Archivio del Tag ‘mutui’
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Illusi dal consumismo, sperano solo che tutto ricominci
Ho percorso duecento chilometri in auto negli ultimi due giorni ed ho trovato due blocchi del cosiddetto movimento dei forconi. Qualcuno ci vede il baluginare della rivolta che verrà, io ho visto la ripetizione di una tradizione italiana vecchia di un migliaio d’anni: la rivolta per il pane, l’assalto ai forni. Ho visto gente che ha perso tutti i contenitori politici nei quali era transitata. Ho visto gente smarrita, non l’avanguardia rivoluzionaria. Ma so che alcuni ci hanno ricamato sopra una teoria e la teoria dice che questi 30.000 (ma facciamo anche 50.000 o 100.000) sarebbero l’avanguardia della massa che verrà. La teoria dice che questi protestanti – presto o tardi – diventeranno anticapitalisti perché capiranno che il capitalismo li sta massacrando. E così diventeranno anticapitaliste le masse che se ne stanno a casa oggi non appena la crisi morderà le loro “sicurezze”.Questo dice la teoria. Solo che la teoria non funzionerà. Perché non funzionano così le cose. A quei blocchi nessuno pensava minimamente al capitalismo o all’anticapitalismo. C’era gente che aveva perso qualcosa e la rivoleva indietro. E rivolevano indietro quel che avevano vissuto: un posto non troppo freddo ai margini del capitalismo. Un posto che – sono convinti – gli è stato tolto dalle iniquità dei governi, dalla mancanza di politiche protezioniste, dall’Europa, dalle tasse. E mi è venuto da pensare al fenomeno del cambiamento dei consumi di stupefacenti negli ultimi quarant’anni. Che centra? C’entra. Negli anni ’70 ci si faceva di eroina e di acidi lisergici. Ci si faceva di droghe che ti sparavano fuori da un mondo che si sentiva profondamente ingiusto e nel quale non si voleva rimanere. Dietro c’era tutto un movimento tra il culturale e il politico che postulava il rifiuto radicale dei modi di essere e di consumare. Dagli anni ’80 ha preso piede la cocaina e tutta la larga famiglia delle anfetamine. La droga che aiuta non a fuggire dal mondo ma a restarci e ad essere “performante”. Una droga sintonizzata sulla necessità di dimostrare di essere sempre sveglio, attivo, concorrenziale.Guardavo la gente ai blocchi e pensavo che quella gente che mi dava i loro volantini volevano una sola cosa: essere di nuovo parte di un capitalismo che funziona. Non sanno come fare, non hanno le idee chiarissime ma due o tre concetti più o meno interiorizzati: sovranità popolare, lotta ai burocrati europei, lotta alla classe politica. Guardavo i carabinieri alla curva della rotatoria. Immobili, passivi, lasciavano che il blocco ci fosse ma fosse “ragionevole”. Fermali sì ma poi falli passare dopo una decina di minuti. Ci ho parlato per un po’. La maggioranza faceva fatica ad articolarmi un discorso omogeneo. Quello che usciva fuori era un “prima” (quando si stava bene) e un “adesso” nel quale si sta male. Ridateci quello che avevamo, ridateci il capitalismo ben temperato. Segni di anticapitalismo? Nessuno. Neppure una briciola sparsa di luddismo. Le facce smarrite e incazzate raccontavano soltanto la sorpresa e la paura di essere tagliati fuori definitivamente dalla fonte di ogni delizia.Non erano persone che si stavano riappropriando del loro essere cittadini ma, piuttosto, gente che rivoleva essere consumatori. Uno mi ha detto che voleva la meritocrazia e voleva che i migranti (non usava questo termine però) se me tornassero a casa loro. Un altro voleva uscire dall’Europa perché così saremmo stati di nuovo “padroni in casa nostra”. Padroni per fare che? Per tornare a consumare. Era gente che non sa che una economia anticapitalista non prevede la Audi ma semmai una versione moderna della Trabant. Perché se “da ognuno secondo le proprie capacità, ad ognuno secondo i propri bisogni”. Si tratta di ridistribuire equamente le risorse e la fettina di torta per ciascuno sarà uguale ma non sarà grande. Ma non volevano una cosa del genere, volevano esattamente la fetta che avevano prima. Volevano – appunto – un capitalismo come quello nel quale avevano nuotato sino a ieri. Volevano ricominciare a vendere per poi consumare, per poi vendere ancora e consumare di nuovo.Io ho visto gente che rivoleva la gabbia perché neppure sa di essere in gabbia. Non c’era l’idea di un modello alternativo, c’era solo un urlo sottinteso: “Rimettete in moto la macchina”. E la macchina si chiama capitale. Non pretendo coscienze sociali che non si possono chiedere. Ma se questa che ho visto era l’avanguardia posso agevolmente immaginarmi la massa alla cui testa si muove. Non c’è nessuna parentela con l’iconografia di Pellizza da Volpedo. Mi si dirà che non si può dividere la lotta anticapitalista cosciente dalla protesta per l’impoverimento. Non si può se si pensa che la massa passerà dallo stadio della lotta protestataria alla scoperta della lotta contro il capitale. E chi dice e su quali basi lo afferma che questa gente che ho visto, incazzata per ciò che ha perso, maturerà anche la più pallida idea di un modello differente? Certo magari in qualche testo teorico avviene anche questo miracolo. Ma siamo nel mondo. E il mondo ha visto i tedeschi dell’Est nel 1989 passare il muro e correre a rotta di collo verso il più vicino supermercato di Berlino Ovest.Ed è lo stesso mondo che a Kiev vede un bel po’ di dimostranti scendere in piazza per poter entrare in Europa e non rimanere nell’orbita dei satrapi russi. Naturalmente giusto per far capire che vogliono il capitalismo tirano giù l’ultima statua di Lenin ancora in piedi. Un’altra lotta sacrosanta contro il totalitarismo, o una lotta per entrare nel mondo del capitalismo ben temperato? Ho visto gente accomunata dal comune scivolamento all’indietro della propria possibilità di essere dentro alla macchina del consumo. E a proposito di macchine, uno mi ha detto che ha dovuto vendersi la Golf Gti che con tanti sacrifici s’era comprato. Una per farmi riflettere sul suo scivolamento all’indietro mi ha detto che tutti gli anni riusciva ad andare a farsi una settimana a Sharm-el-Sheik (abbreviato “Sciarm” con la stessa pronuncia di “sciampista”) e che ora non aveva i soldi per pagarsi il mutuo. E allora ho capito che per dissolvere questo prodromo di “rivoluzione” basterebbe un cambiamento di congiuntura, un po’ più di Pil.Qualcuno mi ha detto che se non cambierà qualcosa, l’Italia diventerà come la Grecia. Ossia, voleva dire, ci ribelleremo come i greci. Lui crede che ci sia una rivoluzione, in Grecia. Esattamente come quelli che credono che quanto è accaduto sia il primo raggio della rivoluzione anticapitalista. Sarebbe anche bello, ma non è così. Non è così perché nessuno aveva in mente un modello alternativo. E nessuna delle persone che ho visto a quei blocchi metteva in dubbio il modello cui si aggrappava. Non ci sarà nessuna rivoluzione. Non ci sarà tra un mese, tra un anno o tra dieci. La scorciatoia non arriverà. Perché una rivoluzione, quella vera, è il frutto di un lungo lavoro di penetrazione di idee differenti lungo l’arco di decenni. Voltaire iniziò a scrivere nel 1716 e morì senza aver visto la Rivoluzione che aveva contribuito a rendere cosciente. Qualcuno mi dirà che il rivoltoso che assaliva la Bastiglia nulla sapeva magari di Voltaire. È probabile, anzi, quasi certo. Ma ciononostante quel rivoluzionario aveva chiaro in mente che non voleva più essere parte del regime che assaliva. Ne voleva uno che fosse diverso, non voleva star meglio in quello che c’era. Perché se è vero che la rivoluzione non è un pranzo di gala, è anche vero che non si improvvisa. Quando si improvvisa è una italica rivolta per il pane: quando cala il prezzo tutti se ne tornano a casa.Ho percorso duecento chilometri in auto negli ultimi due giorni ed ho trovato due blocchi del cosiddetto movimento dei forconi. Qualcuno ci vede il baluginare della rivolta che verrà, io ho visto la ripetizione di una tradizione italiana vecchia di un migliaio d’anni: la rivolta per il pane, l’assalto ai forni. Ho visto gente che ha perso tutti i contenitori politici nei quali era transitata. Ho visto gente smarrita, non l’avanguardia rivoluzionaria. Ma so che alcuni ci hanno ricamato sopra una teoria e la teoria dice che questi 30.000 (ma facciamo anche 50.000 o 100.000) sarebbero l’avanguardia della massa che verrà. La teoria dice che questi protestanti – presto o tardi – diventeranno anticapitalisti perché capiranno che il capitalismo li sta massacrando. E così diventeranno anticapitaliste le masse che se ne stanno a casa oggi non appena la crisi morderà le loro “sicurezze”.
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Spagna, tragica lotteria: premio in palio, uno stipendio
Il lavoro rende liberi, recitava l’insegna irridente alle porte dell’inferno nazista, dove – oltre allo sterminio di massa – si sperimentava anche l’enorme vantaggio economico di milioni di operai ridotti in schiavitù. Oggi, dopo settant’anni, il lavoro come diritto è finito. E’ scomparso il lavoro come percorso di vita e progresso sociale, avverte Gennaro Carotenuto: «Il lavoro nel quale fare emergere le proprie capacità, il proprio impegno, la propria fatica e mettere a frutto le proprie inclinazioni e talenti è definitivamente alle nostre spalle». Adesso, sotto il regime dell’euro-rigore in cui deflagra la grande recessione occidentale, il lavoro stabile è il “sogno di una vita”, da raggiungere magari in età avanzata e per un colpo di fortuna. La notizia che arriva dalla Spagna «è di quelle difficili da digerire». Per il 6 gennaio un’impresa catalana, il gruppo Enrique Tomás, «metterà in palio in una lotteria abbinata a quella tradizionale del Niño, un posto di lavoro a tempo indeterminato».Lo slogan con il quale si pubblicizza l’iniziativa è altrettanto sintomatico, aggiunge Carotenuto nel suo blog. Il lavoro – un lavoro qualsiasi, ovviamente: un semplice posto di lavoro, cioè uno stipendio – ormai è proprio “il sogno di una vita”. «Per l’iniziativa verranno messi in palio 100.000 biglietti a cinque euro l’uno e il vincitore avrà perfino il diritto di cedere il posto di lavoro ad un “consanguineo o affine fino al terzo grado”». Sarà l’impresa Enrique Tomás a stabilire dove impiegare il vincitore, con una retribuzione in linea con gli altri salari del gruppo. Tra i premi minori, anche tre anni di mutuo pagato. Chiosa Carotenuto, docente universitario e saggista: «Chi scrive – e sono fortunato – è nella condizione di potersi prendere il lusso di indignarsi ma non di giudicare chi invece volesse provare». Non giudicare: sarebbe come schernire i poveri in fila per un piatto di minestra.Sempre sul suo blog, Carotenuto spiega chiaramente come la pensa: «Non brindo certo alla decadenza di Berlusconi», a lungo “protetto” dai «burocratini» del Pd. «Non dovevate farcelo entrare, in Parlamento: era ineleggibile, e non vi siete opposti. C’era un enorme conflitto d’interesse, e avete trattato. Ci avete mangiato la crostata insieme e ancora dovete spiegare perché. Gli avete lasciato fare la grande porcata perché conveniva anche a voi autonominarvi invece che farvi eleggere». Intanto, l’Italia crollava. Drammatica la sintesi che Paolo Barnard offre nello studio di Paragone, su La7: nel 2011, la Bce ha ricattato il governo Berlusconi (cioè i cittadini italiani) cessando di colpo di acquistare i nostri titoli di Stato, facendo salire alle stelle il debito pubblico. Volevano imporre Monti e il pacchetto-austerità della Troika. Letta e il Pd? Non pervenuti. Intanto, là fuori, le aziende chiudono e il lavoro sparisce. Se aprissero una lotteria anche in Italia, ci sarebbe la coda.Il lavoro rende liberi, recitava l’insegna irridente alle porte dell’inferno nazista, dove – oltre allo sterminio di massa – si sperimentava anche l’enorme vantaggio economico di milioni di operai ridotti in schiavitù. Oggi, dopo settant’anni, il lavoro come diritto è finito. E’ scomparso il lavoro come percorso di vita e progresso sociale, avverte Gennaro Carotenuto: «Il lavoro nel quale fare emergere le proprie capacità, il proprio impegno, la propria fatica e mettere a frutto le proprie inclinazioni e talenti è definitivamente alle nostre spalle». Adesso, sotto il regime dell’euro-rigore in cui deflagra la grande recessione occidentale, il lavoro stabile è il “sogno di una vita”, da raggiungere magari in età avanzata e per un colpo di fortuna. La notizia che arriva dalla Spagna «è di quelle difficili da digerire». Per il 6 gennaio un’impresa catalana, il gruppo Enrique Tomás, «metterà in palio in una lotteria abbinata a quella tradizionale del Niño, un posto di lavoro a tempo indeterminato».
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Un Comitato di Liberazione Nazionale contro le euro-tasse
Serve un nuovo Comitato di Liberazione Nazionale, per respingere il “fascismo finanziario” dell’Unione Europea e imporre il ritorno della democrazia e della sovranità in Italia. Paolo Barnard lo spiega “verticalizzando” il problema senza giri di parole. I “sociopatici” trattati-capestro su cui si fonda l’Ue? «Esautorano Stati, Costituzioni e Parlamenti, quindi i cittadini sovrani», che non hanno mai votato né per Maastricht né tantomeno per il Fiscal Compact. Su Bruxelles il Parlamento Europeo non ha potere, i popoli europei non possono esprimersi democraticamente né difendersi. Imposizione fiscale, taglio dei deficit, austerità imposte dal regime europeo? «Sono strumenti del fascismo finanziario Ue per l’impoverimento delle masse e conseguente scadimento della democrazia». L’unica soluzione, secondo Barnard, sta nell’abolizione, «per legittima difesa», del reato di evasione fiscale. Inutile aspettarsi misure di salvezza dal governo: non le adotterà mai.«La tragedia dell’economia attuale, quella del tuo reddito, del tuo mutuo e del futuro di tuo figlio – scrive Barnard nel suo blog – è che una generazione di miserabili economisti prezzolati a suon di parcelle dal Potere ha fatto dimenticare a tutti il Dna dell’economia per l’Interesse Pubblico, quella che veramente creò la ricchezza moderna. Così ci hanno guadagnato quattro porci di speculatori, sulla pelle di milioni». Ed è successo. «Immaginate: è come se Maria De Filippi, il Gabibbo, Jovanotti e Mammuccari ci avessero fatto dimenticare che il Dna della lingua italiana sono Dante, Petrarca, Foscolo, Carducci o Pavese e Moravia – infatti è successo anche questo, e la lingua che parliamo è una cosa abominevole». Barnard cita un economista democratico di 70 anni fa, Michal Kalecki: «Basterebbe ricordare che razza di genio illuminato era costui e che cuore aveva per l’interesse della gente». Meglio si capirebbe che «la penicillina della salvezza delle nostre vite economiche è stata annientata, nascosta, con risultati orripilanti sulla vita di tutti noi».Nel 2013, l’Italia si ritrova un governo «illegittimo», sorretto da un uomo come Napolitano, accusato di “cestinare” la Costituzione. «Il potere deve tornare ai cittadini», dice Barnard, attraverso un nuovo Cln come quello sorto nel 1943. Obiettivo, abbattere il “fascismo finanziario” di Bruxelles. Come? Con una sorta di rivolta fiscale. «Azione numero 1: Il reato di evasione fiscale è abolito. Lo decidono gli italiani per legittima difesa. Evaderemo tasse fino al raggiungimento del 9% di deficit, poiché le identità macroeconomiche dimostrano oltre ogni dubbio che il deficit dello Stato è la ricchezza di cittadini e aziende per la salvezza nazionale. O l’alza il governo (unitamente a un taglio delle tasse), o l’alziamo noi con l’evasione. Vita o morte dell’Italia è in gioco». Un appello che Barnard considera patriottico: «Nel nome della patria e della Costituzione italiana, oggi la salvezza del paese passa per l’evasione fiscale delle tasse dell’Economicidio impostoci dal fascismo tecnocratico europeo».Serve un nuovo Comitato di Liberazione Nazionale, per respingere il “fascismo finanziario” dell’Unione Europea e imporre il ritorno della democrazia e della sovranità in Italia. Paolo Barnard lo spiega “verticalizzando” il problema senza giri di parole. I “sociopatici” trattati-capestro su cui si fonda l’Ue? «Esautorano Stati, Costituzioni e Parlamenti, quindi i cittadini sovrani», che non hanno mai votato né per Maastricht né tantomeno per il Fiscal Compact. Su Bruxelles il Parlamento Europeo non ha potere, i popoli europei non possono esprimersi democraticamente né difendersi. Imposizione fiscale, taglio dei deficit, austerità imposte dal regime europeo? «Sono strumenti del fascismo finanziario Ue per l’impoverimento delle masse e conseguente scadimento della democrazia». L’unica soluzione, secondo Barnard, sta nell’abolizione, «per legittima difesa», del reato di evasione fiscale. Inutile aspettarsi misure di salvezza dal governo: non le adotterà mai.
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L’oro di Berlino contro il dollaro? Finiremo nella bufera
Giusto il tempo di chiudere il capitolo “guerra in Siria” sbattendo la porta in faccia all’ambasciatore di Al-Qaeda, il capo dei servizi segreti sauditi Bandar Bin Sultan, ed ecco che la violenza terrorista esplode simultaneamente al confine con l’Iran, a Volgograd in Russia e in piazza Tienanmen a Pechino, cioè a casa dei sostenitori di Assad che hanno appena fermato i missili Nato nel Mediterraneo. L’America di Obama? Infangata dagli imbarazzi del Datagate e decisa a farla pagare cara a Snowden e Assange, il quale – fra le rituali proteste dei governi europei, coinvolti fino al collo nello spionaggio Usa – rivela che «un ministro dell’Ue collabora attivamente con la Cia». Il clamore per lo scandalo planetario, sostiene Antonio De Martini, in realtà nasconde la vera “bomba” in arrivo, e cioè la crisi dell’euro. E se collassa l’Europa, salta in aria l’unico soggetto «in grado di competere con gli Usa a livello mondiale», e di mettere in crisi l’arma principale del dominio americano: il dollaro.Nel clamore generale, scrive De Martini sul “Corriere della Collera”, l’unica cosa che i leader europei hanno certamente capito è «che persino le loro telefonate più private – anche quelle sentimentali delle signore – sono state registrate». Quindi, un “leak” potrebbe «tradire i loro più riposti rapporti con il governo americano». Faranno meglio a tenerlo a mente, aggiunge De Martini, il giorno – ormai non lontano – in cui collasserà l’insostenibile Eurozona. «L’attuale quotazione dell’euro non è così forte da provocare una grave crisi diplomatica con gli Usa, ma è abbastanza forte da provocare un restringimento della base occupazionale e delle esportazioni dei paesi europei». Attenzione: questa crisi farà traboccare il vaso, perché «si aggiunge alla crisi della bolla Internet, a quella dei subprime, a quella immobiliare, a quella bancaria, a quella produttiva e a quella occupazionale». Il detestato euro, la moneta che doveva unire il continente, rischia di spezzarlo, lasciando l’Europa totalmente indifesa di fronte al declinante dominio dell’impero americano.Ormai, un euro vale quasi un dollaro e mezzo. E’ considerato troppo forte dagli acquirenti mondiali di beni industriali, cosa che penalizza le esportazioni europee (non certo quelle statunitensi). «In pratica è come se le imprese americane vendessero col 40% di sconto rispetto a noi». L’inflazione, in Eurozona? «Praticamente inesistente: il tasso d’interesse della Bce è ormai dello 0%», quindi la banca centrale «non è in grado di stimolare l’economia». Contraccolpi: i bond italiani franano, la Francia continua a perdere 50.000 posti di lavoro al mese. Il solo ossigeno possibile, dice De Marini, è il “quantitative easing”, che il governo Letta rifiuta, preferendo la ricetta tedesca: più tasse e meno spesa pubblica. «La Germania, forte di un surplus commerciale quasi triplo in termini reali e assoluti rispetto alla stessa Cina, vuole tornare al Gold Standard», anche se questa scelta antinflazionistica penalizza i paesi come l’Italia, che dispone sì della quarta riserva aurea mondiale, ma ha i conti pubblici devastati.Secondo De Martini, la scelta tedesca di puntare sull’oro «comporta il crollo americano», profilando scenari da guerra mondiale. Gli Usa, ricorda l’analista, abbandonarono il vincolo aureo per la quotazione del dollaro nel 1971: stampare tanto denaro quanto necessario al rilancio dell’economia significa considerare che «la vera ricchezza su cui misurare un paese è il suo apparato produttivo e la sua capacità di penetrazione commerciale nel mondo». Oggi, gli Usa stampano 85 miliardi di dollari al mese. «Questo potrebbe creare un problema di credibilità nell’ipotesi di una richiesta di rientro dal debito, ma nessuno si sogna di chiedere il rientro a un debitore manesco che domina i mari del globo con diciannove portaerei». Durante la recente crisi per l’approvazione del bilancio americano, in cui aleggiava lo spettro del default, i tassi d’interesse del debito Usa non si sono mossi di un millimetro: «Chi spera nel default del dollaro si disilluda», avverte De Martini. «La legge per i forti non è la stessa nostra. Il ferro pesa più dell’oro».Insieme agli Usa, a non temere più il rischio-inflazione per decenni agitato dai neoliberisti sono oggi Gran Bretagna e Giappone. «Alla lunga, dicono gli economisti ortodossi, il default è inevitabile». Alla lunga, appunto: mentre il respiro corto dell’Europa “tedesca”, quell’euro tenuto al guinzaglio dalla Bce, segna già oggi la fine economica di tutto ciò che non è Germania. I riflessi geopolitici dello scontro che si profila sono di vastissima portata, scrive De Martini: al confronto planetario tra Usa, Cina e Russia si aggiunge ora la collisione economica e ideologica fra «la triade del quantitative easing», cioè Usa, Regno Unito e Giappone, e la Germania, «attorniata dai vari paesi della Ue, alcuni dei quali stanno dando segnali di esaurimento economico e politico». La Russia «non sfida apertamente il dominio del dollaro», mentre i cinesi cercano di affermare la loro valuta sugli scambi internazionali, per ora solo bilaterali, con India, Indonesia e Giappone. E mentre un paese come l’Italia è alla canna del gas, la Merkel continua a barare: dopo averci tenuto col fiato sospeso in attesa del traguardo elettorale tedesco «facendoci soffrire in attesa di un momento di sollievo», ora attende le elezioni europee «per distinguere gli alleati buoni dai cattivi e i fedeli dagli infedeli». Ma ormai «sono in molti a ritenere che stia tirando troppo la corda».Giusto il tempo di chiudere il capitolo “guerra in Siria” sbattendo la porta in faccia all’ambasciatore di Al-Qaeda, il capo dei servizi segreti sauditi Bandar Bin Sultan, ed ecco che la violenza terrorista esplode simultaneamente al confine con l’Iran, a Volgograd in Russia e in piazza Tienanmen a Pechino, cioè a casa dei sostenitori di Assad che hanno appena fermato i missili Nato nel Mediterraneo. L’America di Obama? Infangata dagli imbarazzi del Datagate e decisa a farla pagare cara a Snowden e Assange, il quale – fra le rituali proteste dei governi europei, coinvolti fino al collo nello spionaggio Usa – rivela che «un ministro dell’Ue collabora attivamente con la Cia». Il clamore per lo scandalo planetario, sostiene Antonio De Martini, in realtà nasconde la vera “bomba” in arrivo, e cioè la crisi dell’euro. E se collassa l’Europa, salta in aria l’unico soggetto «in grado di competere con gli Usa a livello mondiale», e di mettere in crisi l’arma principale del dominio americano: il dollaro.
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Susan George: poteri occulti, la Terra è sotto scacco
Se avete a cuore il vostro cibo, la vostra salute e la stessa sicurezza finanziaria, la vostra e quella della vostra famiglia, così come le tasse che pagate, lo stato del pianeta e della stessa democrazia, ci sono pessime notizie: un gruppo di golpisti ha preso il potere e ormai domina il pianeta. Legalmente: perché le nuove leggi che imbrigliano i popoli, i governi e gli Stati se le sono fatte loro, per servire i loro smisurati interessi, piegando le democrazie con l’aiuto di “maggiordomi” travestiti da politici. La grande novità si chiama: “ascesa di autorità illegittima”. Parola di Susan George, notissima sociologa franco-statunitense, già impegnata nel movimento no-global e al vertice di associazioni mondiali come Greenpeace. I governi legali, quelli regolarmente eletti, ormai vengono di fatto «gradualmente soppiantati da un nuovo governo-ombra, in cui enormi imprese transnazionali (Tnc) sono onnipresenti e stanno prendendo decisioni che riguardano tutta la nostra vita quotidiana». L’Europa è già completamente nelle loro mani, tramite i tecnocrati di Bruxelles, i subdoli “inventori” dell’aberrante euro. Ma anche nel resto del mondo la libertà ha le ore contate.I nuovi oligarchi, spiega la George nell’intervento pronunciato al Festival Internazionale di Ferrara, ottobre 2013, possono agire attraverso le lobby o oscuri “comitati di esperti”, attraverso organismi ad hoc che ottengono riconoscimenti ufficiali. Talvolta operano «attraverso accordi negoziati in segreto e preparati con cura da “executive” delle imprese al più alto livello». Sono fortissimi, arrivano ovunque: «Lavorano a livello nazionale, europeo e sovranazionale, ma anche all’interno delle stesse Nazioni Unite, da una dozzina di anni nuovo campo di azione per le attività delle “corporate”». Attenzione, averte la George: «Non si tratta di una sorta di teoria paranoica della cospirazione: i segni sono tutti intorno a noi, ma per il cittadino medio sono difficili da riconoscere». Questo, in fondo, è il “loro” capolavoro: «Noi continuiamo a credere, almeno in Europa, di vivere in un sistema democratico». Non è così, naturalmente. Le sole lobby ordinarie, rimaste «ai margini dei governi per un paio di secoli», ormai «hanno migliorato le loro tecniche, sono pagate più che mai e ottengono risultati».Negli Stati Uniti, le lobby devono almeno dichiararsi al Congresso, dire quanto sono pagate e da chi. A Bruxelles, invece, «c’è solo un registro “volontario”, che è una presa in giro, mentre 10-15.000 lobbysti si interfacciano ogni giorno con la Commissione Europea e con gli europarlamentari». Che fanno? «Difendono il cibo-spazzatura, le coltivazioni geneticamente modificate, prodotti nocivi come il tabacco, sostanze chimiche pericolose o farmaci rischiosi». In più, «difendono i maggiori responsabili delle emissioni di gas a effetto serra», oltre naturalmente ai loro clienti più potenti: le grandi banche. Meno conosciuti delle lobby tradizionali, cioè quelle favorevoli a singole multinazionali, sono in forte crescita specie nel comparto industriale le lobby-fantasma, solitamente definite “istituti”, “fondazioni” o “consigli”, spesso con sede a Washington. Sono pericolose e subdole: pagano esperti per influenzare l’opinione pubblica, fino a negare l’evidenza scientifica, per convincere i consumatori del valore dei loro prodotti-spazzatura.A Bruxelles il loro dominio è totale: decine di “comitati di esperti” preparano regolamenti dettagliati in ogni possibile settore. «Dalla metà degli anni ’90 – accusa Susan George – le più grandi compagnie americane dei settori bancario, pensionistico, assicurativo e di revisione contabile hanno unito le forze e, impiegando tremila persone, hanno speso 5 miliardi dollari per sbarazzarsi di tutte le leggi del New Deal, approvate sotto l’amministrazione Roosevelt negli anni ’30», tutte leggi «che avevano protetto l’economia americana per sessant’anni». Un contagio: «Attraverso questa azione collettiva di lobbying, hanno guadagnato totale libertà per trasferire attività in perdita dai loro bilanci, verso istituti-ombra, non controllati». Queste compagnie hanno potuto immettere sul mercato e scambiare centinaia di miliardi di dollari di titoli tossici “derivati”, come i pacchetti di mutui subprime, senza alcuna regolamentazione. «Poco è stato fatto dopo la caduta di Lehman Brothers per regolamentare nuovamente la finanza. E nel frattempo, il commercio dei derivati ha raggiunto la cifra di 2 trilioni e 300 miliardi di dollari al giorno, un terzo in più di sei anni fa».Quello illustrato da Susan George, nell’intervento tenuto a Ferrara e ripreso da “Come Don Chisciotte”, è un viaggio nell’occulto. «Ci sono organismi come l’International Accounting Standards Board, sicuramente sconosciuto al 99% della popolazione europea». E’ una struttura di importanza decisiva, di cui non parla mai nessuno. Nacque con l’allargamento a Est dell’Unione Europea, per affrontare «l’incubo di 27 diversi mercati azionari, con diversi insiemi di regole e norme contabili». Ed ecco, prontamente, l’arrivo dei soliti super-consulenti, provenienti dalle quattro maggiori società mondiali di revisione contabile. In pochi anni, il gruppo «è stato silenziosamente trasformato in un organismo ufficiale, lo Iasb». E’ ancora formato dagli esperti delle quattro grandi società, ma adesso sta elaborando regolamenti per 66 paesi membri, tra cui l’intera Europa. Attenzione: «Lo Iasb è diventato “ufficiale” grazie agli sforzi di un commissario Ue, il neoliberista irlandese Charlie MacCreevy». Commissario dell’Ue, cioè: “ministro” europeo, non-eletto da nessuno. E per di più, egli stesso esperto contabile. Naturalmente, ha potuto agire sotto la protezione di Bruxelles, cioè «senza alcun controllo parlamentare». L’alibi? Il solito: la Iasb è stato presentato come un’agenzia «puramente tecnica». La sua vera missione? Organizzare, legalmente, l’evasione fiscale dei miliardari.«Fino a quando non potremo chiedere alle imprese di adottare bilanci dettagliati paese per paese, queste continueranno a pagare – abbastanza legalmente – pochissime tasse nella maggior parte dei paesi in cui hanno attività». Le aziende, aggiunge la sociologa, possono collocare i loro profitti in paesi con bassa o nessuna tassazione, e le loro perdite in quelli ad alta fiscalità. Per tassare in maniera efficace, le autorità fiscali hanno bisogno di sapere quali vendite, profitti e imposte sono effettivamente di competenza di ciascuna giurisdizione. «Oggi questo non è possibile, perché le regole sono fatte su misura per evitare la trasparenza». E quindi: «Le piccole imprese nazionali o famigliari, con un indirizzo nazionale fisso, continueranno a sopportare la maggior parte del carico fiscale». Susan George ha contattato direttamente lo Iasb per chiedere se una rendicontazione dettagliata, paese per paese, fosse nella loro agenda. Risposta: no, ovviamente. «Non c’è di che stupirsi. Le quattro grandi agenzie i cui amici e colleghi fanno le regole, perderebbero milioni di fatturato, se non potessero più consigliare i loro clienti sul modo migliore per evitare la tassazione».L’altro colossale iceberg che ci sta venendo addosso, dal luglio 2013, si chiama Ttip, cioè Transatlantic Trade and Investment Partnership. In italiano: protocollo euro-atlantico su commercio e investimenti. «Questi accordi definiranno le norme che regolamenteranno la metà del Pil mondiale – gli Stati Uniti e l’Europa». Notizia: le nuove regole di cooperazione euro-atlantica «sono in preparazione dal 1995», da quando cioè «le più grandi multinazionali da entrambi i lati dell’oceano si sono riunite nel Trans-Atlantic Business Dialogue», la maggiore lobby dell’Occidente, impegnata a «lavorare su tutti gli aspetti delle pratiche regolamentari, settore per settore». Il commercio transatlantico ammonta a circa 1.500 miliardi di dollari all’anno. Dov’è il trucco? In apparenza, si negozierà sulle tariffe: ma è un aspetto irrilevante, perché pesano appena il 3%. Il vero obiettivo: «Privatizzare il maggior numero possibile di servizi pubblici ed eliminare le barriere non tariffarie, come per esempio i regolamenti e ciò che le multinazionali chiamano “ostacoli commerciali”». Al centro di tutti i trattati commerciali e di investimento, c’è «la clausola che consente alle aziende di citare in giudizio i governi sovrani, se la società ritiene che un provvedimento del governo danneggi il suo presente, o anche i suoi profitti “attesi”». Governi sotto ricatto: comandano loro, i Masters of Universe.Il Trans-Atlantic Business Dialogue, la super-lobby che ha incubato il trattato euro-atlantico, ora ha cambiato nome: si chiama Consiglio Economico Transatlantico. E non si nasconde neppure più. Ammette qual è la sua missione: abbattere le regole e piegare il potere pubblico, a beneficio delle multinazionali. Si definisce apertamente «un organo politico», e il suo direttore afferma con orgoglio che è la prima volta che «il settore privato ha ottenuto un ruolo ufficiale nella determinazione della politica pubblica Ue-Usa». Questo trattato, se approvato secondo le intenzioni delle Tnc, includerà modifiche decisive sui regolamenti che proteggono i consumatori in ogni settore: sicurezza alimentare, prodotti farmaceutici e chimici. Altro obiettivo, la “stabilità finanziaria”. Tradotto: la libertà per gli investitori di trasferire i loro capitali senza preavviso. «I governi – aggiunge la George – non potranno più privilegiare operatori nazionali in rapporto a quelli stranieri per i contratti di appalto», e il processo negoziale «si terrà a porte chiuse, senza il controllo dei cittadini».E come se non bastasse l’infiltrazione nel potere esecutivo, in quello legislativo e persino nel potere giudiziario, le multinazionali ora puntano direttamente anche alle Nazioni Unite. Già nel 2012, alla conferenza Rio + 20 sull’ambiente, i super-padroni formavano la più grande delegazione, capace di allestire un evento spettacolare come il “Business Day”. «Siamo la più grande delegazione d’affari che mai abbia partecipato a una conferenza delle Nazioni Unite», disse il rappresentante permanente della Camera di Commercio Internazionale presso l’Onu. Parole chiarissime: «Le imprese hanno bisogno di prendere la guida e noi lo stiamo facendo». Oggi, conclude Susan George, le multinazionali arrivano a chiedere un ruolo formale nei negoziati mondiali sul clima. «Non sono solo le dimensioni, gli enormi profitti e i patrimoni che rendono le Tnc pericolose per le democrazie. È anche la loro concentrazione, la loro capacità di influenzare (spesso dall’interno) i governi e la loro abilità a operare come una vera e propria classe sociale che difende i propri interessi economici, anche contro il bene comune». E’ un super-clan, coi suoi tentacoli e i suoi boss: «Condividono linguaggi, ideologie e obiettivi che riguardano ciascuno di noi». Meglio che i cittadini lo sappiano. E i politici che dovrebbero tutelarli? Non pervenuti, ovviamente.Se avete a cuore il vostro cibo, la vostra salute e la stessa sicurezza finanziaria, la vostra e quella della vostra famiglia, così come le tasse che pagate, lo stato del pianeta e della stessa democrazia, ci sono pessime notizie: un gruppo di golpisti ha preso il potere e ormai domina il pianeta. Legalmente: perché le nuove leggi che imbrigliano i popoli, i governi e gli Stati se le sono fatte loro, per servire i loro smisurati interessi, piegando le democrazie con l’aiuto di “maggiordomi” travestiti da politici. La grande novità si chiama: “ascesa di autorità illegittima”. Parola di Susan George, notissima sociologa franco-statunitense, già impegnata nel movimento no-global e al vertice di associazioni mondiali come Greenpeace. I governi legali, quelli regolarmente eletti, ormai vengono di fatto «gradualmente soppiantati da un nuovo governo-ombra, in cui enormi imprese transnazionali (Tnc) sono onnipresenti e stanno prendendo decisioni che riguardano tutta la nostra vita quotidiana». L’Europa è già completamente nelle loro mani, tramite i tecnocrati di Bruxelles, i subdoli “inventori” dell’aberrante euro. Ma anche nel resto del mondo la libertà ha le ore contate.
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Scalea: soldi facili, così la finanza ha rovinato l’economia
Il problema è che la finanza, da strumento dell’economia, ne è divenuta il cuore. La banca, a sua volta, da strumento dell’impresa ne è diventata proprietaria. E la Borsa non è più lo strumento degli investitori, ma il tempio degli speculatori. Così la speculazione ha superato l’investimento, e la rendita i profitti: questo, riassume Daniele Scalea, è il problema a monte che rende qualsiasi ripresa fragile, e il sistema economico globale squilibrato e instabile. Difficile, per il sistema politico mondiale, porre un freno al disastro. Ci ha provato la Russia al G-20 di San Pietroburgo, fissando come priorità «lo sviluppo di una serie di misure volte a promuovere una crescita sostenibile, inclusiva ed equilibrata, e la creazione di posti di lavoro nel mondo». Secondo Putin, il benessere va ottenuto tramite investimenti in posti di lavoro di qualità, condizioni di trasparenza e fiducia, nonché un’efficace regolamentazione: cioè una retromarcia completa rispetto allo spettacolo messo in scena dall’Occidente negli ultimi trent’anni.«La deregulation, parola d’ordine lanciata negli anni ‘70, ha rappresentato un mantra del neoliberalismo, almeno finché non è divenuto evidente il ruolo da essa avuto nel provocare la crisi finanziaria del 2008», scrive su “Huffington Post” lo stesso Scalea, condirettore della rivista “Geopolitica” e direttore dell’Isag di Roma, istituto di alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie. «L’episodio più importante fu rappresentato, negli Usa, dal Gramm-Leach-Bliley Act, proposto dai tre parlamentari repubblicani eponimi ma approvato nel 1999 con un’ampia maggioranza bipartisan». Fine delle regole: «La legge era nata per rispondere all’esigenza creatasi con la nascita di Citigroup, l’anno precedente, e abolì una parte del Glass-Steagall Act del 1933», la famosa legge varata dopo la Grande Depressione del ’29, che aveva separato le banche d’investimento dalle banche commerciali, impedendo alle prime – impegnate nelle speculazioni più rischiose – di raccogliere depositi dai risparmiatori.Dal fatidico ’99, dunque, anche i risparmi delle famiglie sono finiti nelle speculazioni a più alto rischio, in particolare quelle legate alle cartolarizzazioni, fattesi sempre più sofisticate dagli anni ‘80 in poi. «La cartolarizzazione – spiega Scalea – altro non è che la cessione di crediti o attività di una società tramite l’emissione di titoli obbligazionari». Nei primi anni ‘90 divennero popolari i famigerati derivati: titoli il cui prezzo è legato al valore di mercato di uno o più beni, e la cui ratio è la copertura da un rischio finanziario connesso a quei beni stessi. Proprio i derivati «sono divenuti lo strumento prediletto della speculazione, in particolare tramite le vendite allo scoperto», cioè l’impegno a vendere, in una certa data, un determinato bene che ancora non si possiede nel momento in cui si sigla il contratto. Tuttavia, aggiunge Scalea, la deregolamentazione e i “fantasiosi” nuovi strumenti finanziari (creati non da economisti, ma da matematici) rappresentano «solo il corso finale d’una più grande problematica che scorre a monte: quella della finanziarizzazione dell’economia».Quando la finanza prende il sopravvento, sottolinea il condirettore di “Geopolitica”, l’economia reale finisce sempre per risentirne. Accadde così anche nel ’29: «Nel primo dopoguerra, l’economia mondiale era ripartita grazie a uno schema triangolare tra Usa, Germania e altri paesi dell’Europa Occidentale. Washington garantiva alla Germania gl’investimenti per ricostruirne l’economia (non a caso, la tensione postbellica tra Parigi e Berlino fu risolta dal Piano Dawes, che deve il suo nome non a un abile diplomatico bensì a un ricco banchiere); la Germania poteva così pagare le riparazioni di guerra ai paesi europei vincitori del conflitto, e quest’ultimi acquistavano grosse quantità di beni di consumo dagli Usa». La macchina, continua Scalea, s’inceppò proprio quando i profitti a Wall Street divennero così elevati che risparmiatori, imprenditori e banchieri americani cominciarono a trovare più profittevole speculare tutto in Borsa, piuttosto che investire qualcosa nell’economia reale europea. «Quest’ultima rallentò, facendo calare bruscamente gli ordinativi di beni dagli Usa, con conseguente crisi di sovrapproduzione e successivo crollo della Borsa».Analogamente, anche la crisi del 2008 trova la sua genesi nella supremazia della finanza sull’economia reale. Dopo la “stagflazione” degli anni ‘70, ricorda Scalea, la ripresa della crescita economica ha visto quest’ultima concentrarsi sempre più nel segmento finanziario, con parallelo esplodere però anche dei debiti pubblici e il fabbisogno statale crescentemente affidato ai mercati per la sua copertura. Crescita che è stata alimentata da una serie di bolle: prima quella dell’information technology (2000-2001), poi quella dei mutui immobiliari Usa (2007). «L’esigenza di immettere sul mercato titoli da negoziare ha spinto a trascurare la solidità dei sottostanti (vedi mutui subprime): il derivato finanziario è divenuto la ragion d’essere, l’economia reale un semplice strumento». Idem la Borsa: era «il luogo ideale in cui far incontrare i risparmiatori desiderosi d’investire i loro capitali e gl’imprenditori capaci di farli fruttare», quindi in un orizzonte fatto di economia reale, e invece è divenuta una realtà a sé stante: «Le azioni non si comprano più per partecipare dell’impresa e dei suoi utili, ma per speculare sulle variazioni del prezzo di mercato dei titoli stessi».La Borsa, scrive Scalea, ha preso a pullulare di strumenti finanziari, come i derivati, solo debolmente connessi alla realtà economica: «Gli azionisti non guardano più al bene a lungo termine dell’azienda, ma alla possibilità a breve termine di realizzare plusvalenze uscendo dall’azionariato». Complici di questo gioco, i manager: «Per compiacere gli azionisti, hanno indugiato nella pratica di distribuire generosi dividendi anche quando i conti della società non erano positivi, col semplice fine di rendere le azioni più appetibili e dunque farne crescere il valore di mercato a breve, anche se questo minava la solidità aziendale sul lungo periodo». Fenomeno aggravato dall’abitudine di concedere ai manager bonus in azioni della società. Pratiche state denunciate anche dai media all’indomani del crollo borsistico del 2008, eppure continuano ad essere messe in atto. Se fino a ieri la finanza era un mezzo per supportare l’economia, ora è l’unico vero fine a cui mira chi dovrebbe occuparsi del benessere generale, a cominciare dai posti di lavoro.Il problema è che la finanza, da strumento dell’economia, ne è divenuta il cuore. La banca, a sua volta, da strumento dell’impresa ne è diventata proprietaria. E la Borsa non è più lo strumento degli investitori, ma il tempio degli speculatori. Così la speculazione ha superato l’investimento, e la rendita i profitti: questo, riassume Daniele Scalea, è il problema a monte che rende qualsiasi ripresa fragile, e il sistema economico globale squilibrato e instabile. Difficile, per il sistema politico mondiale, porre un freno al disastro. Ci ha provato la Russia al G-20 di San Pietroburgo, fissando come priorità «lo sviluppo di una serie di misure volte a promuovere una crescita sostenibile, inclusiva ed equilibrata, e la creazione di posti di lavoro nel mondo». Secondo Putin, il benessere va ottenuto tramite investimenti in posti di lavoro di qualità, condizioni di trasparenza e fiducia, nonché un’efficace regolamentazione: cioè una retromarcia completa rispetto allo spettacolo messo in scena dall’Occidente negli ultimi trent’anni.
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Noi, fatti a pezzi dal rigore: ne avremo per decenni
Ovunque si parla di ripresa economica dell’Europa e di uscita dalla crisi. Pura propaganda. In realtà il paziente è sempre in coma. Basta dare un’occhiata ai parametri chiave: lavoro, cresdito, Pil, finanza pubblica. La disoccupazione – vera piaga sociale – è ancora a livello “mostruoso” in diversi paesi decisivi – Italia, Spagna, Francia – per non parlare ovviamente della Grecia. La disoccupazione nella zona euro – osserva Paolo Barnard – rimane ai suoi massimi storici dalla creazione della moneta unica: «Si consideri che la disoccupazione è il peggior male economico esistente, proprio in termini di miliardi di euro andati in fumo ogni giorno, e nulla l’ha ancora minimamente scalfita». Attenzione: «Quando si è talmente sciagurati da permettere alla disoccupazione giovanile di arrivare a uno sconvolgente 40%, il danno arrecato sarà per generazioni, non una cosa da qualche mese. Sarà un danno sistemico, incancellabile per decenni».
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Foa: chi è nell’euro perde lavoro. Volete la prova? Eccola
La fonte è a prova di smentita: trattasi dell’Organizzazione internazionale del Lavoro. Il dato inequivocabile, poiché statistico. Secondo le cifre diffuse alcuni giorni fa e di cui ben pochi hanno parlato in Europa, i 19 paesi dove l’occupazione è tornata sopra i livelli prima della crisi dei mutui subprime del 2008 sono Argentina, Turchia, Ungheria, Repubblica Dominicana, Malta, Romania, Armenia, Brasile, Cile, Lussemburgo, Germania, Colombia, Israele, Uruguay, Perù, Russia, Svizzera, Kazakistan, Thailandia. I paesi che l’Organizzazione internazionale del lavoro considera in continuo declino sono Giordania, Croazia, Grecia, Spagna, Italia, Marocco, Sri Lanka, Belgio, Portogallo, Slovacchia, Francia, Irlanda, Slovenia, Giamaica, Finlandia, Cipro, Giappone, Danimarca, Olanda, Australia, Nuova Zelanda, Norvegia.
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Jp Morgan: la Costituzione antifascista frena l’economia
Che un gigante della finanza globale produca un documento in cui chiede ai governi riforme strutturali improntate all’austerity non fa più notizia. Ma Jp Morgan, storica società finanziaria (con banca inclusa) statunitense, si è spinta più in là. E ha scritto nero su bianco quella che sembra essere la ricetta del grande capitale finanziario per gli Stati dell’Eurozona. Il suo consiglio ai governi nazionali d’Europa per sopravvivere alla crisi del debito è: liberatevi al più presto delle vostre Costituzioni antifasciste. In questo documento di 16 pagine datato 28 maggio 2013, dopo che nell’introduzione si fa già riferimento alla necessità di intervenire politicamente a livello locale, a pagina 12 e 13 si arriva alle Costituzioni dei paesi europei, con particolare riferimento alla loro origine e ai contenuti: «Quando la crisi è iniziata era diffusa l’idea che questi limiti intrinseci avessero natura prettamente economica (.) Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica».
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Vasapollo: fingeranno di allentare la morsa, temono rivolte
Questo governo apparentemente dovrà far vedere che propone la realizzazione anche di politiche sociali perché la gente non ce la fa più, ormai non c’è speranza di futuro per i giovani; non si parla di precarietà del lavoro, è precarietà della vita. Per non parlare di come vivono gli immigrati nel nostro paese, in condizioni disagiate, di miseria e repressione. Ormai disoccupazione e precarietà sono questioni che toccano drammaticamente persone adulte e non solo i giovani. Si parla di suicidi e di atti di follia, ma la gente non diventa improvvisamente pazza; ci si ritrova a 50 anni con due o tre figli senza sapere cosa dargli da mangiare, come pagare l’affitto o il mutuo della casa, una vita da buttare senza un futuro, perché riproporsi sul mondo del lavoro dopo un licenziamento a quell’età è di una difficoltà incredibile.
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Sordi: sarà atroce tornare poveri, dopo esser stati ricchi
Sembra che fàmo a gara a chi magna de più, ci bombardano di pubblicità televisiva, che io la vieterei, e tutti a consuma’. Vedi ’ste trattorie, piene di culoni che màgnano? Ma che te magni? Io magno un supplì e me basta. No, dice, siccome tu sei ricco di supplì ne magni dieci. Ah, sì? Allora guarda, io so’ ricco davero, ma non è che quando entro in trattoria, siccome c’ho i soldi, magno tutto quello che c’è. Vedi ‘sto goccetto de vino? Mi basta per essere felice. E invece no, dice, siccome sei ricco te bevi tutta ’a botte. Anzi no, te compri la vigna. Importiamo un sacco di carne anche se sappiamo che ci fa male. Prima la mangiavamo la domenica, ce se faceva il sugo. Adesso il pupo non mangia lo spezzatino, vuole il filetto, e importiamo il filetto. E tutti a spendere. Ma state attenti, non c’è niente di peggio che diventare poveri dopo essere stati ricchi.
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Krugman: fine della farsa, solo il deficit ci salva dall’incubo
Sarebbe davvero tanto facile mettere fine alla piaga della disoccupazione? Ebbene sì. Basta aumentare la spesa pubblica a deficit per creare subito posti di lavoro. Problema: «Chi ha il potere in mano non ci vuole credere». Qualcuno di quei potenti, scandisce il Premio Nobel americano per l’economia, Paul Krugman, «ha una sensazione viscerale che la sofferenza sia un bene». Lo dicevano anche alcuni “padri” dell’Eurozona, come l’ex ministro prodiano Tommaso Padoa Schioppa, che auspicava «riforme che vi facciano soffrire». La mania delle élites? Far pagare (a noi) un prezzo per i “peccati” del passato, «anche se i peccatori di allora e chi soffre oggi sono dei gruppi sociali di persone completamente diverse». Qualcuno di quei potenti, accusa Krugman, vede nella crisi una magnifica opportunità per smantellare tutta la rete di sicurezza sociale. «E quasi tutti, nelle élites politiche, prendono le parti di una minoranza benestante che in realtà non sta sentendo molto dolore».