con un debole per la retorica estrema, Machado ha funto da collegamento internazionale per l’opposizione, incontrando addirittura il presidente George W. Bush nel 2005. «Penso che sia tempo di raccogliere gli sforzi; fai le chiamate necessarie e ottieni finanziamenti per annientare Maduro e il resto andrà in pezzi», ha scritto Maria Corina Machado in una e-mail all’ex diplomatico venezuelano Diego Arria nel 2014.In un’altra email, la Machado sosteneva che la trama violenta aveva la benedizione dell’ambasciatore statunitense in Colombia, Kevin Whitaker. «Ho già deciso, e questa lotta continuerà fino a quando questo regime non sarà rovesciato e consegneremo il risultato ai nostri amici nel mondo. Se sono andata a San Cristobal e mi sono esposta all’Oas, non ho paura di nulla. Kevin Whitaker ha già riconfermato il suo sostegno e ha sottolineato i nuovi passaggi. Abbiamo un libretto degli assegni più forte di quello del regime per rompere l’anello di sicurezza internazionale». Nel febbraio 2014, i manifestanti studenteschi che agivano come truppe d’assalto per l’oligarchia in esilio eressero barricate in tutto il paese, trasformando quartieri controllati dall’opposizione in fortezze violente, note come “guarimbas”. Mentre i media internazionali ritraevano lo sconvolgimento come una protesta spontanea contro la regola del pugno di ferro di Maduro, ci sono molte prove che fosse “Volontà Popolare” ad orchestrare lo spettacolo.«I manifestanti delle università non indossavano le loro magliette, tutti indossavano magliette di “Volontà Popolare” o “Justice First”», ha detto un partecipante alla “guarimba”, all’epoca. «Potrebbero essere stati gruppi di studenti, ma i consigli studenteschi sono affiliati ai partiti politici di opposizione e sono responsabili nei loro confronti». Alla domanda su chi fossero i capobanda, il partecipante alla “guarimba” ha dichiarato: «Beh, ad essere onesti, quei ragazzi ora sono in Parlamento». Circa 43 sono stati i morti durante le “guarimbas” del 2014. Le stesse violenze eruttarono di nuovo tre anni dopo, causando grandi distruzioni di infrastrutture pubbliche, l’assassinio di sostenitori del governo e la morte di 126 persone, molte delle quali erano chaviste. In diversi casi, i sostenitori del governo sono stati bruciati vivi da bande armate. Guaidó è stato direttamente coinvolto nelle “guarimbas” del 2014. Infatti, ha twittato un video in cui si mostrava vestito con un elmetto e una maschera antigas, circondato da elementi mascherati e armati che avevano bloccato un’autostrada e che si stavano impegnando in uno scontro violento con la polizia. Alludendo alla sua partecipazione alla “Generazione 2007”, proclamava: «Ricordo che nel 2007, abbiamo proclamato, “Studenti!”. Ora gridiamo: “Resistenza! Resistenza”». Guaidó ha poi cancellato il tweet, dimostrando un’apparente preoccupazione per la sua immagine di paladino della democrazia.Il 12 febbraio 2014, durante il culmine delle “guarimbas” di quell’anno, Guaidó si è unito a Lopez sul palco di una manifestazione di “Volontà Popolare” e “Prima la Giustizia”. Con un lungo discorso contro il governo, Lopez esortò la folla a marciare verso l’ufficio del procuratore generale Luisa Ortega Diaz. Poco dopo, l’ufficio di Diaz venne attaccato da bande armate che tentarono di bruciarlo. La Diaz ha definito l’episodio come «violenza programmata e premeditata». In un’apparizione televisiva del 2016, Guaidó ha liquidato come “mito” le morti risultanti da “guayas” – una tattica di “guarimba” che consiste nel piazzare filo spinato su una strada ad altezza della testa per ferire o uccidere motociclisti. I suoi commenti hanno minimizzato una tattica micidiale che aveva ucciso civili disarmati come Santiago Pedroza e decapitato un uomo di nome Elvis Durán, tra molti altri. Questo insensibile disprezzo per la vita umana definisce “Volontà Popolare” agli occhi di gran parte del pubblico, compresi molti avversari di Maduro.Con l’intensificarsi della violenza e della polarizzazione politica in tutto il paese, il governo ha iniziato ad agire contro i leader di “Volontà Popolare”. Freddy Guevara, vicepresidente dell’Assemblea Nazionale e secondo in comando di “Volontà Popolare”, è stato il principale leader delle rivolte di strada del 2017. Di fronte a un processo per il suo ruolo nelle violenze, Guevara si è rifugiato nell’ambasciata cilena, dove rimane. Lester Toledo, un legislatore di “Volontà Popolare” dello Stato di Zulia, è stato ricercato dal governo venezuelano nel settembre 2016 con l’accusa di finanziamento del terrorismo e di complotto a fini di omicidio. Si dice che i piani siano stati preparati insieme all’ex presidente colombiano Álavaro Uribe. Toledo è fuggito dal Venezuela e ha fatto diverse tournée con Human Rights Watch, la Freedom House, il Congresso spagnolo e il Parlamento Europeo, sostenuto dal governo degli Stati Uniti.Carlos Graffe è un altro membro della “Generazione 2007” addestrata da Otpor, che ha guidato Volontà Popolare. E’ stato arrestato nel luglio 2017. Secondo la polizia, era in possesso di una borsa piena di chiodi, esplosivo C4 e un detonatore. È stato rilasciato il 27 dicembre 2017. Leopoldo Lopez, il leader di lunga data di “Volontà Popolare”, è oggi agli arresti domiciliari, accusato di aver avuto un ruolo chiave nella morte di 13 persone durante le “guarimbas” nel 2014. Amnesty International ha elogiato Lopez come «prigioniero di coscienza». Nel frattempo, i familiari delle vittime di “guarimba” hanno presentato una petizione per ulteriori accuse contro Lopez. Goicoechea, il poster-boy dei fratelli Koch e fondatore di “Prima la Giustizia”, sostenuto dagli Stati Uniti, è stato arrestato nel 2016 dalle forze di sicurezza, che hanno affermato di aver trovato un chilo di esplosivo nel suo veicolo. In un editoriale del “New York Times”, Goicoechea ha protestato contro le accuse (che definisce false) e ha affermato di essere stato imprigionato semplicemente per il suo «sogno di una società democratica, libera dal comunismo». È stato liberato nel novembre 2017.David Smolansky, anche lui membro dell’originale “Generation 2007” di Otpor, è diventato il più giovane sindaco venezuelano quando è stato eletto nel 2013 nel ricco sobborgo di El Hatillo. Ma è stato spogliato della sua posizione e condannato a 15 mesi di prigione dalla Corte Suprema dopo essere stato trovato colpevole di aver fomentato le violenze delle “guarimbas”. Prima dell’arresto, Smolansky si rasò la barba, indossò occhiali da sole e scivolò in Brasile travestito da prete con una Bibbia in mano e il rosario al collo. Ora vive a Washington, dove è stato scelto dal segretario dell’Organizzazione degli Stati Americani Luis Almagro per guidare il gruppo di lavoro sulla crisi dei migranti e dei rifugiati venezuelani. Lo scorso 26 luglio, Smolansky ha tenuto quella che ha definito una «riunione cordiale» con Elliot Abrams, il criminale condannato nel processo Iran-Contra, ora mandato da Trump come inviato speciale degli Stati Uniti in Venezuela. Abrams è noto per aver supervisionato la politica segreta degli Stati Uniti di armare gli squadroni della morte di destra durante gli anni ‘80 in Nicaragua, El Salvador e Guatemala. Il suo ruolo principale nel colpo di Stato venezuelano ha alimentato i timori che un’altra guerra per procura potrebbe essere in arrivo. Quattro giorni prima, Machado aveva urlato un’altra violenta minaccia contro Maduro, dichiarando che «se vuole salvarsi la vita, dovrebbe capire che il suo tempo è scaduto».Il collasso di “Volontà Popolare”, sotto il peso della violenta campagna di destabilizzazione che aveva avviato, ha alienato il consenso di ampi settori dell’opinione pubblica e ha costretto gran parte della sua leadership in esilio o in carcere. Guaidó è sempre rimasto una figura relativamente minore, ha infatti trascorso gran parte della sua carriera di nove anni all’Assemblea Nazionale come sostituto. Originario di uno degli Stati meno popolati del Venezuela, Guaidó arrivò secondo alle elezioni parlamentari del 2015, assicurandosi il posto in Assemblea con appena il 26% dei voti. In effetti, si può dire che il suo sedere fosse più conosciuto della sua faccia. Guaidó è noto come il presidente dell’Assemblea Nazionale, dominata dall’opposizione, ma non è mai stato eletto. I quattro partiti di opposizione che comprendevano il Tavolo di Unità Democratica dell’Assemblea avevano deciso di istituire una presidenza a rotazione. La svolta di “Volontà Popolare” era in arrivo, ma il suo fondatore, Lopez, era agli arresti domiciliari. Nel frattempo, il suo secondo incaricato, Guevara, si era rifugiato nell’ambasciata cilena. Juan Andrés Mejía avrebbe dovuto occupare la presidenza dell’Assemblea, ma per ragioni che ora sono maggiormente chiare, gli fu preferito Juan Guaidò.«C’è un ragionamento di classe che spiega l’ascesa di Guaidó», osserva Sequera, l’analista venezuelano. «Mejía è di classe alta, ha studiato in una delle università private più costose del Venezuela e non poteva essere facilmente venduto al pubblico come Guaidó. Guaidó ha caratteristiche meticce comuni alla maggior parte dei venezuelani, e sembra più un uomo della gente. Inoltre, non era stato sovraesposto nei media, quindi poteva essere presentato in praticamente qualsiasi salsa». Nel dicembre 2018, Guaidó si è recato a Washington, in Colombia e in Brasile per coordinare la preparazione di manifestazioni di massa durante l’inaugurazione della presidenza Maduro. La notte prima della cerimonia di giuramento di Maduro, sia il vicepresidente Mike Pence che il ministro degli esteri canadese Chrystia Freeland hanno chiamato Guaidó per confermare il loro sostegno. Una settimana dopo, il senatore Marco Rubio, il senatore Rick Scott e il rappresentante Mario Diaz-Balart – tutti i legislatori della base della destra della lobby di esilio cubano di destra – si sono uniti al presidente Trump e al vicepresidente Pence alla Casa Bianca. Su loro richiesta, Trump dichiarò che se Guaidó si fosse dichiarato presidente, lo avrebbe sostenuto.Il segretario di Stato Mike Pompeo ha incontrato personalmente Guaidó il 10 gennaio, secondo il “Wall Street Journal”. Tuttavia, Pompeo non riusci a pronunciare correttamente il nome di Guaidó quando lo menzionò in una conferenza stampa il 25 gennaio, riferendosi a lui come a “Juan Guido”. L’11 gennaio, la pagina di Wikipedia di Guaidó è stata modificata per 37 volte, mettendo in evidenza la lotta per modellare l’immagine di una figura precedentemente anonima che ora era un tableau per le ambizioni del cambio di regime di Washington. Alla fine, la supervisione editoriale della sua pagina è stata consegnata al consiglio d’élite dei “bibliotecari” di Wikipedia, che lo ha definito presidente «conteso» del Venezuela. Guaidó sarà anche una mezza figura, ma la sua combinazione di radicalismo e opportunismo soddisfa i bisogni di Washington. «Quel pezzo interno era mancante», ha detto di Guaidó un funzionario dell’amministrazione Trump. «Era il pezzo di cui avevamo bisogno perché la nostra strategia fosse coerente e completa». Brownfield, l’ex ambasciatore americano in Venezuela, ha dichiarato al “New York Times”: «Per la prima volta abbiamo un leader dell’opposizione che sta chiaramente segnalando alle forze armate e alle forze dell’ordine che vuole tenerle dalla parte degli angeli e dei bravi ragazzi».Ma è stata “Volontà Popolare” di Guaidó a formare le truppe d’assalto delle “guarimbas” che hanno causato la morte di agenti di polizia e comuni cittadini. Si era persino vantato della propria partecipazione alle rivolte di strada. E ora, per conquistare i cuori e le menti dei militari e della polizia, Guaidò ha dovuto cancellare questa storia intrisa di sangue. Il 21 gennaio, un giorno prima che il colpo di Stato iniziasse sul serio, la moglie di Guaidó ha presentato un video che invitava i militari a insorgere contro Maduro. La sua esibizione è stata legnosa e poco accattivante, e sottolinea le limitate prospettive politiche del marito. In una conferenza stampa di fronte ai suoi sostenitori, quattro giorni dopo, Guaidó ha annunciato la sua soluzione alla crisi: «Autorizzare un intervento umanitario!». Mentre attende l’assistenza diretta, Guaidó rimane quello che è sempre stato – una marionetta, frutto del progetto di ciniche forze esterne. «Non importa se si brucerà dopo tutte queste disavventure», dice Sequera del fantoccio del colpo di Stato. «Per gli americani, è sacrificabile».(Dan Cohen e Max Blumenthal, “The making of Juan Guaidó – Il fantoccio creato in laboratorio per il colpo di Stato in Venezuela”, da “Consortium News” del 29 gennaio 2019: reportage tradotto da Enrico Carotenuto per “Coscienze in Rete”. Max Blumenthal è un giornalista pluripremiato e autore di numerosi libri, tra cui “Gomorra Repubblicana”, “Golia”, “La guerra dei cinquanta giorni” e “La gestione della ferocia”. Ha prodotto articoli per numerose pubblicazioni, molti video report e diversi documentari, tra cui “Killing Gaza”. Blumenthal ha fondato “The Grayzone” nel 2015 per puntare un faro giornalistico sullo stato di guerra perpetua dell’America e le sue pericolose ripercussioni domestiche. Dan Cohen è un giornalista e regista. Ha prodotto reportage video ampiamente distribuiti e materiale cartaceo da tutta Israele-Palestina. E’ un corrispondente di “Rt America”).Prima della data fatidica del 22 gennaio, meno di un venezuelano su 5 aveva mai sentito parlare di Juan Guaidó. Solo pochi mesi fa, il trentacinquenne era un personaggio oscuro in un gruppo di estrema destra di scarsa influenza politica, strettamente associato a macabri atti di violenza di strada. Anche nel suo stesso partito, Guaidó era una figura di medio livello nell’Assemblea Nazionale dominata dall’opposizione, che sta ora agendo in maniera incostituzionale. Ma dopo una sola telefonata dal vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, Guaidó si è proclamato presidente del Venezuela. Unto come capo del suo paese da Washington, uno sguazzatore di bassifondi politici precedentemente sconosciuto è stato fatto salire sul palcoscenico internazionale, selezionato dagli Stati Uniti come il leader della nazione con le maggiori riserve petrolifere del mondo. Facendo eco al consenso di Washington, il comitato editoriale del “New York Times” ha definito Guaidó un «rivale credibile» per il presidente Nicolás Maduro, con uno «stile rinfrescante e una visione per portare avanti il paese». Il comitato editoriale di “Bloomberg” lo ha applaudito per aver cercato «il ripristino della democrazia», e il “Wall Street Journal” lo ha dichiarato «un nuovo leader democratico».
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Cade ogni politico, se non serve più al potere che ci domina
un po’ di vertigine, il saggio “Psyops” di Solange Manfredi, che illumina settant’anni di “guerra psicologica”, condotta in Italia. Indovinato: siamo il paese-cavia per eccellenza, dove sono state testate le peggiori tecniche di manipolazione, anche le più sanguinose (Gladio). Nessun’altra nazione, in Europa – ricorda l’autrice, in un’intervista alla trasmissione web-radio “Forme d’Onda” – ha subito altrettante atrocità, a causa del terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, che ha utilizzato servizi segreti e pedine dell’estremismo per mettere in piedi gli agguati degli anni di piombo e le stragi impunite nelle piazze. Pensiamo a una sigla come la Falange Armata: ha firmato 500 rivendicazioni, tra il ‘92 il ‘94, quando Tangentopoli abbatteva la Prima Repubblica e le bombe affidate alla manolavanza mafiosa condizionavano il sanguinoso esordio della Seconda, nata per sacrificare l’Italia del benessere e portarla a soccombere di fronte all’oligarchia finanziaria di Maastricht e del Trattato di Lisbona. L’Isis? E’ l’ultimo capolavoro della strategia della tensione a livello internazionale, riprodotta fedelmente secondo il modello sperimentato in Italia. C’è il referendum per la secessione della Scozia dal Regno Unito? Benissimo, e chi decapita, l’Isis, il giorno prima? Ovvio: uno scozzese. Negli Usa si vota per limitare ulteriormente le libertà del cittadino, con la scusa della sicurezza? E quindi è proprio un ostaggio americano, alla vigilia, a offrire la gola alla mannaia dello Stato Islamico.La regia è scandalosamente evidente, dice Solange Manfredi, così come il movente – per nulla connesso con Allah – dello stesso fondamentalismo religioso mediorientale, creato a tavolino per evitare che il Medio Oriente svoltasse verso il socialismo. Negli anni ‘50, ricorda l’autrice del saggio, i paesi arabi erano largamente laici. «Prima del golpe occidentale che portò al potere Saddam, l’Iraq aveva un ministro donna e si preparava a dare l’indipendenza ai curdi». Così, il governo di Baghdad è stato “suicidato”. Tutto ciò è orrendo? Certamente, ma dobbiamo sapere che è la regola. La storia non lo ammette? Lo si può capire: spesso è il sistema stesso a scriverla, imponendo la sua versione alla scuola. Storia, cioè guerre: nessuno dei conflitti che ricordiamo – dice Solange Manfredi – è stato innescato dai motivi ufficialmente noti. Dietro ogni guerra c’è una causa segreta, e il casus belli è sempre un’invenzione o comunque una manipolazione: da Pearl Harbor, dove il bombardamento giapponese era perfettamente atteso, al Golfo del Tonchino, in cui nessuna artiglieria vietnamita sparò mai contro la flotta Usa. Fino ovviamente all’11 Settembre, servito come alibi per invadere l’Iraq e l’Afghanistan, per poi terremotare tutto il Medio Oriente.Cronologia recente: primavere arabe, caduta di Mubarak in Egitto, morte di Gheddafi in Libia, guerra in Siria contro Assad, devastazione dello Yemen. Emergenze umanitarie e crisi dei migranti? Appunto. C’è sempre un’attenta regia che predispone gli scenari, pur scontando anche l’imprevedibilità relativa delle variabili. Certo, i colpi principali vanno spesso a segno: Mattei viene ucciso quando fa diventare l’Italia troppo ingombrante a livello geopolitico, e Moro è assassinato per gambizzare l’economia mista, pubblico-privata, che dovrà cedere il passo al neoliberismo. A sua volta, lo svedese Palme soccombe prima che possa diventare segretario generale dell’Onu, impedendo – fra le altre cose – la nascita dell’Ue nella sua attuale configurazione antidemocratica e antipopolare. Ma se gli eroi restano mosche bianche (Moro fu minacciato da Kissinger in modo brutalmente mafioso), la regola è invece un’altra: il politico di turno – Renzi, Formigoni – viene fatto uscire di scena quando non serve più, al potere che ne aveva assistito l’ascesa.Un meccanismo del quale il soggetto (premier, capo-partito, ministro) non è neppure pienamente consapevole, il più delle volte, salvo che per un aspetto: appena raggiunge la vetta, dice Fausto Carotenuto a “Border Nights”, la sua vita di trasforma in un inferno. Motivo: «Il suo primo pensiero, la mattina, diventa questo: chi ce l’ha con me? Chi vorrebbe farmi fuori?». Di manipolazione, Carotenuto se ne intende: per anni ha orientato il lavoro dei servizi segreti Nato. Oggi è approdato a una scelta drastica: la rinuncia sostanziale alla politica, giudicata impraticabile perché interamente manipolata. Un grande inganno, un gioco di specchi in cui nessuno è davvero quel che dice di essere. Dal canto suo, analizzando a fondo la storia italiana contemporanea sulla base di migliaia di documenti desecretati, a cominciare da quelli che comprovano l’arruolamento della mafia e di molti uomini-chiave del nazifascismo, da parte degli Usa, per controllare l’Italia post-bellica in senso anti-Urss, Solange Manfredi insiste su un punto: non è detto che i politici su cui il potere investe siano per forza mediocri, ma è essenziale che abbiano almeno un punto debole (da usare al momento oppurtuno, per liquidarli).In altre parole: un cavaliere senza macchia non diventerà neppure assessore. E se qualcuno sfugge al controllo – come Sankara – durerà al massimo una manciata di mesi, prima di venir tolto di mezzo. Il connotato etico dell’analisi si basa sulla distanza tra la verità ufficiale e quella sottostante, tra la democrazia ideale e sostanziale (espressa “in purezza”) e la post-democrazia attuale, completamente svuotata, ormai dominata in modo sempre più evidente dall’invadenza di gruppi di potere privatistici, economici e finanziari. Peraltro, sottolinea Gioele Magaldi nel suo saggio “Massoni” uscito a fine 2014, non è certo piovuta dal cielo neppure la sacrosanta democrazia cui fa giustamente riferimento Solange Manfredi: la prassi dell’uguaglianza – pari opportunità, diritto di voto, Stato laico, legge sovrana emanata dal Parlamento eletto dai cittadini – è il frutto storico dell’impegno settecentesco della massoneria, che ha “fabbricato” la Rivoluzione Francese e poi creato gli Usa. Viviamo dunque in una specie di colossale laboratorio zootecnico, come sostiene Marco Della Luna? Siamo prigioneri di uno smisurato allevamento planetario, popolato da masse interamente manipolate?Probabilmente è così da sempre, suggerisce Paolo Rumor nel saggio “L’altra Europa” basato sulle rivelazioni dell’esoterista francese Maurice Schumann, tra i fondatori dell’europeismo novecentesco già durante la Seconda Guerra Mondiale. La tesi: un organismo-fantasma, denominato “la Struttura”, reggerebbe le sorti del pianeta in modo ininterrotto, da qualcosa come 12.000 anni. Le 36 Ur-Lodges supermassoniche presentate da Magaldi potrebbero esserne l’estrema propaggine contemporanea? Dilaga il cosiddetto complottismo, anche perché il potere – sempre reticente – si è fatto aggressivo e sfacciato, nella sua alluvione quotidiana di “fake news”, cioè menzogne ufficiali truccate da notizie. Per un osservatore coraggioso e indipendente come Massimo Mazzucco, non manca il risvolto positivo: è vero che l’intrasfruttura web è comuque sempre controllata dai soliti poteri fortissimi, ma milioni di persone – proprio sulla Rete – oggi possono condividere informazioni preziose, non ortodosse, non convalidate dall’ufficialità. Informazioni di cui fino a ieri sarebbe stato impensabile disporre, e che tuttora – non a caso – sono irrintracciabili sui media mainstream, giornali e televisioni.Sta letteralmente esplodendo anche il fenomeno della nuova archeologia, che probabilmente costringerà gli storici a rivedere le narrazioni correnti sulla stessa origine dell’umanità sulla Terra. Narrazioni secolari cadono in pezzi: le ultime scoperte inducono a retrodatare (di parecchi millenni) monumenti fortemente simbolici come le piramidi, mentre affiorano un po’ ovunque i reperti che spingono gli studiosi della paleo-astronautica a ritenere che i nostri antenati siano venuti in contatto, nella notte dei tempi, con esseri sbarcati dallo spazio (probabilmente, i nostri “fabbricatori genetici”). Di qualcosa del genere parla il biblista Mauro Biglino, per anni traduttore dell’Antico Testamento per conto delle Edizioni San Paolo: il suo Yahvè – alla lettera – non ha nulla di “divino”. Non è eterno, né onnisciente, né onnipotente. E il suo rapporto col cielo è mediato dal Kavod, un velivolo rombante e pericoloso. Sono ancora gli Elohim come Yahvè a dominarci, attraverso i loro fiduciari terrestri? «Se un giorno si scoprisse che è così non me ne stupirei», dice Biglino, che però aggiunge: «Immagino che l’attuale esplosione demografica non fosse prevista: siamo oltre 7 miliardi, cioè tantissimi. Troppi, per qualsiasi potere dominante». Come dire: la partita è aperta, forse ce la possiamo giocare. Davvero?Il fatalismo complottistico è ben rappresentanto da celebrità come Davide Icke: i suoi invincibili Rettiliani finiscono per ricordare un po’ gli alieni molesti evocati da Corrado Malanga attraverso le sue ricerche, interamente fondate sull’ipnosi regressiva: ipotetici nemici troppo superiori per poter essere contrastati? La convinzione dell’esistenza di uno strapotere insormontabile (almeno, per via ordinaria) induce lo stesso Carotenuto a consigliare di lasciar perdere la politica: è tempo perso, dice. Meglio dedicarsi amorevolmente al prossimo: non è solo etico, ma anche funzionale. Ed è l’atteggiamento che il sistema di dominio più teme, perché è virtualmente contagioso. I politici? Ometti, per lo più. Scelti, dice Solange Manfredi, in base alle loro debolezze. Non sempre, certo: non tutti. Ma la lezione è utile per chi oggi assiste con delusione al declino del governo gialloverde, che ha ceduto su tutta la linea per sottomettersi ai poteri che usano Bruxelles per dominare i paesi come l’Italia. Guai, però, a sottovalutare il popolo: è vero che è sempre condizionato da precise élite, ammette Magaldi; ma da sole – aggiunge – quelle élite non le potrebbero fare, le rivoluzioni. Quella di cui si sente il bisogno oggi ha un nome preciso, si chiama democrazia. Rappresenta un’eresia della storia, un prodotto recentissimo. Di fabbricazione massonica? Certo. Ma alzi la mano chi vorrebbe tornare al potere del dittatore, all’arbitrio del monarca o del Papa-Re. Forse, come dice Mazzucco, la buona notizia è che oggi, nonostante tutto, se ne può parlare: in fondo gli orizzonti sono aperti, come non era mai successo.Sembra il nostro paladino, finalmente: l’amico del popolo. E invece è il loro uomo, l’ennesimo. Scelto per durare il necessario, capace di cavalcare l’onda grazie alle sue qualità, al suo appeal mediatico. Ma il “casting” iniziale ha individuato anche il punto debole, già in partenza. Esempio: corruzione, sete di potere e denaro. Oppure ambizione smodata, passione per le donne, o magari abuso di droghe e altre debolezze private. Saranno i tasti da pigiare al momento opportuno, quando l’ometto non servirà più e andrà bruciato. Di colpo, il suo dossier – compilato fin dall’inizio e pronto da anni – finirà ai magistrati (e alla stampa). Risultato: morte civile. Succede sempre, di continuo, secondo uno schema cinico e quasi noioso, nella sua monotonia. Formigoni e Renzi? Sembrano solo gli ultimi nomi della lista. Poi ci sono altri personaggi, di ben maggior peso. Magari finiscono in esilio ad Hammamet, o peggio: assassinati come Moro, fatti esplodere in aria come Mattei. Via loro, avanti un altro. Il gioco continua, perché serve a non cambiare mai le regole. E i padroni di quelle regole non siamo noi, salvo rarissime eccezioni, destinate a durare poco – come Olof Palme, premier svedese freddato da un killer nell’86, o Thomas Sankara, rivoluzionario leader del Burkina Faso massacrato nell’87 dopo soli quattro anni di governo, in cui aveva creduto di poter mettere fine, per davvero, alla schiavitù finanziaria dell’Africa.
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E se nascesse il Partito del Papa, pro-migranti e pro-Islam
Prima o poi il Partito Popolare rinascerà. Lo farà Romano Prodi, o il suo erede, Enrico Letta; lo farà Berlusconi, o il suo Antonio Tajani del momento, o lo faranno insieme, i rivali di ieri, all’ombra del Ppe che già li unisce. Ma alla fine qualcosa del genere si farà, pensando all’Europa e ai sovranismi, più che a don Sturzo e al centenario del Partito Popolare. Però mentre i tirannosauri del popolarismo si muovono lentamente, indugiando e tergiversando, qualcuno sta bruciando le tappe. È la Chiesa di Bergoglio, è la Chiesa del Cardinal Bassetti, a capo della Conferenza episcopale italiana, è la Chiesa di Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna. Se il Partito Popolare lo fondò un prete, perché non dovrebbe pensarci ora un prelato anziché un politico? La novità è che un Partito del Papa, ossia un Partito dei Cattolici sotto l’egida di Bergoglio, avrebbe solo una cosa in comune col Partito Popolare prodiano e/o berlusconiano: nascerebbe contro la presente maggioranza, per sbarrare la strada ai populismi, ai nazionalismi e ai sovranismi. Ma dopo questa concordanza, il Partito del Papa sarebbe inevitabilmente il Partito dell’Accoglienza, il Partito Pro-Migranti, la prosecuzione della Caritas e della Comunità Sant’Egidio in politica. Al limite, sarebbe il partito di Gino Strada e di Mimmo Lucano, per capirci. Una cosa assai diversa da quello che fu da noi il Partito dei cattolici, la vecchia Dc.Allora lasciamo le polemiche contingenti e vediamo le cose in una prospettiva più ampia, storica. L’Italia riuscì a sopravvivere al fascismo, alla sconfitta della guerra, alle vendette e alle minacce del comunismo, rifugiandosi sotto le mammelle della Dc. Un partito che ebbe la sua forza nella sua debolezza, nel non opporsi a niente in modo radicale e risoluto, nel rispecchiare la realtà in modo duttile e malleabile, garantendo un po’ tutti, o non minacciando nessuno. Organizzò la fuoruscita dalla storia a tariffe convenienti, fu insieme una pomata e una polizza contro i traumi passati e presenti. La Dc fu l’autobiografia della nazione in versione materna, mentre il fascismo era stato l’autobiografia della nazione in versione paterna, virile, guerresca. La forza della Dc fu quella di garantire una transizione indolore dal fascismo all’antifascismo, dalla Nazione che volle farsi impero al paese che volle accucciarsi sotto l’ombrello atlantico americano e sotto il parasole europeista, ricevendo in cambio aiuti, piani di sostegno e controllo militare. La sua forza fu la paura del comunismo, la voglia di tranquillità. E la Matria al posto della Patria.Avrebbe senso oggi un partito dei cattolici in un paese fortemente scristianizzato, radicalmente secolarizzato, con le chiese svuotate? Ma soprattutto riuscirebbe a sfondare un partito dei cattolici proiettato sulla linea pontificia di Bergoglio? Non rischierebbe di lasciar fuori troppi cattolici che si riconoscono nella tradizione, nella civiltà cristiana, nella difesa della famiglia? Che posizione assumerebbe un partito papista sui temi dell’aborto e delle adozioni omosessuali, delle nozze gay e dell’eutanasia, delle nascite e della salvaguardia della figura materna e paterna? La Dc resse su un tacito ma duraturo compromesso tra questa componente conservatrice e la componente moderata che riteneva prioritaria la salvaguardia occidentale, l’atlantismo e l’anticomunismo, la difesa del mercato e del privato. Ma l’avversario principale per un partito cattolico non dovrebbe essere il laicismo radical, lo spirito giacobino e progressista, il materialismo ateo che è oggi il principale sponsor del bergoglismo? E la paura del comunismo non si traduce oggi nella paura dell’Islam, verso cui la Chiesa di Bergoglio è assai aperta?È evidente che il Partito del Papa non riuscirebbe a rappresentare che una piccola quota di cattolici, più una fetta di elettori radicali, di sinistra, non cattolici se non atei. Oggi il loro organo ufficiale non sarebbe l’“Avvenire” ma “La Repubblica”. E sarebbe un bel paradosso. Dopo mezzo secolo di guida democristiana, i cattolici riuscirono a ritagliarsi un ruolo nel sistema bipolare con l’antica strategia dei due forni, facendosi corteggiare da ambo i poli, perché stando nel mezzo e non avendo più rappresentanza politica, pur in minoranza, potevano spostare l’equilibrio a favore del centro-destra o del centro-sinistra. Da qualche anno invece, è lampante l’irrilevanza dei cattolici nelle scelte della politica. Certo, non mancano figure di garanzia per il mondo cattolico, da Mattarella a Conte. Ma l’influenza esercitata nel passato è oggi impensabile, e non parliamo del passato remoto o della Prima Repubblica ma anche più recente.Anche perché si è ridotta la pressione dei cattolici, della Cei, della Curia sui temi bioetici e sulla famiglia, per crescere invece sul tema migranti e accoglienza. Un tema che allontana molti cattolici, non perché siano refrattari alla carità, ma perché diffidenti davanti a una Chiesa-Ong che non si cura della civiltà cristiana in declino e apre le porte anche agli islamici. Allo stato attuale nessuno è in grado di rappresentare i cattolici in politica. Tre partiti cattolici s’intravedono all’orizzonte, quello che nascerebbe dalle ceneri dell’Ulivo, quello che sorgerebbe sulle spoglie di Forza Italia e quello che spunterebbe dalla tonaca del Papa (e dalla Cei). Ma sono tre partiti difficilmente componibili tra loro, tutti fortemente minoritari. E’ difficile immaginare che possa rinascere qualcosa come un partito unitario dei cattolici. Un tempo si diceva, con rassegnazione, moriremo democristiani. Oggi invece si dovrebbe dire: non rinasceremo democristiani.(Marcello Veneziani, “E se nascesse il Partito del Papa?”, da “Panorama” n. 4 del 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Prima o poi il Partito Popolare rinascerà. Lo farà Romano Prodi, o il suo erede, Enrico Letta; lo farà Berlusconi, o il suo Antonio Tajani del momento, o lo faranno insieme, i rivali di ieri, all’ombra del Ppe che già li unisce. Ma alla fine qualcosa del genere si farà, pensando all’Europa e ai sovranismi, più che a don Sturzo e al centenario del Partito Popolare. Però mentre i tirannosauri del popolarismo si muovono lentamente, indugiando e tergiversando, qualcuno sta bruciando le tappe. È la Chiesa di Bergoglio, è la Chiesa del Cardinal Bassetti, a capo della Conferenza episcopale italiana, è la Chiesa di Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna. Se il Partito Popolare lo fondò un prete, perché non dovrebbe pensarci ora un prelato anziché un politico? La novità è che un Partito del Papa, ossia un Partito dei Cattolici sotto l’egida di Bergoglio, avrebbe solo una cosa in comune col Partito Popolare prodiano e/o berlusconiano: nascerebbe contro la presente maggioranza, per sbarrare la strada ai populismi, ai nazionalismi e ai sovranismi. Ma dopo questa concordanza, il Partito del Papa sarebbe inevitabilmente il Partito dell’Accoglienza, il Partito Pro-Migranti, la prosecuzione della Caritas e della Comunità Sant’Egidio in politica. Al limite, sarebbe il partito di Gino Strada e di Mimmo Lucano, per capirci. Una cosa assai diversa da quello che fu da noi il Partito dei cattolici, la vecchia Dc.
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Carotenuto: amici o nemici, i politici li fabbrica tutti il potere
E se fosse soltanto l’ennesima, colossale presa in giro? Tutto finto: Grillo e i 5 Stelle, il sovranista Salvini, persino i Gilet Gialli che stanno scuotendo la Francia di Macron. Ragionamento ipotetico: dato che il potere è ben consapevole del malcontento montante, ormai in vastissimi strati della società, non è forse logico concludere che sia interessato a cavalcarlo, il dissenso, magari scegliendo accuratamente “ribelli” rumorosi ma in fondo innocui? Pensateci: e se fosse stato davvero il potere supremo, massonico e religioso, a mettere in campo l’attuale populismo, prima che la protesta potesse sfociare in una vera rottura del sistema? L’autore di questa suggestione è Fausto Carotenuto, a lungo analista strategico dell’intelligence Nato. Per molti anni, si è occupato proprio di questo: consigliare i governi su come gestire le crisi e fabbricare il consenso. La sa lunga, Carotenuto, in fatto di manipolazione: “fake news”, terrorismo “false flag”, tecniche collaudate di condizionamento. Sa come si pilotano i sentimenti delle masse, grazie al vecchio trucco che funziona sempre: l’Uomo Nero. Il nemico è perfetto, per indurre il popolo a sbagliare mira: ci si divide, ci si odia. E si spara contro bersagli di cartone. Finita la bagarre, tutto torna come prima. Il Gattopardo: cambiare tutto, per non cambiare niente. E il sistema, il potere vero, resta al riparo della sua torre.Elucubrazione virtuale, teorica. Nel saggio “Il mistero della situazione internazionale”, pubblicato anni fa da UnoEditori, Carotenuto ripropone il medesimo schematismo a livello generale, geopolitico, introducendo la categoria della metafisica: tutto quello che appare assurdo e incomprensibile (un “mistero”, appunto), avrebbe in realtà una precisa spiegazione sul terreno – sfuggente – della spiritualità. Carotenuto ridisegna il mondo secondo lo schema binario delle piramidi di potere, nere e bianche. E sostiene che le cosiddette “forze oscure”, in realtà, lavorano anch’esse – ruvidamente – per un risultato che poi non è negativo: proprio la manifestazione del male, reso visibile attraverso le atrocità della storia e dell’attualità, finisce in un ultima analisi per risvegliare l’umanità dal letargo. Non è pessimista, Carotenuto: è convinto che almeno il 30% della popolazione mondiale si stia finalmente accorgendo del grande inganno cui sarebbe sottoposta, dai “poteri oscuri”. Tradurre questa visione nella cronaca politica di oggi comporta un bel salto. Ma Carotenuto, animatore del network “Coscienze in Rete”, lo affronta senza imbarazzi ai microfoni di “Border Nights”: niente di nuovo sotto il sole, dice. Anche l’Italia gialloverde fa parte di un gioco antichissimo, destinato purtroppo a funzionare. Scontato l’esito: il cambiamento sarà solo un’illusione.A innescare questa conclusione è il desolante spettacolo del governo italiano, che (come volevasi dimostrare) non riesce a mantenere nessuna delle sue grandi promesse elettorali. Lega e 5 Stelle hanno già sgonfiato la roboante “rivoluzione” che avevano evocato: obbediscono a Big Pharma sui vaccini, cedono all’Ue su tutta la linea, lasciano impallidire il reddito di cittadinanza. Ancora: la Lega si dimentica di abolire la legge Fornero sulle pensioni, e in più si allinea all’antica cordata affaristica dell’inutile Tav Torino-Lione. Ve ne stupite? Non dovreste, dice Carotenuto: tutto va esattamente nel modo previsto fin dall’inizio. Previsto da chi? Elementare: dal potere, lo stesso che ha messo in piedi questo sovranismo populista tutto chiacchiere e distintivo, fatto di fumo senza arrosto. Il che, peraltro – ammette Carotenuto – non esclude affatto che gli attuali governanti siano meno peggiori dei precedenti: qua e là lo si vede, il loro sforzo sincero per migliorare la situazione. Ma sono soltanto briciole: quelle che il potere stesso è disposto a concedere, per rendere credibile l’operazione agli occhi degli italiani. L’importante è che gli elettori non scarichino Salvini e Di Maio – non ancora, per lo meno, perché in questo momento “servono” a tener buono un paese come il nostro, il cui vero risveglio politico sarebbe comunque temuto.Da un lato, gli impeccabili attori Merkel e Macron – burattini perfetti, in questo teatro – mettono in scena l’odioso copione centralista del Sacro Romano Impero. Dall’altro, in modo opposto ma simmetrico, speculare – l’opposizione è incarnata a livello di piazza dai Gilet Gialli, e a livello istituzionale dai nuovi politici italiani: il piccolo sceriffo Salvini e un movimento d’opinione nato dal nulla, sul web, per iniziativa dell’ex comico Beppe Grillo. Ve lo ricordate, il vecchio Beppe, prima che venisse cacciato dalla Rai per quella battutaccia sui socialisti ladri? Era un artista onesto, affabile, di medio profilo. Poi, risentitosi per l’ingiustizia subita, si è trasformato di colpo. All’improvviso, è diventato un pensatore politico acuminato e stranamente informatissimo, un vero fuoriclasse della controinformazione. Passo seguente: la creazione del partito (pardon, movimento). Infine: l’ascesa fulminea dei pentastellati, ora al governo. Ha fatto tutto da solo, il vecchio Beppe? Suvvia. Basta vedere il sequel: il suo pupillo Di Maio è in ritirata su tutta la linea, ogni fronte veramente pericoloso per il potere è stato smantellato. E l’ideologo ormai si limita a fare il filosofo, dal suo buen retiro genovese, in apparenza lontano da tutto. In quanti ci sono cascati? In tantissimi: un elettore su tre, stando alle ultime consultazioni.Molto rumore per nulla? Praticamente, sì. O quasi: perché, comunque – secondo Carotenuto – il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Ovvero: anche la più amara disillusione può dare frutti, insegnando ai cittadini a diffidare di chi promette regali favolosi. Meglio delegare il meno possibile, non scommettere sulle dinamiche verticali su cui si fonda la rappresentanza, nel gioco democratico. E imparare a investire in modo orizzontale nella partecipazione diretta e concreta, che poi è quella che qualsiasi potente teme di più. Chiusa la parentesi politica, Carotenuto torna spiritualista: se ci supportassimo a vicenda in modo solidale, dice, la piramide perderebbe. Se il sistema è basato sullo sfruttamento delle persone, ha bisogno che gli individui siano soli, divisi e spaventati, pieni di rancore. Volemose bene? Non è una battuta, insiste Carotenuto: è un metodo. L’attuale potere, configurato in forma di dominio (“per stare meglio, ho bisogno che gli altri stiano peggio”) sa benissimo come funziona, lo schema: se l’Uomo Nero sparisce, è finita. Se smettessimo di odiare il nemico di turno, non potremmo più essere manipolati così facilmente. Non ce ne rendiamo conto? Vero. I “poteri oscuri”, invece, lo sanno fin troppo bene. Per questo ci fabbricano incessantemente sia i “nemici”, come Merkel e Macron, che gli “amici” come Grillo e Salvini.Troppo manicheo, l’ineffabile Carotenuto? Troppo semplicistico, nel suo riduzionismo estremo? L’alternativa che propone – costruire reti territoriali di persone leali tra loro – non prevede esiti immediati, a livello di macrocosmo. Però, sostiene, sortisce effetti vistosi e molto solidi, nel raggio d’azione alla portata dei singoli. Prendiamo la bistrattata valle di Susa: proprio grazie alla grande paura del Tav ha sviluppato un modello sociale diverso, più attento all’umanità quotidiana. Le persone hanno riscoperto valori essenziali, che erano stati trascurati. In questo senso, l’ipotetica “piramide nera” lavora per noi, a sua insaputa: si impegna a fare disastri, ma poi finisce per farci del bene, suo malgrado. Le tesi di Carotenuto’ Pensieri lunghi, da prendere per quello che sono: un invito a riflettere, a non agire sotto l’impulso di pressioni emotive sapientemente costruite secondo modalità invariabili, sempre uguali. Il risultato potrebbe essere la raffinazione della capacità di analisi. Un nuovo modo di guardare alle cose, cercando di capire – prima e meglio – di che pasta è fatto chi abbiamo di fronte, sul palcoscenico non esattamente entusiasmante della politica italiana. Se non altro, fornisce una possibile risposta alla domanda che resta sempre in sospeso: com’è possibile che tutti i politici, una volta al governo (in Italia e altrove) finiscano sempre per deludere, tradendo la fiducia ottenuta dagli elettori?E se fosse soltanto l’ennesima, colossale presa in giro? Tutto finto: Grillo e i 5 Stelle, il sovranista Salvini, persino i Gilet Gialli che stanno scuotendo la Francia di Macron. Ragionamento ipotetico: dato che il potere è ben consapevole del malcontento montante, ormai in vastissimi strati della società, non è forse logico concludere che sia interessato a cavalcarlo, il dissenso, magari scegliendo accuratamente “ribelli” rumorosi ma in fondo innocui? Pensateci: e se fosse stato davvero il potere supremo, massonico e religioso, a mettere in campo l’attuale populismo, prima che la protesta potesse sfociare in una vera rottura del sistema? L’autore di questa suggestione è Fausto Carotenuto, a lungo analista strategico dell’intelligence Nato. Per molti anni, si è occupato proprio di questo: consigliare i governi su come gestire le crisi e fabbricare il consenso. La sa lunga, Carotenuto, in fatto di manipolazione: “fake news”, terrorismo “false flag”, tecniche collaudate di condizionamento. Sa come si pilotano i sentimenti delle masse, grazie al vecchio trucco che funziona sempre: l’Uomo Nero. Il nemico è perfetto, per indurre il popolo a sbagliare mira: ci si divide, ci si odia. E si spara contro bersagli di cartone. Finita la bagarre, tutto torna come prima. Il Gattopardo: cambiare tutto, per non cambiare niente. E il sistema, il potere vero, resta al riparo della sua torre.
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Sapelli: solo gli Usa ci salvano dalla catastrofe euro-tedesca
Si avvicina una recessione di lungo periodo. Viene da lontano, certamente: in primis dalla Cina, che rimane solo una bomba demografica anziché produttiva. Ma viene anche da vicino: dall’Europa, che si sta dilacerando politicamente in una disgregazione sociale inedita per via della deflazione secolare che la mancanza di investimenti ha prodotto proprio a partire dalla Germania e dalle nazioni del Nord, dalla Lega Anseatica e dalla marca svedese, con i venti freddi di una gelata che sembra non aprirsi mai alla primavera. Lo scrive, sul “Sussidiario”, lo storico dell’economia Giulio Sapelli, attento osservatore dell’attualità. «Occorre alzare le dighe degli investimenti produttivi con l’azione delle imprese pubbliche e private», sostiene. «Occorre cambiare profondamente la politica economica europea». Bruxelles invece – impegnata nello scontro con Londra dopo la Brexit – non coglie l’urgenza di questo cambiamento di rotta. «Per comprendere la gravità di questa regressione culturale dobbiamo ritornare con la mente a un contesto non solo economico ma anche internazionale che un tempo era profondamente diverso da quello odierno, perché non aveva irrigidito i sistemi di cambio tra le monete e le regole commerciali e del debito pubblico, in quella gabbia d’acciaio che è oggi l’Eurozona».Sapelli ricorda il novembre del 1975, quando a Rambouillet, sotto l’attenta regia di Valéry Giscard d’Estaing, si celebrò il primo G6, ossia la riunione di capi di Stato e di governo di Francia, Germania Ovest e Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone e Italia. «Erano anni difficili, seguiti alla Guerra del Kippur dell’agosto 1973 con la crisi petrolifera e l’aumento del prezzo del greggio di ben quattro volte in sei mesi, e soprattutto con l’avvento di quella che allora si chiamava “stagflazione”, ossia una stagnazione con inflazione, tutto il contrario di quel che accade oggi». Giscard si accordò con Helmut Schmidt, «il più grande cancelliere tedesco dopo la Seconda Guerra Mondiale», per coordinare le maggiori cinque potenze dell’Occidente, più i nipponici. «La preoccupazione era immensa. I “trent’anni gloriosi” di crescita ininterrotta europea e mondiale, seguiti al 1945, pareva dovessero terminare. E questo colse tutti di sorpresa». Ma attenzione: furono proprio gli Stati Uniti, ricorda Sapelli, a imporre la partecipazione dell’Italia alla riunione di Rambouillet. «Solo la perseveranza di Aldo Moro, allora presidente del Consiglio, e del ministro degli esteri Mariano Rumor, consentirono all’Italia di partecipare a quel summit», aggirando l’Eliseo.«Quel vertice fu decisivo per il nostro paese – scrive Sapelli – perché da allora nessuno osò più escluderci dalle riunioni delle potenze mondiali in cui si decideva l’avvenire del mondo». Da quella riunione «scaturirono degli obiettivi profondamente diversi da quelli di oggi», cioè obiettivi «fondati su un impegno di cooperazione, tutti incentrati sull’economia reale: investimenti per ridurre la disoccupazione, controllo delle quantità monetarie eccedenti i target concordemente fissati dalle banche centrali per contenere l’inflazione, controllo, eliminazione e determinazione dei livelli di consumo energetico per far fronte all’aumento dei prezzi». Oggi, tutto è cambiato. Innanzitutto, come si è visto nel G7 svoltosi in Giappone, «il problema non è più l’inflazione, ma la deflazione che produce una stagnazione che può essere secolare». Ecco perché il pemier Shinzo Abe propone una politica di “deficit spending”, «rifiutando di aumentare le tasse nel suo paese», per contrastare non l’inflazione ma la terribile deflazione che condanna il Sol Levante, da un trentennio, alla non-crescita.E poi, continua Sapelli, è cambiato anche il contesto europeo: «L’equilibrio di potenza nel Vecchio Continente è stato completamente rovesciato a favore della Germania riunificata, che cresce grazie al surplus commerciale immenso che essa realizza imponendo a tutte le altre nazioni, attraverso le regole dei trattati europei, un regime di bassi salari e quindi di bassi costi dei beni intermedi che importa, così da realizzare i magnifici surplus di esportazione». Quarantotto anni dopo Rambouillet, osserva Sapelli, gli Usa sono ora in ritirata dall’Europa. «Ma hanno tuttavia ancora un disegno imperiale mondiale, anche se le divisioni profonde nel gruppo di comando delle disgregate élite nordamericane non lo rendono visibile come si dovrebbe, come tutto il mondo meriterebbe». Sapelli si attende dagli Stati Uniti «ciò che gli Usa ci diedero quarant’anni or sono, ossia la non esclusione dall’equilibrio di potenza mondiale fondato sull’alleanza transatlantica e quindi dai flussi del commercio mondiale». Ed è proprio questa perseveranza transatlantica, secondo Sapelli, la migliore risposta all’avvento della Brexit. «Di questo sono pochissimi in Italia ad avere contezza, a cominciare dagli imprenditori». Eppure, «comprendere tutto ciò è decisivo, perché solo il legame con gli Usa ci può salvare dal prossimo tsunami mondiale».Secondo l’economista, si addensano infatti le nubi e si alzano le maree di uno tsunami «molto più grande di quello del 2008». La causa? Sta «nella tendenza alla deflazione europea, che minaccia tutta l’economia mondiale e segnala la potenza distruttiva del nazionalismo economico tedesco». Ed evidenzia «l’utopia, altrettanto distruttiva, delle cure monetarie alla crisi». L’eccesso di finanza “perversa” (derivati, collateralizzazione del debito), non si sconfigge «con l’eccesso di emissione di moneta, come fa la Bce». Mario Draghi? «E’ prigioniero della sua formazione neoclassica». La moneta, a suo parere, può curare i mali della recessione imminente. È pur vero che sollecita le “riforme strutturali” dei governi, ma – per Sapelli – qui sta l’inganno: «Le riforme che sollecita favoriscono la crisi». In cosa consistono? «Alte tasse, riduzione dei debiti tout court, senza distinguere tra il debito che fa bene (investimenti pubblici per creare lavoro e quindi domanda interna), pervicace negazione di ogni intervento pubblico nell’economia, laddove non è sperpero parassitario, ma creazione di sana occupazione». In compenso, la Bce – che non muove un dito per gli Stati – annuncia di voler salvare grandi imprese, nei guai a causa delle loro spericolate speculazioni finanziarie.Se queste politiche verranno ancora una volta attuate, conclude Sapelli, non faranno altro che «aumentare l’enorme bolla di liquidità che gonfia le nuvole della tempesta». Sarebbe bello, dice, poter tornare a Rambouillet, «gettandosi alle spalle i tempi della finanza “evoluta” perché speculativa e devastante, e dell’Europa fondata sulla deflazione che non condivide sovranità ma la sottrae, in una guerra infinita tra le potenze continentali». È ora di tornare all’età della ragione, scandisce Sapelli: sarebbe la miglior risposta alla Brexit. A farci paura, aggiunge, dev’essere «la non consapevolezza della tragedia imminente», e non invece «il ritorno della storia al suo posto», ossia la fuoriuscita del Regno Unito «da un’Europa a cui quell’impero non ha mai guardato se non con preoccupazione per le potenze via via dominanti che potevano nei secoli minacciare il suo potere mondiale: la Spagna, la Francia e infine, ieri come oggi, la Germania». Aggiunge Sapelli: «Solo la pressione Usa protesa alla sconfitta dell’Urss costrinse il Regno Unito ad abbandonare l’Efta nel 1976 e a entrare con una clausola opzionale fondata sulla non adozione dell’euro all’Europa Unita. Ora l’Urss è crollata e la bomba atomica inglese non serve più in funzione antisovietica». La storia riprende il suo corso, «nonostante la gabbia artificiale e drammaticamente catastrofica della politica istituzionale e della politica economica europea».Si avvicina una recessione di lungo periodo. Viene da lontano, certamente: in primis dalla Cina, che rimane solo una bomba demografica anziché produttiva. Ma viene anche da vicino: dall’Europa, che si sta dilacerando politicamente in una disgregazione sociale inedita per via della deflazione secolare che la mancanza di investimenti ha prodotto proprio a partire dalla Germania e dalle nazioni del Nord, dalla Lega Anseatica e dalla marca svedese, con i venti freddi di una gelata che sembra non aprirsi mai alla primavera. Lo scrive, sul “Sussidiario”, lo storico dell’economia Giulio Sapelli, attento osservatore dell’attualità. «Occorre alzare le dighe degli investimenti produttivi con l’azione delle imprese pubbliche e private», sostiene. «Occorre cambiare profondamente la politica economica europea». Bruxelles invece – impegnata nello scontro con Londra dopo la Brexit – non coglie l’urgenza di questo cambiamento di rotta. «Per comprendere la gravità di questa regressione culturale dobbiamo ritornare con la mente a un contesto non solo economico ma anche internazionale che un tempo era profondamente diverso da quello odierno, perché non aveva irrigidito i sistemi di cambio tra le monete e le regole commerciali e del debito pubblico, in quella gabbia d’acciaio che è oggi l’Eurozona».
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Aquisgrana, due piccoli avvoltoi sul cadavere dell’Europa
Il Trattato franco-tedesco di Aquisgrana, antica capitale del Sacro Romano Impero (la città-simbolo dove si assegna il Premio Carlo Magno) formalizza quell’idea di Europa «che finora aveva avuto cittadinanza solo a livello finanziario». E gli altri paesi? O vassalli, o colonie da tenere in riga, meglio se più povere di prima. Fantasie? No, basta leggere il testo predisposto da Emmanuel Macron e Angela Merkel, ultra-sovranisti alla bisogna. Secondo Alessandro Mangia, costituzionalista dell’Università Cattolica di Milano, il nuovo trattato «accelera il processo di disgregazione dell’Unione Europea». Fino al 2016, aggiunge, il Regno Unito è stato «il solo contraltare alla coppia franco-tedesca a livello politico e di occupazione degli spazi burocratici». Usciti di scena gli inglesi, «che assieme a Italia, Spagna ed altri paesi potevano fare da contrappeso», gli equilibri di potenza in Europa sono saltati. E l’Europa si è improvvisamente contratta. Intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”, il professor Mangia insiste: «Senza Gran Bretagna, l’Unione non ha capacità di proiezione esterna. E il suo spazio di manovra sullo scenario mondiale, che nemmeno prima era granché, si è ulteriormente ristretto». Il nuovo patto «è una manovra classica da arrocco: la mossa difensiva di due potenze diverse, ma entrambe in grande difficoltà fuori dallo scenario europeo», a cominciare dagli Stati Uniti.Di fronte alle pressioni americane (e alle minacce di disimpegno degli Usa dalla Nato, a meno che i paesi europei non incrementino l’acquisto di forniture militari americane nei prossimi anni), Francia e Germania se ne escono con questo trattato che, almeno sulla carta, «disegna una struttura di tipo quasi confederale, imperniata su organi e meccanismi stabili di collaborazione in tema di difesa, sicurezza interna, operazioni militari all’estero, industria militare, posti in Consiglio di Sicurezza Onu e concertazione sulle politiche europee». Secondo Alessandro Mangia siamo di fronte a una struttura polifunzionale, «destinata a operare come patto di controllo all’interno dell’Unione in attesa che Trump se ne vada». Oppure, se lo sfaldamento dell’Ue accelera dopo le elezioni europee, Francia e Germania hanno già messo in cantiere questo possibile Piano-B: un disegno «che riduca tutto a Germania, con baltici e Olanda al seguito, e Francia, con esercito, nucleare e colonie della zona franco Cfa», tuttora sottoposte a un severo regime di sfruttamento colonialistico. E ora? L’Unione Europea «diventa qualcosa di obsoleto o, nel migliore dei casi, una struttura destinata ad essere funzionale, in chiave subordinata, ad un asse politico che ha pretese di egemonia continentale».Qui si va molto al di là di una classica cooperazione rafforzata, sottolinea il professor Mangia: si tocca la sfera militare, e dunque politica per eccellenza. «La verità è che a fomentare squilibri e conflitti all’interno dei paesi dell’Unione è stata la politica mercantilista tedesca, che non si è limitata ad operare all’interno del continente, ma ha cominciato a infastidire gli stessi Usa. Se si pensa che la sola Germania ha un surplus sull’estero superiore a quello cinese – osserva Mangia – si capisce perché la proposta di Trump di livellare le spese militari al 2% dei paesi aderenti non fosse poi tanto peregrina, almeno dal suo punto di vista». Al di fuori di armi e tecnologia militare, aggiunge Mangia, non è che gli Usa abbiano ormai molto da esportare in Europa. «E infatti questo trattato è un “no” chiaro e tondo alle richieste americane: e si propone, non so con quale efficacia, di sviluppare un’industria militare e una forza di intervento esclusivamente franco-tedesca, che possa prendere il posto del fornitore americano». Scenario realistico? Manca esprime forti dubbi: «Il mercato mondiale delle armi è soprattutto in mano ad americani e russi, che ne hanno fatto un volano economico. Andarlo a sfidare senza avere la capacità economica – e la volontà di spesa – di Usa e Russia è a dir poco velleitario. Eppure, il segnale che si vuole lanciare è esattamente questo».Quanto al testo del trattato, il livello di cooperazione (sulla carta) è molto stretto. Si parla di un Consiglio franco-tedesco di difesa e sicurezza comune, di un Consiglio dei ministri franco-tedesco, di partecipazione su base regolare di membri del governo francese o tedesco ai Consigli dei ministri dell’altro Stato. Ma ci sono anche dei passaggi meno generici, avverte Manca: nell’articolo 6 si parla di “unità comuni per operazioni di stabilizzazione in paesi terzi”. E si prevedono interventi tanto in Europa e in Africa: e cioè nelle zone del franco Cfa. «E’ chiaro che, se queste non restassero solo parole, ci si troverebbe di fronte ad un fatto politico piuttosto rilevante». Tradotto: «Se ci si ferma a riflettere su cosa si intende per “sicurezza interna” si finisce per leggere “ordine pubblico”. E si capisce che qui si va oltre il Trattato di Velsen del 2004 che istituisce Eurogendfor come piattaforma di Gendarmeria Europea. Potenzialmente la base giuridica per interventi diretti delle rispettive polizie oltre confine qui ci sarebbe. Non so se rendo l’idea».Nella sostanza, sottolinea Manca, il trattato si prefigge di formalizzare quell’idea di “Europa core” che finora aveva avuto cittadinanza solo a livello finanziario. «Sullo sfondo c’è l’idea di passare dalla sfera economico-commerciale alla sfera militare, e cioè politica per definizione». Non è casuale, infatti, che sia stata scelta Aquisgrana come sede per la firma: il luogo-simbolo del Sacro Romano Impero. «Appunto. Nella cattedrale è sepolto Carlo Magno che aveva unificato Franchi e Germani; è la città dove viene attribuito quel Premio Carlo Magno che, negli ambienti europeisti, ha un fortissimo valore simbolico. Quando si passa a curare i simboli – aggiunge il professore – ci si muove in una dimensione apertamente politica. Ricordate le piramidi o le stelle a cinque punte di Macron? Siamo sempre lì». E partendo da Aquisgrana dove si può arrivare? La Merkel, «quasi dimissionaria in patria», ha delle mire precise sulla prossima Commissione Europea. Dall’altra parte c’è Macron, «che è riuscito nella non facile impresa di battere i livelli di impopolarità di Hollande», e che da dieci settimane si trova la città messe a ferro e a fuoco, nel weekend, dai Gilet Gialli. La sua unica strategia? «Lanciare le consultazioni con i sindaci e aspettare che i rivoltosi si stufino, nel più puro stile d’Ancien Régime».Merkel e Macron, per Alessandro Manca, «sono due figure deboli in patria, deboli sullo scenario mondiale, che riescono ad imporsi solo nei confronti degli altri paesi dell’Unione». Sul breve periodo, hanno ogni convenienza a sostenersi a vicenda. Ma il professore insiste ancora sul profilo militare: in Germania, oltre che sulle infrastrutture, si è giocato al risparmio anche sulle spese militari per la Bundeswehr, che soffre di sottofinanziamenti cronici. Ma dall’estate scorsa, «dopo lo scontro con Trump, si è iniziato a parlare, sulla stampa tedesca, dell’opportunità di divenire una potenza nucleare, in barba ai trattati di non proliferazione del dopoguerra». E qui, il partner ideale è la Francia. «Sì, perché la Germania è una potenza economica, ma un nano militare». La Francia ha un’industria militare di qualche rilievo, storicamente sovralimentata dallo Stato, e dispone di capacità e tecnologia nucleare sia civile che militare. «Ha qualcosa da vendere, insomma, che i tedeschi non hanno e non possono avere a breve. In cambio – aggiunge Manca – la Francia può ricevere accoglienza al vertice politico dell’Unione come “regina consorte” e vantare un rapporto privilegiato con il paese con il più grande surplus commerciale al mondo. Sembra uno scambio utile ad entrambi».Quanto all’impegno della Francia a favorire il riconoscimento della Germania come membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu, Alessandro Manca sorride: ve le immaginate le risate, al Dipartimento di Stato e al Foreign Office inglese, il giorno che la Francia proverà a tener fede a questo impegno preso con i tedeschi, «con quello che stanno facendo passare al governo britannico sulla Brexit?». Per non parlare di Russia e Cina, «che “non aspettano altro” di avere la Germania seduta a quel tavolo a metter bocca sulle questioni internazionali». Come dire: uno scenario solo virtuale, del tutto irrealistico. Poi però ci siamo noi, l’Italia, insieme agli altri paesi esclusi dall’accordo: che conseguenze avrà, sulla nostra pelle, questo evidente progetto di dominio? «Questa è la nota più dolente, almeno a breve». Un asse franco-tedesco «che costituisca una struttura intrecciata anche militarmente ha poco rilievo fuori dal continente, ma ha molto rilievo al suo interno, soprattutto per il competitor naturale di Francia e Germania, che è poi l’Italia». Siamo «l’unico paese che, nonostante tutto, ha ancora una manifattura e un’industria militare capace di confrontarsi con Francia e Germania». L’Ue ha sgretolato le antiche alleanze. La prima vittima del Trattato di Aquisgrana, secondo Manca, sarà proprio l’industria militare italiana, «che è diretta concorrente dell’industria francese».Il Trattato franco-tedesco di Aquisgrana, antica capitale del Sacro Romano Impero (la città-simbolo dove si assegna il Premio Carlo Magno) formalizza quell’idea di Europa «che finora aveva avuto cittadinanza solo a livello finanziario». E gli altri paesi? O vassalli, o colonie da tenere in riga, meglio se più povere di prima. Fantasie? No, basta leggere il testo predisposto da Emmanuel Macron e Angela Merkel, ultra-sovranisti alla bisogna. Secondo Alessandro Mangia, costituzionalista dell’Università Cattolica di Milano, il nuovo trattato «accelera il processo di disgregazione dell’Unione Europea». Fino al 2016, aggiunge, il Regno Unito è stato «il solo contraltare alla coppia franco-tedesca a livello politico e di occupazione degli spazi burocratici». Usciti di scena gli inglesi, «che assieme a Italia, Spagna ed altri paesi potevano fare da contrappeso», gli equilibri di potenza in Europa sono saltati. E l’Europa si è improvvisamente contratta. Intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”, il professor Mangia insiste: «Senza Gran Bretagna, l’Unione non ha capacità di proiezione esterna. E il suo spazio di manovra sullo scenario mondiale, che nemmeno prima era granché, si è ulteriormente ristretto». Il nuovo patto «è una manovra classica da arrocco: la mossa difensiva di due potenze diverse, ma entrambe in grande difficoltà fuori dallo scenario europeo», a cominciare dagli Stati Uniti.