Archivio del Tag ‘Napoli’
-
Ma Cantone sarà solo contro la lobby dei partiti ladri
Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi. Gli italiani – purtroppo – ne hanno un bisogno che sconfina ormai nella dipendenza. L’ultimo è di oggi, 12 maggio, si chiama Raffaele Cantone, è il coraggioso magistrato del tribunale di Napoli recentemente nominato presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione e che adesso viene chiamato a salvare l’Expo 2015 di Milano! «Cancellare l’esposizione mondiale sarebbe come ammettere che l’illegalità ha vinto», ha dichiarato al quotidiano partenopeo “Il Mattino”, che lo ha intervistato per l’occasione; e la lobby delle grandi opere – già confortata ieri dal premier – ha immediatamente tirato un sospiro di sollievo. Che tuttavia deve essersi leggermente strozzato in gola alla lettura della parole – pesanti come macigni – aggiunte forse a “beneficio” di chi ha tentato di minimizzare il ruolo dei partiti in quello che appare solo come l’ultimo degli scandali di una tangentopoli ormai cronica: «La politica tarda a liberarsi da un diffuso malcostume».«Non so se si tratta di un fallimento politico. Di certo in questi anni si è sbagliato a non lavorare abbastanza sulla prevenzione. Si è clamorosamente abbassato il livello di guardia di fronte a certi fenomeni». Un atteggiamento che, secondo l’ex magistrato, «è anche il frutto di un’opinione pubblica spesso distratta», che «su alcuni temi si è rivelata eccessivamente ondeggiante». Perché, se a fronte di alcuni episodi «c’è stata grandissima attenzione, finanche con rigurgiti di moralismo, in altri si è stati del tutto incapaci di indignazione». Il virgolettato è copiato integralmente dall’intervista e, in assenza di smentite, va preso per buono. E non finisce qui: pur avendo smesso la toga, quel che segue sembrerebbe quasi l’istruttoria di una indagine in cui si analizzano analogie e differenze col passato, remoto o prossimo che sia: «Tangentopoli non ci ha insegnato nulla. Tornano alla ribalta personaggi già condannati: il peggio poteva essere scongiurato e i partiti hanno grandi responsabilità perché non hanno saputo attrezzarsi con delle regole chiare di finanziamento trasparente. La trasparenza – sottolinea – è l’anticorpo più potente nei confronti del malaffare».E quasi a voler tirare le orecchie al governo per la sua proposta (poi precipitosamente ritirata) con cui proprio alla vigilia degli arresti si proclamava di voler “slegare la crescita” dai lacci e laccioli della burocrazia, Cantone aggiunge che il controllo pubblico non è sinonimo di ritardi e inefficienze, anzi: «Si può tranquillamente mettere in campo una rete di controlli efficace, intelligente, agile e non burocratica, purché ci sia davvero trasparenza». Per cancellare ogni possibilità di equivoco circa la severità del suo giudizio, l’ex magistrato sottolinea poi che «personaggi già condannati per corruzione sono arrivati a ritagliarsi un ruolo, non di diritto ma di fatto, per incidere nuovamente nell’assegnazione e nella gestione degli appalti», arrivando senza nessun ostacolo a ricandidarsi e farsi eleggere (come nel caso di Gianstefano Frigerio, Pdl), nonostante la precedente condanna per corruzione. Cosa avvenuta sfacciatamente e nel disinteresse generale, il che rappresenta la sostanza della anomalia italiana.Una anomalia peggiorata, se possibile rispetto al 1992 (l’anno della prima tangentopoli) perché «lo scenario è indubbiamente cambiato: oggi esistono gruppi di potere o di pressione del tutto autonomi dalla politica, ovvero che rispondono ai partiti ma piuttosto ne influenzano l’attività politica». Cosa aggiungere dalla mia comoda poltroncina seduto davanti al monitor? Che Milano ha già avuto un eroe, come ebbi modo di ricordare in uno dei miei primi interventi su queste pagine virtuali: si chiamava Giorgio Ambrosoli, ebbe il “torto” di voler andare fino in fondo nell’incarico che gli era stato assegnato di liquidatore del Banco Ambrosiano del banchiere di Cosa Nostra Michele Sindona, sodale dei partiti e delle lobby finanziarie dell’epoca… Se Cantone è scaramantico farà bene a svolgere i riti propiziatori del caso, ma mi (e soprattutto gli) auguro che i riflettori accesi sulla vicenda odierna siano tali da illuminare a giorno la scena che fu lasciata all’epoca completamente al buio dai responsabili della tutela della incolumità di chi si assume incarichi così delicati. Al punto che addirittura i funerali della vittima avvennero nel “disinteresse generale” che il neo commissario denuncia in un altro brano della sua intervista…Oltre agli auguri di buon lavoro che ogni cittadino gli deve, anche nel proprio interesse di contribuente, voglio tuttavia e un po’ a malincuore concludere con una nota di sincero scetticismo: Cantone, come molti suoi colleghi, ha studiato migliaia di pagine, dal diritto romano a quello internazionale e commerciale, per poter svolgere al meglio la sua professione e meritarsi la riconoscenza di tutte le persone oneste e di buona volontà (quelle cui sembra alludere quando fa riferimento alla necessità di indignazione). Ma, avendo come tutti una sola vita a disposizione, non può aver avuto una esperienza di trentatsei anni nel mondo delle grandi opere come è capitato in sorte al sottoscritto… Che riteneva (come ritiene) eroica l’azione di moralizzazione della vita pubblica che pochi coraggiosi magistrati svolgono in una paese che spesso sembra più una infida palude che un’oasi bucolica. E per questo ci si è anche provato – nel limite delle proprie capacità e conoscenze – di inviar loro degli esposti su quel che pareva fosse una caratteristica costante di questo particolare mondo: le tangenti.Inutile dire che la cosa servì, temo, solo ma farmi considerare, “nell’ambiente”, come “uno che sputava nel piatto dove mangiava” (espressione molto in uso in ogni corporazione “che si rispetti”). E proprio perché ho questo passato “certificabile” alle spalle mi permetto di sostenere con convinzione – pur sperando vivamente di sbagliarmi – che le grandi opere, alle lobby che le promuovono, le progettano, le appaltano e poi le gestiscono (generalmente attraverso il famigerato istituto della concessione) servono soprattutto per rubare denaro pubblico. A volte (non sempre, ma solo quando non sono inutili) servono anche ai cittadini. Ma facendogli pagare più volte il conto: con il lievitare spropositato dei costi (sempre a carico pubblico e “a debito”, checché si prometta), con gli interessi bancari, col pedaggio permanente (a fronte dei trent’anni di durata massima generalmente stabilita); e infine con i costi folli delle manutenzioni straordinarie, dovute quasi sempre alla scarsa qualità dei materiali impiegati, che però vengono fatturati per buoni.Un meccanismo che rende la “forbice” tra costi reali e soldi pubblici erogati talmente ampia che si possono accontentare tutti: dai partiti, alle banche, alla ‘ndrangheta al “cartello delle imprese”. Per questo ritroviamo tesserato al Pd di Renzi (e tardivamente sospeso) Primo Greganti, il compagno-G della prima tangentopoli che tanti meriti guadagnò, in quel partito che si chiamava ancora Pds, nel tacere sulla famosa valigia piena di soldi del Gruppo Gavio. Un pesante fardello di quasi un miliardo – c’era ancora la lira – che doveva tornare al mittente per il tramite di un altro compagno, che vive e marcia assieme a noi e proprio a Milano: quel Filippo Penati che consentì ai manager di Tortona l’affare delle azioni dell’autostrada Milano-Serravalle, in cambio di un aiutino nel tentativo di scalata all’Antonveneta della Unipol di un altro “compagno”, Giovanni Consorte, quello a cui ancora un “compagno”, quel Piero Fassino che De Benedetti vorrebbe presidente della nostra (ma non della sua) Repubblica, chiese: «Abbiamo una banca?».Difficile pensare che un uomo solo – per quanto coraggioso e determinato – possa venire a capo di un sistema. Difficile credere che possa farlo senza l’aiuto, se non di tutti i cittadini, di quella parte di opinione pubblica che non intende smettere di indignarsi. Buon lavoro, Cantone. E se vuole, conti su di noi. Ma soprattutto, non conti sulla collaborazione che non potrà che essere di facciata di chi crede (o vuol far credere) che a governare partiti e un intero paese siano quelli che vengono eletti nelle primarie – o, per ben che vada, alle politiche – e non quelli che ne costituiscono, da sempre, le cupole.(Claudio Giorno, “Alla Scala-Expo di Milano va in scena l’Eroica di… Cantone”, dal blog di Giorno del 12 maggio 2014).Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi. Gli italiani – purtroppo – ne hanno un bisogno che sconfina ormai nella dipendenza. L’ultimo è di oggi, 12 maggio, si chiama Raffaele Cantone, è il coraggioso magistrato del tribunale di Napoli recentemente nominato presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione e che adesso viene chiamato a salvare l’Expo 2015 di Milano! «Cancellare l’esposizione mondiale sarebbe come ammettere che l’illegalità ha vinto», ha dichiarato al quotidiano partenopeo “Il Mattino”, che lo ha intervistato per l’occasione; e la lobby delle grandi opere – già confortata ieri dal premier – ha immediatamente tirato un sospiro di sollievo. Che tuttavia deve essersi leggermente strozzato in gola alla lettura della parole – pesanti come macigni – aggiunte forse a “beneficio” di chi ha tentato di minimizzare il ruolo dei partiti in quello che appare solo come l’ultimo degli scandali di una tangentopoli ormai cronica: «La politica tarda a liberarsi da un diffuso malcostume».
-
Lo Stato Carogna: via i giudici più temuti da Totò Riina
Chi pensava che i peggiori pericoli per i magistrati antimafia venissero dalla mafia, soprattutto dopo le condanne a morte pronunciate da Riina, si sbagliava. Le minacce più insidiose arrivano sempre dal Palazzo. Il Csm – l’organo di autogoverno della magistratura che dovrebbe garantirne l’autonomia e l’indipendenza – ha inviato una circolare a tutte le Dda, cioè ai pool antimafia delle varie procure, per raccomandare che ai pm che si sono occupati per 10 anni di mafia, camorra e ‘ndrangheta non vengano assegnate nuove inchieste in materia. Il diktat calza a pennello sulla Dda di Palermo, dove i principali pm titolari delle nuove indagini sulla trattativa Stato-mafia (rivolte al ruolo dei servizi segreti e della Falange Armata) hanno potuto finora occuparsene perché “applicati” dal procuratore Messineo. Nino Di Matteo è “scaduto” dopo i 10 anni canonici nel 2010, trasferito dalla Dda al pool “abusi edilizi” e da allora “applicato” per proseguire il lavoro sulla trattativa; Roberto Tartaglia l’ha seguito qualche tempo dopo; fra un mese scadrà anche Francesco Del Bene.La norma demenziale è contenuta nell’ordinamento giudiziario Castelli-Mastella del 2007, che appiccica ai pool specializzati delle procure (mafia, reati fiscali e finanziari, ambientali, contro la pubblica amministrazione, contro le donne e i minori, ecc.) un bollino di scadenza come agli yogurt: appena raggiungono 10 anni di esperienza, cioè diventano davvero capaci ed esperti su una materia, devono smettere e occuparsi d’altro. Una mossa geniale: come se un’azienda, dopo aver impiegato tempo e risorse per formare un dirigente, lo spedisse a fare altre cose perché è diventato troppo bravo. Vale sempre il detto di Amurri e Verde: «La criminalità è organizzata e noi no». Se la legge fosse stata già in vigore nel 1992, Cosa Nostra avrebbe potuto risparmiare sul tritolo evitando le stragi di Capaci e via D’Amelio, visto che quando furono uccisi Falcone e Borsellino indagavano sulla mafia da ben più di due lustri.Negli anni scorsi il bollino di scadenza ha falcidiato i pool antimafia di Palermo, Bari e Napoli, quello torinese creato da Raffaele Guariniello sulla sicurezza, la salute e l’ambiente (processi Thyssen, Eternit, doping…), quello milanese coordinato da Francesco Greco sui crimini economici (Parmalat, scalate bancarie, Enel, Eni, San Raffaele, grandi evasori). Per non disperdere enormi bagagli di esperienza e memoria storica, i procuratori capi tentavano di limitare i danni “applicando” i pm scaduti a singole indagini. Ora, con la circolare del Csm, cala la mannaia anche su quella possibilità. Col risultato che una materia delicata e intricata come la trattativa, che richiede conoscenze ed esperienze approfondite, sarà affidata a pm che mai se ne sono occupati, privi dunque di qualunque nozione sul tema e magari ammaestrati da tutti gli attacchi (mafiosi e istituzionali) subìti dai colleghi che hanno osato scoperchiarla.Il fatto che Di Matteo sia il nemico pubblico numero uno tanto di Riina quanto del Quirinale non lascerà insensibile chi dovrà raccoglierne l’eredità. Magari toccherà a qualcuno dei neomagistrati che Napolitano ha arringato l’altroieri col solito fervorino alla «pacatezza», al «rispetto», addirittura all’«equidistanza» (testuale), contro il «protagonismo» e gli «arroccamenti», per «chiudere i due decenni di scontro permanente» e «tensione» (fra guardie e ladri, fra onesti e mafiosi). Non contento, il presidente più incensato e leccato del mondo (dopo Mugabe) ha poi evocato fantomatiche «aggressioni faziose» ai suoi danni, che il “Corriere” – sempre ispirato – attribuisce proprio a Di Matteo&C. per «intercettazioni illegali nell’inchiesta sulla trattativa». Naturalmente le intercettazioni erano perfettamente legali, disposte da un giudice sui telefoni dell’indagato Mancino che parlava con il Quirinale. Ma anche questa ignobile calunnia sortirà prima o poi l’effetto sperato. Nessuno s’azzarderà mai più a intercettare un indagato per la trattativa: potrebbe parlare con il capo dello Stato.(Marco Travaglio, “Lo Stato Carogna”, da “Il Fatto Quotidiano” del 7 maggio 2014, ripreso da “Micromega”).Chi pensava che i peggiori pericoli per i magistrati antimafia venissero dalla mafia, soprattutto dopo le condanne a morte pronunciate da Riina, si sbagliava. Le minacce più insidiose arrivano sempre dal Palazzo. Il Csm – l’organo di autogoverno della magistratura che dovrebbe garantirne l’autonomia e l’indipendenza – ha inviato una circolare a tutte le Dda, cioè ai pool antimafia delle varie procure, per raccomandare che ai pm che si sono occupati per 10 anni di mafia, camorra e ‘ndrangheta non vengano assegnate nuove inchieste in materia. Il diktat calza a pennello sulla Dda di Palermo, dove i principali pm titolari delle nuove indagini sulla trattativa Stato-mafia (rivolte al ruolo dei servizi segreti e della Falange Armata) hanno potuto finora occuparsene perché “applicati” dal procuratore Messineo. Nino Di Matteo è “scaduto” dopo i 10 anni canonici nel 2010, trasferito dalla Dda al pool “abusi edilizi” e da allora “applicato” per proseguire il lavoro sulla trattativa; Roberto Tartaglia l’ha seguito qualche tempo dopo; fra un mese scadrà anche Francesco Del Bene.
-
Col Dottor Stranamore, l’austerity estesa fino al Don
Se la Germania impone anche all’Ucraina la super-austerità della Troika, la guerra con la Russia sarebbe alle porte: il malessere sociale infatti farebbe letteralmente esplodere le regioni russofone dell’est, come quella di Donetsk, le più avanzate e industrializzate, popolate da milioni di russi. Lo afferma l’economista Joseph Halevi, allarmato per le dichiarazioni di un super-falco come il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, secondo cui il programma di rigore che ha ucciso la Grecia dev’essere esteso all’Ucraina. Una pazzia da Dottor Stranamore, dice Halevi: la politica di Schäuble, che vuole «estendere l’austerità fino al Don», di fatto «implica una guerra con la Russia», perché «l’ultra-catastrofe economica» provocherebbe sofferenze che «verrebbero imputate a Mosca, con estrema virulenza, dal governo di Kiev appoggiato da Usa, Nato e Ue». Tutto questo, mentre la Bank of England ha appena demolito la teoria del rigore, “ammettendo” che le banche creano moneta dal nulla, «cioè non la scavano da qualche miniera, né la pompano da qualche giacimento».Non esistono dunque vincoli monetari, sottolinea Halevi: «Scuole, ospedali, ferrovie, pensioni, università e ricerca possono essere finanziate senza vincoli di bilancio». La banca centrale può sempre convalidare qualsiasi richiesta da parte del Tesoro, emettendo moneta per sostenere debito e deficit pubblici. Gli unici vincoli? Quelli reali, che dipendono dalle capacità produttive esistenti e utilizzabili. Ma senza più totem come quello del 3%. E’ ovvio, continua Halevi, che se alla banca centrale – in questo caso la Bce – viene impedito di alimentare i necessari flussi monetari, il circuito economico va in crisi. Verità notissime e persino banali, eppure fino a ieri taciute, un po’ come accadeva «durante l’età di Galileo Galilei, quando per la navigazione oceanica verso le Americhe la Chiesa permetteva l’uso da parte della Spagna della concezione copernicana della Terra, mentre in Europa, in Italia in particolare, imponeva la visione tolemaica, bruciando chi la confutava pubblicamente». Le ammissioni ufficiali della Banca d’Inghilterra sono dunque «un’ulteriore ragione per non dare alcun credito all’Ue», quando impone di tagliare la spesa perché “non ci sono soldi”.Il dramma, osserva Halevi, è che l’Unione Europea è una struttura burocratica non responsabile, non elettiva, non democratica. Bisognerebbe «cambiarne le fondamenta», il che implicherebbe «demolire e rifare la costruzione che su queste poggia». Peccato si vada nella direzione opposta: già prima di Mitterrand, sostiene Halevi, la Francia «ha preceduto Bruxelles di parecchi anni», con un turbo-presidenzialismo che ora, con Hollande, ha sottratto all’Assemblea Nazionale il controllo parlamentare della finanza pubblica, demandato all’Alta Autorità sulla spesa pubblica e il debito, creata dall’Eliseo. Elezioni sempre più inutili anche in Italia, dove «la dimensione extra-parlamentare del sistema di governo cresce a vista d’occhio». Il paese europeo che meglio riesce a difendere il suo ordinamento democratico è proprio la Germania: la sua politica potrà non piacere, ma certo rispetta – al contrario dell’Ue – la volontà popolare.Il guaio è che a Berlino oggi siedono ministri come Schäuble, sostenuti da ultra-conservatori che sognano una “moneta fissa” (ancora più rigida dell’oro) e influenti economisti come Werner Sinn, secondo cui l’export tedesco è «un sacrificio», anziché una fonte colossale di profitto per il grande capitale tedesco. Il conservatorismo economico, conclude Halevi, produce un pericoloso cortocircuito – sia il rigore che Schäuble impone all’Europa attraverso la Troika, sia la concezione del surplus di Sinn. «Ne consegue – scrive Halevi – che è estremamente importante assorbire ciò che hanno scritto gli economisti della Bank of England», i quali «non partono da una visione normativa, bensì analizzano come effettivamente funzionano la moneta e il sistema bancario, arrivando ad affermare cose che in Italia si trovavano già in Augusto Graziani», il grande economista napoletano, maestro di Emiliano Brancaccio. Se non altro, ora «la verità è venuta a galla», come ha affermato il “Guardian”: «A galla per il pubblico», certo, «ed è ciò che conta». Il testo della Banca d’Inghilterra «costituisce un’importante base di partenza per pensare se e – eventualmente – come rifare le fondamenta» dell’Unione Europea. Prima che i “Dottor Stranamore” – di Berlino e della Nato – arrivino davvero sulle rive del Don.Se la Germania impone anche all’Ucraina la super-austerità della Troika, la guerra con la Russia sarebbe alle porte: il malessere sociale infatti farebbe letteralmente esplodere le regioni russofone dell’est, come quella di Donetsk, le più avanzate e industrializzate, popolate da milioni di russi. Lo afferma l’economista Joseph Halevi, allarmato per le dichiarazioni di un super-falco come il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, secondo cui il programma di rigore che ha ucciso la Grecia dev’essere esteso all’Ucraina. Una pazzia da Dottor Stranamore, dice Halevi: la politica di Schäuble, che vuole «estendere l’austerità fino al Don», di fatto «implica una guerra con la Russia», perché «l’ultra-catastrofe economica» provocherebbe sofferenze che «verrebbero imputate a Mosca, con estrema virulenza, dal governo di Kiev appoggiato da Usa, Nato e Ue». Tutto questo, mentre la Bank of England ha appena demolito la teoria del rigore, “ammettendo” che le banche creano moneta dal nulla, «cioè non la scavano da qualche miniera, né la pompano da qualche giacimento».
-
La Grande Ipocrisia del nostro cinema marcio: i partiti
Il film è stato prodotto da un importante rampollo della dinastia Letta, il cugino dell’ex premier. Si chiama Giampaolo Letta, è uno dei quattro baroni del cinema italiano (lui è il più importante, non a caso è un altro dei nipotini) il cui compito principale consiste nell’impedire che in Italia esista e si manifesti il libero mercato multimediale, mantenendo un capillare controllo partitico dittatoriale sull’industria cinematografica. E’ l’amministratore delegato della Medusa film, il cui 100% delle azioni appartiene a Mediaset. Il vero oscar, quindi (in Usa conta il produttore, essendo il padre del film) lo ha vinto Silvio Berlusconi, al quale va tutto il merito per aver condotto in porto questo business nostrano. Ma nessuno in Italia lo ha detto. E’ un prodotto Pdl-Pd-Lega Nord tutti insieme appassionatamente.In teoria (ma soltanto in teoria) è stato prodotto da Nicola Giuliano e Francesca Cima (quota Pd di stretta marca burocratica di scuola veltroniana) per conto della Indigo Film, i quali – senza Berlusconi – non sarebbero stati in grado neppure di pagarsi le spese dell’ufficio, dato che su 9 milioni di euro di budget, il buon Berluska ne ha messi 6,5. E’ stata buttata dentro anche la Lega Nord, che ha partecipato con la Banca Popolare di Vicenza (500 mila euro come favore amicale) e con la sponsorizzazione del Biscottificio Verona (in tutto il film non si vede neppure una volta qualcuno mangiare uno dei suoi biscotti), entrambe le aziende vogliose di entrare nel grande giro (sono bastate due telefonate per convincerli).Grazie alla malleverie politiche, attraverso fondazioni di partito hanno ottenuto altri 2 milioni di euro incrociati: il Pd se li è fatti dare grazie al solerte lavoro di relazioni europee attraverso il “programma Media Europa” (650 mila euro) mentre Renata Polverini ha partecipato alla produzione dando 500 mila euro per conto della presidenza della Regione Lazio attraverso il “fondo per il cinema e audiovisivi per il rilancio delle attività cinematografiche dei giovani” (soldi che ha dato a Giampaolo Letta, sulla carta lui sarebbe “il giovane” che andava aiutato).Nicola Giuliano ha messo su la squadra partitica. In teoria fa il produttore, ma fa anche il docente, il consulente.Ha la cattedra al corso di produzione della Scuola nazionale di cinema di Roma, ma allo stesso tempo ha anche la cattedra di docente di produzione cinematografica presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, oltre che docente di “low cost production” a San Antonio De los Banos nell’isola di Cuba e consulente per la Rai. E’ un funzionario tuttofare che mette su pacchetti partitici, il che poco ha a che fare con il cinema, ma molto ha a che vedere con l’idea italiana di come si fa il cinema. O meglio: molto ha a che fare con l’idea di come si uccide e si annienta una cinematografia.Secondo gli esaltatori di questo “prodotto Italia”, il film vincente aprirebbe la strada a investimenti, stimolando i giovani autori e lanciando il nuovo cinema italiano; mentre, invece, l’unico risultato che otterrà sarà quello di far capire a tutti, come severo ammonimento, che “o prendete la tessera di Forza Italia/Pd oppure non lavorate”, chiarendo a chiunque intenda investire anche 1 euro nel cinema che bisogna però passare attraverso la griglia dell’italianità partitica, il che metterà in fuga chi di cinema si occupa e attirerà invece squali di diversa natura il cui unico obiettivo consiste nel fare affari lucrosi in Italia con Berlusconi e il Pd, in tutt’altri lidi.I giovani autori, i cineasti italiani in erba, le giovani produzioni speranzose, il cinema indipendente, ricevono da questo premio un danno colossale perchè il segnale che viene dato loro è quella della contundente italianità, quella della Grande Ipocrisia, la vera cifra di questo paese che si rifiuta di aprire il mercato ai meritevoli, ai competenti, a quelli senza tessera. Il film ha vinto esattamente nello stesso modo in cui aveva vinto “Nuovo cinema Paradiso” nel 1990.Due parole tecniche per spiegarvi come funziona il meccanismo di votazione dell’oscar. Per votare bisogna essere iscritti al Mpaa (Motion Pictures Academy of Art) e bisogna essere sindacalizzati; dal 1960 vale anche il principio per cui chi è disoccupato non vota, nel senso che bisogna dimostrare con documenti alla mano che “si sta lavorando” da almeno gli ultimi 24 mesi ininterrottamente, garantendosi in tal modo il voto di chi sta veramente dentro al mercato. Perchè per gli americani l’unica cosa che conta per davvero è il mercato, per questo Woody Allen (autore indipendente) detesta Hollywood e non ci va mai, la considera una truffa. I votanti sono all’incirca 6.000 e sono presenti tutte le categorie dei lavoratori (si chiamano industry workers): produttori, registi, sceneggiatori, direttori di fotografia, macchinisti, tecnici del suono, delle luci, scenografi, sarti, guardarobiere, guardie di sicurezza, perfino i gestori degli appalti per gestire i catering sul set, ecc. Ogni voto vale uno, il che vuol dire che il voto di Steven Spielberg vale quanto quello di un ragazzino il cui lavoro consiste nel tenere l’asta del microfono in direzione della bocca del divo di turno nel corso delle riprese, purchè lo faccia da almeno due anni e paghi i contributi.Quando si avvicina il giorno della votazione scattano i cosiddetti “pacchetti” e a Los Angeles la lotta è furibonda e comincia la caccia già verso i primi di novembre, con i responsabili marketing degli “studios” (sarebbero le grandi majors) che minacciano, ricattano, assumono, licenziano, per convincere chi ha bisogno di lavorare a votare per chi dicono loro. Per ciò che riguarda i film stranieri la procedura è la stessa ma su un altro binario: vale il cosiddetto “principio Hoover” lanciato dal capo del Fbi alla fine degli anni ‘50: vince la nazione che più di ogni altra in assoluto farà fare affari alle sei grosse produzioni che contano, acquistando i suoi prodotti. E’ il motivo per cui l’Italia è la nazione al mondo che ha collezionato più oscar di tutti (la più serva e deferente) e la Russia e il Giappone quelle che ne hanno presi di meno.Quando l’Italia, per motivi politici (o di affari) ha bisogno dell’oscar, allora costruisce un poderoso business (per la serie: vi compro questi quattro telefilm che nessuno al mondo vuole e ve li pago tre volte il suo valore) e lo va a proporre a società di intermediazione di Los Angeles collegate ai due sindacati più potenti californiani, da 40 anni gestiti da famiglie calabresi e siciliane, quelli che danno lavoro alla manovalanza tecnica e gestiscono i pacchetti, dato che controllano il 65% dei voti complessivi. Per i film stranieri bisogna avere un forte “endorsement”, ovvero un sostegno di persona nota nell’industria che garantisce a nome dei sindacati, come è avvenuto quest’anno con Martin Scorsese che si è fatto il giro presso la comunità di amici degli amici a Brooklyn.Nel 1989 accadde la stessa cosa: Berlusconi doveva entrare nel mercato americano per mettere su un gigantesco business (quello per il quale è stato definitivamente condannato dalla Cassazione, il cosiddetto “processo media-trade”); doveva entrare a Hollywood dalla porta principale con la Pentafilm. Ma non c’erano film italiani che valessero, era già piombata la mannaia dei partiti, tanto è vero che perfino il compianto Fellini girava a vuoto da un produttore all’altro ed era disoccupato, motivo per cui finì per ammalarsi. Alla fine, l’abile Berlusconi riuscì a convincere il più intelligente e bravo produttore di quei tempi (che se la passava maluccio) Franco Cristaldi, a dargli un prodotto perchè lui doveva vincere comunque. Cristaldi era disperato e non sapeva che cosa fare perchè non poteva fare delle figuracce con gli americani che conoscono il buon cinema e non è facile ingannarli, ma si fece venire in mente un’idea geniale. Aveva fatto una marchetta con RaiTre e aveva prodotto un film, “Nuovo Cinema Paradiso”, che era stato un flop clamoroso, sia alla tivvù, con indici di ascolto minimi, che al cinema, dove era uscito e dopo dieci giorni era stato ritirato per mancanza di pubblico. Il film durava 155 minuti ed era francamente inguardabile, di una noia mortale. Senza dire nulla al regista, Cristaldi ci lavorò da solo – letteralmente – per tre mesi. Rimontò totalmente il film, tagliò e buttò via 72 minuti e usando dei filtri cambiò anche le luci, riuscendo anche a modificare dei dialoghi. Lo fece uscire in Usa dove ottenne un buon successo di critica, sufficiente per passare.Berlusconi fu contento ma non gli diede ciò che era stato pattuito. Il giorno in cui Tornatore prese l’oscar, nel 1990, accadde un fatto inaudito per la comunità hollywoodiana. La statuetta venne data al regista e all’improvviso Franco Cristaldi fece un salto sul palco, si avvicinò, strappò di mano la statuetta a Tornatore, prese il microfono in mano e disse «questo oscar è mio, questo premio l’ho vinto io, questo è il mio film, questo è un film del produttore». Fu l’inizio della fine della sua carriera in Italia, perchè il giorno dopo l’intera critica statunitense (in Italia non venne mai fatta neppure menzione degli eventi) lo volle intervistare e lui raccontò come i partiti stessero distruggendo quella che un tempo era stata una delle più importanti industrie cinematografiche del mondo. Lo scaricarono tutti in Italia e finì per lavorare all’estero. Di lì a qualche anno morì.Fu in quell’occasione che Tornatore, in una intervista, spiegò come si faceva il regista in Italia: «Bisogna occuparsi di politica, quella è la strada. Io mi sono iscritto al Pci e poi sono riuscito a farmi eleggere alle elezioni comunali in un piccolo paesino della Calabria dove sono diventato assessore. Mi davano da firmare delle carte e io firmavo senza neppure leggerle, dovevo fare soltanto quello. Dopo un po’ di tempo mi hanno detto che potevo anche dimettermi e andare a Roma a fare i film». Aveva ragione lui: in Italia funziona così;24 anni dopo è la stessa cosa, con l’aggravante del tempo trascorso. “La Grande Bellezza” appartiene a questo filone dell’italianità e il solo fatto di accostarlo a Fellini o a De Sica è un insulto all’intelligenza collettiva della nazione: è una marchetta politica.E si vede, si sente, lo si capisce; nell’arte non si riesce a mentire perchè l’arte è basata su uno squisito paradosso: poichè è finzione totale – e quindi menzogna pura – chi la produce non può darla ad intendere perchè la verità sottostante salta sempre fuori. E’ la cartolina di un piccolo-borghese costruita (a tavolino) per venire incontro agli stereotipi degli americani votanti, attraverso un’operazione intellettualistica che non regala emozioni, ma soltanto suggestioni di provenienza pubblicitaria marketing negativa. In maniera ingegnosa e diabolicamente perversa propone delle maschere in un paese dove la verità artistica passa, invece, nella necessità dello smascheramento, cioè nel suo opposto. E’ la quintessenza del paradosso italiano trasformato nel consueto ossimoro: un brutto film che si pone e si qualifica come la Grande Bellezza; proprio come Mario Monti che lanciò il decreto “salva Italia” che ha affondato il paese e Letta (Enrico) che lanciò il “governo del fare” licenziato dopo pochi mesi perchè non è riuscito a fare nulla.Il film, davvero noioso e privo di spessore, è un prodotto subliminare, promosso dai partiti politici italiani al governo solo e soltanto dopo che i due protagonisti, Toni Servillo e Paolo Sorrentino, si sono messi pubblicamente a disposizione della famiglia Letta. Il film, infatti, doveva uscire a settembre del 2013, ma hanno anticipato l’uscita a giugno perchè era il momento in cui era assolutamente necessario usare ogni mezzo per poter azzannare l’opposizione. Il 7 giugno del 2013, Servillo e Sorrentino vengono invitati da Lilli Gruber nella sua trasmissione “8 e 1/2” per l’emittente La7. L’intervista dura 32 minuti. I primi 20 minuti sono noiosi e si parla del film che, si capisce da come andava l’intervista, nessuno avrebbe mai visto. Dal 21esimo minuto in poi, avviene la svolta, fino alla fine. L’attore e il regista, ben imboccati dalla Gruber, si lanciano in un attacco politico personale contro Beppe Grillo e il M5s. Un fatto che non aveva alcun senso, dato che si trattava di un film che nulla – per nessun motivo – aveva a che fare con la vita politica italiana e con il dibattito in corso.Servillo fu durissimo nel sostenere a un certo punto che «mi faccio dei nemici ma me li faccio volentieri», spiegando ai telespettatori (che pensavano di ascoltare un attore che parlava di cinema) come «Grillo ripropone un’immagine di leader vecchio che passa da Masaniello a Berlusconi» – cioè il suo produttore – «e usa un linguaggio violento…. ». Sorrentino gli andò dietro e insieme, per dei motivi incomprensibili a chiunque si occupi di cinema in qualunque parte del mondo (tranne che in Italia) spiegavano che il M5s «è un movimento che vuole togliere la sovranità al Parlamento». Da quel momento i due sono andati in giro a promuovere il loro film in ambito politico nazionale allertando la popolazione sul pericolo rappresentato dal M5s, e così l’establishment nazionale l’ha imposto come moda propagandandolo in maniera esorbitante. Riguardando quell’intervista, ho scoperto, pertanto, che Toni Servillo ha stabilito che io sono un suo nemico. Non lo sapevo. Ieri sera, la Gruber, sempre attenta nel rispettare i codici della rappresentanza che conta, ha dedicato un’altra intervista al film, ma in questo caso ha invitato Walter Veltroni. Forse c’è stato qualche telespettatore che si sarà chiesto «ma che cosa c’entra con questo film?». Appunto.(Sergio Di Cori Modigliani, “La Grande Ipocrisia, trionfano le larghe intese consociative spacciandole per prodotto Italia”, dal blog di Modigliani del 4 marzo 2013).Il film è stato prodotto da un importante rampollo della dinastia Letta, il cugino dell’ex premier. Si chiama Giampaolo Letta, è uno dei quattro baroni del cinema italiano (lui è il più importante, non a caso è un altro dei nipotini) il cui compito principale consiste nell’impedire che in Italia esista e si manifesti il libero mercato multimediale, mantenendo un capillare controllo partitico dittatoriale sull’industria cinematografica. E’ l’amministratore delegato della Medusa film, il cui 100% delle azioni appartiene a Mediaset. Il vero oscar, quindi (in Usa conta il produttore, essendo il padre del film) lo ha vinto Silvio Berlusconi, al quale va tutto il merito per aver condotto in porto questo business nostrano. Ma nessuno in Italia lo ha detto. E’ un prodotto Pdl-Pd-Lega Nord tutti insieme appassionatamente.
-
Freccero: perché i giornalisti non tollerano chi protesta
La Tav viene presentata dalla stampa come un problema di ordine pubblico, di devianza e addirittura di terrorismo. La domanda da porsi sarebbe: perché la Tav entra in agenda solo come un problema di ordine pubblico? E ancora: perché la stampa ha perso il suo ruolo storico di strumento critico – pensate a tutti quei film che hanno immortalato attraverso l’immaginario hollywoodiano la stampa come controsistema – per diventare oggi completamente asservita al potere dominante? La risposta che si da solitamente è che la stampa è alla dipendenza della casta politica e ne segue i diktat. Bene, non solo. Meglio: il giornalismo rappresenta a sua volta una casta: c’è una casta che muove in qualche modo le fila come un burattinaio, le fila che muovono l’opinione pubblica sono i giornalisti asserviti al potere. E se il problema fosse più complesso? Se anziché essere persuasori occulti i giornalisti fossero in buona fede persuasi (sottolineo persuasi) dal pensiero unico?Preso atto che naturalmente l’agenda dei media influenza l’opinione pubblica, la domanda da porsi è: in base a quali principi si costruisce questa agenda, quali sono gli elementi che hanno indotto la stampa a cambiare radicalmente la sua funzione da giornalismo d’inchiesta e critica sociale a difesa del consenso? Queste sono le domande da porsi. Bene. La cosa più interessante è che pensiamo alla parola “dissenso”. E qui iniziamo un ragionamento. Negli anni delle lotte per i diritti civili, la parola dissenso era sinonimo di democrazia. Oggi invece è piuttosto sinonimo di: devianza, delinquenza, terrorismo. Il movimento No Tav esprime il dissenso delle popolazioni coinvolte rispetto al progetto approvato a livello centrale: pertanto è un caso di “insubordinazione”, è fuori dalla maggioranza. Ritengo che il caso No Tav non sia un caso singolo, ma un format, che si replica in tutti i casi di minoranze che si oppongono all’ordine del discorso quantitativo della nostra epoca.Noi viviamo attualmente le contraddizioni di vivere con una Costituzione formalmente basata sul principio illuministico di difesa delle minoranze ma cerchiamo di applicarla in modo contrario (è questo il tema della discussione politica di oggi) affinché la maggioranza possa esercitare quella che è di fatto una dittatura. Per vedere come questo format si può estendere prendiamo il caso del Parlamento. La dialettica parlamentare nasce per permettere anche alle minoranze di esporre le proprie idee e partecipare alla costruzione della legge. Piglio l’esempio della Boldrini: intervistata da Fabio Fazio sul decreto Imu-Bankitalia (scandaloso) la Boldrini ha giustificato la “ghigliottina” dicendo che era suo dovere, in veste di presidente della Camera, troncare il dibattito parlamentare per permettere alla maggioranza (sottolineo “permettere alla maggioranza”) di governo di legiferare. Interessante.Dunque il Parlamento va esautorato, le leggi sono un prodotto dell’esecutivo in quanto appoggiato dalla maggioranza, e le minoranze sono di per sé qualcosa di illegale, che dev’essere in qualche modo ricondotto al volere dei più. Ecco questo format che si ripete anche nella situazione della Boldrini. Io, guardate, è dagli anni ’80 che mi occupo di maggioranza e sono stato forse il primo a segnalare in qualche modo, partendo dall’analisi dell’audience televisiva, come l’uso continuo del sondaggio avesse a poco a poco sostituito a livello sociale la ricerca del sapere foucoltiano o della verità in generale. E se tutte le scelte – anche politiche e morali – avvengono su base quantitativa, non è più possibile esprimere dissenso, è chiaro. Abolito il concetto di verità da parte del pensiero debole (altra cosa molto importante) non esiste più alcun elemento valido per opporsi ai valori della maggioranza.Ecco che a tutto ciò si è poi aggiunto in qualche modo, dopo l’11 Settembre, un clima – come posso dire – di guerra permanente, che giustifica in qualche modo un permanente stato di eccezione. Ecco, questa qua è l’altra cosa fondamentale, e sottolineo “stato di eccezione” che a sua volta giustifica il superamento di qualsiasi garanzia democratica. Ricordo un programma di Santoro, “Servizio Pubblico”, che mesi fa ha intervistato due No-Tav come “terroriste” in quanto così presentate dalla stampa e dalla forza pubblica. Erano due ragazze giovanissime, simpatiche, belle, tranquille. Ma questo cosa vuol dire: che oggi che il semplice dissenso è sinonimo di terrorismo. Questa è una cosa che sta passando tranquillamente: chi si difende perché aggredito, anche se vede in parte riconosciute le sue ragioni, viene comunque presentato come dalla parte del torto perché (orrore!) ha operato in modo violento opponendosi all’ordine della maggioranza. La violenza è tollerata solo nel senso della forza pubblica.Altro elemento fondamentale: dopo l’11 Settembre, in America, sono state sdoganate la tortura, Guantanamo e tutte le forme di guerra. Apro questo inciso perché un altro elemento che ha lavorato nel nostro inconscio, quella violenza che genera orrore e in qualche modo raccapriccio se messa in opera da parte dissenziente, viene vissuta come buona e giusta qualora sia un’emanazione del potere costituito. In “24”, la serie americana, Jack Bauer combatte il terrorismo con la violenza e la tortura, e scene di punizione corporale. Bene, in Italia la polizia (già col G8 si era entrati in uno stato di eccezione che ricordo molto bene, e prima ancora che a Genova anche a Napoli) può picchiare, usare lacrimogeni pur di contenere comunque ogni e qualsiasi forma di dissenso, anche il più pacifico ed innocuo. E’ il dissenso in sé ad essere considerato criminale perché rallenta il raggiungimento degli obiettivi della maggioranza. E il pensiero critico, che è stato il mito della mia giovinezza, della nostra generazione, appare ormai come elemento di disturbo. In vent’anni di berlusconismo, la scuola è diventata una fabbrica per replicare il pensiero unico. Solo un valore ottiene riconoscimento: l’obbedienza al conformismo vigente. E questo vale in particolare per il giornalismo.(Carlo Freccero, “No Tav e media”, estratti dell’intervento pronunciato il 18 febbraio 2014 al Circolo dei Lettori di Torino, ripreso dal sito No-Tav “Controsservatorio Valsusa”).La Tav viene presentata dalla stampa come un problema di ordine pubblico, di devianza e addirittura di terrorismo. La domanda da porsi sarebbe: perché la Tav entra in agenda solo come un problema di ordine pubblico? E ancora: perché la stampa ha perso il suo ruolo storico di strumento critico – pensate a tutti quei film che hanno immortalato attraverso l’immaginario hollywoodiano la stampa come controsistema – per diventare oggi completamente asservita al potere dominante? La risposta che si da solitamente è che la stampa è alla dipendenza della casta politica e ne segue i diktat. Bene, non solo. Meglio: il giornalismo rappresenta a sua volta una casta: c’è una casta che muove in qualche modo le fila come un burattinaio, le fila che muovono l’opinione pubblica sono i giornalisti asserviti al potere. E se il problema fosse più complesso? Se anziché essere persuasori occulti i giornalisti fossero in buona fede persuasi (sottolineo persuasi) dal pensiero unico? -
E ora il manganello di Renzi, l’omino imposto dai mercati
I mercati avranno il premier che vogliono: giovane, per dare anche visivamente l’impressione che qualcosa sta cambiando (anche Letta è “giovane”, ma purtroppo non lo sembra); veloce, per “fare” le cose più sgradevoli senza che si riesca a capire in tempo di cosa si tratta; disincantato, quindi privo di riguardi istituzionali, costituzionali; ruffiano, per “distrarre” il pubblico con battutine e spiccioli di “cura sociale” (aggiustare qualche scuola, mentre ti levano tutto il resto, professori compresi); esecutore fedele, perché completamente privo di un progetto autonomo (“far ripartire l’Italia” è uno slogan usato da tutti i governi degli ultimi 70 anni; ma anche prima…). È la prima volta che una crisi di governo – tra le più ingiustificate degli ultimi venti anni – non viene accompagnata da violente oscillazioni di Borsa o da rapidi impennamenti dello spread. I mercati apprezzano, Confindustria l’aveva chiesto (“o un cambio di passo o un cambio di governo”). Quindi ai mercati va benissimo così.Cosa rimproveravano a Letta, enfant prodige del Bilderberg? L’eccesso di tatticismo, il rispetto degli equilibri in una maggioranza composita, il subire veti incrociati alla lunga logoranti, un piglio poco arrembante. La lista delle “cose da fare per cambiare il paese” è lunga, dolorisissima, piena di obiettivi alquanto complicati. A cominciare da quelle riforme costituzionali che non riescono ad andare in porto neanche istituendo una “commissione di saggi” apposita. L’immagine della “palude”, evocata da Renzi e non solo, rende fino a un certo punto la sensazione derivante dall’intrico di “resistenze al cambiamento”, della molteplicità di soggetti e forze in qualche modo titolari di un potere “legittimo”, sentito come intangibile o irriducibile. Un reticolo di interessi nati e moltiplicatisi nell’epoca delle “vacche grasse”, tra clientele e rendite di posizione; ma anche di diritti sociali, sindacali, civili in senso stretto, idealmente “garantiti” dalla Costituzione.Tutte forme cresciute intorno alla funzione di “mediazione sociale” di uno Stato obbligato a pacificare il conflitto, assicurare il consenso, “promuovere la partecipazione”. Tutta roba che oggi appare un “ostacolo” alla piena affermazione della centralità dell’impresa nell’epoca della stagnazione perenne, della crisi che non passa, della disoccupazione che cresce, del futuro inesistente. Il governo Renzi nasce per essere il “governo del fare”. Senza discussioni, senza rispetto di procedure e vincoli costituzionali. Senza mediazioni sociali.Gli arresti di Roma e Napoli sono il primo segno dello “stile Renzi”, non l’ultimo atto dell’esecutivo Letta. Il “cambiamento” preteso dal capitale multinazionale e dal suo braccio statuale – l’Unione Europea – è un “dispotismo poco illuminato”, che usa i media come un maganello e il manganello come strumento ordinario di governo.Un governo con queste ambizioni deve partire come un razzo, sparare provvedimenti già pronti ma fermi nei cassetti del Centro Studi di Confindustria o nelle pieghe attuative della “lettera della Bce”, quella dell’agosto 2011. Da qui all’estate ne vedremo di tutti i colori, ce ne faranno sentire di tutti i dolori. Inutile sperare in resistenze parlamentari (se ce ne saranno, rappresenteranno i “poteri clientelari” o mafiosi, non certo i bisogni popolari), in resipiscenze costituzionali, in sensi di colpa “democratici”. Solo la forza e la dimensione dei movimenti di lotta, la loro compattenza unitaria tutta da costruire, potrà costituire un vero intralcio per l’annunciata “marcia trionfale” dell’omino venuto dal nulla. Non sarà facile, lo sappiamo. Ma non è più il tempo della retorica “alternativa”, dei “vendolismi” in salsa arrabbiatissima. Né dei “gesti” occasionali che dovrebbero simboleggiare la radicalità del contrapporsi.Dobbiamo tutti venir fuori dai nostri piccoli rivoli, più o meno conflittuali, e costituire un fiume possente, incontenibile. Ma l’unità non si costruisce “mettendoci d’accordo”, mediando all’infinito le molteplici e giustificate differenze. L’unità si misura con l’avversario comune, con il “cervello politico” da cui discendono le tante politiche di immiserimento con cui ognuno di noi è costretto a confrontarsi. Possiamo riuscirci, se si individua con chiarezza il vero avversario: quella Unione Europea che ha scelto come provvisorio feldmaresciallo l’ex sindaco di Firenze.(Dante Barontini, “Il gerarca dei mercati”, da “Contropiano” del 14 febbraio 2014).I mercati avranno il premier che vogliono: giovane, per dare anche visivamente l’impressione che qualcosa sta cambiando (anche Letta è “giovane”, ma purtroppo non lo sembra); veloce, per “fare” le cose più sgradevoli senza che si riesca a capire in tempo di cosa si tratta; disincantato, quindi privo di riguardi istituzionali, costituzionali; ruffiano, per “distrarre” il pubblico con battutine e spiccioli di “cura sociale” (aggiustare qualche scuola, mentre ti levano tutto il resto, professori compresi); esecutore fedele, perché completamente privo di un progetto autonomo (“far ripartire l’Italia” è uno slogan usato da tutti i governi degli ultimi 70 anni; ma anche prima…). È la prima volta che una crisi di governo – tra le più ingiustificate degli ultimi venti anni – non viene accompagnata da violente oscillazioni di Borsa o da rapidi impennamenti dello spread. I mercati apprezzano, Confindustria l’aveva chiesto (“o un cambio di passo o un cambio di governo”). Quindi ai mercati va benissimo così.
-
La grande truffa della storia, scritta dai vincitori
Alla fine bisogna sempre fare “i conti con la storia” e non sono mai conti facili: sono come gli esami che non finiscono mai. Quando Atene si liberò dei Trenta tiranni chiudendo uno dei periodi più foschi della sua storia (nel regolamento di conti che ne seguì Socrate fu messo a morte di fatto per collaborazionismo, altro che corrompere i giovani) fu promulgata una “legge bavaglio” che vietava di rivangare il passato, scriverne, rievocare. L’ordine regna ad Atene: il dibattito è chiuso – si stabilì – pena il collasso della società. Da noi, in Italia, non ci fu una legge, ma solo una canzone napoletana: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto… Chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdammoce ‘o ppassato”. Quello di Atene dopo la dittatura dei Trenta è il più clamoroso esempio che Paolo Mieli porta nel suo ultimo libro “I conti con la storia” (Rizzoli) sul ventaglio di soluzioni possibili quando finisce un conflitto che riverbera odio, dolore e desiderio di vendetta.Ma davvero l’oblio è il medicamento da somministrare dopo ogni conflitto? No, si può fare anche il contrario, se i vincitori sono generosi patrioti. L’esempio è quello degli Stati Uniti che, dopo la fine della guerra civile a metà degli anni Sessanta del XIX secolo (proprio mentre l’Italia si unificava malamente), scelsero di includere i vinti, elevandoli al rango di co-fondatori della nuova nazione. Questo fatto, da noi poco noto, mi colpì molto quando vivevo negli Stati Uniti perché non ti aspetti quella quantità di monumenti, nomi di strade, memorial, che trasformano i nemici di un tempo in patrioti degni di onore. Sarebbe come se in Italia, dopo l’8 settembre 1943, i vinti repubblichini fossero stati promossi al rango di “patrioti avversari” co-fondatori della nuova Repubblica.Sappiamo come andò nella realtà. E a questo proposito Mieli affronta il caso di Giampaolo Pansa, famoso giornalista “di sinistra” che provocò una rottura verticale nel conformismo italiano, guidato dalla legge dell’oblio e, peggio, dalla legge della memoria asimmetrica dei vincitori. Ho sempre pensato che se la guerra l’avesse vinta la Germania, avremmo avuto poi infiniti musei e celebrazioni della memoria dei genocidi di Stalin e dei suoi campi di concentramento, e la Shoah sarebbe stata ignorata, o trattata come un fatto marginale su cui alcuni storici anticonformisti avrebbero sollevato il velo mezzo secolo più tardi. Il tabù infranto da Pansa vieta ai non fascisti di parlare del sangue dei vinti durante la guerra, ma poi anche delle esecuzioni pianificate per classe sociale nel “triangolo della morte” emiliano.Le imprese della Volante Rossa e le stragi successive alla Liberazione, che non furono lo strascico di «comprensibili vendette contro gli aguzzini», ma il passaggio dalla guerra contro tedeschi e fascisti repubblichini alle procedure per instaurare un regime comunista manu militari: ci volle il freddo realismo di Stalin e del suo impassibile portavoce Palmiro Togliatti per bloccare l’ondata insurrezionale, in nome del nuovo ordine nato a Yalta. La convenzione impose che di quei fatti nessuno dovesse più parlare e una lastra di piombo ateniese asfaltò ogni memoria e ogni verità. Nulla nelle scuole, nulla in tv. Degli effetti di quell’oblio sono stato io stesso testimone e vittima. Quando fui eletto nel giugno 2002 presidente della Commissione d’inchiesta sugli agenti russi in Italia (non soltanto le banali e oneste spie, ma anche agenti d’influenza) ebbi la candida idea di proporre ai post comunisti che occupavano la metà del nostro parlamentino un patto d’onore: sediamoci, dissi, intorno a un tavolo e lavoriamo insieme per voltare finalmente pagina, affrontando tutti i temi roventi del passato (la Commissione Mitrokhin era stata chiesta per primo da D’Alema quando la notizia di uno schedario russo reso pubblico fece impazzire la sinistra per le accuse reciproche di “collaborazionismo” sovietico).La condizione che pongo, aggiunsi, è che prima dobbiamo leggere tutti insieme e con accuratezza quella pagina, e poi voltarla. Ma avevo avuto torto: nessuno, da quella parte, aveva intenzione di condividere alcuna verità e di restituirla al Paese. La risposta che ebbi fu sprezzante: venne lanciata una campagna diffamatoria preventiva accusandomi di voler usare la Commissione «come una clava». La parola d’ordine lanciata da D’Alema sulla “clava” diventò una goccia cinese. I giornali russi fecero eco scatenando una campagna di derisione e di falsità contro la commissione del Parlamento italiano e i giornali si schierarono dalla parte della legge-bavaglio, certificando che io non potevo che essere un provocatore. Al mio informatore segreto Alexander “Sasha” Litvinenko fu inflitto il supplizio di Socrate con una pozione letale di moderna cicuta, l’isotopo Polonio 210. La legge di Atene dopo la cacciata dei Trenta era e resta in vigore. Per fortuna, Scotland Yard non ha mollato l’osso quanto a Litvinenko, ma questa è un’altra storia.E dunque, seguendo la linea de “I conti con la storia”, viene da chiedersi chi e che cosa scriverà fra un secolo, o fra cinquanta anni, sull’Italia di oggi, sui veleni della guerra civile a bassa intensità intorno a Berlusconi e all’antiberlusconismo. Ci penseranno gli storici? Secondo Mieli è possibile: la pratica dovrebbe essere gestita dagli storici nei tempi e modi necessari per spurgare le incandescenze emotive ed ideologiche a causa delle quali la storia è usata proprio come “una clava” dalla politica. Come dire che a un certo punto bisogna saper dire basta. L’Italia più di ogni altro Paese mostra quanto indigesto sia il proprio passato anche recente, su cui gli storici professionisti in fondo non possono granché: è un dato di fatto, ricorda, che la sua unità sia stata costruita su molte menzogne. I cittadini degli Stati preunitari dovettero rinnegare le loro identità precedenti raccontandosi a suon di urla e marcette militari di essere stati tutti da sempre ardenti patrioti italiani.Quando arrivò il momento, tutti diventarono entusiasti reduci della Grande Guerra, compresi i milioni che l’avevano avversata nelle piazze. Poi arrivò il momento in cui tutti si dichiararono fascisti da sempre e, subito dopo, antifascisti da sempre, quando si assistette all’improvvisa comparsa in ogni famiglia di indomabili zii e nonni anarchici, meglio se ferrovieri, che con eroica ostinazione avevano rifiutato la tessera del fascio. Nello stesso momento milioni di italiani dichiararono di aver salvato uno o più ebrei, che non erano più di cinquantamila. Alla caduta della Prima Repubblica non si trovava più un socialista craxiano o un democristiano del Caf a pagarlo oro: il camaleontismo opportunista continuerà ad essere l’elemento distintivo del carattere degli italiani, come aveva notato Leopardi. Quanti sono oggi i forconisti “da sempre”? E quelli che «mi ha telefonato Matteo» dopo anni in cui «mi ha telefonato Massimo» e l’ormai lontano «mi ha chiamato Bettino»?Si può davvero scrivere la storia con gente come questa fra i piedi? Mieli ne dubita. Tuttavia può capitare persino che gli storici, se possono alternare sulla testa il cappello dell’opinion leader oltre quello dello storico, abbiano l’opportunità di modificare il corso della storia come fece Mieli quando, direttore del “Corriere della Sera”, decise di pubblicare nel 1994 il famoso avviso di garanzia che provocò il ribaltone e la caduta del primo governo Berlusconi da cui fu generato il governo Dini, la conseguente sconfitta del centrodestra in Italia del 1996 costretto a una lunga apnea fino al 2001. Cito l’evento perché ho ragionevoli dubbi sulla neutralità degli storici. A complicare le cose ci si mettono pure figure retoriche e organismi reali che agiscono e interagiscono sui fatti come il “politicamente corretto”. L’ipocrisia ha poi perfezionato le sue armi con le agenzie delle Nazioni Unite e con i Tribunali internazionali a baricentro non occidentale che hanno come target finale Israele un po’ come la Procura di Milano punta a Berlusconi.Il “politicamente corretto” impedisce per esempio di dire che la tratta degli schiavi africani venduti, trasferiti in catene in America, dal Brasile ai Caraibi, dalla Martinica alle colonie britanniche, non fu fatta dai bianchi europei (mai dagli americani) ma dagli arabi che si servivano di tribù schiaviste di neri africani in un continente che praticava lo schiavismo da oltre mezzo millennio prima che arrivassero i bianchi a comperare insieme agli sceicchi. Ebbene, oggi ci sono Stati africani le cui leggi spediscono in galera chi osa dubitare che lo schiavismo africano sia stato un crimine dei bianchi colonialisti. Il libro di Mieli è una straordinaria e quasi infinita serie di narrazioni certificate autentiche e paradossali d’ipocrisie. È un libro fortemente anticonformista e sconvolgente.Se Calvino fa ardere vivo lo studioso della circolazione sanguigna Michele Serveto in combutta con l’Inquisizione spagnola (fascine verdi per il rogo e un collare di paglia cosparso di zolfo), che dire del grande cancelliere tedesco Bismarck (ammiratore del Risorgimento italiano) che ordinò di impiccare tutti gli abitanti maschi (compresi vecchi e bambini) della città di Ablis dove i francesi avevano catturato sessanta soldati tedeschi? L’ordine fu immediatamente eseguito senza che nessun avversario di Bismarck avesse nulla da ridire. La storia che Mieli viviseziona è quasi sempre falsificata dai vincitori: quando Hitler invase la Polonia nel 1939, il suo alleato e fervido ammiratore Stalin invase secondo gli accordi russo-tedeschi la Polonia da Est. L’Armata Rossa compì ogni sorta di violenza e crimini, senza contare lo scandalo della consegna reciproca fra svastica e falce e martello di rifugiati ebrei contro rifugiati anticomunisti sul ponte di Brest-Litovsk. Il risultato è che dopo la fine della guerra si conoscono solo i crimini tedeschi, non quelli sovietici.E ancora sui fatti di casa nostra: Mieli sostiene che i leghisti non hanno tutti i torti quando dicono che l’unità fu fatta in un modo che non aveva nulla a che fare con gli ideali risorgimentali che prevedevano un’Italia del Nord. Invece le cose andarono diversamente: gli inglesi mollarono il re di Napoli, la mafia e la camorra scesero in campo con Garibaldi e il re sabaudo, così come sarebbero scese in campo con gli americani che risalivano la penisola dalla Sicilia. Per due volte tenuti a battesimo dalla mafia, quale sorpresa di fronte a uno Stato in parte geneticamente mafioso? I conti con la storia non finiranno mai, è vero, ma bisogna pur cominciare a farli se vogliamo dare una mano non solo agli storici ma anche ai cittadini futuri per aiutarli, aiutarci, a guarire dalla genetica ipocrisia.(Paolo Guzzanti, “Dall’Unità a Berlusconi, la storia è un’arma politica”, da “Il Giornale” del 21 dicembre 2013. Il libro: Paolo Mieli, “I conti con la storia”, Rizzoli, 422 pagine, euro 19,50).Alla fine bisogna sempre fare “i conti con la storia” e non sono mai conti facili: sono come gli esami che non finiscono mai. Quando Atene si liberò dei Trenta tiranni chiudendo uno dei periodi più foschi della sua storia (nel regolamento di conti che ne seguì Socrate fu messo a morte di fatto per collaborazionismo, altro che corrompere i giovani) fu promulgata una “legge bavaglio” che vietava di rivangare il passato, scriverne, rievocare. L’ordine regna ad Atene: il dibattito è chiuso – si stabilì – pena il collasso della società. Da noi, in Italia, non ci fu una legge, ma solo una canzone napoletana: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto… Chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdammoce ‘o ppassato”. Quello di Atene dopo la dittatura dei Trenta è il più clamoroso esempio che Paolo Mieli porta nel suo ultimo libro “I conti con la storia” (Rizzoli) sul ventaglio di soluzioni possibili quando finisce un conflitto che riverbera odio, dolore e desiderio di vendetta.
-
Graziani, il maestro che previde la catastrofe dell’euro
Con Augusto Graziani è scomparso «il maestro di una intera generazione di economisti italiani, raffinato innovatore delle idee di Marx e Keynes e acutissimo critico dei luoghi comuni su cui regge il consenso verso la politica economica dominante». Graziani, lo ricorda l’economista Emiliano Brancaccio, ha incarnato una miscela unica di rigore intellettuale, potenza dialettica e delicatezza espressiva. «Una figura minuta, quasi a simboleggiare la fragilità della condizione umana, che manifestava una sincera empatia verso chiunque fosse soggiogato dalla durezza della vita materiale, ma che al contempo racchiudeva lo spirito di un temuto combattente, capace con pochi affondi di rivelare l’insipienza dei protervi strilloni della vulgata economica che avevano la sventura di incrociare le sue affilate armi critiche». Un uomo d’altri tempi, «nell’epoca della mediocrità alla ribalta», con le antenne accese sul futuro: «In più occasioni, infatti, Graziani ha saputo anticipare il corso degli eventi storici».Attualissimi, in questo senso, i suoi studi sulle contraddizioni tra sviluppo economico italiano e ristrutturazione del capitalismo continentale, che oggi dominano la scena politica e sollevano dubbi crescenti sulla sopravvivenza dell’Unione monetaria europea. Nel 2002, a Napoli, nell’aula Vanvitelliana della facoltà di scienze politiche, Graziani tenne una lezione sull’euro appena entrato in circolazione. I colleghi ad ascoltarlo vennero numerosi, ricorda Brancaccio. «La sensazione era che i più lo onorassero senza esser minimamente persuasi dal suo scetticismo sulla sostenibilità futura dell’Eurozona», vittime già allora della «grancassa dell’ideologia» che in quei giorni «operava a pieno ritmo, seducendo persino le menti più brillanti e avvezze alla critica». Quanto a Graziani, «i suoi dubbi sulla moneta unica, ben saldati sul terreno dei fatti, non si limitavano a trarre spunto dalla nota lezione keynesiana sulla insostenibilità di quelle unioni valutarie che pretendono di scaricare l’intero peso dei riequilibri commerciali sui soli paesi debitori. Vi era pure, nella sua analisi, una lettura implicita del concetto marxiano di centralizzazione dei capitali, e dei tremendi conflitti politici che possono derivare da essa».Il pessimismo di Graziani, continua Brancaccio in un post ripreso da “Megachip”, era dunque fondato su una consapevolezza profonda dell’equilibrio precario su cui verteva il processo di unificazione europea, e del rischio che prima o poi la situazione potesse precipitare sotto il giogo di meccanismi favorevoli all’economia più forte del continente. Veniva così a crearsi uno scenario propizio per la riscoperta del sinistro monito di Thomas Mann sull’essenza dello spirito prevalente in Germania: «Dove l’orgoglio dell’intelletto si accoppia all’arcaismo dell’anima e alla costrizione, interviene il demonio». Nel clima di entusiasmo suscitato dalla nascita dell’euro, tuttavia, le preoccupazioni di Graziani non attecchirono. Nel nostro paese, piuttosto, trovò largo seguito l’improbabile ideologia del “vincolo esterno”. I suoi propugnatori sostenevano che i vincoli imposti dall’Europa sul governo della moneta, del tasso di cambio, dei bilanci pubblici, non costituivano la dimostrazione che l’Unione andava costituendosi a immagine e somiglianza degli interessi del più forte, ossia del capitalismo tedesco. Piuttosto, si diceva, quei vincoli avrebbero miracolosamente trasformato i piccoli ranocchi dello stagnante e frammentato capitalismo italiano in algidi principi della modernità globale, in vere e proprie avanguardie della produzione planetaria.Insomma, modernizzare il capitalismo italiano, renderlo più centralizzato e quindi più forte: alcuni padri della patria, continua Brancaccio, «hanno incredibilmente sostenuto che il vincolo esterno imposto dall’Europa potesse spontaneamente fare tutto questo, sia pure in un deserto di progettualità e di investimenti». In tanti furono abbagliati da simili illusioni. Di contro, in un articolo pubblicato sempre nel 2002 sulla “International Review of Applied Economics”, Graziani fu tra i pochi a segnalare che il vincolo esterno avrebbe potuto determinare un effetto esattamente opposto a quello annunciato. Previde cioè che i capitalisti italiani «avrebbero tentato di rimediare alla perdita delle ultime leve della politica economica tramite una ulteriore frammentazione dei processi produttivi, finalizzata a reiterare il lassismo in campo fiscale e contributivo e ad accelerare la precarizzazione del lavoro. Fino a scoprire, nella crisi, che questi rozzi tentativi di contrazione dei costi non potevano reggere a lungo».Oggi, conclude Brancaccio, sappiamo che le cose sono andate come Graziani aveva previsto. E sappiamo pure che, proseguendo di questo passo, «l’inasprirsi dei conflitti tra capitalismi europei potrà condurre a un tracollo dell’Unione che porrà i decisori politici di fronte a una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro, ognuna delle quali avrà diverse implicazioni sui diversi gruppi sociali coinvolti». I contributi di Graziani, fondati su una visione moderna delle contrapposizioni “tra e dentro” le classi sociali, potranno aiutarci anche ad afferrare i termini di quello snodo decisivo che pian piano affiora all’orizzonte. «Purtroppo, specialmente tra gli eredi più o meno diretti del movimento dei lavoratori, vi è oggi ancora chi preferisce distogliere lo sguardo da questa realistica prospettiva, e continua ad affidarsi alle sempre più flebili speranze di rilancio dei nobili ideali europeisti». Eppure, in tempi più illuminati del nostro, «è stato detto acutamente che l’invito a sperare è in fondo un invito a ignorare: chi conosce non spera ma prevede, e se le condizioni oggettive e la metodica organizzazione delle forze lo permettono, si dispone ad agire per il cambiamento», proprio come fece Augusto Graziani.Con Augusto Graziani è scomparso «il maestro di una intera generazione di economisti italiani, raffinato innovatore delle idee di Marx e Keynes e acutissimo critico dei luoghi comuni su cui regge il consenso verso la politica economica dominante». Graziani, lo ricorda l’economista Emiliano Brancaccio, ha incarnato una miscela unica di rigore intellettuale, potenza dialettica e delicatezza espressiva. «Una figura minuta, quasi a simboleggiare la fragilità della condizione umana, che manifestava una sincera empatia verso chiunque fosse soggiogato dalla durezza della vita materiale, ma che al contempo racchiudeva lo spirito di un temuto combattente, capace con pochi affondi di rivelare l’insipienza dei protervi strilloni della vulgata economica che avevano la sventura di incrociare le sue affilate armi critiche». Un uomo d’altri tempi, «nell’epoca della mediocrità alla ribalta», con le antenne accese sul futuro: «In più occasioni, infatti, Graziani ha saputo anticipare il corso degli eventi storici».
-
Potere massonico: Silvio e Giorgio, affinità e fratellanza?
«Berlusconi ha avuto molto, in passato, in termini di supporto e relazioni significative, dall’ambiente libero-muratorio. Per converso, sono stati proprio alcuni circuiti massonici sovranazionali a pretendere e a determinare la caduta politica del “fratello Silvio” nell’autunno del 2011, imponendo il collocamento del “fratello” Mario Monti a Palazzo Chigi». Un’affermazione forte, che il leader del “Grande Oriente Democratico” Gioele Magaldi ha rilasciato in un’intervista a Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara, autori del saggio “I panni sporchi della sinistra” (Chiarelettere). Ma l’obiettivo dei due autori non è tanto il Cavaliere, la cui militanza massonica è arcinota, quanto l’uomo del Colle: «Il complesso rapporto creatosi nel corso degli anni tra Berlusconi e Napolitano – scrivono – suggerisce sintonie che spesso vanno oltre la simpatia personale e il reciproco rispetto che può esistere tra figure che dovrebbero essere radicalmente lontane, sia per storia intellettuale e professionale sia per schieramento politico».Se di Berlusconi si ricorda l’iscrizione alla Loggia P2 di Licio Gelli nel 1978, da cui poi proseguì «il suo percorso massonico alla corte del Gran maestro Armando Corona dal 1982 al 1990», con accanto Marcello Dell’Utri – sempre secondo Magaldi – per tessere la rete di relazioni alla base di Forza Italia, per Pinotti e Santachiara è «molto più complesso il discorso che riguarda Napolitano», come affermano nel loro libro, di cui “Affari Italiani” pubblica un’anticipazione. «È possibile che le sintonie con Berlusconi siano state facilitate da comuni vicinanze su questo terreno? Secondo Magaldi – che lo ha affermato in numerose interviste – non vi sono dubbi sul fatto che il presidente della Repubblica sia un “fratello”». Dichiarazioni certamente insufficienti, ammettono i due giornalisti, intenzionati ad “approfondire” il tema con «un’autorevole fonte», che però «ha chiesto di rimanere anonima». Si tratta di «un avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti». L’avvocato sarebbe «figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Secondo il legale, già il padre di Napolitano è stato «una delle figure più in vista della massoneria partenopea».Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (notoriamente legatissimo al padre, che ammirava profondamente) non solo l’amore per i codici ma anche quello per la “fratellanza”? «A rafforzare la connotazione “muratoria” dell’ambiente in cui è nato Giorgio Napoletano c’è un altro massone, amico fraterno del padre: Giovanni Amendola, padre di Giorgio, storico dirigente del Pci e figura fondamentale per la crescita intellettuale e politica dell’attuale presidente della Repubblica», scrivono Pinotti e Santachiara. «Va detto che l’appartenenza alla massoneria non è un reato, anzi, molto spesso figure a essa legate sono diventate protagoniste di rivoluzioni innovatrici e progressiste». Certo, il legame massonico «rappresenta una modalità di gestione del potere di cui poco si conosce». Modalità che «è spesso determinante per capire i fatti più recenti della politica italiana e internazionale». Per molti aspetti, sostiene la “fonte” dei due reporter, «Napolitano è assimilabile a Mitterrand, che era anche lui massone», ed è stato il politico più decisivo nell’imporre in Europa sia il regime dell’euro che l’asfissia del rigore come “virtù” neoliberista, oggi simboleggiata dal tetto del 3% deficit-Pil per la spesa pubblica. Un vincolo fatale, che sta mettendo in croce le democrazie europee e demolendo il nostro tessuto socio-economico.Sempre secondo l’anonimo avvocato napoletano citato da Pinotti e Santachiara, la visione di Napolitano è identica a quella della “république” incarnata da Mitterrand, «un monarchico travestito da socialista» secondo un ex consulente dell’Eliseo come l’economista Alain Parguez, nemico giurato dell’euro-regime di Bruxelles. «L’appartenenza massonica di Napolitano è molto diversa da quella di Ciampi, fa riferimento a mondi molto più ampi», continua “l’avvocato”. «Ciampi inoltre è un cattolico. Napolitano si muove in un contesto più vasto». La massoneria italiana, dal canto suo, ha sempre espresso grande simpatia verso l’attuale presidente della Repubblica, sostengono i due autori del libro. «Il Gran maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi), avvocato Gustavo Raffi, si è rivolto più volte pubblicamente a Napolitano, esprimendo simpatia e deferenza». Il 10 maggio 2006, dopo la prima elezione alla presidenza della Repubblica, Raffi esultava indicando la scelta di Napolitano come «uno dei momenti più alti nella vita democratica del paese», ed esprimeva felicitazioni «a nome dei liberi muratori del Grande Oriente d’Italia».Stesso entusiasmo nel marzo del 2010, per la rielezione di Napolitano al Quirinale, di fronte all’agonia del Parlamento tramortito dall’exploit di Grillo dopo la micidiale “cura dimagrante” affidata a Monti e Fornero. E il 13 giugno 2010, lo stesso Raffi si è spinto «sino alla soglia di pesanti rivelazioni, rispondendo a una domanda non casuale di Lucia Annunziata», nella trasmissione Rai “In mezz’ora”. Domanda: «Napolitano potrebbe essere un massone sotto il profilo dei valori?». Netta la risposta di Raffi: «A mio avviso sì, per umanità, distacco, intelligenza, per avere levigato la pietra, per averla sgrezzata, lo dico in linguaggio muratorio, in questo senso sì». Anche nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia, aggiungono Pinotti e Santachiara, si registrano convergenze tra la spinta celebrativa del Colle e i momenti pubblici organizzati dalla massoneria italiana, artefice forte del Risorgimento. Il 7 gennaio 2011 Raffi apre le danze dichiarando: «Come ci ricorda con il suo esempio altissimo il capo dello Stato Giorgio Napolitano, abbiamo il compito di ritrovare fiducia, unità e coesione nazionale, capacità di risolvere i problemi, insieme a progetti che indichino la strada al di là di ogni polemica di parte e del cortile degli interessi».«Berlusconi ha avuto molto, in passato, in termini di supporto e relazioni significative, dall’ambiente libero-muratorio. Per converso, sono stati proprio alcuni circuiti massonici sovranazionali a pretendere e a determinare la caduta politica del “fratello Silvio” nell’autunno del 2011, imponendo il collocamento del “fratello” Mario Monti a Palazzo Chigi». Un’affermazione forte, che il leader del “Grande Oriente Democratico” Gioele Magaldi ha rilasciato in un’intervista a Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara, autori del saggio “I panni sporchi della sinistra” (Chiarelettere). Ma l’obiettivo dei due autori non è tanto il Cavaliere, la cui militanza massonica è arcinota, quanto l’uomo del Colle: «Il complesso rapporto creatosi nel corso degli anni tra Berlusconi e Napolitano – scrivono – suggerisce sintonie che spesso vanno oltre la simpatia personale e il reciproco rispetto che può esistere tra figure che dovrebbero essere radicalmente lontane, sia per storia intellettuale e professionale sia per schieramento politico».
-
Maradona, gli evasori e i pagliacci (tra sdegno e fiction)
Maradona, il calcio e le tasse: quando il senso civico «finisce nelle mani dei pagliacci». Che sarebbero, nell’ordine: l’ex grande giocatore argentino e il tele-intrattenitore più coccolato d’Italia, Fabio Fazio. Con la “complicità” indiretta di un grande eretico della televisione italiana, Gianni Minà, “colpevole” di aver contribuito a mitizzare il Pibe de Oro, facendone una sorta di eroe da presentare in prima serata – tra la Littizzetto e l’anonimo Raffaele Fitto – nel bel mezzo del Grande Nulla italiano. E’ il grigio campo di gioco nel quale il mainstream di regime cincischia a bordo campo, proprio come il Dieguito dei bei tempi, pur di non parlare della crisi che sta scotennando il paese. Perfetto, nella grande finzione, anche il sapiente dosaggio emotivo del vicedirettore della “Stampa”, Massimo Gramellini, bravissimo nel dispensare ai telespettatori il suo Libro Cuore
-
Giunti e Teghille: ma il mostro eversivo si chiama Tav
Il Procuratore della Repubblica di Torino interviene sulla manifestazione di sabato 19 a Roma, spiegando che se una marcia pacifica si può fare a Roma allora in val Susa si possono e si devono isolare i violenti. Con il massimo rispetto per la sua figura e la sua storia, proviamo a esprimere qualche riflessione, perché da molti anni sentiamo ripetere questo ritornello. Giornalisti e politici, anche sensibili alle ragioni della protesta, spesso ci spiegano quali danni porterebbe alla causa non espellere le mele marce. Noi, stolidi montanari, continuiamo a non capire. In realtà anche a Roma qualche scontro si è verificato, certamente non come due anni fa, sempre in ottobre, quando un analogo corteo ha avuto tutt’altro esito, né come – ricordiamo tutti – a Napoli e ancor più a Genova nel 2001. In quelle situazioni, anche sabato scorso, i filmati mostrano che curiosamente la polizia fa agire i violenti per poi accanirsi con i più tranquilli. In qualche caso si vedono agenti in borghese confondersi con i manifestanti o con i giornalisti. La storia del nostro Paese ci ha fatto conoscere anche le figure dei provocatori e degli infiltrati. Non c’è ragione per credere che gli antitav siano riusciti a restarne immuni.Non è la popolazione della valle di Susa che, alimentando simpatie antagoniste, ha promosso il progetto Torino-Lione e l’apertura del cantiere di Chiomonte. Sono questi che, per la loro insostenibilità e protervia, hanno richiamato l’antagonismo, in maniera quasi turistica. D’altronde, se qualcuno ritiene – a torto – che possa scoppiare una rivoluzione, sarà inesorabilmente attratto dove sussistono forti tensioni sociali e ambientali. Non andrà certo a Montecarlo o in Costa Smeralda! La gran parte delle iniziative condotte in vent’anni contro la Torino-Lione sono azioni pacifiche e culturali. A cominciare dalle manifestazioni, che continuano a radunare migliaia di persone in marcia a volto scoperto, per arrivare alle assemblee, alle serate informative, alle feste e agli spettacoli, a decine di conferenze di ospiti interessanti e competenti. Focalizzarsi sugli episodi violenti e sui sabotaggi è facile e strumentale ma non rende onore alla verità e al lungo cammino percorso da questo movimento.L’opposizione NoTav non è un partito o un’istituzione. Non ha un segretario politico né un presidente. E’ fatta da centinaia di persone con sensibilità diverse, anche distanti, che si ritrovano concordi nel denunciare un sistema perverso di potere, di opere, lavoro ed economia deviati, che non deve più trovare albergo nel nostro paese. Quindi non esiste nessuno che possa, in nome di tutti gli altri, prendere le distanze da qualcosa o espellere qualcuno. Al suo interno sono presenti anche moltissimi amministratori pubblici, sindaci in testa. Sempre, sempre, hanno condannato e rigettato – senza balbettare – ogni violenza, a cominciare proprio dagli eccessi nelle manifestazioni. Negare il fatto non lo cancella. Hanno anche ricordato, però, che i violenti sono molti. Persino lo Stato può esserlo, se prima impone un’opera, poi la camuffa come condivisa e infine la difende con i militari. Persino le forze dell’ordine e la Magistratura possono eccedere, non solo quando usano la forza fisica oltre il necessario, ma anche quando indagano con visioni preconcette e in una sola direzione. Persino i massmedia, se sono ossequiosi con lo sloganeggiante notabile di turno o se ignorano gli appelli alle istituzioni, i dati tecnici, la pochezza dei progetti, i dubbi espressi in altri Stati, possono fare violenza.La politica nazionale pare sappia rispondere soltanto con arroganza e con sotterfugi. L’ultimo esempio si trova nella legge sul femminicidio, che assimila i cantieri a caserme e allarga il perimetro dell’art. 260 del codice penale. Tratta di spionaggio e usa termini come stato in guerra, efficienza bellica, operazioni militari. Addirittura, in caso di conflitto, contemplava la pena di morte! Oppure si può analizzare la ratifica dell’ultimo accordo internazionale proposta al Parlamento: con essa si applicherebbe anche sul lato italiano il diritto francese, spostando oltralpe gli eventuali contenziosi ma soprattutto annullando ogni normativa antimafia, che là non esiste. Non sono forme di eversione anche le dismissioni di sovranità e lo svilimento dell’ordinamento dello Stato?La “Libera Repubblica” della Maddalena non voleva un altro Stato, ma uno Stato migliore e più rispettoso della Costituzione italiana. Rivendicava – forse immodestamente – il collegamento con la Resistenza da cui quella Costituzione nacque. Qualcosa come i 40 giorni di libertà della val d’Ossola, i 23 giorni della Città di Alba o la difesa del Monte Rubello. Non una “enclave” ma un laboratorio, fantasioso, disordinato, partecipato e vitale come ogni esperimento. Sono altre le enclaves che dovrebbero preoccupare gli italiani, le regioni dominate dalla criminalità organizzata, ad esempio, o i grumi affaristico-politico-finanziari i cui scandali scoppiano ogni settimana, ma sempre dopo che i guasti sono avvenuti. I NoTav invece, con tutti i loro difetti, stanno cercando di fermarli prima che accadano.Per quanto possa apparire blasfemo, i cittadini che si oppongono alla costruzione della Torino-Lione sono consapevoli di infrangere talvolta le leggi esistenti. Ma lo fanno in nome di un senso di giustizia più alto, magari confuso per gli altri ma limpido per loro, seguendo il principio che Giuseppe Dossetti, guardando alla Francia, avrebbe voluto inserire nella Costituzione della Repubblica Italiana: La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino. Tra quei diritti inviolabili ci sono la salute e il paesaggio che proprio la Torino-Lione massacrerebbe. Le buone ragioni di chi ha ragione non vengono cancellate da metodi poco ortodossi o addirittura illeciti. La compresenza di pratiche diverse per sostenerle non è motivo valido per sconfessarle o ignorarle. Restano valide, anche se è comodo nasconderle enfatizzando le azioni più clamorose.La fiducia nella giustizia e nei loro rappresentanti viene messa a dura prova. Cittadini informati e vilipesi l’hanno perduta perché ogni loro appello, denuncia, ricorso, esposto, è stato sempre lasciato cadere da chiunque l’abbia ricevuto, magistrato o Presidente della Repubblica che fosse. Si badi bene: non è stato accolto, giudicato e poi, eventualmente, ritenuto infondato nel merito. Non è proprio stato recepito. Non solo. Chi si è permesso di denunciare abusi e pericoli è stato inquisito per false comunicazioni e procurato allarme. Come una certa Tina Merlin a proposito del Vajont. Alla lunga una certa disistima nelle istituzioni centrali appare giustificata. L’incrollabile convinzione del Procuratore di Torino sull’eversione ricorda con amarezza le “prove granitiche” che dieci anni fa sono state considerate dalla Cassazione insufficienti per sostenere proprio l’accusa di terrorismo nella nostra valle, non senza aver cagionato due suicidi in carcere e 4 anni di ingiusta detenzione al terzo indagato. Si sta recitando da capo lo stesso identico copione, e nessuno qui in giro vuole che si ripeta anche lo stesso epilogo.Nonostante tutto, rimane la speranza – forse ingenua – che la giustizia faccia il suo corso. Non si spiegherebbe altrimenti l’ostinazione nell’analizzare progetti, sorvegliare il cantiere, produrre documenti, redigere i famosi esposti. Va poi ricordato, per quanto fastidioso sia, che in tutta questa storia si annoverano tre sentenze: quella che ha assolto i presunti Lupi Grigi dall’accusa di terrorismo, quella che ha condannato la dirigenza Sitaf per turbativa d’asta per gli appalti di Venaus, quella che riconosce i pestaggi ingiustificati delle forze dell’ordine durante lo sgombero del 2005, sempre a Venaus. Quest’ultima addirittura proclama l’omertà dei funzionari e la loro reticenza davanti ai giudici! Sentenze, non chiacchiere NoTav. Tutte decisioni ultime della Magistratura che in qualche modo confermano le tesi degli oppositori alla Torino-Lione. Aspettiamo dunque rispettosamente le conclusioni dei processi istruiti negli ultimi due anni: potrebbero rivelare delle sorprese.Il Procuratore ha già radicato la convinzione che tutti i sabotaggi sono da ricondursi al movimento NoTav, nonostante non siano stati rivendicati, le indagini siano in corso, e addirittura alcuni bersagli abbiano dichiarato di pensarla diversamente. Ma il giudizio è già vissuto come inappellabile. Eppure, molti dubbi si affollano sulle dinamiche dei singoli episodi, così come sul contesto in cui sarebbero avvenuti. Ad esempio, si apprende dalla stampa che attentati simili si sono verificati nel chivassese e nell’emiliano, sempre a carico di ditte in qualche modo coinvolte nei movimenti di terre Tav. In quelle aree lontane, per fortuna, nessuno ha ancora incolpato i NoTav. Non sarà possibile, almeno in ipotesi, che anche in val Susa gli autori siano altri e abbiano altri scopi? Che la torta da spartire sia così succulenta da attirare appetiti più onnivori di qualche presunto contestatore più esuberante di altri? E’ positivo che la legge finanziaria in discussione preveda nuove risorse proprio per risarcire le ditte eventualmente colpite dai NoTav. Costringerà a individuare senza dubbi i veri autori dei danneggiamenti, perché senza responsabilità accertata in capo ai NoTav i risarcimenti saranno zero. Come in una famosa pubblicità: No colpevoli, No soldi!A nostro modo di vedere, c’è un sistema molto facile e immediato per scoprire se davvero esiste una frattura negli oppositori e se una frangia del movimento vuole lo scontro a tutti i costi. Ascoltare le voci degli amministratori e dei docenti universitari, che chiedono di fermarsi a riflettere – ma in maniera seria, trasparente e obiettiva – sui dati trasportistici, economici, ambientali e sociali dell’opera. Se dopo tale analisi si dovesse appurare che la Torino-Lione è utile, proposta in maniera cristallina, sopportabile dall’ambiente e dalle casse dello Stato, una buona parte di chi si oppone sarebbe disposto a farsi da parte. Noi, almeno, lo faremmo. In ogni caso, è indubitabile che sic stantibus rebus non si possa andare avanti. Occorre prendere atto che l’Osservatorio governativo istituito nel 2006 ha fallito. Era stato incaricato di condividere il progetto con il territorio, di facilitare l’accettazione dell’opera, di ridurre la contestazione e abbassare la tensione. Non c’è riuscito, per la semplice ragione che la Torino-Lione è indifendibile sotto ogni punto di vista.Per accorgersene definitivamente, basta smettere di ascoltare i proclami rassicuranti che il Commissario dipinge nei salotti e in luoghi protetti, ben lontano da ogni confronto. Non potranno certo essere installati i cantieri a Susa nei prossimi due anni, come più volte annunciato. In mezzo a quartieri abitati, aziende, scuole, strade e altre strutture pubbliche. Non ci si troverà più in una valle secondaria isolata tra i monti e disabitata. Dall’estate del 2011 Chiomonte e la val Clarea insegnano che costa di più difendere l’opera che costruirla. A Susa questi costi potrebbero decuplicare. E ormai dovrebbe essere evidente a tutti che repressione e falsità non sono i metodi idonei per uscire da questo buco.(Luca Giunti e Bruno Teghille, “Riflessioni sulla lettera del procuratore della Repubblica di Torino”, 24 ottobre 2013. Giunti e Teghille sono due esponenti del movimento No-Tav).Il Procuratore della Repubblica di Torino interviene sulla manifestazione di sabato 19 a Roma, spiegando che se una marcia pacifica si può fare a Roma allora in val Susa si possono e si devono isolare i violenti. Con il massimo rispetto per la sua figura e la sua storia, proviamo a esprimere qualche riflessione, perché da molti anni sentiamo ripetere questo ritornello. Giornalisti e politici, anche sensibili alle ragioni della protesta, spesso ci spiegano quali danni porterebbe alla causa non espellere le mele marce. Noi, stolidi montanari, continuiamo a non capire. In realtà anche a Roma qualche scontro si è verificato, certamente non come due anni fa, sempre in ottobre, quando un analogo corteo ha avuto tutt’altro esito, né come – ricordiamo tutti – a Napoli e ancor più a Genova nel 2001. In quelle situazioni, anche sabato scorso, i filmati mostrano che curiosamente la polizia fa agire i violenti per poi accanirsi con i più tranquilli. In qualche caso si vedono agenti in borghese confondersi con i manifestanti o con i giornalisti. La storia del nostro Paese ci ha fatto conoscere anche le figure dei provocatori e degli infiltrati. Non c’è ragione per credere che gli antitav siano riusciti a restarne immuni.
-
Io faccio così: diario dall’Italia che ha voltato pagina
Il futuro, questo sconosciuto. Da una parte la faccia dura della crisi, l’Europa-zombie che sembra stata creata apposta per non funzionare, se non a scapito di milioni di sventurati senza più lavoro né diritti. Sopravvive benone solo la cosiddetta casta: partiti e istituzioni, banche e finanzieri, ex industriali convertiti alla finanza speculativa. Ma il sistema sembra ora sul punto di crollare, schiantato da una globalizzazione senza paracadute. Un disastro, che sta già travolgendo l’altra Italia, quella che ancora presidia i territori, li difende dalle “grandi opere inutili” e prova a resistere al deserto della deindustrializzazione. E’ rabbia, che sfila in corteo e chiede giustizia e democrazia. Ma soprattutto sovranità. Che in fondo significa: tornare padroni della propria vita. E’ quello che, in silenzio, migliaia di italiani hanno cominciato a fare, completamente ignorati dai grandi media. Una foresta che cresce, e che sta gettando semi. Giovani e famiglie che, semplicemente, hanno cambiato vita. Si sono rimboccati le maniche, inventandosi un nuovo lavoro. Un nuovo modo di stare al mondo. «E funziona?». «Sì, certo: guarda, io faccio così».Ne è testimone Daniel Tarozzi, reduce da un “giro d’Italia” di sette mesi, alla guida del suo camper, lungo i paesaggi dell’Italia in cambiamento. Tutte e 20 le Regioni dello Stivale, isole comprese. Migliaia di contatti, centinaia di storie. Tutte diverse e tutte simili. «Quando avete cominciato, a vivere così?». Risposta invariabile: «Cinque, sei anni». Cioè da quando la Grande Crisi ha affondato le zanne nel tessuto socio-economico: gli sciacalli della speculazione, Wall Street, il rigore imposto dall’Eurozona. Ovvero: la certezza matematica che sarebbe crollato, con la recessione, un sistema peraltro insopportabile e insostenibile come quello basato sui consumi inutili, drogati dalla pubblicità. Vite in scatola? No, grazie. «La scoperta – racconta Daniel Tarozzi – è che si sta creando una rete diffusa, dal nord al sud, di micro-economie che valorizzano il territorio e le competenze delle persone, spesso promuovendo lavori che le statistiche nemmeno rilevano».Succede anche in città, non solo in campagna, per iniziativa di gruppi organizzati ma anche di singoli “pionieri” convertiti alla sostenibilità, al risparmio e alla qualità della vita. Parola d’ordine: ridurre le dipendenze. Autocostruzione, energia pulita e autoprodotta, cibo di stagione assicurato tutto l’anno dall’orto sotto casa, grazie alla pratica della permacoltura. E’ una rivoluzione culturale, che spinge le persone a cooperare tra loro riscoprendo il valore spontaneo della solidarietà. «Io credo che dobbiamo passare dal “vinco io, perdi tu” al “vinciamo tutti”», sintetizza Michela Scibilia, di Venezia. E non è solo un orizzonte per nuovi contadini. Ci sono anche inventori, imprenditori, manager. E artigiani, neolaureati, artisti. «Le loro storie non fanno più parte dell’aneddotica, ma ormai costituiscono una realtà che va raccontata e fotografata. E dimostrano che un altro Pil, più vero e di qualità, è possibile». Ci sono tantissime realtà italiane in movimento, conferma l’altoatesino Hans Schmieder, promotore dell’Accademia dei Colloqui di Dobbiaco, Bressanone. «Il problema è che queste realtà sono invisibili: dobbiamo lavorare per farle vedere».E’ quello che ha fatto Daniel Tarozzi, col suo diario “on the road” pubblicato da “Chiarelettere”. «L’idea di questo viaggio e poi di questo libro – dice – è nata da un’esigenza fortissima che sentivo da dieci anni». Da giornalista, direttore del newsmagazine “Il Cambiamento”, si è sempre occupato di sostenibilità, decrescita e transizione. «Tutti questi movimenti e queste realtà, solo apparentemente piccoli, non solo sono attivi sul territorio, ma riescono a incidere concretamente e positivamente nel cambiare, nel raggiungere i propri obiettivi. E la cosa bella è che queste persone alla fine riescono nel loro intento». “Io faccio così”, il leit-motiv di tanti incontri, è diventato il titolo del libro, anticipato da un blog sul “Fatto Quotidiano”. Fotogrammi da un popolo in marcia. Il cambiamento richiede pazienza, ammette un religioso come don Gianni Fazzini, promotore dell’iniziativa “Bilanci di giustizia”, per aiutare le persone bisognose a risparmiare. L’importante, però, è non perdere mai di vista un fatto decisivo: «Il bene più prezioso è un bene immateriale: il tempo». Pazienza e fiducia. «C’è un’Italia che non molla, che va avanti e crede nel futuro».Dal centro di Bologna alla trincea degradata di Scampia, si moltiplicano iniziative solidali che diventano attività organizzate e sostenibili. Nel libro di Daniel Tarozzi, abbondano i paesaggi extraurbani. E il ritorno alla terra è un richiamo potente. «Vogliamo convincere le amministrazioni a inserire gli orti nei loro piani regolatori», dicono Gianfranco Bettega e Adriana Stefani dello Slow Food di Trento, ideatori del progetto “orto in condotta”, nelle scuole. «E’ andato molto bene: ci cercano in tantissimi, non riusciamo a star dietro a tutte le chiamate». Cristina Tagliavini, di “Accesso alla Terra”, sta realizzando una cooperativa aperta a tutti, che acquisti terreni abbandonati o destinati all’edilizia, per affidarli a chi voglia iniziare a coltivare la terra. «Vogliamo seguire i neo-contadini offrendo assistenza e formazione, mettendoli in rete tra loro». Buone notizie da tutta Italia. «Oggi in Puglia c’è un ritorno di tanti giovani che erano emigrati e che – spesso per mancanza di lavoro – decidono di riprovare a costruirsi un futuro qui», racconta Virginia Meo di “Ressud”, sodalizio che mette in contatto le realtà di economia solidale dall’Abruzzo alla Sicilia. «Sono davvero tante – dice Daniel Tarozzi – le persone che, in questo momento di crisi e senza neppure avere le spalle coperte, si licenziano e cercano di costruire una vita diversa». Motivo: «Contestano il sistema in cui vivono, e i suoi falsi valori». Ebbene sì: «C’è davvero un’Italia che cambia, ed è quella che ho cercato di raccontare».(Il libro: Daniel Tarozzi, “Io faccio così”, Chiarelettere, 368 pagine, euro 14,50).Il futuro, questo sconosciuto. Da una parte la faccia dura della crisi, l’Europa-zombie che sembra stata creata apposta per non funzionare, se non a scapito di milioni di sventurati senza più lavoro né diritti. Sopravvive benone solo la cosiddetta casta: partiti e istituzioni, banche e finanzieri, ex industriali convertiti alla finanza speculativa. Ma il sistema sembra ora sul punto di crollare, schiantato da una globalizzazione senza paracadute. Un disastro, che sta già travolgendo l’altra Italia, quella che ancora presidia i territori, li difende dalle “grandi opere inutili” e prova a resistere al deserto della deindustrializzazione. E’ rabbia, che sfila in corteo e chiede giustizia e democrazia. Ma soprattutto sovranità. Che in fondo significa: tornare padroni della propria vita. E’ quello che, in silenzio, migliaia di italiani hanno cominciato a fare, completamente ignorati dai grandi media. Una foresta che cresce, e che sta gettando semi. Giovani e famiglie che, semplicemente, hanno cambiato vita. Si sono rimboccati le maniche, inventandosi un nuovo lavoro. Un nuovo modo di stare al mondo. «E funziona?». «Sì, certo: guarda, io faccio così».