Archivio del Tag ‘Muhammar Gheddafi’
-
Divide et impera, fabbricare nemici per imporre il caos
Divide et impera, è la legge imperiale del caos che domina il mondo dopo gli attentati-fantasma dell’11 Settembre, che hanno terremotato la geopolitica planetaria rilanciando la presenza militare di Washington in ogni continente, attraverso la “guerra infinita” cominciata in Afghanistan e proseguita in Iraq, Libia e Siria, passando per il Nordafrica delle “primavere arabe” e l’Ucraina del sanguinoso golpe di Kiev. Si intitola “Divide et impera” l’ultimo saggio di Paolo Sensini, che mette a fuoco “strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente”. Grande protagonista la superpotenza americana, alle prese con la grande crisi economica, e il suo alleato israeliano. Sul fronte opposto l’ascesa globale dei Brics, guidati dalla Cina e dal potenziale difensivo della Russia. L’analisi, osserva Giacomo Guarini, si concentra sull’evolvere degli scenari programmati dall’élite statunitense per tentare di mantenere la propria egemonia mondiale. Un copione ricorrente: il terrorismo per fabbricare nemici, l’intervento armato per presidiare territori strategici. Nessun continente è escluso dal grande gioco, a cominciare dall’Africa.Il saggio di Sensini, scrive Guarini su “Megachip”, si conclude proprio con l’analisi della situazione in Mali, a due passi dalla Nigeria minacciata dai jihadisti di Boko Haram. Due scenari, dice l’autore, che concorrono a disegnare l’attuale frontiera della “strategia del caos” nel continente africano. I gruppi come Boko Haram, «ovviamente ben supportati dai loro confratelli e dalla rete di poteri che si è mobilitata a partire dalle cosiddette “primavere arabe”», secondo Sensini sviluppano «un’offensiva ad ampio raggio delle milizie islamiste, con il solito tributo di sangue e atrocità», provocando esodi di massa. Scenari che ricordano da vicino quello dell’attuale Libia: «Purtroppo non era difficile prevedere ciò che sarebbe accaduto scoperchiando il “vaso di Pandora” libico, ossia sbarazzarsi militarmente di Gheddafi e lasciare quindi il paese senza una vera leadership», afferma Sensini. «Del resto, l’obiettivo era esattamente questo: consegnare il paese in preda a bellicose tribù rivali e contrapposte, tese unicamente a rafforzare ed espandere quanto più possibile il loro potere territoriale».Anche l’analista geopolitico più sprovveduto, continua Sensini, poteva agevolmente prevedere ciò che avrebbe significato un intervento occidentale di quel genere, «peraltro del tutto pretestuoso e infondato anche sul piano del diritto internazionale», con il quale Francia, Gran Bretagna, Usa, petromonarchi del Golfo, Turchia e Italia hanno iniziato i bombardamenti sistematici sulla Libia. «Ora è del tutto irreale pensare che un tale groviglio inter-tribale possa essere sbrogliato nel breve-medio periodo. Quindi, gli allarmi lanciati adesso dalla classe politica-burocratica e dal mainstream giornalistico suonano fasulli e grotteschi per due ordini di ragioni: primo, perché se non conoscevano la situazione interna libica e hanno avallato la guerra, avendo oltretutto l’Italia stipulato nell’agosto 2008 un “trattato di amicizia e cooperazione” che vincolava i due paesi, sono degli incompetenti del tutto inidonei a occuparsi degli affari pubblici; secondo, se sapevano e si sono nonostante ciò prestati a questa sporca operazione sono degli irresponsabili in malafade».Oggi, l’agenda del caos travolge soprattutto Iraq e Siria, con l’ultimo spettro islamista utilizzato per spaventare l’opinione pubblica occidentale: il Califfato Islamico. «L’Isis non è quella “strana creatura” saltata fuori dal nulla, come vorrebbe far credere il circo mediatico internazionale – premette Sensini – ma è il frutto di una lunga e laboriosa cooperazione tra diverse entità, durata svariati anni». E’ avvenuta esattamente la stessa cosa «anche con il suo “gemello” attualmente in disarmo, Al-Qaeda», con la quale l’Isis «era in simbiosi fino a poco tempo fa». Per Sensini, «non è infatti credibile che, in uno degli spazi più monitorati e tenuti sott’occhio dagli apparati di sicurezza di mezzo mondo, tale gruppo abbia potuto dilagare a sorpresa e conquistare in pochi giorni una così ampia fetta di territorio tra Siria e Iraq per stabilirvi il cosiddetto “Califfato islamico”». Un’operazione, questa, «che invece ha tutta l’aria di essere una risposta alle esigenze geopolitiche scaturite dalla sconfitta subita dalle milizie fondamentaliste in Siria, la quale poneva l’esigenza di spezzare quanto prima l’asse che, di fatto, lega vicendevolmente il regime siriano all’Iran». Tra i due paesi, infatti, a dispetto dei piani statunitensi e israeliani sull’intera area a partire dal marzo 2003, «è prevalsa in Iraq una realtà politico-sociale organica agli interessi iraniani, che non può che rappresentare un intralcio ai progetti di risistemazione del “Grande Medio Oriente”».Fallisce l’assalto alla Siria e cresce il ruolo dell’Iran, contrario alla guerra? Ecco allora «la repentina insorgenza di un gruppo su cui l’opinione pubblica occidentale non sapeva nulla, ma che è nato e prosperato sotto gli auspici di Arabia Saudita, Qatar, Stati Uniti, Turchia e Israele». Quale credibilità può avere, infatti, l’autoproclamato “califfo”, Abu Bakr al-Baghdadi? Il suo vero nome, spiega Sensini, pare essere Ibrahim al-Badri. E la notizia è che, prima di lanciarsi nell’impresa del fantomatico Emirato Islamico, era stato detenuto – tra il febbraio 2004 ed il 2009 – a Camp Bucca, in Iraq, fino a quando venne rimesso in libertà dalle autorità statunitensi: una commissione speciale, il “Combined Review and Release Board”, ne raccomandò il “rilascio incondizionato”. Tutto molto strano. Al punto che la sua liberazione, aggiunge Sensini, suscitò il preoccupato stupore del colonnello Kenneth King, tra gli ufficiali di comando a Camp Bucca nel periodo di detenzione di “al-Baghdadi”, certamente un soggetto dal profilo poco rassicurante.Questo, dice Sensini, spiegherebbe la riluttanza degli Stati Uniti a utilizzare i droni e la Us Air Force per contrastare l’immediata avanzata in Iraq della milizia sunnita dell’Isis, com’era invece stato richiesto con insistenza dal primo ministro iracheno Nouri al-Maliki, di appartenenza sciita. Per mesi, l’Isis ha avuto letteralmente mano libera nel territorio iracheno, avanzando indisturbato – e armato fino ai denti – sotto l’occhio vigile dei satelliti americani. Infine, dopo l’orrore suscitato dalle decapitazioni di giornalisti occidentali, il “puntuale” voltafaccia e la risoluzione 2170 votata prontamente dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, con gli Stati Uniti alla guida di un’ampia coalizione internazionale di “volenterosi”, decisi a bombardare nuovamente la Siria per “sconfiggere i terroristi dell’Isis”, cioè gli uomini condotti sul terreno dall’ex terrorista “al-Baghdadi”, misteriosamente e precipitosamente rilasciato cinque anni fa.Luce verde all’Isis, dunque, fino a ieri, soprattutto grazie alla «inaspettata resistenza della Siria di Bashar al-Assad». Nelle previsioni iniziali degli Usa, il presidente siriano doveva essere rovesciato e il paese «spezzettato su linee etnico-confessionali». Tutto ciò non è avvenuto, come sappiamo, «anche grazie al veto in sede Onu da parte di Russia e Cina, che hanno scongiurato la guerra contro la Siria». Nel frattempo, con l’ennesimo raid stragistico su Gaza, gli israeliani ne hanno approfittato per proseguire la loro pulizia etnica ai danni dei palestinesi, perfettamente sicuri, come al solito, «della più completa impunità di fronte alla comunità internazionale». E mentre si cade e si muore in tutto il “Grande Medio Oriente”, la geopolitica del caos ha travolto anche l’Est Europa, minacciando da vicino la Russia. «In effetti – rileva Sensini – le similitudini e i punti di contatto che si possono ravvisare tra ciò che sta accadendo in Ucraina e le “primavere arabe” sono molteplici. Non a caso, i rivolgimenti avvenuti nel corso degli anni in diversi paesi dell’Est sono stati definiti “rivoluzioni colorate” per marcarne, appunto, l’eterodirezione e il supporto ricevuto dall’esterno: basti solo pensare alla gestione mediatica delle varie crisi e al ribaltamento della realtà operati in questo come nei contesti mediorientali».In Ucraina, «il sostegno al governo di Kiev burattino degli americani e le sanzioni alla Russia assediata dalla Nato mirano a indebolire sempre più la sua sfera d’influenza». Circostanza non casuale, perché negli ultimi anni Mosca «ha ritrovato una crescente capacità d’intervento e prestigio nel contesto geopolitico internazionale, come ha ben dimostrato la vicenda siriana, dove – se non vi fosse stato il veto russo all’interno del Consiglio di sicurezza Onu – ci saremmo trovati dentro uno scenario bellico dagli esiti imprevedibili». Ulteriore analogia col Medio Oriente, le forze in campo: anche in Ucraina, come nel caso delle “primavere arabe”, le forze occidentali «hanno supportato i “ribelli”, presentati invariabilmente come dei sinceri rivoluzionari, desiderosi d’instaurare dovunque la “democrazia”». Copione già visto, con esiti orrendi e nuovi dittatori, peggiori dei precedenti. Esportare la democrazia? Capiremo molto presto, sulla nostra pelle, «cosa significa il dispiegamento della “strategia del caos”». Tempo al tempo, dice Sensini, e scopriremo di che pasta sono i nuovi mostri fabbricati dagli Stranamore di Washington.(Il libro: Paolo Sensini, “Divide et impera. Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente”, Mimesis Edizioni, 322 pagine con 26 tavole illustrate, 24 euro).Divide et impera, è la legge imperiale del caos che domina il mondo dopo gli attentati-fantasma dell’11 Settembre, che hanno terremotato la geopolitica planetaria rilanciando la presenza militare di Washington in ogni continente, attraverso la “guerra infinita” cominciata in Afghanistan e proseguita in Iraq, Libia e Siria, passando per il Nordafrica delle “primavere arabe” e l’Ucraina del sanguinoso golpe di Kiev. Si intitola “Divide et impera” l’ultimo saggio di Paolo Sensini, che mette a fuoco “strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente”. Grande protagonista la superpotenza americana, alle prese con la grande crisi economica, e il suo alleato israeliano. Sul fronte opposto l’ascesa globale dei Brics, guidati dalla Cina e dal potenziale difensivo della Russia. L’analisi, osserva Giacomo Guarini, si concentra sull’evolvere degli scenari programmati dall’élite statunitense per tentare di mantenere la propria egemonia mondiale. Un copione ricorrente: il terrorismo per fabbricare nemici, l’intervento armato per presidiare territori strategici. Nessun continente è escluso dal grande gioco, a cominciare dall’Africa.
-
Dacci oggi il nostro orrore quotidiano, come da contratto
La decapitazione di ostaggi americani e britannici a opera di un invasato tagliagole, e cioè di un “John il boia” qualunque (probabilmente nato, pasciuto e cresciuto in Inghilterra), sembra aver destato da un lungo letargo il premier britannico David Cameron, che finalmente si è accorto dell’esistenza di un esercito di jihadisti al cui interno militano centinaia di cittadini britannici. Un esercito che oggi si chiama Is (Islamic State), ieri si chiamava Isis (Islamic State of Iraq and Siria), ieri l’altro Isil (Islamic State of Iraq and Levant) e così via a ritroso fino alla denominazione iniziale di Al-Qaeda, frastagliatasi nel corso degli anni in una miriade di gruppi, sottogruppi affini & associati: diverse etichette ma tutte riconducibili alla nebulosa madre. Era quella nebulosa che l’ex ministro degli esteri britannico Robin Cook definiva così: «Per quanto ne so, Al-Qaeda (parola araba che significa “la base”) era il nome del database della Cia che conteneva l’elenco dei guerriglieri arruolati per combattere i russi in Afghanistan».Un provvidenziale infarto, un mese dopo, consegnò a un definitivo silenzio ogni possibile imbarazzante replica di Cook. Nel frattempo le legioni di miliziani irregolari si sono ricombinate in decine di scenari di guerra al servizio di qualcuno. Ora, che David Cameron si mostri inorridito per le decapitazioni è più che comprensibile, ma che si mostri stupito per la mostruosa deriva di un suddito di Sua Maestà è quantomeno bizzarro, visto che questo non è il primo “John il boia” che vediamo in azione. Che sia il caso di rinfrescargli la memoria ricordandogli la decapitazione del giornalista americano Daniel Pearl? Era stato rapito il 23 gennaio 2002 nelle strade di Karachi, il suo corpo rinvenuto smembrato in vari pezzi e la testa mozzata esibita a trofeo dal boia. Pearl era stato attirato a Karachi con l’offerta di un’intervista esclusiva, di uno scoop che in realtà era un’imboscata tesagli da Omar Saeed Sheikh, guarda caso un altro britannico.Nato nel 1973 a Londra da genitori pakistani, nel 1993 aveva abbandonato gli studi in economia per recarsi a combattere in Bosnia. Saeed Sheikh non era solo. Aveva ingrossato le fila di un contingente di jihadisti addestrati in campi pakistani gestiti dal gruppo terroristico “Harkat ul Mujaheddin” (Hum). Venivano poi spediti in Jugoslavia a combattere contro i serbi, come da richiesta dell’amministrazione Clinton e con la complicità dei servizi segreti britannici e americani (lo rivela l’ex deputato e ministro britannico Michael Meacher sul “Guardian” del 10 settembre 2005). Del gruppo facevano parte ben 200 pakistani residenti in Gran Bretagna, fra i quali, appunto, Saeed Sheikh, all’epoca già un astro nascente nella galassia del terrorismo. Anni dopo avrebbe versato 100.000 dollari sul conto di Mohammed Atta, il capo dei dirottatori dell’attentato dell’11 settembre 2001 contro le Torri Gemelle. Un versamento effettuato per conto di Osama bin Laden, penserete. Giusto? No. Era per conto del generale Mahmoud Ahmed, il capo dell’Isi, e cioè quel servizio segreto pakistano che aveva sponsorizzato i campi di addestramento di “Harkat ul Mujaheddin” (Hum), il gruppo jihadista dal quale Saeed Sheikh era stato reclutato in Bosnia. Curioso, no?Il reclutamento di immigrati pakistani con passaporto britannico era gestito a Londra da “Al-Muhajiroun”, organizzazione definita il «braccio di reclutamento di Al-Qaeda» da John Loftus, ex ufficiale dell’intelligence americana, ex procuratore generale e noto esperto in materia di contro-terrorismo. Loftus aveva rivelato che “Al-Muhajiroun” era usato dai servizi segreti britannici per assoldare islamisti da spedire a combattere in Bosnia e Kosovo contro i serbi. A “Fox News” dichiarò: «Che ci crediate o meno, l’intelligence britannica ha arruolato militanti di Al-Qaeda per difendere i diritti dei musulmani in Kosovo». Ci crediamo, ci crediamo… L’organizzazione era diretta da Sheikh Omar Bakri Mohammed, invasato predicatore arrivato nel 1986 nella capitale britannica, da dove ha reclutato e seminato odio quasi per un ventennio. Indisturbato, naturalmente. In “Al-Muhajiroun” operava anche Haroon Rashid Aswat, altro fanatico islamista nato e cresciuto in Inghilterra, legato ad Al-Qaeda e… apparentemente reclutato dall’intelligence britannica. Secondo John Loftus era un doppio agente. In seguito sarebbe assurto alla ribalta delle cronache in quanto ritenuto la mente dell’attentato di Londra del 7 luglio 2005, costato la vita a 52 persone e ufficialmente attribuito a quattro islamisti britannici che ruotavano attorno ad “Al-Muhajiroun”.Londra, chiamata “Londonistan” per il suo contributo alla diffusione dell’islamismo, pullulava di questi personaggi. A Manchester viveva Abu Anas al Liby, luogotenente libico di Osama bin Laden ed esperto informatico di Al-Qaeda che, dopo aver soggiornato in Sudan fino al 1995 col “principe del terrore”, aveva ottenuto asilo polito in Gran Bretagna nonostante le sue credenziali. Ritenuto implicato negli attentati di Kenya e Tanzania del 1998, che avevano lasciato oltre 200 morti sul terreno, nel maggio del 2000 era svanito nel nulla, non prima però di essere stato arrestato e poi sorprendentemente rilasciato. Secondo la polizia di Manchester mancava la “pistola fumante”. Anas al Liby era in forza al “Libyan Islamic Fighting Group” (Lifg), gruppo terroristico salafita il cui obiettivo era rovesciare il regime di Muhammar Gheddafi, in quanto secolare e, pertanto, reo di apostasia. E qui la storia si fa interessante. Secondo Guillaume Dasquié e Charles Brisard (consigliere quest’ultimo dell’ex presidente francese Jacques Chirac), esperti di intelligence e autori del best-seller “La Verité Interdite”, Anas al Liby sarebbe stato assoldato dall’intelligence britannica per assassinare il Colonnello: un’informazione avuta da David Shayler, un ex agente dell’Mi5.Londra smentiva, naturalmente, ma nel 2002 il “Guardian” era in grado di fornire nuovi particolari sulla vicenda, inclusi i nomi di altri due agenti britannici coinvolti nel complotto. Conosciamo tutti la naturale “evoluzione” della così detta “primavera araba” in Libia, sfociata nel trionfo dell’islamismo: esecuzioni di massa, massacri e pulizie etniche di cui le varie “Cnn” e “Bbc” non hanno teletrasmesso gli orrori. E sappiamo che, a missione compiuta, i quadri del Lifg si sono spostati in Siria, dove si sono posti alla guida dell’“Esercito Siriano Libero” (Esl), peraltro inizialmente finanziato e armato dallo stesso Lifg. Viste dunque le premesse, risulta quantomeno sospetto il fatto che i vari Cameron, Obama & associati si accorgano solo ora, quando siamo alla vigilia di nuove avventure militari, della reale mostruosità di un fenomeno che esiste da decenni.Un fenomeno che loro stessi hanno contribuito a creare e lasciato gonfiare, che hanno ignorato, enfatizzato, sponsorizzato e strumentalizzato a fasi alterne per aggredire o destabilizzare: un fenomeno che è sempre stato una tigre da cavalcare. Una tigre che nel corso dei decenni ha cambiato nome e oggi si chiama “Esercito Siriano Libero”, un esercito di “moderati” il cui unico scopo è rovesciare un altro regime secolare, la stessa eterogenea accozzaglia che il presidente Obama avrebbe deciso di appoggiare per fronteggiare la minaccia dell’Isis. Oggi non si sa più nemmeno chi siano, ma si sa che hanno dichiarato un patto di non aggressione proprio con l’Isis. E anche questa è una storia già scritta. Magari firmeranno il loro patto sui cofani dei loro Humvee nuovi di zecca, rigorosamente made in Usa.(Germana Leoni, “David Cameron, Isis e Londonistan”, da “Megachip” del 20 settembre 2014).La decapitazione di ostaggi americani e britannici a opera di un invasato tagliagole, e cioè di un “John il boia” qualunque (probabilmente nato, pasciuto e cresciuto in Inghilterra), sembra aver destato da un lungo letargo il premier britannico David Cameron, che finalmente si è accorto dell’esistenza di un esercito di jihadisti al cui interno militano centinaia di cittadini britannici. Un esercito che oggi si chiama Is (Islamic State), ieri si chiamava Isis (Islamic State of Iraq and Siria), ieri l’altro Isil (Islamic State of Iraq and Levant) e così via a ritroso fino alla denominazione iniziale di Al-Qaeda, frastagliatasi nel corso degli anni in una miriade di gruppi, sottogruppi affini & associati: diverse etichette ma tutte riconducibili alla nebulosa madre. Era quella nebulosa che l’ex ministro degli esteri britannico Robin Cook definiva così: «Per quanto ne so, Al-Qaeda (parola araba che significa “la base”) era il nome del database della Cia che conteneva l’elenco dei guerriglieri arruolati per combattere i russi in Afghanistan».
-
Alberoni: per il futuro non ci serve la Nato, ma la Russia
La Nato è nata nel 1948 e fra i suoi paesi membri oggi abbiamo Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia, Belgio, Germania, Danimarca, Norvegia, Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania; a sud e a est Spagna, Portogallo, Italia, Grecia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Turchia. In sostanza un semicerchio che stringe la Russia a occidente, a nord e a sud. Anche solo guardandone la forma geografica si capisce che è stata creata in funzione anti Urss all’epoca della Guerra fredda, però continua a esistere anche ora che l’Urss non esiste più e i principali pericoli militari non ci vengono dalla Russia ma dall’area islamica, mentre la più pericolosa competizione economica è quella della Cina. La Nato è tenuta in vita dagli Usa e dal Regno Unito che ci fanno litigare con la Russia per impedirci di stabilire con essa una profonda integrazione economica, e invece spingerci ad acquistare petrolio e gas dai paesi del Golfo controllati da loro.Tutti i paesi europei sono danneggiati da questa politica e la Russia viene spinta a integrarsi con la Cina. È venuto il momento di domandarci perché dobbiamo continuare a fare parte di una organizzazione che ci reca solo danno. La Russia per noi non è un nemico, ma un amico, appartiene alla cultura europea, è un partner economico ideale, combatte l’integralismo islamico che invece gli americani hanno favorito con la loro politica in Afghanistan, in Irak e in Siria. È stata la Nato ad abbattere Gheddafi dando la Libia in mano agli islamisti e inondando l’Italia di immigrati. E non dimentichiamo che il presidente Obama voleva bombardare l’esercito di Assad aiutando le forze che hanno poi creato il Califfato.Oggi la Nato dovrebbe essere riorganizzata con nuovi scopi e con nuovi membri. E per prima cosa dovrebbe farne parte la Russia, per costituire un fronte comune contro l’integralismo islamico e la immensa potenza militare che fra poco sprigionerà la Cina. Oggi la Nato, che guarda a nemici del passato, dovrebbe pensare al futuro. Magari facendo anche qualcosa per il presente: per esempio mettere fine alle emigrazioni nel Mediterraneo da essa stessa provocate.(Francesco Alberoni, “La Nato è morta e la Russia non è più un nemico”, da “Il Giornale” del 15 settembre 2014).La Nato è nata nel 1948 e fra i suoi paesi membri oggi abbiamo Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia, Belgio, Germania, Danimarca, Norvegia, Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania; a sud e a est Spagna, Portogallo, Italia, Grecia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Turchia. In sostanza un semicerchio che stringe la Russia a occidente, a nord e a sud. Anche solo guardandone la forma geografica si capisce che è stata creata in funzione anti Urss all’epoca della Guerra fredda, però continua a esistere anche ora che l’Urss non esiste più e i principali pericoli militari non ci vengono dalla Russia ma dall’area islamica, mentre la più pericolosa competizione economica è quella della Cina. La Nato è tenuta in vita dagli Usa e dal Regno Unito che ci fanno litigare con la Russia per impedirci di stabilire con essa una profonda integrazione economica, e invece spingerci ad acquistare petrolio e gas dai paesi del Golfo controllati da loro.
-
Guerra infinita, Foa: non è più possibile credere a Obama
Nel libro “L’arte della guerra”, Sun Tzu «ha spiegato l’arte della dissimulazione e del sotterfugio, ma qui si sta esagerando». Giù la maschera, mister Obama: «Fu la Cia ad armare i mujaheddin e Bin Laden contro i sovietici, poi Bin Laden è diventato il nemico numero uno degli Stati Uniti. E fu Washington a sostenere Saddam contro l’Iran, poi Saddam è diventato il nuovo Hitler». Ricorda Marcello Foa: «Quando i Talebani imponevano un regime orribile in Afghanistan, l’America ignorò a lungo le loro nefandezze mostrando una benevola negligenza al punto di finanziare quel regime addirittura pochi mesi prima dell’11 Settembre, come dimostrato da una fonte insospettabile quale l’Istituto Cato. Ora tocca all’Isis e a nuovi gruppi spuntati dal nulla, vedi il Khorasan, che sembra il nome di un farmaco contro il colesterolo, ma che, come spiega il “Corriere della Sera”, è la nuova sigla del terrore, il nuovo erede di Al-Qaeda». E ora gli Usa fingono di non conoscere i loro ex amici dell’Isis, nati come costola dell’Esercito Siriano Libero per rovesciare Assad, poi divenuti Isil, quindi semplicemente Is, Islamic State, Califfato Islamico. Bersaglio perfetto, per mantenere il Medio Oriente nel mirino.L’Isis, scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”, rappresenta l’ala più estremista dell’Islam integralista sunnita, «un’ala fanatica, pericolosa, impresentabile: gente da tenere alla larga». Dunque, «i bombardamenti avvengono in nome di una causa che pochi non condividono in Occidente, tanto più dopo le immagini delle decapitazioni». Tuttavia, «l’altra sconvolgente verità» è che l’Isis «è stato finanziato da paesi arabi come il Qatar e i sauditi e sostenuto militarmente negli Stati Uniti, fino ad alcuni mesi fa, in nome della lotta alla Siria, ben sapendo che la distinzione tra ribelli “moderati” e quelli dell’Isis anti-Assad è risibile, come emerso nelle analisi più competenti e oneste pubblicate anche dalla grande stampa anglosassone». Si trattasse di un singolo errore, concede Foa, l’indulgenza sarebbe ovvia. Analizzando invece le linee fondamentali della politica estera statunitense, «il bilancio non può che essere molto negativo, e con uno schema che tende a ripetersi».Riflessioni d’obbligo: «La guerra in Afghanistan non è stata risolutiva, quella in Iraq nemmeno: anzi, il paese sta molto peggio rispetto all’era Saddam». Il Maghreb? «Era molto più stabile quando c’erano i Mubarak, i Ben Ali e persino Gheddafi, considerato che la Libia vive in uno stato di guerra tribale permanente». Quanto alla Siria, il paese di Assad «prima era una garanzia di stabilità per la regione nonché un alleato prezioso degli stessi Stati Uniti nella lotta al terrorismo, vedi la collaborazione al programma di “rendition”». Ora invece è improvvisamente diventato «un regime diabolico, da abbattere ad ogni costo». A partire dal grande detonatore geopolitico dell’11 Settembre, «le guerre condotte negli ultimi 13 anni non hanno portato pace e nemmeno libertà e prosperità, ma crescente instabilità, morte, povertà, caos». Paradigmatico l’esempio dell’Iraq: «Saddam odiava i fondamentalisti e rifiutava qualunque collaborazione con Bin Laden». Oggi, invece, l’Iraq «è la nuova terra promessa, anzi il nuovo Califfato del peggior integralismo islamico». Le guerre americane? Hanno solo peggiorato il problema. «A cosa sono servite, davvero? E quale sarà l’effetto finale di quella appena iniziata contro l’Isis? Vedremo – conclude Foa – ma alle promesse di Obama e della sua squadra non credo più da un pezzo».Nel libro “L’arte della guerra”, Sun Tzu «ha spiegato l’arte della dissimulazione e del sotterfugio, ma qui si sta esagerando». Giù la maschera, mister Obama: «Fu la Cia ad armare i mujaheddin e Bin Laden contro i sovietici, poi Bin Laden è diventato il nemico numero uno degli Stati Uniti. E fu Washington a sostenere Saddam contro l’Iran, poi Saddam è diventato il nuovo Hitler». Ricorda Marcello Foa: «Quando i Talebani imponevano un regime orribile in Afghanistan, l’America ignorò a lungo le loro nefandezze mostrando una benevola negligenza al punto di finanziare quel regime addirittura pochi mesi prima dell’11 Settembre, come dimostrato da una fonte insospettabile quale l’Istituto Cato. Ora tocca all’Isis e a nuovi gruppi spuntati dal nulla, vedi il Khorasan, che sembra il nome di un farmaco contro il colesterolo, ma che, come spiega il “Corriere della Sera”, è la nuova sigla del terrore, il nuovo erede di Al-Qaeda». E ora gli Usa fingono di non conoscere i loro ex amici dell’Isis, nati come costola dell’Esercito Siriano Libero per rovesciare Assad, poi divenuti Isil, quindi semplicemente Is, Islamic State, Califfato Islamico. Bersaglio perfetto, per mantenere il Medio Oriente nel mirino.
-
Isis, finto nemico. Obiettivo: negare il petrolio alla Cina
Trasformare la regione petrolifera in un teatro permanente di guerra, per sabotare il business del petrolio. Europa, Cina e India avranno sempre più bisogno di oro nero, mentre l’America potrebbe rendersi autonoma dal greggio nel giro di 6-7 anni. Lo sostiene Marcello Foa, che ritiene credibili i ripetuti annunci, di tono quasi trionfalistico, che accreditano gli Stati Uniti di riserve sterminate di “shale oil”, il petrolio che si ottiene con la frantumazione idraulica di rocce bituminose. Proprio questo calcolo motiverebbe la politica apparentemente folle di Obama, disposto a una lunga guerra in Medio Oriente contro l’ultima “creatura” della Cia, il Califfato dell’Isis. «La lotta al terrorismo è diventata una guerra perpetua al terrorismo», e la crescente instabilità dei paesi arabi, dal Golfo Persico al Nordafrica, comporta «conseguenze pesantissime per noi europei, che viviamo non lontano da quelle zone, e per tutti coloro – europei ma anche cinesi e indiani – che del petrolio mediorientale hanno bisogno». Se va in fiamme il business del greggio, coi prezzi alle stelle, e l’America resta immune dal contagio, ne otterrà un immenso vantaggio geopolitico. «Capito l’arcano?».Quando, oltre dieci anni da, Giulietto Chiesa dava alle stampe “La guerra infinita” (Feltrinelli), prima coraggiosa indagine sulle menzogne ufficiali dell’11 Settembre funzionali all’imposizione imperialista del “Nuovo Secolo Americano”, i media mainstream si guardavano bene anche solo dal riportarne le tesi. Oggi, dopo anni di crisi catastrofica e focolai di guerra accesi praticamente ovunque, un editorialista in doppiopetto come Foa può permettersi si far sentire la sua voce indipendente dalle pagine del “Giornale”, attraverso il suo blog. «Sieti sicuri di aver capito cosa sta accadendo in Iraq e perché Obama abbia dichiarato guerra all’Isis?». Siamo seri: «L’Isis non esce dal nulla ma è un “mostro” religioso e militare che proprio gli Usa e alcuni alleati strategici come il Qatar e l’Arabia Saudita negli ultimi due anni hanno incoraggiato e sostenuto». E’ l’erede di Al-Qaeda, il nemico di ieri. «Poi è venuto il tempo delle rivoluzioni colorate», a carattere popolare in Tunisia e in Egitto, deflagrate in guerra civile prima in Libia e poi in Siria. «Guerra durissima, spietata e sporca. Combattuta da chi? Da eroici rivoltosi sunniti siriani? Solo in parte».In Siria, a scendere in campo contro Assad sono stati «soprattutto guerriglieri provenienti da altri paesi, motivati dal denaro, dalla disperazione e dall’esaltazione religiosa». Una forza opaca, «composta dalle milizie che avevano combattuto in Iraq e che avevano contribuito a rovesciare Gheddafi». Fanatici ultra-religiosi, ammiratori di Al-Qaeda. «Ovvero, quell’estremismo terrorista che l’Occidente in teoria combatte dal 2001. Ma, si sa, le regole della politica internazionale non corrispondono a quelle della morale e le alleanze possono essere molto flessibili. Certi nemici, all’occorrenza, possono diventare amici. E così è stato. Arabia Saudita e soprattutto Qatar hanno fornito aiuti finanziari, gli americani e verosimilmente i turchi assistenza militare e fornitura d’armi. A posteriori – continua Foa – Hilllay Clinton si è addirittura rammaricata che l’aiuto fosse stato troppo timido. E nel frattempo l’America era stata sul punto di attaccare la Siria che era stata accusata da tutti di aver usato armi chimiche contro i ribelli, un attacco a cui si oppose con successo Putin con ottime ragioni: oggi sappiamo che a usare le armi chimiche furono proprio i ribelli che l’Occidente smaniava di soccorrere. Quali ribelli? Quelli dell’Isis».La guerra civile si è prolungata, Assad non è caduto e nella primavera del 2014 i guerriglieri dell’Isis, ben armati e ben finanziati, hanno cercato nuovi sbocchi: «Hanno girato i cannoni e i blindati e hanno iniziato a scorazzare verso sud-ovest, puntando l’Iraq filoamericano, spingendosi fino alle porte di Baghdad e di Mosul, mentre l’America lasciava fare». Fino a ieri, «Obama snobbava l’Isis, o più verosimilmente faceva finta». Come dire: sono giovani teste calde, non ci preoccupano. «Per lunghe settimane Washington ha lasciato fare, decidendosi tardivamente a sostenere il governo iracheno e decisamente controvoglia, ovvero con pochi raid. Intanto Qatar e sauditi continuavano a finanziare l’Isis». Poi, nelle ultime settimane, l’accelerazione: i media hanno iniziato a occuparsi quotidianamente dell’Isis, diffondendo storie umane agghiaccianti, racconti di stupri, violenze, brutalità, fino a quando sono state diffuse le drammatiche immagini della decapitazione dei due giornalisti americani. Così, «l’Isis è diventato improvvisamente il problema numero uno». L’opinione pubblica occidentale? «Scioccata, di fronte a immagini terribili». E indotta, ovviamente, «a invocare una reazione forte contro i fanatici». Si sa: «La gente comune non segue le sottigliezze geostrategiche, non conosce gli antefatti, ma reagisce emotivamente a immagini “che parlano da sole”».Obama, seguendo uno schema classico dello “spin”, ha risposto all’accorato appello di centinaia di milioni di americani giustamente preoccupati, «annunciando una guerra che sarà naturalmente “lunga”» e capace di coinvolgere, nello sforzo finanziario, «proprio quei paesi, Qatar e sauditi, che fino a ieri avevano finanziato l’Isis». Sicché, «nuovo ribaltamento di fronte: gli ex nemici, poi diventati amici, ora tornano ad essere nemici; anzi molto nemici. Gente da annientare». Risultato: Golfo Persico, Medio Oriente e Nordafrica sono in fiamme, «a oltre 11 anni dalla “guerra lampo” che avrebbe dovuto liberare l’Iraq». Disordine, violenza e morte divampano ovunque: dalla Libia a Gaza, passando per l’Egitto, la Siria, l’Iraq. E gli americani, guardacaso, «si trovano “costretti” ancora una volta a portare la liberazione, impiegando, in quello che appare un moto ormai perpetuo, la loro forza militare». Nel lontano 2002, Giulietto Chiesa l’aveva annunciata, col nome di “guerra infinita”. Oggi, il mainstream continua a evitare di collegare tra loro i singoli fotogrammi. E Foa aggiunge una possibile chiave di lettura: gli Usa infiammano il petrolio del Medio Oriente per toglierlo ai cinesi. E’ il piano per il “Nuovo Secolo Americano”: dall’attentato alle Torri Gemelle, di strada ne ha fatta parecchia.Trasformare la regione petrolifera in un teatro permanente di guerra, per sabotare il business del petrolio. Europa, Cina e India avranno sempre più bisogno di oro nero, mentre l’America potrebbe rendersi autonoma dal greggio nel giro di 6-7 anni. Lo sostiene Marcello Foa, che ritiene credibili i ripetuti annunci, di tono quasi trionfalistico, che accreditano gli Stati Uniti di riserve sterminate di “shale oil”, il petrolio che si ottiene con la frantumazione idraulica di rocce bituminose. Proprio questo calcolo motiverebbe la politica apparentemente folle di Obama, disposto a una lunga guerra in Medio Oriente contro l’ultima “creatura” della Cia, il Califfato dell’Isis. «La lotta al terrorismo è diventata una guerra perpetua al terrorismo», e la crescente instabilità dei paesi arabi, dal Golfo Persico al Nordafrica, comporta «conseguenze pesantissime per noi europei, che viviamo non lontano da quelle zone, e per tutti coloro – europei ma anche cinesi e indiani – che del petrolio mediorientale hanno bisogno». Se va in fiamme il business del greggio, coi prezzi alle stelle, e l’America resta immune dal contagio, ne otterrà un immenso vantaggio geopolitico. «Capito l’arcano?».
-
Sempre e solo menzogne, e grazie a noi la fanno franca
Come pensavano di farla franca sostenendo che in Iraq ce n’erano grandi quantità di armi chimiche, biologiche e perfino nucleari? I disertori avevano chiaramente affermato che le armi chimiche e quelle biologiche (alcune fornite dagli stessi Usa) erano state distrutte. Gli ispettori avevano ispezionato quasi ogni centimetro dell’Iraq e avevano detto che mancavano ancora solo pochi centimetri, se gli avessero dato qualche giorno in più. L’Iraq stava urlando che non era in possesso di tali armi. Molte nazioni nel mondo gli davano ragione. Lo stesso staff di Colin Powell lo avvertiva che le sue affermazioni non sarebbero state considerate plausibili. Eppure, l’hanno fatta franca. Al punto che ancora oggi molta gente di buone intenzioni negli Stati Uniti sostiene che nessuno può essere certo che Bush, Cheney e gli altri sapessero che le loro dichiarazioni erano false al momento che le facevano.«Tutto ciò – scrisse Adolf Hitler – è ispirato dal principio che nella grande bugia esiste sempre una certa forza di credibilità; perché le vaste masse di una nazione sono sempre facilmente corruttibili nel profondo della loro natura emotiva piuttosto che coscientemente o volontariamente; e così nella primitiva semplicità delle loro menti cadono più facilmente vittime di una grande bugia anziché di una piccola, in quanto essi stessi dicono spesso delle piccole bugie su piccole cose ma si vergognerebbero di ricorrere a delle falsità su larga scala». I media americani hanno sostenuto ripetutamente che la Russia ha invaso l’Ucraina. Lo sostengono per un po’, poi si scopre che non c’è stata nessuna invasione, così fanno una pausa. Dopo lo sostengono ancora una volta. Oppure sostengono che un convoglio di aiuti costituisce un’invasione. Eppure questi convogli di aiuti sembrano proprio dei convogli di aiuti in tutte le fotografie, e nessuno è stato capace di produrre fotografie simili di un’invasione.Quando i mezzi corazzati ucraini entrarono nell’est del paese e vennero circondati dai civili, abbiamo visto le fotografie e i video. Ora esiste soltanto una foto satellitare della serie “reperti Colin-Powell”, fornita dalla Nato e che si suppone indichi artiglieria russa in Ucraina. L’invasione principale russa che apparentemente è in offerta speciale con un repellente per giornalisti, si dice consista di 1.000 soldati – ossia lo stesso numero di truppe che gli Usa hanno mandato ancora una volta in Iraq, della cui invasione evidentemente non ci dobbiamo preoccupare. Ma dove sono questi 1.000 soldati russi che invadono l’Ucraina? L’Ucraina sostiene di aver catturato 10 di questi, anche se questi 10 non sembrano concordare con questa versione. Che cosa è successo agli altri 990? Come è stato possibile per qualcuno avvicinarsi tanto da fare 10 prigionieri ma non aver potuto fare una fotografia degli altri 990?Nel frattempo la Russia smentisce tutto e sollecita pubblicamente gli Stati Uniti a impegnarsi diplomaticamente con l’Ucraina e il governo di quest’ultima di smettere di bombardare i propri cittadini e di elaborare un sistema federalista che rappresenti ognuno nelle proprie frontiere. Ma la Nato non ha tempo, è impegnata ad annunciare una contro-invasione per far fronte all’invisibile invasione russa. Come pensano che la faranno franca con questo? Vediamo. Nemmeno uno dei responsabili per le menzogne che causarono la distruzione dell’Iraq e la morte di alcune milioni di persone, insieme al prevedibile e previsto caos che ora tormenta il paese e tutta la regione, è stato mai ed in nessun modo chiamato a rispondere. La menzogna che Gheddafi stesse per massacrare degli innocenti, la bugia che ha facilitato l’attacco in Libia e l’inferno che sta regnando ora in quel paese: nessuno è stato chiamato a rispondere in qualsiasi modo. La menzogna che la Casa Bianca avesse le prove che Assad aveva usato armi biologiche? Nessuno è stato chiamato a rispondere. Addirittura nessuno si è sentito obbligato a giustificarsi quando hanno cambiato obbiettivo e proposto di bombardare i nemici di Assad.E la menzogna secondo cui gli attacchi dei droni non uccidono innocenti e non uccidono quelli che, invece, potrebbero essere arrestati facilmente? Nessuno è stato chiamato a rispondere. La menzogna che gli Stati Uniti avessero la prova che ad abbattere l’aereo sopra l’Ucraina fosse stata la Russia? Nessuno è stato chiamato a rispondere, e gli Usa si oppongono a una indagine indipendente. La menzogna che la tortura ci garantisce la sicurezza, una menzogna che ha portato gli Usa a torturare della gente? Nessuno, ai livelli degli uffici ad aria condizionata, è stato mai chiamato a rispondere. Perché pensano di poter farla franca? Perché tu glielo permetti. Perché non vuoi credere che commettono tali atrocità. Perché non vuoi credere che sono tanto bugiardi. Sai una cosa? Co sono persone che si sentono come degli idioti perché hanno creduto alle menzogne sull’Iraq. Immagina come si sentiranno quando scopriranno che avevano creduto all’invasione di una nazione che non era mai stata invasa.(David Swanson, “Sempre e solo menzogne, perché tu glielo permetti”, da “Information Clearing House” del 3 agosto 2014, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Come pensavano di farla franca sostenendo che in Iraq ce n’erano grandi quantità di armi chimiche, biologiche e perfino nucleari? I disertori avevano chiaramente affermato che le armi chimiche e quelle biologiche (alcune fornite dagli stessi Usa) erano state distrutte. Gli ispettori avevano ispezionato quasi ogni centimetro dell’Iraq e avevano detto che mancavano ancora solo pochi centimetri, se gli avessero dato qualche giorno in più. L’Iraq stava urlando che non era in possesso di tali armi. Molte nazioni nel mondo gli davano ragione. Lo stesso staff di Colin Powell lo avvertiva che le sue affermazioni non sarebbero state considerate plausibili. Eppure, l’hanno fatta franca. Al punto che ancora oggi molta gente di buone intenzioni negli Stati Uniti sostiene che nessuno può essere certo che Bush, Cheney e gli altri sapessero che le loro dichiarazioni erano false al momento che le facevano.
-
Barack Osama e i ragazzi dell’Isis, reclutati dagli Usa
La drammatica e apparentemente inarrestabile ascesa dell’Isis ha riportato l’attenzione mediatica sul martoriato Iraq, caduto nel dimenticatoio dopo il ritiro delle truppe americane. I mezzi di informazione sono prodighi di informazioni nel descrivere le atrocità del Califfato, ma reticenti nel raccontare chi siano i suoi membri e quale sia la sua origine. Lo Stato Islamico di Iraq e Siria (questo il nome completo) non è una forza apparsa improvvisamente dal nulla, ma il figlio diretto delle politiche dell’imperialismo americano in Medio Oriente che ha le sue radici nel conflitto siriano e nel caos dell’Iraq post-Saddam, ricorda Riccardo Maggioni, secondo cui per capire meglio qual è il ruolo dell’Isis occorre fare un salto indietro di almeno trent’anni, dal momento che l’islamismo politico «è l’alleato oggettivo dell’imperialismo americano nel Medio Oriente» a partire dai lontani anni ‘80, quand’era il pretesto perfetto per consentire agli Usa di intervenire per aiutare i “buoni” e punire i “cattivi”.Negli anni ’80, durante la guerra fredda, l’Islam conservatore era l’alleato degli Usa nel contenere la diffusione del comunismo e dell’influenza dell’Urss nel mondo arabo, scrive Maggioni in un post ripreso da “Informare per Resistere”. Sotto la presidenza Reagan, gli Usa «armarono e addestrarono i Talebani in Afghanistan» per rovesciare la repubblica popolare afghana e contrastare il successivo intervento sovietico. «Al-Qaeda nasce qui, con i soldi e il supporto americano, tanto che lo stesso Bin Laden (ricordiamolo: proveniente da una famiglia di affaristi sauditi in stretti rapporti con gli Usa) combatteva in Afghanistan e veniva intervistato da quotidiani occidentali come “The Indipendent” i quali lo definivano “freedom fighter”». I Talebani, aggiunge Maggioni, «vennero addirittura glorificati in film come “Rambo 3”», mentre «vari leader islamisti afghani furono ricevuti alla Casa Bianca da Reagan, che li definì “leader con gli stessi valori dei Padri Fondatori”».La medesima strategia è proseguita negli anni novanta con Clinton, «che poté intervenire in Jugoslavia al fianco dei narcotrafficanti dell’Uck in Kosovo spacciati come difensori del proprio popolo da non meglio precisati genocidi». Con Bush la strategia cambia: complice l’11 Settembre, gli amici di ieri diventano i nemici di oggi. Scatta così una campagna propagandistica mondiale, secondo cui l’Islam ha dichiarato guerra alla civiltà occidentale e ci sono arabi dietro ogni angolo pronti a farsi esplodere. «Con questa scusa parte la cosiddetta “guerra al terrore”, grazie alla quale vengono eliminati gli ex-alleati Talebani ora sfuggiti al controllo e si invade l’Iraq». Una guerra «totalmente priva di senso anche per la logica di Bush», in teoria, considerato che il governo di Saddam Hussein «apparteneva alla corrente del baathismo laico e di tutto poteva essere tacciato tranne che di islamismo».Con Obama la strategia cambia ancora: non esiste più la minaccia islamica, ma gli Stati Uniti devono intervenire per difendere i giovani della “primavera araba” in lotta contro i “dittatori”, «termine indicante tutti i capi di Stato non graditi all’America». E Bin Laden, «tenuto in vita come spauracchio durante l’epoca Bush», viene «fatto fuori in un lampo, ovviamente prima che possa parlare dei suoi passati legami con gli Usa». Gli islamisti di oggi sono nuovamente alleati dell’America. E tutti i peggiori integralisti, dal Fronte Al-Nusra siriano ai Fratelli Musulmani, vengono trasformati dai media in giovani nonviolenti, in lotta contro la dittatura. «Con questa scusa, Obama arma delle milizie islamiste in Libia e interviene in loro supporto per eliminare Gheddafi: ora la Libia è un inferno a cielo aperto in preda a gang islamiche, mentre gli americani ne saccheggiano il petrolio».Il copione viene replicato in Siria, dove gli Usa appoggiano «animali assetati di sangue come Al-Nusra e il famigerato Isis», presentati però sempre come «studenti che manifestano per i diritti umani». Fallito l’assalto al regime di Assad, però, i “bravi ragazzi” tornano utili ugualmente, sotto forma di “cattivi ragazzi”. Vengono infatti presentati come terroristi: la vecchia propaganda sulla “minaccia islamista” viene riciclata da Obama per giustificare l’inizio di operazioni militari in Iraq. «La situazione fa quasi sorridere – sottolinea Maggioni – considerando che l’Isis sostanzialmente sono i ribelli siriani presentati come sinceri democratici e a fianco dei quali meno di un anno fa lo stesso Obama voleva intervenire militarmente. Le stesse persone, al variare degli interessi in gioco, passano da combattenti per la libertà a sanguinari terroristi, a seconda che si trovino ad ovest o ad est del confine tra Siria e Iraq».L’Isis? E’ un gruppo integralista sunnita, che si propone l’obiettivo di creare uno Stato islamico, il Califfato, che comprenda i territori di Siria e Iran per portare avanti la jihad contro lo sciitismo. Il terreno fertile per la sua espansione è stato creato dall’intervento militare americano in Iraq del 2003, continua Maggioni: il rovesciamento di Saddam ha causato la caduta di uno dei pochi Stati laici della regione e fatto saltare il delicato equilibrio interno tra la maggioranza sciita e la minoranza sunnita. Nel caos e nell’anarchia seguenti, l’islamismo politico è potuto tornare a operare alla luce del sole, con spazi di manovra di cui prima era privo. «I gruppi islamisti sono riusciti in breve tempo a raccogliere un ampio consenso all’interno delle minoranze etniche sunnite», in un Iraq a maggioranza sciita: «Il che ha portato, dalla caduta di Saddam in poi, all’affermazione di governi guidati da forze politiche sciite, quale quello del presidente Al-Maliki».A partire dal 2011, questo quadro si è incrociato con lo scenario della guerra civile siriana, con in primo piano le infami milizie dell’Isis, un “mostro” «che cresce e si sviluppa grazie al supporto economico, diplomatico e militare di Washington», espandendosi a macchia d’olio in Iraq, «dove si guadagna un consistente supporto tra la popolazione sunnita e inizia una guerriglia contro il governo del presidente Al-Maliki». L’Isis, insiste Maggioni, è funzionale agli interessi americani anche in Iraq: dopo la caduta del sunnita Saddam, il paese si è avvicinato ai correligionari dell’Iran e di conseguenza anche alla Siria, alleato storico di Teheran, «creando negli Usa il timore di perdere la propria influenza sul paese». Basta osservare una cartina geografica per capire che si verrebbe a creare in questo modo un asse sciita filo-iraniano che si estenderebbe con continuità territoriale nel cuore del Medio Oriente, da Teheran fino agli Hezbollah libanesi alle porte di Israele. «Questo scenario è ovviamente inaccettabile per la Casa Bianca».Avendo come obiettivo della sua “guerra santa” l’Iran e gli sciiti, l’Isis fa dunque il gioco degli Usa. E Washington, prosegue Maggioni, vorrebbe rendere controllabile l’Iraq balcanizzandolo in tre aree (sunnita, sciita e curda), come apertamente auspicato dal vicepresidente americano Joe Biden. «Per questo l’Isis è stato lasciato agire fino a mettere alle strette il governo di Al-Maliki». Con la scusa dell’avanzata del Califfato, gli americani hanno potuto rientrare militarmente in Iraq, rimettendo in equilibrio il governo di Baghdad e lo “Stato Islamico”. «Un intervento volutamente tardivo, che se ne ha fermato l’avanzata ha permesso al Califfato di consolidare le posizioni già conquistate». Poi, approfittando del drammatico genocidio delle minoranze da parte del Califfato, gli Usa hanno cominciato a rifornire di armi i curdi Peshmerga, alleati degli americani durante l’invasione del 2003 e animati da intenti secessionisti. «La scelta di bypassare il governo iracheno e fornire armi direttamente ai curdi non è casuale, ma ha lo scopo di creare nella regione una forza armata filoamericana e separatista nei confronti di Baghdad, indebolendo ancora di più la posizione del governo centrale iracheno».Il risultato di tutto ciò, conclude Maggioni, è un Iraq sostanzialmente diviso in tre parti: una frazione sciita, debole e alla mercé degli aiuti militari americani, una regione curda che vada a costituire una sorta di “gendarme” americano locale, e poi il Califfato islamico, «formalmente avversato da Washington ma in realtà tollerato», dal momento che «continua la sua guerra regionale contro due Stati sgraditi agli Usa», cioè Siria e Iran, «facendo il lavoro sporco al posto degli americani». I “bravi ragazzi” dell’Isis potranno funzionare da alibi per consentire agli Usa di intervenire militarmente anche in Siria, dove un anno fa furono fermati dall’opposizione russo-cinese. Intanto, per bocca del proprio leader, il califfo Al-Baghdadi, l’Isis ha già indicato la Cina come “Stato nemico dell’Islam”, promettendo in un prossimo futuro di fornire aiuto ai gruppi islamisti Uighuri dello Xinjiang. «Casualmente – chiosa Maggioni – il principale avversario geopolitico degli Usa rientra tra gli obiettivi degli islamisti», che tra parentesi «durante tutto il periodo dei bombardamenti a Gaza non hanno detto una sola parola contro Israele». Miracoli della geopolitica, sotto il regno di “Barack Osama”.La drammatica e apparentemente inarrestabile ascesa dell’Isis ha riportato l’attenzione mediatica sul martoriato Iraq, caduto nel dimenticatoio dopo il ritiro delle truppe americane. I mezzi di informazione sono prodighi di informazioni nel descrivere le atrocità del Califfato, ma reticenti nel raccontare chi siano i suoi membri e quale sia la sua origine. Lo Stato Islamico di Iraq e Siria (questo il nome completo) non è una forza apparsa improvvisamente dal nulla, ma il figlio diretto delle politiche dell’imperialismo americano in Medio Oriente che ha le sue radici nel conflitto siriano e nel caos dell’Iraq post-Saddam, ricorda Riccardo Maggioni, secondo cui per capire meglio qual è il ruolo dell’Isis occorre fare un salto indietro di almeno trent’anni, dal momento che l’islamismo politico «è l’alleato oggettivo dell’imperialismo americano nel Medio Oriente» a partire dai lontani anni ‘80, quand’era il pretesto perfetto per consentire agli Usa di intervenire per aiutare i “buoni” e punire i “cattivi”.
-
11 Settembre: da allora solo guerra, senza mai verità
Sembra un’estate di mille anni fa, ma era solo quella del 2001: il boom mondiale annunciato da Internet, l’economia occidentale in piena euforia, la sbalorditiva rivoluzione digitale, l’allegria stravagante con cui fu accolto l’avvento dell’euro. Della guerra c’erano solo echi lontani: la tormentata Somalia, la tormentata Cecenia, la tormentata Yugoslavia. Tre conflitti devastanti, presentati come remoti, quasi esotici, in ogni caso barbarici e pressoché inspiegabili. Sui giornali aveva ancora voce in capitolo il vecchio Gorbaciov, che predicava la necessità di una nuova governance mondiale dopo l’equilibrio atomico della guerra fredda. L’evento dell’estate 2001 era soprattutto Genova, il contro-G8 del Social Forum, la protesta – piena di energia positiva – contro la globalizzazione selvaggia, ultima frontiera della sinistra sociale, pronta a battersi per i diritti dell’umanità, dando per scontato che nessuno avrebbe mai messo in pericolo i diritti del welfare europeo. A Genova sappiamo come finì, ma era solo l’antipasto. Le Torri Gemelle in fiamme mostrarono che stava cominciando un nuovo film.Afghanistan e Iraq, le inesistenti armi di Saddam, poi ancora il Golfo, quindi Obama e dunque la cosiddetta primavera araba, dalla Tunisia all’Egitto, a seguire la Libia e la Siria, con gli spaventosi intermezzi del genocidio a rate di Gaza. Ora siamo al Califfato islamico e all’offensiva finale contro la Russia in Ucraina. Di mezzo c’è stato il collasso finanziario di Wall Street fatto pagare al contribuente comune, il temuto declino degli Usa e l’ascesa dei Brics, il crollo dell’Europa, il profilarsi dello scontro epocale con la potenza cinese. I media mainstream si rifiutano di vedere e di raccontare, continuano a limitarsi alla cronaca, non collegano gli eventi, non spiegano, omettono dettagli rilevanti e decisivi, talora mentono spudoratamente. Fotografia: lo staff della Casa Bianca che fissa un monitor (non inquadrato) nel quale si racconta che venisse trasmesso, in diretta, il blitz per catturare (anzi, uccidere) Osama Bin Laden, poi inabissato nell’Oceano Indiano, “con rito islamico”, dal ponte di una portaerei. Morto Saddam, morto Gheddafi, morto Milosevic. Una storia senza testimoni, senza prove, senza sopravvissuti.La vicenda infinita dell’11 Settembre ha dato luogo a una polemica irrisolta tra colpevolisti e innocentisti, complottisti e negazionisti. Film e libri, interviste, documenti, contraddizioni. Unica certezza: il governo degli Stati Uniti mentì a tutto il mondo, la versione ufficiale fa acqua da tutte la parti. Uscirono i file di Wikileaks, a smentire tante verità di comodo. Poi Snowden, con lo scandalo dello spionaggio Nsa. Un veterano dell’agenzia, Wayne Madsen, disse che proprio la Nsa aveva pianificato nei minini dettagli la mattanza di Genova del 2001. Le cose, semplicemente, “dovevano” andare in quel modo, perché l’establishment temeva sopra ogni cosa le contestazioni dei no-global contro gli abusi delle multinazionali e dei colossi finanziari. Oggi siamo a un passo dalla Terza Guerra Mondiale, i paesi dell’Eurozona senza più lavoro né diritti stanno per regredire all’epoca pre-industriale e l’America impone i trattati-capestro come il Ttip scritti materialmente dalle multinazionali, mentre in Medio Oriente spadroneggia l’Isis armato dalla Cia, la Nato minaccia di entrare in rotta di collisione coi russi in Ucraina e il Giappone sfida la Cina nel Pacifico. I cittadini? Tutti su Facebook: nel giorno dell’anniversario, riguardano lo spettacolo delle Torri fumanti. Anziché verità, è arrivata solo guerra.Sembra un’estate di mille anni fa, ma era solo quella del 2001: il boom mondiale annunciato da Internet, l’economia occidentale in piena euforia, la sbalorditiva rivoluzione digitale, l’allegria stravagante con cui fu accolto l’avvento dell’euro. Della guerra c’erano solo echi lontani: la tormentata Somalia, la tormentata Cecenia, la tormentata Yugoslavia. Tre conflitti devastanti, presentati come remoti, quasi esotici, in ogni caso barbarici e pressoché inspiegabili. Sui giornali aveva ancora voce in capitolo il vecchio Gorbaciov, che predicava la necessità di una nuova governance mondiale dopo l’equilibrio atomico della guerra fredda. L’evento dell’estate 2001 era soprattutto Genova, il contro-G8 del Social Forum, la protesta – piena di energia positiva – contro la globalizzazione selvaggia, ultima frontiera della sinistra sociale, pronta a battersi per i diritti dell’umanità, dando per scontato che nessuno avrebbe mai messo in pericolo i diritti del welfare europeo. A Genova sappiamo come finì, ma era solo l’antipasto. Le Torri Gemelle in fiamme mostrarono che stava cominciando un nuovo film.
-
Benvenuti nel Grande Caos, quello che ci farà a pezzi
I tempi in cui ci tocca di vivere stanno diventando cupi e tetri. Pur senza concedere nulla al pessimismo della ragione, sentire un pontefice evocare la Terza Guerra Mondiale, il segretario della Nato non escluderla come scenario, e importanti giornali proporci quotidianamente una mappa dei conflitti che incendiano le regioni strategiche del mondo in cui viviamo, non è certo rassicurante. Soprattutto perchè la realtà incasella e aggiunge giorno dopo giorno le conferme che la pallina collocata sul piano inclinato continua a scivolare pericolosamente. Accelerando. Ma le guerre non sono una fatalità. Possono esplodere quando un incidente accelera i processi storici; ma si verificano perchè ci sono forze materiali che hanno spinto i processi verso la rottura, lo scontro, il “clash tra le potenze”, come scrissero in un ottimo libro Petras, Casadio e Vasapollo. La cosa che colpisce – che deve colpire anche gli ottusi “di sinistra” – è che il novanta per cento dei focolai di conflitto circonda l’Europa come un cerchio di fuoco.L’ovest appare pacifico solo perchè confina con l’Atlantico, un oceano che divide l’Europa dagli Stati Uniti, ovvero la sponda da cui arrivano le spinte più forti a coinvolgere l’Europa verso il “clash”. La linea intrapresa dai governi dell’Unione Europea sulla crisi e il conflitto in Ucraina è emblematica. Gli Usa spingono i paesi europei verso il conflitto con il più grande e armato di essi: la Russia. Il prossimo vertice Nato a Newport appare foriero di pessime decisioni che accentueranno e non depotenziaranno i pericoli di guerra sulla frontiera est. Resistenze e dubbi, se ancora esistono, abitano menti silenziose. Ma a sud non va meglio. La destabilizzazione creativa (una categoria rassicurante per descrivere le guerre asimmetriche di aggressione scatenate dal 2001 a oggi), ha creato una fascia di instabilità belligerante nella vicina Libia e in Iraq, Siria, Palestina ed Egitto dove, tra Gaza e Sinai, la normalizzazione militare imposta dal generale Al Sisi – diventato beniamino delle cancellerie occidentali – riesce a malapena a comprimere il fuoco sotto le braci.Insomma, la sponda sud dell’Europa è l’area di instabilità e guerra più infuocata del globo. Oggi appare evidente come nessuna delle potenze in campo abbia chiaro quali siano le prospettive, se non quella di ripetuti bagni di sangue e instabilità da gestire a distanza, attraverso la logica del bombardamento con i droni quando gli effetti rischiano di tracimare, mettendo in discussione parametri vitali come le forniture energetiche, idriche, o gli equilibri geopolitici. I ripetuti cambi di campo e di alleanze appaiono molto più che inevitabili cinismi della governance. Il doppio e triplo gioco di Stati Uniti e potenze europee ha entusiasmato e coinvolto anche altri soggetti, come le petromonarchie del Golfo o la Turchia, che usano gli ingenti introiti che vengono dalle rendite petroliferi o dalle royalties sui diritti di passaggio per finanziare milizie in guerra tra loro. Una disamina delle ingerenze di petromonarchie come Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi, dalla Bosnia del ‘93 passando per la Cecenia, l’Afghanistan fino a Libia, Iraq, Libano, Siria, Palestina e Sudan, ci consegna uno scenario di guerra di tutti contro tutti e una brusca rimessa in discussione dei confini coloniali definiti dalle potenze europee alla fine della Prima Guerra Mondiale.In realtà questo assetto era già stato sconvlto dall’entrata in campo degli Stati Uniti in Medio Oriente, fin dal colpo di Stato del 1953 contro Mossadeq in Iran e poi lo stop imposto a Francia e Gran Bretagna nel 1956 a Suez. Da quel momento, il Medio Oriente è diventato terreno di caccia privilegiato di Washington; un’enclave in cui le potenze europee, Italia inclusa, potevano al massimo ritagliarsi interstizi per i propri limitati interessi (vedi la Libia). Ma gli ultimi anni, quelli in cui gli Stati Uniti hanno visualizzato e cercato di contrastare con ogni mezzo il proprio lento declino, hanno assestato un nuovo scossone all’assetto precedente. Via l’Iraq di Saddam, la Libia di Gheddafi, la Siria di Assad, ma anche la Palestina dell’Olp; sostituendoli con il caos e la balcanizzazione, abolendo gli Stati. Senza mai dimenticarsi la disintegrazione della Jugoslavia e della ex Urss. Altri territori “vergini” che hanno visto nascere a est di Berlino ben 30 Stati dove prima ve ne erano otto; e solo la metà di questi hanno più di dieci milioni di abitanti. Staterelli, dunque, poco più che “granducati”. Facili da piegare, minacciare, ricattare, eventualmente cancellare o sovvertire.Fino a un certo punto.Ecco, è questo “certo punto” che indica la soglia di crisi che si va raggiungendo. E non solo perchè oggi la Russia di Putin punta i piedi nel proprio “cortile di casa”, ma perchè somiglia, assai più che l’Urss, ai suoi competitori; e perchè tra i paesi a capitalismo di Stato (usiamo una forzatura per semplificare una realtà complessa come i Brics) e quelli a capitalismo mercantilista che caratterizzano Stati Uniti ed Unione Europea (cioè potenze più compiutamente imperialiste), non ci sono più i margini per spartirsi in modo concertato come in passato il mondo. Dunque se la concertazione e le camere di compensazione – per quanto asimmetriche, rispetto al Washington Consensus – non hanno più la materia per realizzarsi, il mondo diventa oggetto di competizione. E la competizione avviene con ogni mezzo. Il caos e l’instabilità nel cortile di casa degli altri possibili competitori diventano la condizione preliminare e necessaria, anche se mai sufficiente. Che tutto questo abbia un costo umano sempre più alto non pare essere un problema. Un capitalismo in crisi distrugge i capitali in eccesso, è noto. E per un sistema che punta solo alle risorse, alla sopravvivenza competitiva, anche il “capitale umano” – definito anche e non a caso “capitale variabile” – può diventare un eccesso da dover distruggere.(Sergio Cararo, “Il caos che sfugge di mano”, da “Contropiano” del 27 agosto 2014).I tempi in cui ci tocca di vivere stanno diventando cupi e tetri. Pur senza concedere nulla al pessimismo della ragione, sentire un pontefice evocare la Terza Guerra Mondiale, il segretario della Nato non escluderla come scenario, e importanti giornali proporci quotidianamente una mappa dei conflitti che incendiano le regioni strategiche del mondo in cui viviamo, non è certo rassicurante. Soprattutto perchè la realtà incasella e aggiunge giorno dopo giorno le conferme che la pallina collocata sul piano inclinato continua a scivolare pericolosamente. Accelerando. Ma le guerre non sono una fatalità. Possono esplodere quando un incidente accelera i processi storici; ma si verificano perchè ci sono forze materiali che hanno spinto i processi verso la rottura, lo scontro, il “clash tra le potenze”, come scrissero in un ottimo libro Petras, Casadio e Vasapollo. La cosa che colpisce – che deve colpire anche gli ottusi “di sinistra” – è che il novanta per cento dei focolai di conflitto circonda l’Europa come un cerchio di fuoco.
-
Anche Wall Street scommette sulla Terza Guerra Mondiale
Della crisi ucraina ho già scritto a più riprese. La prima cosa che mi colpì, nel momento in cui Viktor Yanukovic fu rovesciato da un colpo di stato plateale, appoggiato patentemente dagli Stati Uniti (meglio dire da loro promosso) con l’attiva partecipazione della Polonia, della Lituania e dell’Estonia, e dei fantocci al potere a Bruxelles, fu la sua apparente inutilità. Perché mettere in atto un golpe se Yanukovic poteva essere tranquillamente tolto di mezzo tra un anno con regolari elezioni? E altre domande portavano tutte a conclusioni analoghe. Perché rovesciare il tavolo quando l’Ucraina era già nelle mani degli americani, completamente – Yanukovic o non Yanukovic – da diversi anni? Sicuramente dai tempi della cosiddetta “rivoluzione arancione” di Yushenko-Timoshenko, che consegnarono nelle mani della Cia gli ultimi rimasugli di sovranità nazionale, dopo quelli svenduti dai precedenti presidenti dell’Ucraina “indipendente”, Kravchuk e Kuchma?Perché infine rovesciare Yanukovic quando lo stesso quarto e ultimo presidente dell’Ucraina aveva già venduto il Donbass alla Chevron e alla Shell? La bellezza di quasi 8.000 chilometri quadrati di territorio per la durata di 50 anni, un accordo segreto in gran parte valutato 10 miliardi di dollari, alla ricerca del gas da scisti bituminosi che avrebbe liberato “per sempre” l’Ucraina dalla dipendenza energetica dall’odiata Russia. Insomma: Yanukovic – presentato come «l’uomo di Mosca» da tutti i media occidentali – non era poi quel grande amico di Putin. Perché farlo fuori così brutalmente? Che bisogno c’era? Solo perché non aveva firmato a Vilnius il documento giugulatorio di “associazione” all’Unione Europea? Ma fino al novembre dell’anno precedente Viktor Yanukovic aveva negoziato, lasciando sperare in un successo europeo totale. Il documento era già pronto, anche se in parte assai segreto. Bastava aspettare qualche mese e sarebbe stato imposto, con le buone o con le cattive.No, tutti questi interrogativi non avevano risposte adeguate. Doveva esserci qualcos’altro. La fretta con cui Washington aveva premuto, e Varsavia aveva agito ai suoi ordini, indicava qualche altra impellente necessità. A me fu subito chiaro che il golpe – non a caso un golpe con le stigmate naziste così visibili – era diretto non contro Yanukovic, pedina di nessun peso, ma contro la Russia. I neocon, tramite la esecutrice Victoria Nuland, volevano una crisi di valenza internazionale, se non addirittura mondiale. Ma perché la fretta? Perché accelerare lo scontro e portare la Nato praticamente sul portone del Cremlino? Era, in fondo, uno scenario che io stesso avevo previsto sarebbe accaduto. Ma assistevo a un’improvvisa e drammatica accelerazione. Doveva esserci qualcos’altro a spiegare la fretta. E le dimensioni della rottura che si stava creando. Non si trattava di una crisi regionale, non un episodio passeggero. Le potenziali ripercussioni erano evidenti: uno scontro di portata non minore di quello della crisi dei missili a Cuba del 1962.Bisognava spiegare il senso e le ragioni dell’accelerazione. Io non sono un economista (lo ripeto sempre, per non eccitare le rimostranze degli scopritori dell’aria calda). Non sono neanche un esperto dei sotterfugi della finanza mondiale. Credo poco o nulla ai numeri che arrivano da quella parte, convinto ormai da tempo che sono in gran parte falsi o comunque molto manipolati. Ma tutto il nervosismo che da tempo leggo nei commenti di coloro che dicono d’intendersene (anche perché su quei trucchi ci hanno vissuto e ci vivono), mi ha fatto pensare che qualcosa non funzionava nei ragionamenti sopra esposti. Così mi sono trovato, con qualche sorpresa, in buona compagnia a parlare di “inizio della Terza Guerra Mondiale”. Devo prima di tutto esprimere i miei ringraziamenti a Roberto Savio, ideatore di quel fondamentale bollettino che si chiama “Other News”, con sottotitolo esplicativo: “L’informazione che i mercati eliminano”. Il primo di agosto, “Other News” ha pubblicato una rassegna che riprende numerosi spunti dal “Washington’s Blog”, così intitolata: “Un gruppo di esperti finanziari ai massimi livelli afferma che la Terza Guerra Mondiale è in arrivo, a meno che non la fermiamo”. Saccheggerò questa rassegna, che mi pare estremamente istruttiva.In primo luogo i nomi sono effettivamente grossi calibri, a giudicare dalla frequenza con cui i mercati li citano. Prendiamo per esempio Nouriel Rubini, che a gennaio di quest’anno twittava da Davos: «Molti oratori qui paragonano il 2014 con il 1914, quando la Prima Guerra Mondiale esplose e nessuno se l’aspettava. Siamo di fronte a un cigno nero nella forma di una guerra tra Cina e Giappone?» Fuochino. Ma gli fa eco Kile Bass, multimiliardario manager di hedge funds, che prima cita un «influente analista cinese» e poi lo stesso premier giapponese Abe, che «non escludono un confronto militare tra Cina e Giappone». Aggiungendo previsioni molto ben descritte, che in bocca a un gestore finanziario di quel calibro non possono essere trascurate. «Miliardi di dollari di depositi bancari saranno ristrutturati – ci informa Kile Bass – e milioni di prudenti risparmiatori finanziari perderanno grandi percentuali del loro reale potere d’acquisto esattamente nel momento sbagliato delle loro vite [sempre che ci sia un momento giusto per perdere i propri averi, ndr]. Neanche questa volta il mondo finirà, ma la struttura sociale delle nazioni influenti sarà posta in acuta tensione e in qualche caso fatta a pezzi. (…) Noi crediamo che la guerra sia un’inevitabile conseguenza dell’attuale situazione economica globale».Gli fa eco l’ex capo dell’Office for Management and Budget ai tempi di Reagan, David Stockman. Anche per lui lo scontro in atto tra America e Russia condurrà alla terza guerra mondiale. Un po’ più generico sulle modalità, ma convinto anche lui che si sta andando verso «una grossa guerra» (“a major war”) è l’ex analista tecnico di Goldman Sachs, Charles Nenner, che, ora in proprio, vanta tra i suoi clienti numerosi importanti hedge funds, banche, e un certo numero di ricchissimi investitori internazionali. Altrettanto, con qualche variazione, pensano investitori americani di primo piano come James Dines e Marc Faber. Quest’ultimo afferma apertamente che il governo americano comincerà nuove guerre in risposta alla crisi economica in atto. «La prossima cosa che il governo farà per distrarre l’attenzione della gente dalle cattive condizioni economiche – scrive Marc Faber – sarà di cominciare una qualche guerra da qualche parte».Tutto chiaro, ma allora come mai i giornali e le tv ci dicono che l’America va fortissimo? Pochi giorni fa Martin Armstrong – un gestore di fondi d’investimenti sovrani multimiliardari – dice la stessa cosa: «Occorre distrarre la gente dall’imminente declino economico». Gli ultimi due pezzi che ha scritto li ha intitolati così: “Andremo in guerra contro la Russia” e “Prepariamoci alla terza guerra mondiale”. Non è ben chiaro se tutti questi profeti stiano enunciando prognosi sincere o siano semplicemente festeggiando in anticipo i futuri successi economico-finanziari che si aspettano dalla guerra, essendo evidente, da sempre, che le guerre ingrassano prima di tutto i banchieri e poi i produttori di armi. Ma l’insistenza con cui il tema viene sollevato indica comunque che il puzzo di bruciato tutti costoro lo sentono in anticipo.Altri, per esempio la presidentessa del Brasile, Dilma Rousseff, osservano che il mondo è attraversato da una «guerra delle valute» che sta diventando globale, cioè di tutti contro tutti. Da non dimenticare che la seconda guerra mondiale arrivò dopo una serie violenta di svalutazioni competitive. Sta accadendo ora la stessa cosa, quando le nazioni svalutano per rendere più competitive le loro merci e per incentivare le esportazioni. E molti si stanno accorgendo che la nuova banca, creata dal Brics, con capitale iniziale di 100 miliardi di dollari, basata in Cina, costituisce una novità impressionante nel panorama globale, dove un numero crescente di transazioni avviene in yuan, in rubli, invece che in dollari Usa. Come scrive Jim Rickards – che nel 2009 partecipò ai primi “giochi di guerra finanziari” organizzati dal Pentagono – c’è il rischio che gli Stati Uniti si trovino «trascinati» in «guerre asimmetriche» di valute, in grado di accrescere le incertezze globali. È evidente che Rickards sta dalla parte americana. Ma, se il Pentagono – e non la Federal Reserve – organizza questo tipo di “giochi”, vuol dire che ci siamo già dentro fino al collo e che il loro carattere militare è fuori discussione.Del resto (questa volta parla il multimiliardario Hugo Salinas Price) «sono molti a chiedersi quali siano state le ragioni vere che hanno portato all’eliminazione di Gheddafi. Egli stava pianificando una valuta pan-africana. La stessa cosa accadde a Saddam Hussein. Gli Stati Uniti non tollerano alcun’altra solida valuta in grado di competere con il dollaro». Altri mettono il dito sulla crescente scarsità di risorse, soprattutto energetiche. Altri ancora guardano alla Cina come a un avversario bisbetico e sempre più incontrollabile – forse il protagonista di quella guerra asimmetrica citata da Jim Rickards. Gerald Celente, autore di accurate previsioni finanziarie e geopolitiche da molti anni, va anche lui seccamente alla conclusione: «Una terza guerra mondiale comincerà presto». Jim Rogers, un altro investitore internazionale miliardario, punta gli occhi sull’Europa: «Se si continua a salvare uno Stato dietro l’altro si finirà in un’altra guerra mondiale». Dunque continuiamo a strozzare i popoli europei, con l’obiettivo di evitare la guerra. Un pacifismo molto sospetto, ma comunque allarmato. Ovviamente sarà utile guardarsi da certi “pacifisti”. Ma questa rassegna è utile per capire che l’allarme è in aumento.La Cina, senza fare troppo rumore, fa provvista di risorse, energetiche e territoriali, solo che invece di mandare le proprie cannoniere (non è il tempo), quelle risorse se le compra, con i denari del debito americano. Putin deve fronteggiare la prima offensiva e non ha tempo da perdere. Tra l’altro un tribunale olandese, senza alcuna autorità o potere, ha decretato che la Russia dovrà pagare 50 miliardi di dollari, più gl’interessi, alla Yukos, cioè a quel bandito di Mikhail Khodorkovskij che la Russia ha scarcerato qualche mese fa con un gesto di distensione verso l’Europa (si noti che il tribunale sedeva nello stesso paese che aveva avuto il più alto numero di vittime nell’abbattimento del Boeing delle linee aeree malaysiane). Sarà stato un caso? Comunque, uno dei più vicini consiglieri di Putin, di fronte alla domanda “cosa farà la Russia di fronte a quella sentenza?”, ha risposto stringendosi nelle spalle: «C’è una guerra alle porte in Europa. Lei pensa realmente che una tale decisione abbia qualche importanza?».Giuridicamente non ce l’ha, ma sarà usata dai centri di comando dell’Occidente per colpire i beni russi all’estero, per sequestrare e congelare conti bancari, proprietà azionarie. Ecco una guerra asimmetrica appena iniziata senza essere stata nemmeno dichiarata. Un influente settimanale americano ha dedicato la sua copertina a Vladimir Putin, con questo commento: “Il Paria”. Un titolo che è, invece, una dichiarazione di guerra. Solo che non è stata pronunciata dal Dipartimento di Stato, bensì dal “ministero della propaganda”, cioè dai media occidentali. È stato Paul Craig Roberts a usare questa definizione in un articolo di qualche giorno fa. Chi è Paul Craig Roberts? È stato Assistente Segretario al Tesoro durante la presidenza Reagan, ex editore del “Wall Street Journal”, considerato dal “who’s who” americano come uno dei mille pensatori politici più influenti del mondo. L’articolo era intitolato: “La guerra sta arrivando” (“War is coming”).(Giulietto Chiesa, “Chi parla di Terza Guerra Mondiale?”, da “Megachip” del 6 agosto 2014).Della crisi ucraina ho già scritto a più riprese. La prima cosa che mi colpì, nel momento in cui Viktor Yanukovic fu rovesciato da un colpo di stato plateale, appoggiato patentemente dagli Stati Uniti (meglio dire da loro promosso) con l’attiva partecipazione della Polonia, della Lituania e dell’Estonia, e dei fantocci al potere a Bruxelles, fu la sua apparente inutilità. Perché mettere in atto un golpe se Yanukovic poteva essere tranquillamente tolto di mezzo tra un anno con regolari elezioni? E altre domande portavano tutte a conclusioni analoghe. Perché rovesciare il tavolo quando l’Ucraina era già nelle mani degli americani, completamente – Yanukovic o non Yanukovic – da diversi anni? Sicuramente dai tempi della cosiddetta “rivoluzione arancione” di Yushenko-Tymoshenko, che consegnarono nelle mani della Cia gli ultimi rimasugli di sovranità nazionale, dopo quelli svenduti dai precedenti presidenti dell’Ucraina “indipendente”, Kravchuk e Kuchma?
-
Israele, uno Stato inventato (a insaputa degli ebrei)
La guerra, che continua ininterrottamente da 66 anni in Palestina, ha conosciuto una nuova svolta con le operazioni israeliane “Guardiani dei nostri fratelli”, e poi “Roccia inamovibile” (stranamente tradotta dalla stampa occidentale con l’espressione “Margine protettivo”). Chiaramente, Tel Aviv – che aveva scelto di strumentalizzare la scomparsa di tre giovani israeliani per lanciare queste operazioni e «sradicare Hamas» al fine di sfruttare il gas naturale di Gaza, secondo il piano enunciato nel 2007 dall’attuale ministro della difesa – è stata spiazzata dalla reazione della Resistenza. Il Jihad islamico ha risposto inviando razzi di media gittata molto difficili da intercettare, che si aggiungono a quelli lanciati da Hamas. La violenza degli eventi che hanno già ucciso oltre 1.500 palestinesi e 62 israeliani (ma le cifre israeliane sono soggette a censura militare e sono probabilmente minimizzate) ha sollevato un’ondata di proteste in tutto il mondo.Oltre ai 15 membri del Consiglio di Sicurezza, riunitosi il 22 luglio, l’Onu ha dato la parola ad altri 40 Stati che intendevano esprimere il loro sdegno per il comportamento di Tel Aviv e la sua «cultura dell’impunità». La sessione, anziché durare le solite 2 ore, si è protratta per 9 ore. Simbolicamente, la Bolivia ha dichiarato Israele uno «Stato terrorista» e ha abrogato l’accordo sulla libera circolazione che lo riguardava. Ma in generale, le dichiarazioni di protesta non sono state seguite da un aiuto militare, ad eccezione di quelle dell’Iran e simbolicamente della Siria. Entrambi sostengono la popolazione palestinese attraverso il Jihad islamico, l’ala militare di Hamas (ma non la sua ala politica, membro dei Fratelli Musulmani), e tramite il Fplp-Cg.A differenza dei casi precedenti (operazioni “Piombo fuso” nel 2008 e “Colonna di nuvola” nel 2012), i due Stati che proteggono Israele presso il Consiglio (Stati Uniti e Regno Unito) hanno favorito l’elaborazione di una dichiarazione del presidente del Consiglio di Sicurezza che sottolineava gli obblighi umanitari di Israele. In realtà, al di là della questione di fondo di un conflitto che dura dal 1948, si assiste a un consenso per condannare almeno il ricorso da parte di Israele di un uso sproporzionato della forza. Tuttavia, questo consenso apparente maschera analisi assai diverse: alcuni autori interpretano il conflitto come una guerra di religione tra ebrei e musulmani; altri lo vedono al contrario come una guerra politica secondo uno schema coloniale classico. Che cosa dobbiamo pensarne?SIONISMO Che cos’è il sionismo? A metà del XVII secolo, i calvinisti britannici si riunirono intorno a Oliver Cromwell e rimisero in questione la fede e la gerarchia del regime. Dopo aver rovesciato la monarchia anglicana, il “Lord Protettore” pretese di consentire al popolo inglese di raggiungere la purezza morale necessaria ad attraversare una tribolazione di sette anni, dare il benvenuto al ritorno del Cristo e vivere in pace con lui per mille anni (il “Millennium”). Per far ciò, secondo la sua interpretazione della Bibbia, gli ebrei dovevano essere dispersi fino agli estremi confini della terra, poi raggruppati in Palestina, dove ricostruire il tempio di Salomone. Su questa base, instaurò un regime puritano, levò nel 1656 il divieto che era stato fatto agli ebrei di stabilirsi in Inghilterra e annunciò che il suo paese s’impegnava a creare in Palestina lo Stato di Israele.Poiché la setta di Cromwell fu a sua volta rovesciata alla fine della “Prima Guerra civile inglese”, i suoi sostenitori uccisi o esiliati, e poiché la monarchia anglicana fu restaurata, il sionismo (cioè il progetto della creazione di uno Stato per gli ebrei) fu abbandonato. Riapparve nel XVIII secolo con la “Seconda guerra civile inglese” (secondo il nome dei manuali di storia delle scuole secondarie nel Regno Unito) che il resto del mondo conosce come la “Guerra d’Indipendenza degli Stati Uniti” (1775-1783). Contrariamente alla credenza popolare, essa non fu intrapresa in nome degli ideali dell’Illuminismo che animarono pochi anni dopo la Rivoluzione Francese, ma fu finanziata dal re di Francia e condotta per motivi religiosi al grido di «Il nostro re è Gesù!». George Washington, Thomas Jefferson e Benjamin Franklin, per citarne alcuni, si sono presentati come i successori dei sostenitori esiliati di Oliver Cromwell. Gli Stati Uniti hanno dunque logicamente ripreso il suo progetto sionista.Nel 1868, in Inghilterra, la regina Victoria nominò primo ministro l’ebreo Benjamin Disraeli. Questi propose di concedere una parte di democrazia ai discendenti dei sostenitori di Cromwell, in modo da poter contare su tutto il popolo per estendere il potere della Corona nel mondo. Soprattutto, propose di allearsi alla diaspora ebraica per condurre una politica imperialista di cui essa sarebbe stata l’avanguardia. Nel 1878, fece iscrivere «la restaurazione di Israele» all’ordine del giorno del Congresso di Berlino sulla nuova spartizione del mondo. È su questa base sionista che il Regno Unito ristabilì i suoi buoni rapporti con le sue ex colonie, divenute nel frattempo gli Stati Uniti alla fine della “Terza guerra civile inglese” – nota negli Stati Uniti come la “guerra civile americana” e nell’Europa continentale come la “guerra di Secessione” (1861-1865) – che vide la vittoria dei successori dei sostenitori del Cromwell, gli Wasp (White Anglo-Saxon Puritans). Anche in questo caso, è del tutto sbagliato che si presenti questo conflitto come una lotta contro la schiavitù, intanto che cinque stati del nord la praticavano ancora.Fino quasi alla fine del XIX secolo, il sionismo è solo un progetto puritano anglo-sassone al quale solo un’élite ebraica aderisce. È fortemente condannato dai rabbini che interpretano la Torah come un’allegoria e non come un piano politico. Tra le conseguenze attuali di questi fatti storici, dobbiamo ammettere che se il sionismo mira alla creazione di uno Stato per gli ebrei, è anche il fondamento degli Stati Uniti. Pertanto, la questione se le decisioni politiche d’insieme siano prese a Washington o a Tel Aviv ha solo interesse relativo. È la stessa ideologia ad essere al potere in entrambi i paesi. Inoltre, poiché il sionismo ha permesso la riconciliazione tra Londra e Washington, il fatto di sfidarlo significa affrontare questa alleanza, la più potente del mondo.POPOLO EBRAICO L’adesione del popolo ebraico al sionismo anglosassone. Nella storia ufficiale attuale, è consuetudine ignorare il periodo dal XVII al XIX secolo e presentare Theodor Herzl come il fondatore del sionismo. Tuttavia, secondo le pubblicazioni interne dell’Organizzazione Sionista Mondiale, anche questo punto è falso. Il vero fondatore del sionismo contemporaneo non era ebreo, bensì cristiano dispenzionalista. Il reverendo William E. Blackstone era un predicatore americano per il quale i veri cristiani non avrebbero dovuto partecipare alle prove della fine del tempo. Basava l’insegnamento su coloro che sarebbero stati elevati al cielo durante la battaglia finale (il “rapimento della Chiesa”, in inglese “the rapture”). Nella sua visione, gli ebrei avrebbero combattuto questa battaglia e ne sarebbero usciti allo stesso tempo convertiti a Cristo e vittoriosi.È la teologia del reverendo Blackstone che è servita da base per il sostegno immancabile di Washington alla creazione di Israele. E questo, molto prima che l’Aipac (la lobby pro-Israele) venisse creata e prendesse il controllo del Congresso. In realtà, il potere della lobby non risiede tanto nel suo denaro e la sua capacità di finanziare le campagne elettorali, quanto in questa ideologia ancora presente negli Stati Uniti. La teologia del rapimento, per quanto stupida possa sembrare, è oggi molto potente negli Stati Uniti. Rappresenta un fenomeno nel mercato dei libri e nel cinema (si veda il film “Left Behind”, con Nicolas Cage, che uscirà ad ottobre). Theodor Herzl era un ammiratore del magnate dei diamanti Cecil Rhodes, teorico dell’imperialismo britannico e fondatore del Sudafrica, della Rhodesia (cui diede il suo nome) e dello Zambia (ex Rhodesia del Nord).Herzl non era israelita praticante né aveva circonciso suo figlio. Ateo come molti borghesi europei del suo tempo, si batté all’inizio per assimilare gli ebrei convertendoli al cristianesimo. Tuttavia, riprendendo la teoria di Benjamin Disraeli, giunse alla conclusione che la soluzione migliore fosse quella di farli partecipare al colonialismo britannico creando uno Stato ebraico, collocato nell’attuale Uganda o in Argentina. Seguì l’esempio di Rhodes nella maniera di acquistare terreni e di costruire l’Agenzia Ebraica. Blackstone riuscì a convincere Herzl a unire le preoccupazioni dei dispenzionalisti a quelle dei colonialisti. Era sufficiente per tutto questo considerare di stabilire Israele in Palestina e di moltiplicare i riferimenti biblici. Grazie a questa idea assai semplice, giunsero a far aderire la maggioranza degli ebrei europei al loro progetto. Oggi Herzl è sepolto in Israele (sul monte Herzl) e lo Stato ha posto nella sua bara la Bibbia annotata che Blackstone gli aveva offerto.Il sionismo non ha dunque mai avuto come obiettivo quello di «salvare il popolo ebraico dandogli una patria», bensì quello di far trionfare l’imperialismo anglosassone associandovi gli ebrei. Inoltre, non solo il sionismo non è un prodotto della cultura ebraica, ma la maggior parte dei sionisti non è mai stata ebrea, mentre la maggioranza dei sionisti ebrei non sono israeliti dal punto di vista religioso. I riferimenti biblici, onnipresenti nel discorso pubblico israeliano, rispecchiano il pensiero solo della parte credente del paese e sono destinati principalmente a convincere la popolazione statunitense.IL PATTO Il patto anglosassone per la creazione di Israele in Palestina. La decisione di creare uno Stato ebraico in Palestina è stata presa congiuntamente dai governi britannico e statunitense. È stata negoziata dal primo giudice ebreo della Corte Suprema degli Stati Uniti, Louis Brandeis, sotto gli auspici del reverendo Blackstone, e fu approvata sia dal presidente Woodrow Wilson sia dal primo ministro David Lloyd George, sulla scia degli accordi franco-britannici Sykes-Picot sulla spartizione del “Vicino Oriente”. Questo accordo fu progressivamente reso pubblico. Il futuro Segretario di Stato per le Colonie, Leo Amery, ebbe l’incarico di inquadrare gli anziani del “Corpo dei mulattieri di Sion” per creare, con i due agenti britannici Ze’ev Jabotinsky e Chaim Weizmann, la “Legione ebraica” in seno all’esercito britannico. Il ministro degli esteri Lord Balfour inviò una lettera aperta a Lord Walter Rothschild per impegnarsi a creare un «focolare nazionale ebraico» in Palestina (2 novembre 1917). Il presidente Wilson annoverò tra i suoi obiettivi di guerra ufficiali (il 12° dei 14 punti presentati al Congresso l’8 gennaio 1918) la creazione di Israele.Pertanto, la decisione di creare Israele non ha nulla a che fare con la distruzione degli ebrei d’Europa sopravvenuta due decenni più tardi, durante la Seconda Guerra Mondiale. Durante la Conferenza di pace di Parigi, l’emiro Faisal (figlio dello Sharif della Mecca e futuro re dell’Iraq britannico) firmò, in data 3 gennaio 1919, un accordo con l’Organizzazione Sionista, impegnandosi a sostenere la decisione anglosassone. La creazione dello Stato di Israele, realizzata contro la popolazione della Palestina, era quindi fatta anche con l’accordo dei monarchi arabi. Inoltre, all’epoca, lo Sharif della Mecca, Hussein bin Ali, non interpretava il Corano alla maniera di Hamas. Non pensava che «una terra musulmana non può essere governata da non-musulmani»ISRAELE La creazione giuridica dello Stato d’Israele. Nel maggio 1942, le organizzazioni sioniste tennero il loro congresso al Biltmore Hotel di New York. I partecipanti decisero di trasformare il «focolare nazionale ebraico» della Palestina in «Commonwealth ebraico» (riferendosi al Commonwealth con cui Cromwell aveva brevemente sostituito la monarchia britannica) e di autorizzare l’immigrazione di massa degli ebrei verso la Palestina. In un documento segreto, venivano precisati tre obiettivi: «(1) lo Stato ebraico avrebbe abbracciato l’intera Palestina e probabilmente la Transgiordania; (2) il trasferimento delle popolazioni arabe in Iraq; (3) la presa in mano da parte degli ebrei dei settori dello sviluppo e del controllo dell’economia in tutto il Medio Oriente». Quasi tutti i partecipanti ignoravano allora che la «soluzione finale della questione ebraica» (die Endlösung der Judenfrage) aveva appena preso inizio segretamente in Europa.In definitiva, mentre i britannici non sapevano più come soddisfare sia gli ebrei sia gli arabi, le Nazioni Unite (che a quel tempo annoveravano appena 46 Stati membri) proposero un piano per spartire la Palestina a partire dalle indicazioni che gli fornirono i britannici. Uno Stato bi-nazionale doveva essere creato, comprendente uno Stato ebraico, uno Stato arabo e una zona soggetta a un “regime internazionale speciale” per amministrare i luoghi santi (Gerusalemme e Betlemme). Questo progetto fu adottato attraverso la risoluzione 181 dell’Assemblea Generale. Senza attendere il seguito dei negoziati, il presidente dell’Agenzia Ebraica, David Ben Gurion, proclamò unilateralmente lo Stato di Israele, subito riconosciuto dagli Stati Uniti. Gli arabi del territorio israeliano furono sottoposti alla legge marziale, i loro movimenti furono limitati, i loro passaporti confiscati. I paesi arabi di recente indipendenza intervennero. Ma senza eserciti ancora costituiti, furono rapidamente sconfitti. Durante questa guerra, Israele procedette a una pulizia etnica e costrinse almeno 700.000 arabi a fuggire.L’Onu inviò un mediatore, il conte Folke Bernadotte, un diplomatico svedese che aveva salvato migliaia di ebrei durante la guerra. Constatò che i dati demografici trasmessi dalle autorità britanniche erano falsi e pretese la piena attuazione del piano di spartizione della Palestina. Al dunque, la risoluzione 181 implica il ritorno dei 700.000 arabi espulsi, la creazione di uno Stato arabo e l’internazionalizzazione di Gerusalemme. L’inviato speciale delle Nazioni Unite fu assassinato, il 17 settembre 1948, su ordine del futuro primo ministro Yitzhak Shamir. Furibonda, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la risoluzione 194, che riafferma i principi della risoluzione 181 e, inoltre, proclama il diritto inalienabile dei palestinesi a tornare alle loro case e ad essere risarciti per il danno che avevano appena subito. Tuttavia, poiché Israele aveva arrestato gli assassini di Bernadotte, e poi li processò e condannò, fu accolto in seno all’Onu con la promessa di onorare le risoluzioni. Ma erano nient’altro che bugie. Subito dopo gli assassini furono graziati e lo sparatore divenne la guardia del corpo personale del primo ministro David Ben Gurion.Fin dalla sua adesione all’Onu, Israele non ha mai smesso di violare le risoluzioni che si sono accumulate all’Assemblea Generale e al Consiglio di Sicurezza. I suoi legami organici con due membri del Consiglio che dispongono del diritto di veto lo hanno collocato di fuori del diritto internazionale. È diventato uno Stato off-shore che permette agli Stati Uniti e al Regno Unito di fingere di rispettare anche loro il diritto internazionale, mentre lo violano dietro questo pseudo-Stato. È assolutamente sbagliato ritenere che il problema posto da Israele riguardi solo il Medio Oriente. Oggi Israele agisce militarmente in tutto il mondo a copertura dell’imperialismo anglosassone. In America Latina, ci furono agenti israeliani che organizzarono la repressione durante il colpo di stato contro Hugo Chávez (2002) o il rovesciamento di Manuel Zelaya (2009). In Africa, erano ovunque presenti durante la guerra dei Grandi Laghi e hanno organizzato l’arresto di Muammar el-Gheddafi. In Asia, hanno condotto l’assalto e il massacro delle Tigri Tamil (2009), ecc. Ogni volta, Londra e Washington giurano che non c’entrano per nulla. Inoltre, Israele controlla numerose istituzioni mediatiche e finanziarie (come la Federal Reserve statunitense).IMPERIALISMO La lotta contro l’imperialismo. Fino alla dissoluzione dell’Urss, era evidente a tutti che la questione israeliana scaturisse dalla lotta contro l’imperialismo. I palestinesi erano sostenuti da tutti gli anti-imperialisti del mondo – perfino dai membri dell’Armata Rossa giapponese – che venivano a combattere al loro fianco. Oggi, la globalizzazione della società dei consumi e la perdita di valori che ne è seguita hanno fatto perdere coscienza del carattere coloniale dello Stato ebraico. Solo arabi e musulmani si sentono coinvolti. Essi mostrano empatia per la condizione dei palestinesi, ma ignorano i crimini israeliani nel resto del mondo e non reagiscono ad altri crimini imperialisti. Tuttavia, nel 1979, l’ayatollah Ruhollah Khomeini spiegò ai suoi fedeli iraniani che Israele era solo una bambola nelle mani degli imperialisti e che l’unico vero nemico era l’alleanza degli Stati Uniti e del Regno Unito. Per il fatto di affermare questa semplice verità, Khomeini fu caricaturizzato in Occidente e gli sciiti furono presentati come eretici in Oriente. Oggi l’Iran è l’unico paese al mondo ad inviare grandi quantità di armi e consiglieri per aiutare la Resistenza palestinese, mentre i regimi sionisti arabi se ne stanno a discutere amabilmente in videoconferenza con il presidente israeliano durante le riunioni del Consiglio di sicurezza del Golfo.(Thierry Meyssan, “Chi è il nemico?”, articolo apparso il 3 agosto 2014 su diversi giornali internazionali e tradotto da “Megachip”).La guerra, che continua ininterrottamente da 66 anni in Palestina, ha conosciuto una nuova svolta con le operazioni israeliane “Guardiani dei nostri fratelli”, e poi “Roccia inamovibile” (stranamente tradotta dalla stampa occidentale con l’espressione “Margine protettivo”). Chiaramente, Tel Aviv – che aveva scelto di strumentalizzare la scomparsa di tre giovani israeliani per lanciare queste operazioni e «sradicare Hamas» al fine di sfruttare il gas naturale di Gaza, secondo il piano enunciato nel 2007 dall’attuale ministro della difesa – è stata spiazzata dalla reazione della Resistenza. Il Jihad islamico ha risposto inviando razzi di media gittata molto difficili da intercettare, che si aggiungono a quelli lanciati da Hamas. La violenza degli eventi che hanno già ucciso oltre 1.500 palestinesi e 62 israeliani (ma le cifre israeliane sono soggette a censura militare e sono probabilmente minimizzate) ha sollevato un’ondata di proteste in tutto il mondo.
-
Europei svegliatevi, o entro il 2018 siamo tutti in guerra
La divisione del mondo in due blocchi – l’Occidente e tutti gli altri – non è un’ipotesi pessimistica, ma una realtà che si sta concretizzando sotto i nostri occhi. Gufi e Cassandre non c’entrano. Contrapposizioni, blocchi oligarchici e pericolo di guerra sono reali. Seguono alcuni fatti che cerchiamo di interpretare, proponendo anche una possibile “uscita di sicurezza”. In Medio Oriente si sta compiendo l’ultima fase della dislocazione geopolitica del “mondo arabo”. Il lungo immobilismo imposto dagli europei e dagli americani – nel 1916 e poi dal 1945 al 2010 – non era più difendibile, anche perché insidiato significativamente dalla penetrazione commerciale cinese. La prima fase è stata quella di sostenere attivamente la divisione del mondo sunnita attraverso operazioni di promozione della “democrazia”, inaugurate da Obama al Cairo nel 2009 con il discorso sul “nuovo inizio”, e per la rinascita dei Fratelli Musulmani – che già negli anni ‘20 rifiutavano la dominazione wahabita – attraverso una serie di rivoluzioni che servivano a irreggimentare in nuovi regimi dal volto democratico le legittime rivolte popolari.La seconda fase è stata militare e ha avuto avvio nel 2011 con il bombardamento della Libia e l’uccisione di Gheddafi, seguita dall’inizio della guerra anti-Assad in Siria, compiuta dando sostegno militare a milizie islamiste sunnite che, come oggi vediamo, intendono colpire al cuore il dominio wahabita creando uno “Stato islamico” sunnita tra Iraq e Siria (non a caso l’Arabia Saudita ha schierato 30.000 soldati sul confine iracheno). La terza fase è la neutralizzazione di due nemici strategici dell’Occidente, Arabia Saudita e Iran, attraverso la manipolazione delle informazioni in entrambi i campi contrapposti, cioè sunniti e sciiti. Quest’ultima fase avrà una durata variabile – tra due e cinque anni – e intende dividere e distruggere il Medio Oriente, in modo tale che anche per la Cina, e più recentemente per la Russia, diventi poco conveniente fare commerci in quei territori. È prevedibile che alla fine, per necessità ma non senza difficoltà, Turchia, Iran e Kurdistan sceglieranno un legame più stretto con il “nuovo mondo” che si sta coagulando all’ombra della Russia e della Cina.In Ucraina è in corso una guerra che incide significativamente sulla ridefinizione del carattere politico dell’Eurasia. Come in altri teatri strategici, l’Occidente (anglo-americano) preferisce la frantumazione all’unificazione. Infatti, con la guerra in Ucraina, le potenze atlantiche (Usa, Uk e Francia) vogliono impedire la percorribilità della saldatura tra l’Unione Europea e la Russia, e più precisamente tra la potenza continentale europea, la Germania, e Mosca. La combinazione della potenza industriale tedesca con le materie prime e la forza militare russa avrebbe creato immediatamente un colosso che metteva a rischio il dominio, sebbene declinante, delle “potenze marittime”. La situazione è ancora piuttosto fluida, ma la decisione tedesca di isolare il Regno Unito nella designazione del nuovo presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, è un segnale politico di non poco conto. Infatti, le ultime mosse tedesche – dalle nomine europee alle scelte di orientamento delle politiche energetiche, monetarie e fiscali – indicano che più che una Germania europea stia rafforzandosi l’Europa tedesca.Questo spiega le parole di attrito con la Germania che sono emerse nei recenti discorsi del premier italiano, Matteo Renzi, che è corso a sostegno della linea “atlantica”, anche contro i propri interessi nazionali. Un primo segno di frantumazione dell’unità europea, rappresentata dalla grande coalizione socialisti-popolari-liberali, è emerso con la posizione del gruppo dei socialisti e democratici (S&D) che ha minacciato di non votare Juncker senza una “cambiamento di rotta sulla crescita”. Come abbiamo già riferito su queste pagine, dietro la magica parolina “crescita” si nasconde lo scontro tra due gruppi oligarchici occidentali. Il primo che sostiene “politiche monetarie e fiscali espansive” e il secondo che non cede su quelle rigoriste e d’austerità finalizzate alla difesa e conservazione del valore. A ben vedere sono due anime della sovranità e dell’esercizio del dominio occidentale: la prima è incline alla guerra finanziaria, la seconda a quella economica. Sull’uso della forza militare per difendere i propri interessi, le due oligarchie non differiscono granché. È possibile che la grande coalizione europea reggerà e che il Regno Unito riuscirà a non abbandonare completamente l’Ue. Se così sarà, non potendo trovare sfogo in Eurasia, la potenza tedesca si accrescerà in Europa continentale. Questo è il prezzo che Usa e Uk sono pronti a pagare per ridefinire il carattere politico dell’Eurasia ed evitare la disintegrazione dell’Ue. La conseguenza sarà un’Eurasia sempre più asiatica.A livello mondiale si profilano due blocchi: l’Occidente e il resto del mondo. Quest’ultimo è partito in ritardo, nell’ultimo ventennio, ma sta procedendo a una velocità elevata verso la creazione di infrastrutture e sistemi di scambio commerciale e finanziario progressivamente indipendenti dal dollaro americano. A giugno di quest’anno è stato concluso l’accordo di swap rublo-yuan, per semplificare il finanziamento del commercio tra i due paesi. Questo accordo è la base per la «creazione di un’istituzione di un sistema di scambi multilaterali che permetterà di trasferire risorse da un paese all’altro, se necessario. Una parte delle riserve valutarie potrà essere destinata a questo scopo [il nuovo sistema]» (“Prime News Agency”). Da questo scaturirà un “sistema quasi-Fmi”. I Brics utilizzeranno una parte (molto probabilmente la “parte del dollaro”) delle proprie riserve valutarie per sostenerlo, riducendo drasticamente la quantità di strumenti in dollari acquistati dai più grandi creditori esteri degli Stati Uniti.Anche in Europa cresce la convinzione che un accordo con la Cina e lo yuan sia improcrastinabile. Tra le ultime mosse in ordine di tempo spicca quella della Banca nazionale della Francia, che ha costituito una piattaforma per lo scambio euro-yuan. Il suo presidente, Christian Noyer, avrebbe dichiarato che come corollario a quanto gli americani hanno fatto alla Bnp Paribas (una multa di 10 miliardi di dollari per violazione delle sanzioni Usa), il commercio con la Cina deve essere gestito in yuan o euro. In contemporanea, Usa e Regno Unito stanno accelerando sulla conclusione di due enormi accordi commerciali che hanno la finalità di “consolidare” gli asset dell’Occidente. Sul Ttip, l’accordo di partenariato commerciale degli investimenti tra Ue e Usa, si attende la conclusione dei negoziati entro la fine dell’anno, sebbene ci sia stato qualche disaccordo sull’estensione del Ttip al settore dei servizi finanziari (fortemente sostenuto dal Regno Unito, ma non dalla Francia e dalla Germania).Sul secondo accordo, il Tisa, “Trade in service agreement”, si sa che è stato negoziato dal settembre 2013 a porte chiuse a Ginevra dai seguenti Stati: Australia, Canada, Cile, Taiwan, Colombia, Costa Rica, Unione Europea, Hong Kong, Islanda, Israele, Giappone, Liechtenstein, Messico, Nuova Zelanda, Norvegia, Pakistan, Panama, Paraguay, Perù, Corea, Svizzera, Turchia e Usa. Non riuscendo a inserire il settore dei servizi nel Ttip, il Tisa risolve il problema, allargandone lo scopo a tutte le attività di servizio, inclusi i servizi pubblici. Il settore dei servizi significa il 70% del Pil dei paesi industrializzati e l’ultima volta che fu trattato a livello multilaterale era il 1995 in ambito Gatts e poi Omc. Il 19 giugno scorso, Wikileaks ha rivelato uno dei protocolli del Tisa. Sulle conseguenze e la pericolosità sociale del Tisa si rimanda a un ottimo dossier pubblicato dal quotidiano francese “L’Humanité”.Secondo il quotidiano svizzero “Bilan”, già nell’aprile 2014 il testo finale del Tisa era «sufficientemente maturo» per essere approvato e sottoposto alla firma dei governi. I dirigenti dell’Ue tacciono, così come i governi degli Stati dell’Unione: nessuna informazione pubblica. Recentemente, Mauro Bottarelli, visti i dati finanziari in suo possesso, si interrogava su questo giornale se si stesse avvicinando una guerra. In considerazione di quanto abbiamo descritto sopra, tutto farebbe pensare a preparativi propedeutici a uno scontro tra i due blocchi. Tuttavia, l’eventualità di uno scontro armato potrebbe collocarsi dopo le elezioni presidenziali americane del novembre 2016. Inoltre, la maturazione del blocco non occidentale richiede ancora del tempo. Quindi, semmai si dovesse intraprendere la disgraziata via delle armi, l’area temporale sarebbe tra il 2018 e il 2020. Per evitare questo scenario da incubo – si ricorda che la proliferazione non convenzionale è molto cresciuta negli ultimi anni – l’unica possibilità sarebbe il risveglio degli europei.A iniziare dalla guerra in Ucraina, una soluzione sarebbe, come ha suggerito “Leap 2020”, da sviluppare in tre stadi: a) riconoscere in modo preliminare le responsabilità condivise; b) riprendere al più presto le relazioni euro-russe per creare le condizioni di una soluzione sostenibile per l’Ucraina; c) convocare una conferenza internazionale euro-Brics per risolvere la crisi ucraina. Per la situazione del Medio Oriente, né l’Europa né gli Usa devono intervenire, anche a causa del fardello storico che li farebbe sospettare, non a torto, di essere di parte. Quindi sarà una situazione che potrà trovare uno sbocco solo permettendo alle forze locali di misurarsi e di trovare un punto di equilibrio. Considerata la responsabilità storica, anche recente, che hanno l’Europa e gli Usa, la miglior soluzione sarebbe di evitare mediazioni e coinvolgimenti diretti o indiretti, finanziando invece sostanzialmente le organizzazioni internazionali. Quanto agli accordi Ttip e Tisa, l’Ue e i suoi Stati rischiano di accelerare l’integrazione del continente invece di prevenirla. Sarebbe forse il caso che tali accordi divenissero innanzitutto pubblici e poi che siano sottomessi a referendum popolare. Ma forse questo è il libro dei sogni e i dati di Bottarelli, nella loro crudezza, già indicano il futuro che ci attende.(Paolo Raffone, “Geo-finanza, gli accordi che avvicinano una guerra”, da “Il Sussidiario” del 7 luglio 2014).La divisione del mondo in due blocchi – l’Occidente e tutti gli altri – non è un’ipotesi pessimistica, ma una realtà che si sta concretizzando sotto i nostri occhi. Gufi e Cassandre non c’entrano. Contrapposizioni, blocchi oligarchici e pericolo di guerra sono reali. Seguono alcuni fatti che cerchiamo di interpretare, proponendo anche una possibile “uscita di sicurezza”. In Medio Oriente si sta compiendo l’ultima fase della dislocazione geopolitica del “mondo arabo”. Il lungo immobilismo imposto dagli europei e dagli americani – nel 1916 e poi dal 1945 al 2010 – non era più difendibile, anche perché insidiato significativamente dalla penetrazione commerciale cinese. La prima fase è stata quella di sostenere attivamente la divisione del mondo sunnita attraverso operazioni di promozione della “democrazia”, inaugurate da Obama al Cairo nel 2009 con il discorso sul “nuovo inizio”, e per la rinascita dei Fratelli Musulmani – che già negli anni ‘20 rifiutavano la dominazione wahabita – attraverso una serie di rivoluzioni che servivano a irreggimentare in nuovi regimi dal volto democratico le legittime rivolte popolari.